TE M CN ED OL IO OG EVO IC O
MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier COME
FUNZIONAVA MILLE ANNI DI RIVOLUZIONI TECNOLOGICHE
N°27 Luglio 2018 Rivista Bimestrale
€ 7,90
COME FUNZIONAVA IL MEDIOEVO
Invenzioni e marchingegni che hanno cambiato la storia
IN EDICOLA IL 30 GIUGNO 2018 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
IL MEDIOEVO
COME
FUNZIONAVA IL MEDIOEVO
MILLE ANNI DI RIVOLUZIONI TECNOLOGICHE di Flavio
Russo
INTRODUZIONE
6 Un’epoca a due velocità
TECNOLOGIA CIVILE
TECNOLOGIA MILITARE
ARCHITETTURA
22 Il mulino galleggiante Farina di fiume
66 Spade e pugnali In due per l’arma perfetta
106 Le fortificazioni Imbattibili bersagli
24 Le fosse da grano Chicchi in cassaforte
70 I ferri di cavallo e le staffe Una rivoluzione che parte dal basso
112 Le merlature Quasi come dei ricami
30 Le gualchiere Stoffe e carte a percussione 36 Lo svegliarino monastico «Fratelli, è ora di pregare...»
76 Il fuoco greco Quelle acque incendiarie
42 La bussola magnetica Guai a perderla!
94 Il solenarion La potenza di un ibrido
48 I blue jeans All’inizio fu (forse) una faccenda di marinai
100 Le torri d’assedio Colossali, ma inutili
54 Il volo umano Alla conquista del cielo 60 Il tornio Macchine rotanti
82 La balestra In principio era l’arco...
118 Il ponte levatoio Le due facce della mobilità 124 Le torri costiere La salvezza appesa a un filo... di fumo
Miniatura raffigurante un soldato mentre spara un colpo con una spingarda, da un’edizione manoscritta del Bellifortis di Konrad Kyeser, trattato di strategia e ingegneria militare. 1400 circa. Gottinga, Biblioteca Universitaria.
Un’epoca a due velocità D
elle tre grandi «età» della storia – antica, medievale e moderna –, il Medioevo fu l’epoca piú longeva e, sotto ogni punto di vista, anche la piú disomogenea. Per questo motivo, a seconda dei casi, venne in seguito ritenuta come una fase di totale regressione oppure considerata fortemente suggestiva e ricca di valori umani. Alle spalle di approcci tanto divaricati, vi è proprio la multiformità dell’età di Mezzo: l’Alto Medioevo, per esempio, fu in effetti un periodo per molti versi buio se non tenebroso, pesantemente condizionato dall’indigenza e dall’ignoranza, da razzie e scorrerie, tanto indiscriminate quanto atroci. Flagelli che contribuirono al collasso demografico dell’Europa, la cui popolazione, secondo le stime piú accreditate, passò dai 70 milioni di persone del IV secolo alla scarsa trentina di pochi secoli dopo. Il ripopolamento iniziò solo dopo il Mille, grazie alla migliorata sicurezza sociale e alla diffusione di tecniche agricole piú redditizie. Del tutto diverso appare il contesto del Basso Medioevo, caratterizzato dalla rinascita culturale e scientifica che produsse straordinarie opere artistiche e del pensiero, la cui eredità è tutt’ora viva. In conclusione, si può affermare che, nell’arco di mille anni, il Medioevo visse inizialmente quasi un ritorno alla preistoria, e, nel suo epilogo, una fuga nel futuro: dalle asce dei barbari si pervenne ai missili a tre stadi sperimentati aegli inizi del Cinquecento. I prodromi del Medioevo si possono ravvisare già nella seconda metà del III secolo quando la pressio6
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ne dei barbari sui limes (il confine) dell’impero romano crebbe fino a farsi insostenibile. Tra il 257 e il 260, infatti, i Franchi – dopo avere varcato il Reno – scesero fino alla Spagna, devastandola e saccheggiando, fra le altre, Tarragona, e, quando non vi fu piú nulla da poter razziare, s’impossessarono delle imbarcazioni ormeggiate nei porti e, raggiunta la Mauritania, la posero ugualmente a sacco. Nel frattempo, gli Alamanni, a loro volta, attraversato il Danubio e scavalcate le Alpi Retiche, puntarono su Milano, per poi proseguire fino a Ravenna e dirigersi verso Roma, che, almeno per quella volta, riuscí a stornare la terribile minaccia.
La scelta di Gallieno
Negli anni successivi le scorrerie dei Goti si moltiplicarono e, non di rado, essi si spinsero fino alla Macedonia e all’alta Italia; incursioni contrastate a fatica da eserciti romani allestiti alla bell’e meglio. La medesima sorte toccò poco dopo anche all’Asia Minore e alla Grecia, tanto che il giovane Gallieno, imperatore tra il 253 e il 268, si vide costretto ad abbandonare la difesa avanzata in favore di quella arretrata. Gravi furono le conseguenze di quella scelta: se in precedenza gli abitanti delle regioni a ridosso dei limes erano in qualche modo protette, da quel momento finirono con il trovarsi in piena zona di guerra. Una situazione che si acuí progressivamente provocando il crescente esodo di quei malcapitati. Sotto il profilo strettamente tattico, la difesa arre-
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TECNOLOGIA MEDIEVALE trata, dando per scontata la penetrazione nemica, si affidò prioritariamente alla fortificazione per minimizzare le distruzioni e le deportazioni. Di conseguenza, città, paesi, villaggi e fattorie isolate, nonché ponti, granai, pozzi e monasteri furono protetti rapidamente da opere difensive piú o meno pesanti: il paesaggio iniziò cosí ad assumere la tetra «livrea» medievale, mentre l’economia diveniva autarchica e a stento sufficiente per la sopravvivenza. Un aspetto incupito dall’esordio di una triste novità: la fortificazione civile, adottata dalle ville rustiche e dagli ultimi casali isolati e che divenne in breve volgere indispensabile. Sul finire del IV secolo sant’Ambrogio scriveva che: «Gli Unni si sono gettati sugli Alani, gli Alani sui Goti, i Goti sui Taifali e i Sarmati; i Goti respinti dalla loro patria ci hanno respinto verso l’Illiria e non è finita!». Una sorta di domino etnico, inarrestabile, che portò interi gruppi umani ad
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Presentazione avventarsi sull’Occidente, come altrettante ondate distruttrici. L’urto fra i due mondi fu brutale e stravolgente, ma quello occidentale non svaní del tutto con la sua cultura e anche i barbari, in breve tempo, persero molte delle proprie peculiarità etniche, fondendosi con i vinti e dando vita a una nuova società, consapevole del passato, suggerito dai suoi grandiosi ruderi. Per alcuni storici quel primo Medioevo divenne perciò un cimitero di città e una costellazione di bivacchi barbari in cui, al posto dei carri intorno al fuoco, stavano stamberghe affacciate su uno spiazzo, che con il loro perimetro cieco fungevano da rudimentale cinta fortificata. Al pari dei grandi edifici antichi, anche le conoscenze classiche non erano svanite del tutto, ma il loro salvataggio dipese in larga parte dai monasteri. L’oscurità del panorama che si era venuto a creare venne infatti squarciata, pochi secoli piú tardi, dal monachesimo, primo fra tutti quello
In alto mosaico del dominus Iulius, da Cartagine. Fine del IV sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. La villa raffigurata al centro della composizione appare fortificata, come sempre piú spesso accadeva per questo genere di strutture civile negli ultimi secoli dell’impero romano. A sinistra rilievo bronzeo di Bertoldo di Giovanni con scena di battaglia tra barbari e Romani. 1479 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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ARTE DEL MEDIOEVO TECNOLOGIA MEDIEVALE Presentazione Presentazione LA DIFESA ELASTICA Città murata Limes Fattorie devastate
Fattorie fortificate Borghi apicali
Città evacuata
Forte alare
Città evacuata
Forze di contrasto Orda di barbari
Vecchio limes
Forte legionario avanzato
LA DIFESA IN PROFONDITÀ
Forze mobili di contrasto
Forze di contrasto Forte ausiliario Borgo murato Fattorie fortificate Torrette di sorveglianza
Schemi che sintetizzano graficamente le caratteristiche delle diverse strategie adottate dai Romani per la difesa delle proprie postazioni e degli insediamenti situati in prossimità del limes ed esposti agli attacchi dei barbari. 10
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Barbari in fuga Granaio pubblico fortificato Orda di barbari
Città fortificata
Base legionaria fortificata
Forti stradali
Controffensiva di espulsione
fondato da san Benedetto (480 circa-dopo il 546), il quale pose il lavoro alla base della sua Regola. L’idea che i religiosi svolgessero anche lavori manuali fu un’autentica rivoluzione: che i monaci copiassero antichi e ormai rarissimi manoscritti o zappassero l’orto, che estraessero farmaci dalle erbe o accudissero agli animali, non dava origine ad alcuna preminenza gerarchica. Quando il contesto ambientale cominciò a migliorare, chi poteva vantare una sia pur minima conoscenza di quei testi amorevolmente recuperati dall’oblio, divenne dotto per antonomasia, senza alcun preciso limite di competenza: persone capaci perciò di fungere, all’occorrenza, da medici o da ingegneri, da poeti o da notai, da astronomi o da speziali. Solo molto piú tardi fra gli eruditi cominciarono a distinguersi gli artisti-ingegneri, la cui opera venne subito ricercata e stimolata grazie alla mutata sensibilità nei confronti delle opere manuali, creatori e al contempo creature di quel vivace contesto
culturale che culminò nel Rinascimento. Un coacervo di scienza avanzata e di superstizione residua, di misticismo e fanatismo, di realtà e utopia, uno strano miscuglio che si scorge ancora intatto nei taccuini di quei personaggi, tra i quali spicca Leonardo da Vinci.
Gli estremi cronologici
A voler schematizzare una periodizzazione interna del Medioevo che consenta di ricostruire l’affermarsi e l’evolversi della relativa tecnologia, occorre stabilire gli estremi cronologici del periodo. Circa l’inizio, per alcuni studiosi va individuato nel 410, con il sacco di Alarico, per altri nel 476, con la deposizione dell’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo. Quanto alla fine, regna una maggiore incertezza: alcuni la fanno coincidere con la caduta di Costantinopoli, nel 1453; altri con la scoperta dell’America, nel 1492; altri ancora con la riforma protestante di Lutero, nel 1517.
San Benedetto riconosce e accoglie Totila, scena appartenente al ciclo delle Storie di san Benedetto di Monte Oliveto Maggiore, affrescato da Luca Signorelli. 1497-1499. Asciano, abbazia di Monte Oliveto Maggiore.
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Tutte queste date sono significative e consequenziali, ma per molteplici ragioni, troppo precoce è la prima e troppo tarda la terza, per cui la piú valida è stata ritenuta il 1492. Al pari di tutte le date convenzionali, fissare al 1492 la fine del Medioevo potrebbe sembrare una mera indicazione scolastica. Invece, mai come in questo caso, la realtà fu diversa, dal momento che, in quel preciso anno e in quelli immediatamente a ridosso, ebbero luogo eventi e scoperte che mutarono cosí profondamente il corso della storia da imporre quasi una cesura epocale. Dal concludersi della Reconquista spagnola, culminata con la presa di Granada e la cacciata degli ultimi Mori e degli Ebrei, alla scoperta dell’America nel 1492, dalla morte di Lorenzo il Magnifico all’elezione di Ales12
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Presentazione
sandro VI, sempre nel 1492, dalla diffusione della stampa al debutto dei rivoluzionari cannoni di Carlo VIII, nel 1493, fu un serrato susseguirsi di novità stravolgenti. Appare dunque ragionevole concludere che, tra il 476 e il 1492, si dipanò, per oltre un millennio, il Medioevo, che proprio per le sue vistose disomogeneità interne viene oggi distinto in quattro periodi: tarda antichità, tra il IV e il VI secolo; Alto Medioevo, tra il VII e il X secolo; pieno Medioevo, tra l’XI e il XIII secolo; Basso Medioevo, dal XIV al XV secolo. Dal punto di vista strettamente tecnologico, tuttavia, l’età di Mezzo si può distinguere in appena due periodi,
Nella pagina accanto monaci cistercensi impegnati nella raccolta del grano, particolare dell’altare con scene della Leggenda di san Bernardo, dipinto da Jörg Breu il Vecchio per il monastero di Zwettl, in Austria. 1500. In questa pagina disegni di macchine progettate da Leonardo da Vinci e raccolti in un trattato di statica e meccanica. XV sec. Madrid, Biblioteca Nacional.
Il 1492 fu un anno denso di avvenimenti cruciali: dalla scoperta dell’America alla diffusione della stampa a caratteri mobili TECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA MEDIEVALE di circa cinque secoli ciascuno. Il primo, che va dal V al X secolo, non fece registrare progressi significativi, eccezion fatta per la diffusione di alcune invenzioni, peraltro note da tempo. Il secondo, dal X al XV secolo, è caratterizzato, invece, da un crescendo di innovazioni, riscoperte e invenzioni che, pur non tradendo la genialità speculativa dell’età ellenistica, ma essendone spesso la mera riproposizione, conobbero un’adozione talmente vasta da modificare la coeva società, un esito del tutto sfuggito nel passato.
Una testimonianza eloquente
Se mai sussistesse qualche dubbio sul risveglio da un penoso «letargo» della tecnologia e delle scienze, lo fuga questo passo del cronista Rodolfo il Glabro, che rievoca come «all’avvicinarsi del terzo anno che seguí l’anno mille, si vedono ricostruire su quasi tutta la terra, ma soprattutto in Italia e in Gallia, gli edifici delle chiese. Sebbene la maggior parte, molto ben costruite, non ne avessero alcun bisogno, un vero spirito di emulazione spingeva ogni comunità cristiana ad averne una piú sontuosa di quella dei vicini». Pertanto: «La produzione su vasta scala di materie prime (pietre, legno, ferro), la messa a punto di tecniche e la fabbricazione di un’attrezzatura per l’estrazione, il trasporto, l’erezione di materiali, di misura
Presentazione e peso considerevoli, il reclutamento della manodopera, il finanziamento dei lavori, tutto ciò ha fatto dei cantieri edili (e non solo delle cattedrali ma anche delle innumerevoli chiese di ogni dimensione, nonché delle edificazioni per uso economico, con ponti, granai, mercati, e delle case per ricchi, sempre piú costruite in pietra), il centro della prima e quasi dell’unica industria medievale». Ricomparvero allora scalpellini, fabbri ferrai, falegnami, fonditori, che si fecero artefici di un costante incremento delle rispettive capacità; artigiani che si dotarono altrettanto progressivamente di macchine capaci di agevolarne il lavoro. Spesso, proprio in quelle e per quelle produzioni si può constatare il recupero delle conoscenze mecca-
In questa pagina staffe in ferro di produzione avara. Gyor (Ungheria), Xántus János Múzeum. 14
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niche elaborate in straordinari congegni alessandrini, che, rimasti senza successo all’epoca, lo conobbero nel Medioevo. Anche in questo caso vige una netta distinzione fra gli studiosi del settore: per alcuni, infatti, la causa della mancata meccanizzazione va ricercata nella schiavitú che rese superflue le macchine, per altri, invece, fu l’inadeguatezza di quelle macchine a determinare il perdurare della schiavitú.
Forse entrambe le tesi sono solo parzialmente plausibili tanto che, in seguito all’evoluzione delle prime e al contemporaneo rarefarsi del motore umano, si registrò il significativo recupero di quella remota cultura ingegneristica, al punto di farvi ravvisare il debutto di un nuovo sistema tecnico, un vivace ibrido di antiche idee e medievali elaborazioni. Fu questa, per esempio, la vicenda della manovella, che, sebbene nota nelle piú elementari applicazioni
Miniatura raffigurante Carlo Magno alla guida delle sue truppe. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Si può notare come tutti i protagonisti della scena facciano uso delle staffe. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA MEDIEVALE sin dalla preistoria e nella sua razionale costruzione dagli inizi della nostra era, soltanto nel Medioevo divenne un congegno imprescindibile, ruolo mai piú dismesso. Simile è il caso del mulino idraulico, conosciuto e usato dai Romani, come pure del ferro di cavallo: solo nel Medioevo, però, entrambe le invenzioni ebbero un impiego talmente vasto da farle ritenere quasi come sue peculiari invenzioni. Nell’età di Mezzo, insomma, fino all’avvento rivoluzionario della povere pirica, la tecnologia non incrementa in modo significativo il suo patrimonio culturale e, per contro, spende oculatamente quello accumulato nel passato. La storiografia di settore ha finito per ravvisare in questa peculiarità una connotazione preminente rispetto alla mera invenzione, finendo perciò per considerarla l’indiscussa origine. Si tratta senza dubbio di un artificio culturale al quale, tuttavia, è coerente attenersi. Scriveva al riguardo Jacques Le Goff: «L’interesse fecondo per la storia delle tecniche ha spinto i numerosi ammiratori del Medioevo anche a dotare quest’epoca di una genialità inventiva che non troverebbe
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Presentazione confronto con nessun altro periodo della storia (...) Ma vorrei che si riconoscesse, come dimostrava Marc Bloch, che il Medioevo ha diffuso, e lo si vedrà, piuttosto che inventato delle tecniche. D’altronde questo è per lo storico un fenomeno di gran lunga piú importante e piú significativo dell’evento spesso effimero di un’invenzione isolata, oggetto di curiosità e non di storia, poiché il vero oggetto storico deve, se non sconvolgere, per lo meno cambiare con la sua azione in estensione e in profondità le strutture di una società».
Diffusione orizzontale
Al di là della significativa distinzione fra invenzione originale e adozione generalizzata, se ne ravvisa un’altra, non meno rilevante, circa la modalità di propagazione di una qualsiasi invenzione, sicuramente attiva anche in età classica, ma in maniera del tutto diversa. La diffusione della tecnologia medievale, infatti, potrebbe considerarsi di tipo orizzontale, cioè di massa, a differenza della piú antica, che è di tipo verticale, cioè d’élite. Una dif-
Sulle due pagine progetti per una torre semovente con la quale attaccare una fortificazione (a destra) e per una bombarda di grosso calibro per tiri a lunga gittata, illustrazioni di Matteo de’ Pasti per un’edizione del De re militari di Roberto Valturio. 1470. Padova, Biblioteca Capitolare.
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Presentazione
ferenza non trascurabile e, comunque, sufficiente per distinguere nell’età di Mezzo, una sua pregnanza scientifica dopo un iniziale mezzo millennio di progresso insignificante, se non di mero regresso. Piú che dalle fonti scritte, lacunose e approssimate, un apporto fondamentale nell’individuazione delle novità tecnologiche scoperte o riscoperte nel Medioevo deriva da quelle iconografiche. Queste ultime, infatti, raffigurano spesso il dispositivo in questione con tanta precisione da renderne oggettiva e facile l’identificazione, certificandone cosí la datazione. Altrettanto importante è il ricorso ai reperti, che per l’epoca in esame sono soprattutto di origine militare, in particolare costituiti da armi bianche e, piú tardi, da corazze e armature, che divennero nel loro insieme la nota distintiva della cavalleria, grazie anche all’introduzione della staffa. Furono le armi dei barbari, del resto rozze ed efficaci, a sancire il collasso dell’impero, favorendo già in precedenza il loro dilagare. Tra queste, la lunga spada – da taglio e da punta –, che, quando maneggiata dall’alto in basso, cioè da sopra a una comoda sella, capace di fondere in stretta simbiosi uomo e cavallo – esaltata anche dalla saldezza fornita dalla staffa –, diveniva un antesignano sistema d’arma. Discorso simile vale per la lancia, non piú scagliata, ma portata a impattare direttamente e violentemente grazie alle staffe. La stabilità assicurata dalla staffa, in realtà, non fu la premessa della cavalleria, ma soltanto uno dei presupposti, poiché già la sella dall’alta sponda posteriore l’aveva fornita. È però innegabile che, essendo estremamente economica, di facile costruzione e di efficace impiego, la staffa finí per costituirne quasi l’emblema, venendo persino inclusa tra le rare invenzioni dell’Alto Medioevo, Nella pagina accanto un fabbro lavora alla fabbricazione di un’armatura (?), illustrazione di Matteo de’ Pasti per un’edizione del De re militari di Roberto Valturio. 1470. Padova, Biblioteca Capitolare. In questa pagina esempi di fortificazione, da un’edizione del Trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini. 1480-1482 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
nonostante fosse originaria dell’India, dov’era stata sperimentata e perfezionata già nel II secolo a.C. Altrettanto può dirsi in merito alla produzione dell’acciaio dal ferro, del quale i barbari conoscevano la tecnica ed erano abili fabbri, nonché fonditori e minatori. Una produzione quasi esclusiva di corazze e spade di superba qualità, che finí con il caratterizzare l’intera epoca per quella del ferro da guerra, senza dimenticare che l’acciaio forní anche ottimi attrezzi per l’agricoltura, nonché longeve molle. Del resto, la guerra e quanto a essa era attinente – dalle armi alle fortificazioni – costituirono le principali e piú cospicue produzioni medievali, dal cui coinvolgimento dipese e continua a dipendere il ruolo trainante della tecnologia militare. Di pari rilevanza infatti furono i tanti cantieri delle fortificazioni via via sempre piú elaborate, rese possibili anch’esse dalle migliorate condizioni di vita instauratesi dopo il Mille, che permisero nuovamente lo specializzarsi delle maestranze.
Spostamenti continui
Se dal punto di vista architettonico quella pretora di costruzioni difensive è considerata una peculiarità del Medioevo, sotto quello militare lo fu, e in misura persino maggiore, lo sviluppo della cavalleria. Da intendersi come formazione in grado di spostarsi rapidamente e di combattere a cavallo, con le inevitabili conseguenze tecniche, economiche e sociali che all’epoca comportava. I capi – che pomposamente si definirono re – di quelle torme, piú o meno numerose, di seguaci a cavallo, mai riuscirono a estendere la loro autorità, al di là del brandello di territorio su cui erano insediati. A dimostrarlo, basterebbe la necessità del continuo errare di tali assemblee da un punto all’altro di quegli evanescenti agglomerati, nel tentativo di sopperire direttamente alle peggiori carenze di sicurezza e di giustizia, ammantando i propri membri di tronfie designazioni gerarchiche, prive, però, di qualsiasi affinità con le omonime imperiali. Un apporto al progresso tecnologico misconosciuto, eppure foriero di un vistoso balzo in avanti, si ebbe all’indomani del sacco crociato di Costantinopoli
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Presentazione
In alto miniatura raffigurante le truppe francesi di Carlo VIII che fanno il loro ingresso a Napoli, da un’edizione della Cronaca del Ferraiolo. 1498 circa. New York, Pierpont Morgan Library. Nel registro inferiore, le didascalie specificano il trasporto dell’«Artegliaria» e di «Palle de fierro» e «Sache de farina». Nella pagina accanto pagina di un’edizione de Le libre del arbre de sciencia (Il libro dell’albero della scienza), opera enciclopedica di Raimondo Lullo. XV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
del 1204, quando giunsero in Occidente, sulle navi di Venezia, non solo opere letterarie, ma manoscritti e codici scientifici, tutti in lingua greca. Nessuno la conosceva, ma tutti comprendevano i disegni allegati, tanto che, in pochi anni, nel cuore del Medioevo esplose il culto – piuttosto che la cultura – dell’ingegneria, ovviamente militare, che era la piú richiesta e remunerata. Un culto che però non seppe inizialmente distinguere il verosimile dal vero, il possibile dall’assurdo, l’utopia dal progetto. Proliferarono gli adepti della nuova disciplina, tra i quali non mancavano ex medici, notai, avvocati e persino monaci, che diedero origine a un fiorire di taccuini meccanici, di schizzi, di annotazioni sulle piú incredibili macchine belliche. Sembrerebbe, in definitiva, il trionfo della genialità umana, l’età dell’oro dell’invenzione tecnica: in realtà si tratta solo della riscoperta, acritica ed esagerata, di antichi saperi, che richiesero lunghe sperimentazioni per divenire qualcosa di piú di mere elucubrazioni.
Tutte le scienze in un albero
Avviato il processo, col tempo se ne ampliò la portata, per cui, sul finire del XIII secolo, si giunse addirittura a integrare le sette nobili arti intellet-
tuali del trivio e del quadrivio, con altre sette ormai reputate da tanti studiosi non meno nobili: le arti tecniche, del lavoro degli specialisti. In particolare, si distinse al riguardo Raimondo Lullo, nato a Palma di Maiorca nel 1235 (e per puro caso mortovi nel 1316), una singolare figura di filosofo, scrittore e missionario fra i piú celebri del tempo. Nella sua opera enciclopedica Arbre di ciènce (L’albero della scienza, 1296), la suddivisione delle arti da lui individuate appare, per molti aspetti, precipua della tecnologia del Medioevo in ogni sua manifestazione. E quando, dopo la conquista turca di Costantinopoli nel 1453, giunsero in Occidente altri codici ancora, ma questa volta insieme agli scampati Bizantini, grazie all’insegnamento della lingua impartito da questi ultimi, se ne compresero anche i contenuti, dando vita alla seconda e consapevole ondata tecnologica, di gran lunga piú feconda e rivoluzionaria, che coincise con l’esordio del Rinascimento. Forse, quindi, non fu una mera coincidenza che Ruggero Bacone abbia pubblicato la formula della polvere pirica pochi decenni dopo il primo sacco di Costantinopoli e che Carlo VIII abbia costruito i suoi rivoluzionari cannoni pochi decenni dopo il secondo! TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL MULINO GALLEGGIANTE
Farina di fiume
Sfruttando l’energia delle correnti, i mulini alleviarono le fatiche di quanti erano coinvolti nella molitura dei cereali. E ancor piú conveniente si rivelò, nel Medioevo, il trasferimento delle strutture direttamente sull’acqua
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el XIII secolo, lungo il Tevere, a Roma, è attestata l’esistenza di un singolare mulino idraulico: il mulino galleggiante. La sua realizzazione venne probabilmente dettata dalla volontà di ridurre i costi del trasporto delle derrate: numerosi carri di grano costretti a percorrere anche pochi chilometri per raggiungere il mulino determinavano un tale aumento del prezzo finale della farina da vanificare il vantaggio assicurato dall’impiego della macchina. Un mulino capace invece di spostarsi, scendendo o risalendo la corrente, o raggiungibile facilmente con barche e razionalmente utilizzato, avrebbe, se non altro, ridotto al minimo le distanze e i costi, pur facendo crescere i tempi di lavorazione. È significativo che, fra i tanti disegni degli ingegneri medievali, si ritrovi abbastanza spesso una barca munita di ruota a pale, utilizzata per alare una fune in modo di poter risalire la corrente grazie alla stessa. E immagini di mulini galleggianti di varie fogge e tipologie ci sono giunte in misura persino maggiore. La connotazione essenziale di un mulino galleggiante consiste in uno scafo munito di una ruota a palette: fissato il primo alla sponda con
funi o catene, la seconda, sempre parzialmente immersa, viene fatta girare dalla corrente. Tuttavia, per effetto dell’asimmetria della resistenza idrodinamica, un siffatto mulino tende a ruotare fino a neutralizzare la spinta, obbligando perciò ad ancoraggi multipli. Per evitare questa anomala sollecitazione, ben presto si preferí optare per due scafi adiacenti e solidali, montando fra loro la ruota: in pratica una sorta di catamarano, con un unico ponte destinato alle macine. Una idea di tale impianto si può ricavare dalla draga disegnata da Francesco di Giorgio Martini e ripetuta da Leonardo. In alto Il martirio di sant’Orsola a Colonia (particolare), olio su tela del Maestro della Piccola Passione. 1411 circa. Colonia, WallrafRichartz-Museum. Sulla sinistra si riconosce un mulino galleggiante.
Come già evidenziato, il rendimento di una ruota trascinata dal basso risulta sensibilmente inferiore della stessa alimentata dall’alto. Per contro, però, la deficienza veniva compensata dal non dovere sopportare sull’asse oltre al peso della ruota anche quello dell’acqua, per cui era possibile costruirne di molto piú larghe. Il che consentiva non solo di compensare la carenza ma di ottenere potenze di gran lunga maggiori. A titolo di raffronto, una ruota di 3 m di diametro, ma larga 1,5 – dimensione compatibile con lo spazio fra i due scafi, e installazione concettualmente identica a quella dei battelli a ruote fluviali – forniva il doppio della potenza di una alimentata per caduta, dello stesso diametro, ma larga soltanto 0,3 m. Avendo soddisfatto le aspettative di chi li aveva ideati, i mulini galleggianti si diffusero in breve tempo, restando da allora in funzione fino ai nostri giorni. A tale tipologia apparteneva, per esempio, il famoso Mulino del Po, del romanzo di Riccardo Bacchelli.
In alto disegni attribuiti alla bottega di Francesco di Giorgio Martini che comprendono un’imbarcazione spinta da una ruota a pale. XV sec. New York, The Morgan Library & Museum. In basso ricostruzione di una draga destinata alla ripulitura dei canali, funzionante in modo simile al mulino galleggiante e basata sui disegni di Leonardo. Milano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci».
LE FOSSE DA GRANO
Chicchi in cassaforte
Cerignola, cittadina ai margini del Tavoliere, custodisce un’insolita testimonianza della Puglia quale «granaio d’Italia»: di fronte alla chiesa di S. Domenico si possono ancora oggi vedere le bocche di centinaia di fosse, scavate nel corso del Medioevo per immagazzinare il prezioso cereale. Strutture assai sofisticate, capaci di conservare il loro contenuto per tempi anche molto lunghi
I
primi agricoltori compresero presto che il raccolto di un campo scemava anno dopo anno, ma che bastava seminare in terreni limitrofi mai coltivati per ottenere nuovamente una produzione di pari entità. Nell’antichità non si avevano conoscenze sufficienti per spiegare le cause del fenomeno, ma ciò non impedí di escogitare e applicare il rimedio giusto ed efficace, definito oggi fertilizzazione o concimazione. Operazione che consiste nel reintegrare l’humus delle sostanze nutritive di cui le specie vegetali necessitano per lo sviluppo. Il frumento (Triticum vulgare), cereale che è alla base della civiltà, richiede preminentemente azoto, fosforo e potassio. Per il cosiddetto grano duro, Triticum turgidum, piú ricco di proteine, come per il tenero, Triticum aestivum, sono sufficienti il fosforo e il potassio naturalmente presenti nei terreni argillosocalcarei o sabbiosi, tanto piú che il secondo, concentrandosi negli steli, vi ritorna dopo la 24
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Estate, miniatura tratta da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Sulla sinistra, la personificazione della stagione estiva; a destra, due contadini mietono in un campo di grano.
TECNOLOGIA CIVILE
Fosse da grano
CIASCUN TESORO HA IL SUO PROPRIETARIO Sezione e assonometria ricostruttive di una fossa da grano.
1. Anello a vari corsi di mattonacci – mattoni parzialmente cotti e perciò piú porosi di quelli normali – in grado di assorbire velocemente discrete quantità di acqua eventualmente penetrate dalla chiusura della bocca. 2. Intonaco a base di calce utilizzato da un certo momento in
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poi, sia per impedire le contaminazioni di terriccio nel grano conservato, sia per assorbire le infiltrazioni laterali di acqua e le minime risalite per capillarità. 3. Fascelli di paglia posti in opera sopra la camicia di intonaco, adottati come isolante termico e idrico, utili alla
maggiore igiene della conservazione e alla totale eliminazione dell’umidità ambientale. 4. Il quantitativo di grano insilato riempiva solo poco piú della metà del volume della fossa, lasciando cosí una grossa bolla d’aria che, in pochi giorni, per la sua traspirazione si trasformava in anidride carbonica, precludendo la sopravvivenza a qualsiasi forma di vita, vegetale o animale che fosse. 5. Il terreno in cui erano scavate le fosse doveva risultare ai saggi preliminari ben asciutto e privo di infiltrazioni idriche, condizioni che in genere si ritrovavano nei conglomerati argillosi, frequenti sul Tavoliere, sufficientemente coerenti da non richiedere strutture di rinforzo. Nella pagina accanto, in alto Cerignola. Esempio di un cippo indicante la sigla o il nome del proprietario della fossa, perlopiú rappresentati da un semplice monogramma.
loro combustione. In definitiva, quindi, in quei particolari suoli sarebbero occorsi solo concimi azotati, che l’esperienza individuò nella rotazione di idonee colture e, soprattutto, nello spargimento di letame o di deiezioni organiche, conseguenti al pascolo delle pecore. Quest’ultimo caso è reputato il migliore, poiché l’azoto viene ceduto lentamente, fertilizzando l’humus, secondo le esigenze della crescita. Pertanto terreni del genere, aridi e caldi, adibiti a pascolo e a coltivazioni azotanti secondo cicli biennali e triennali, si confermano ottimali per il grano duro. Tale connotazione si instaurò sull’intero Tavoliere, che si estende per oltre 3000 kmq, grazie alla pratica della transumanza a partire dal XII secolo, e raggiunse il suo massimo sviluppo dopo l’istituzione della Dogana della mena delle pecore a Foggia, nel 1447, quando milioni di pecore venivano condotte nella piana pugliese e vi trascorrevano l’inverno brucandone l’erba e, defecando, ne rigeneravano la fertilità.
Montagne di frumento
Il paesaggio ne uscí sconvolto, sacrificato all’enorme profitto pastorale-cerealicolo, al punto che difficilmente Federico II avrebbe potuto riconoscervi la praecipua amoenitas della sua amata Capitanata, con le sue grandi foreste e i vasti acquitrini ridotti a interminabili e brulle distese. Ma i raccolti crebbero a tal punto da far definire il Tavoliere il granaio d’Italia e, ancora oggi, la maggior parte dei circa 7 milioni di tonnellate di frumento, prodotti annualmente nel nostro Paese, proviene dalla provincia di Foggia. Nel XIII secolo il quantitativo doveva essere di gran lunga inferiore, ma certamente eccedeva di gran lunga le esigenze alimentari di Foggia, Lucera, Manfredonia, San Severo e Cerignola, innescando perciò un florido mercato. Occorreva, però, trovare il modo di stoccare in maniera ottimale quelle montagne di frumento, cioè disporre di un sistema affidabile di insilamento, capace di garantire la perfetta conservazione e, soprattutto, la salvaguardia da furti, umani e animali. E la soluzione, con buona probabilità, venne dalla trasmissione del patrimonio di esperienze accumulato, proprio nel Tavoliere, dai primi agricoltori della regione. Come hanno infatti dimostrato le molte ricerche condotte nel secondo dopoguerra, questa zona della Puglia fu densamente occupata da comunità neolitiche che dotarono i propri villaggi (come per esempio quelli in località Passo di Corvo o Masseria Monte Aquilone) di strutture ipogee scavate nella roccia calca-
rea, il cui uso è almeno in parte riconducibile allo stoccaggio dei cereali. Nella Storia Naturale, trattando della coltivazione del frumento, Plinio il Vecchio accenna anche ai modi usati per conservarlo e, tra tutti, a suo parere il piú vantaggioso consiste nel «porli in quelle fosse che chiamano ”siros“ [da cui silo], come in Cappadocia, in Tracia, in Spagna e in Africa. Prima di tutto ci si preoccupa di scavarle in un terreno secco, poi di ricoprirne il fondo con uno strato di paglia; i frumenti peraltro vi vengono conservati ancora in spiga. Cosí se nessun soffio d’aria giunge fino al grano, è certo che non vi si genera niente di nocivo. Il tritico cosí riposto secondo Varrone dura 50 anni» (NH XVIII, 73, 306). In quelle stesse regioni dell’impero bizantino è verosimile che le fosse da grano descritte da Plinio, e prima ancora da Varrone, si fossero moltiplicate nel Medioevo, stimolandone l’adozione anche in altre province. Capitanata, emblematicamente, è la deformazione per metatesi di Catepanato, appunto una provincia dell’impero bizantino, che comprendeva tra le sue città San Severo, Lucera, Foggia, Manfredonia e Cerignola, spazzata via per sempre dai Normanni alla metà del XII secolo. Nel frattempo, fosse siffatte avevano trovato nella geologia del Tavoliere e nell’entità della produzione cerealicola gli ideali presupposti per l’adozione su vasta scala, con lievi modifiche dettate dal clima.
Come «trulli sotterranei»
In linea di larga massima, una fossa da grano consiste in uno scavo tronco conico, con la base maggiore, dai 4 ai 6 m di diametro, posta a una profondità non superiore agli 8 m, con una bocca circolare di circa 1 m, corrispondenti a un volume massimo di 400 mc. Un «trullo sotterraneo», capace di contenere fra i 400 e i 1100 q di frumento, corrispondenti a loro volta a circa 150 mc. La fossa doveva essere assolutamente asciutta, e fu perciò realizzata in modo da riuscire ad assorbire anche le piccole quantità di vapore acqueo emesse dalla traspirazione dei chicchi fino alla completa maturazione. Nessun problema per umidità da risalita o da infiltrazione, la prima assente per la profondità della falda e la seconda intercettata dalla perfetta tenuta della bocca, che, per giunta, insisteva su un tamburo di mattonacci, particolarmente assorbenti. Questi, innalzati su un’apposita riseca dello scavo, fornivano l’appoggio al dispositivo di chiusura, complesso per quanto rozzo, che andava a insistere su un cubo di muratura come una sorta di mastra quadrata, realizzata TECNOLOGIA MEDIEVALE
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La Capitanata in una mappa acquerellata realizzata dai cartografi olandesi Willem e Joan Blaeu. Seconda metà del XVII sec.
Fosse da grano
con cordoli di pietra, aventi all’interno un piccolo aggetto. Su questo si disponevano due file incrociate di tavoloni di quercia, sormontate da un’approssimata piramide di terra battuta, resa impermeabile. Al centro di un lato, all’esterno, si ergeva un cippo alto 60-70 cm, con inciso il monogramma o il numero corrispondente al proprietario della fossa.
Il pozzetto di evacuazione
Le fosse piú antiche non avevano all’interno alcun rivestimento, in quanto la saldezza del terreno argilloso garantiva la resistenza inalterata negli anni. In epoca successiva, però, s’iniziò a intonacarle, utilizzando malte a base di calce, capaci anche di una discreta assorbenza. Pure il fondo della fossa era intonacato, con una leggera concavità e al centro un pozzetto per evacuare l’acqua di pulizia, ed essendo proprio la pulizia del frumento il suo maggior pregio per la commercializzazione, si diffuse l’uso di foderare l’intonaco con fascelli di paglia. Una camicia isolante e protettiva, realizzata a 28
TECNOLOGIA MEDIEVALE
partire dallo strato di fondo, per ovvie ragioni piú spesso, che contribuiva ad assorbire ogni residua umidità, manteneva l’ambiente della fossa assolutamente asciutto. Il frumento, come evidenziato dalla differenza fra la sua cubatura e quella della fossa, non riempiva piú della metà della struttura, lasciando perciò una grossa bolla d’aria, ermeticamente isolata. Nei giorni successivi all’insilamento, i chicchi, traspirando, esaurivano rapidamente l’ossigeno, trasformandolo in anidride carbonica, guardiano inflessibile e letale! Da quel momento, infatti, nessun essere vivente poteva piú penetrare nella fossa: parassiti, roditori e ladri vi avrebbero trovato una rapida morte. Nell’ambiente reso asettico dalla CO², il frumento andava in quiescenza e poteva conservarsi a lungo: citando Varrone, Plinio parla di 50 anni e addirittura di 100 per il miglio! Per svuotare la fossa si ricorreva a una apposita ed esperta categoria professionale: gli sfossatori, divisi in squadre guidate da un «caporale». Aperta la bocca, si procedeva ad
Cerignola (Foggia). Il Piano delle Fosse, dinanzi alla chiesa di S. Domenico. Le strutture a oggi conservate sono poco piú di 600, ma da fonti d’archivio si apprende che in passato dovevano essere ben piú numerose, superando certamente le 1000 unità. Alcune di esse sono tuttora funzionanti.
Qui sopra Cerignola. Piano delle Fosse. L’interno intonacato di una delle strutture: risulta ben visibile il pozzetto di fondo.
arieggiarla, sventolandovi dentro, ma dall’esterno, sacchi di tela, per rimuovere l’anidride che, piú pesante dell’aria, ristagnava pigramente sul frumento. Dopo 2 o 3 ore vi si calava una lanterna a olio: se la fiamma si spegneva significava che il gas era ancora presente; se restava accesa, invece, un uomo vi scendeva e avviava il prelievo. Nel corso dei secoli le fosse da grano si moltiplicarono a dismisura e, per facilitarne l’insilamento e lo svuotamento, le si raggrupparono in ampi spiazzi periferici, definiti Piani delle Fosse, dei quali oggi sopravvive solo quello di Cerignola, con oltre 600 delle 1100 fosse originarie. A prima vista ricorda un cimitero militare abbandonato, con fosse tutte uguali e tutte munite di un identico cippo: ma sotto, fino a pochi anni fa, giaceva la risorsa piú essenziale per la vita!
Le prime citazioni
Dal punto di vista storico il primo documento che menziona, sia pur laconicamente, le fosse da grano di Cerignola risale al 1225: una donazione a favore dei Cavalieri Teutonici di Barletta di «unam domum (...) cum duabus foveis». La seconda menzione si ritrova nel 1308, ancora in una donazione, in cui si legge «in certis foveis in Cidiniole» e ancora «in diversis foveis in dicta terra Cidiniole». Ma si deve attendere il 1538 per rintracciare un esplicito riferimento al Piano di S. Rocco o Piano delle Fosse, dinanzi la chiesa di S. Domenico, già di S. Rocco. Le fosse da grano, sebbene abbiano conosciuto la massima adozione in Capitanata, risultano utilizzate anche in numerose altre regioni d’Italia, come nelle Marche e in Toscana, a partire
significativamente sempre dal XIII secolo. Scriveva per esempio Pier de Crescenzi (Bologna 1233-1320), fra i maggiori agronomi medievali, nel suo Ruralium Commodorum libri XII: «Alcuni altri fanno un pozzo e alle latera pongono paglia, e cosí di sotto, acciocché alcuno umore o aria non vi possa entrare, se non quando bisogna per usare». Anche Francesco di Giorgio nel suo trattato di architettura ricorda le fosse da grano, sostenendo che le abitazioni rurali avrebbero dovuto disporre di «piú fosse da grano per conservare il frumento secondo il bisogno». Scriveva ancora, per precisarne in dettaglio le caratteristiche, che, «volendo conservare meglio el grano si vole fare una fossa come una cisterna di struttura o calcestruzzo, salda bene da ogni parte; lassando uno piccolo buso e turando poi quello con tavole e battuta terra, conserverà el frumento, posto ch’ella sia intorno armata di paglia secondo l’usanza. E cosí si manterrà molto meglio el frumento, perché non è possibile che el tufo o altro terreno non rendi superflua l’umidità per la quale si corrompe il frumento». Le fosse da grano, tranne a Cerignola, sono quasi dappertutto scomparse, poiché un solo moderno silo può contenere oltre 7000 t di prodotto! Ma, saggiamente e forse in extremis, quelle ancora esistenti nella cittadina pugliese, gran parte dell’intero Piano delle Fosse, dal 5 luglio del 1989 sono sottoposte a vincolo tutelativo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali ai sensi della legge 1089/39. Probabilmente tutte eviteranno la distruzione, ma difficilmente l’incuria, a differenza della cinquantina che ancora continuano a elargire la loro antica prestazione. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LE GUALCHIERE
Stoffe e carte a percussione
In basso un maglio ad acqua in un’antica officina di fabbro.
Concettualmente, la gualchiera è una sorta di «supermartello»: una macchina semplice, ma capace di migliorare in maniera esponenziale il rendimento del lavoro svolto da fabbri, cartai e produttori di tessuto
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a realizzazione di seghe idrauliche utilizzate per ridurre in lastre regolari i blocchi di marmo rappresentò, nel III secolo d.C., il debutto delle macchine destinate a sostituire con sequenze meccaniche elementari i monotoni e ripetitivi sforzi muscolari. L’azione delle lame, infatti, è un mero andirivieni, per cui un congegno del genere si limitava a trasformare la rotazione della ruota idraulica nel viavai della sega e, piú in generale, il moto rotatorio in alternativo. Quella prima applicazione, tuttavia, non ebbe seguito e la forza motrice dell’acqua, per buona parte del Medioevo, restò confinata ai soli mulini, conoscendo ulteriori impieghi soltanto dopo il XII secolo. E anche allora si trattò di macchine che mimavano il semplice gesto umano di alzare un martello o di spingere una leva, mutando i lenti giri di un albero nel cadenzato movimento di un braccio. Ne derivarono tre tipologie fondamentali di macchine, due delle quali definite «gualchiere», sebbene una adottata per la follatura dei tessuti con magli a impatto orizzontale, e l’altra per la preparazione della carta, con magli a impatto verticale; la
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TECNOLOGIA MEDIEVALE
terza, invece, era il maglio per antonomasia per le sue grandi dimensioni, battuto su di un’adeguata incudine, impiegata nelle officine dei fabbri ferrai per la forgiatura.
Acqua mista ad argilla
Circa la prima, va ricordato che la follatura dei tessuti era già praticata nell’antichità e scaturiva dalla constatazione che i panni, bagnati con acqua calda arricchita con additivi naturali, si infeltrivano. In pratica il procedimento, eliminando i piccoli interstizi presenti tra trama e ordito, rendeva il panno morbido e al contempo saldo. In epoca romana il procedimento determinò vere e proprie industrie specializzate, fullonicae, nelle quali i panni, posti in ampie vasche colme d’acqua mista ad argilla, battuti energicamente dai piedi dei fulloni (saltus fulloni), si infeltrivano per essere poi sgrassati con l’urina, grazie all’ammoniaca in essa contenuta. Il lavoro, al di là delle conseguenze dovute al contatto prolungato con i suddetti liquidi e additivi, era faticoso e stressante, non a caso riservato agli schiavi. Intorno all’XI-XII secolo proprio per la follatura
Nella pagina accanto una gualchiera per la follatura dei tessuti, dal Theatrum Machinarum Novum di Georg Andreas Böckler. 1661. L’opera illustra tutti i sistemi di mulini per cereali, delle ruote idrauliche per la lavorazione di carta e minerali, per le segherie e altri usi. Qui sono indicati: A. ruota idraulica azionata per trascinamento dal basso; B. albero a camme per la movimentazione dei magli; C. camma in legno; D. magli per battere il panno; E. fornace per riscaldare l’acqua della caldaia; F. acqua con additivo per impregnare il panno usando il mestolo.
TECNOLOGIA CIVILE
Gualchiere
COME FUNZIONAVA UNA GUALCHIERA PER L’INFELTRIMENTO DEI TESSUTI 1. Ruota idraulica alimentata per caduta d’acqua, convogliata mediante un canale di derivazione da un bacino artificiale, una sorta di grande vasca, munito di saracinesca per regolare o interromperne il flusso. 2. Panno sottoposto a follatura mediante l’alternativa percussione di due magli. Sebbene la loro escursione, tra sollevamento e ricaduta, fosse sempre breve, essendo realizzati con legni pesanti, percuotevano con violenza il panno, compattandone la trama.
In alto schema di funzionamento delle camme, realizzate per questo tipo di gualchiere in forma di cuneo tronco, cosí da disporre della necessaria solidità richiesta per il sollevamento dei bracci dei magli. 1
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COME FUNZIONAVA IL MAGLIO AD ACQUA PER FORGIATURA
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3. L’albero, posto in rotazione dalla ruota idraulica, aveva, in posizione centrale, un anello di ferro al quale erano saldate le camme, sempre di ferro, a profilo stondato per favorire lo scorrimento del braccio. 4. Il braccio del maglio, posto in movimento dalla ruota idraulica, era sopportato dal muro che separava il vano della ruota idraulica da un’estremità e da un basamento in muratura dall’altro, muniti entrambi di boccole di bronzo.
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In basso le camme utilizzate per la movimentazione del braccio del maglio, a causa del suo peso, erano di ferro con un profilo arrotondato per agevolarne lo scorrimento che lo abbassava.
dei tessuti fu inventata, e presto si perfezionò, la gualchiera, denominazione tratta verosimilmente dalla voce verbale gualcare= calcare, come già in latino fullare= schiacciare, etimologia, questa, piú sensata fra le varie ipotizzate. Strutturalmente, consisteva in un edificio costruito in adiacenza di un corso d’acqua, o di una gora, che costituivano la fonte energetica per l’alimentazione della ruota idraulica, il motore dell’impianto. In genere l’acqua impattava sulle pale cadendovi dall’alto, in quanto occorreva una potenza maggiore di quella necessaria per i mulini, dal momento che l’albero della ruota azionava direttamente i bracci dei pesanti magli, senza alcuna demoltiplica. Lungo il suo corpo, infatti, erano applicati spessi cunei, o camme, sporgenti di circa 15 cm, detti palmole, che provocavano la percussione dei magli. I rispettivi bracci, infatti, la cui estremità superiore stava imperniata in una sorta di castello, con quella inferiore sfioravano l’albero in corrispondenza delle camme, per cui erano spinti dalle stesse quando per effetto della rotazione li urtavano, e li rilasciavano non appena disimpegnate. Si originava cosí una sorta di oscillazione pendolare, che facendo prima sollevare e poi cadere i pesanti magli fissati all’estremità dei bracci, percuoteva energicamente il panno posto sulla loro traiettoria. Per esaltare la percussione, i magli avevano la parte anteriore sagomata a piú lobi, mentre il panno che doveva subirne gli impatti era collocato in una nicchia aperta lateralmente, ricavata in un grosso tronco. Con un ritmo di uno o due al secondo, i colpi si susseguivano sul tessuto, tenuto sempre bagnato con acqua calda, proveniente da una vicina caldaia mediante un apposito tubo. Considerando il forte attrito dei bracci sull’albero, il peso dei magli e la mancanza di ruote di demoltiplicazione, si deve concludere che il diametro delle ruota fosse maggiore dei tradizionali 3 m di quelle romane, che potevano contare su una fin troppo modesta potenza di 2,5 kw. Anche nelle gualchiere medievali si ottimizzò l’azione dei magli sulle pezze, lunghe circa 34 m, tramite l’aggiunta di adeguati additivi, perlopiú costituiti da soluzioni alcaline, saponose o acide, che, provocando lo scorrimento e la compressione delle fibre, rendevano il tessuto piú morbido e cedevole. Inoltre il miscuglio di argilla, deno-
minata smectite, dal greco smekticòs= capace di pulire, e soda di uso corrente assorbiva i residui grassi e, al contempo, ravvivava i colori. I Fiorentini in base ai diversi livelli di lavorazione forniti dalle gualchiere, cioè di infeltrimento dei panni, li distinsero in sodati, gualcati e gualciti, il minore dei quali coincideva con l’antica follatura romana. In un trattato della metà del Quattrocento si può leggere al riguardo: «la pezza istà nelle gualchiere una notte, governata con l’acqua calda; e poi con dando due ramaioli di burro».
Dagli stracci alla carta
Diversa era la conformazione delle gualchiere per la carta, in cui, al posto dei magli lobati per la percussione laterale ve ne erano di piú piccoli con diverse teste, ma sempre per la percussione perpendicolare effettuata in apposite pile di pietra di contenute dimensioni. Anche in queste macchine il tessuto giocava un ruolo fondamentale, avviandosi la procedura proprio dalla raccolta di stracci. Giunti alla cartiera, li si selezionava, asportandone qualsiasi orpello, fibbie e persino cuciture, e li si differenziava in base all’essere di cotone, canapa o lino: dai primi si otteneva la carta piú pregiata dai secondi la piú scadente. Gli stracci cosí selezionati, all’epoca boni, grossi e vergati, venivano gettati in tre distinti settori del contenitore di raccolta. Lo scarto si ammucchiava a parte, riservandolo alla produzione della carta da imballaggio. Dopo questa fase gli stracci erano sminuzzati e posti in vasche colme di acqua, i maceratoi o putrefattoi, dove, con l’aggiunta di calce, se ne migliorava la macerazione. Ma la trasformazione dello straccio macerato in pasta da carta, o pisto, ovvero la sua scomposizione in fibra elementare, nelle migliori cartiere si ottenne con l’adozione delle pile a magli multipli. In dettaglio, e per ampia schematizzazione, oltre alla ruota idraulica e relativo albero a camme, la macchina constava di una robusta intelaiatura, rinforzata da spesse bandelle di ferro, alla quale, tramite adeguati bracci, erano vincolati i pesanti magli di legno di quercia, a sezione quadrata, alti mediamente 1 m per circa 15 cm di lato. Sollevati dai bracci, a loro volta sollevati dalle camme, ricadevano pesantemente sul fondo della vasca, senza che gli stessi bracci toccassero l’albero. Per accentuare la triturazione, il primo maglio della vasca, il cui fondo era protetto da una spessa lastra di bronzo, aveva la testa battente munita di massicci chiodi acuminati per ridurre gli stracci in sfilacci fibrosi. Il secondo, invece, solo di borchie piatte, dovendo trasformare gli sfilacci in fibre elementari. Il TECNOLOGIA MEDIEVALE
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terzo, infine, privo di chiodi e borchie, omogeneizzava l’intero impasto. Durante la battitura l’acqua circolava liberamente nelle vasche per eliminare il sudiciume residuo, particolare reputato basilare per la produzione, e, al termine del ciclo, l’impasto finiva in un tino, da dove era prelevato con una sorta di setaccio rettangolare. Distribuito sulla sua intera superficie, formava il foglio di carta che veniva posto ad asciugare su di un feltro, ottenendo alte pile dalla sovrapposizione di piú strati siffatti. Le pile, dopo un’asciugatura sommaria, erano poste in un torchio, che ne cacciava l’acqua residua, consentendo ai singoli fogli di essere stesi per la piena essiccazione in appositi locali ben arieggiati, come altrettanti fazzoletti sulle funi.
Nelle fucine dei fabbri
Ultimi della serie erano i magli utilizzati dai fabbri per la forgiatura. Dal punto di vista tecnico la maggiore differenza con i precedenti consisteva nell’avere un unico grande martello, detto «testa d’asino», a percussione verticale, fissato con alcune zeppe a un robusto braccio, lungo tra i 2 e i 5 m, ulteriormente irrigidito da
COME FUNZIONAVA IL MAGLIO AD ACQUA PER LA PRODUZIONE DELLA CARTA 1. I bracci che provocavano il saliscendi dei magli erano ricavati da spesse traverse di quercia, imperniate a una estremità e sollevate dalle camme all’opposta. Per evitare che si potessero spostare lateralmente l’escursione avveniva in una apposita asola dei robusti montanti. 2. Bracci oscillanti dei magli, ricavati da travi di quercia a sezione quadrata di circa 15 cm di lato. La testa battente era differenziata in maniera da produrre, dopo la prima disgregazione del tessuto, la sua trasformazione in impasto omogeneo. A destra replica di una gualchiera medievale per la fabbricazione della carta a mano esposta nel Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano. Nella pagina accanto, in basso le camme che azionavano il saliscendi delle traverse erano identiche a quelle delle gualchiere per la follatura dei panni, con una sezione a cuneo smussato.
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cerchiature di ferro. Il fulcro era abitualmente collocato a circa un terzo del braccio, per ridurre lo sforzo necessario a sollevarlo, e, non a caso, a differenza delle macchine precedenti, non veniva alzato dalle camme, ma abbassato. A riposo il maglio poggiava sull’incudine, sulla quale, grazie al suo ingente peso, ricadeva con forza. La testa d’asino era foggiata a tronco di piramide e la sua parte piú stretta, quella che batteva sull’incudine, era di acciaio piú duro, non di rado costituita, nei magli piú evoluti, da un elemento che vi si incastrava e intercambiabile secondo le particolari esigenze. L’incudine, per intuitive ragioni, oltre a essere di mole rilevante, era anche saldamente fissata al suolo e presentava la superficie di percussione molto dura, spesso costituita da una piastra di acciaio intercambiabile selezionata in base alle esigenze delle lavorazioni in corso.
La lavorazione al maglio si effettuava con la barra di ferro incandescente, mantenuta con delle apposite tenaglie: i colpi che si susseguivano ne mutavano la forma secondo i desideri del forgiatore che, dandole l’inclinazione necessaria, la portava ad assumere la forma voluta. La plasticità del ferro, propriamente definita «malleabilità», durava finché era rovente – tanto che ancora si dice «battere il ferro finché è caldo» –, poiché il metallo, raffreddandosi, si irrigidiva rapidamente. In funzione della lavorazione in corso, poteva essere necessario utilizzare frequenze di percussione del maglio diverse e, per farlo, si modificavano i giri della ruota, variandone la quantità di acqua che l’alimentava con apposite saracinesche e paratoie. Nei magli piú evoluti tali chiuse venivano manovrate tramite una lunga stanga, non di rado azionata dallo stesso fabbro con pedaliera, una sorta di antesignano acceleratore. La combustione della forgia, infine, era esaltata mediante la continua immissione di aria, fornita dall’azionamento di grossi mantici, presto azionati anch’essi da un similare dispositivo idraulico. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LO SVEGLIARINO MONASTICO
«Fratelli, è ora di pregare...»
Quando le Regole monastiche fissarono i tempi da dedicare alla preghiera, i religiosi e le religiose dovettero far fronte alla necessità di rispettare gli appuntamenti fissati nel corso del giorno e... della notte. Un’esigenza che, nel XIII secolo, portò alla fabbricazione degli svegliarini, antesignani dei moderni orologi
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er circa sette secoli e fino a pochi decenni or sono,il tic tac è stato sinonimo di orologio, percezione sensoriale del continuo fluire del tempo, verificato di tanto in tanto portando all’orecchio il piccolo congegno che regola i nostri giorni col suo incedere. Paradossalmente, alla nascita era molto piú grande e non serviva di giorno, dal momento che il sole col suo corso apparente ne suggeriva il trascorrere insieme alla fame. Di notte, invece, cessavano entrambi i riferimenti e, poiché non tutti potevano dormire, si avvertí l’esigenza di valutare con discreta precisione il passare delle ore, in ambito militare e religioso. Vigilia, infatti, fu definito il turno di guardia notturno speso dalle ronde a perlustrare il perimetro dell’accampamento; veglia, invece, la parentesi notturna spesa dai sacerdoti a pregare. Ambedue le attività erano finalizzate alla salvezza della comunità d’appartenenza, e andavano perciò svolte con la massima dedizione e meticolosità. Notte dopo notte, si avvicendavano le ronde e le salmodie, che, per avere le medesime scansioni, richiesero un idoneo segnatempo, cioè un congegno in grado di quantizzare e rendere misurabile una realtà astratta come il tempo. Le soluzioni escogitate furono sempre ricavate per analogia – come ancora lo sono – con il di-
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panarsi di fenomeni fisici noti e ripetibili; nettamente diverso, invece, fu il sistema adottato per produrli, contemplando il defluire dell’acqua da un recipiente, il consumarsi di una candela o lo scendere di un peso, solo per menzionare i piú frequenti. Nei corpi di guardia legionari ben presto fu adottata una clessidra per i turni di ronda: strumento ideale per lo scopo, poiché non indica l’ora, ma la durata di un intervallo, simile a un nostro cronometro sportivo.
Sveglia nel cuore della notte
Il problema della determinazione dell’orario notturno si ripresentò ai monaci nel Tardo Medioevo, i quali, a differenza dei legionari, non avevano interesse a conoscere la durata della veglia, determinata dalla preghiera, ma il suo inizio nel cuore della notte. Occorreva, pertanto, uno strumento in grado di svegliarli. Certamente esistevano orologi ad acqua in grado di battere le ore, ma erano estremamente complessi, costosi, poco affidabili e dal suono flebile: occorreva invece un congegno robusto, semplice, relativamente economico e, soprattutto, dal suono squillante, capace di destare dal sonno profondo. In pratica una sveglia, diffusa dalla squilla per antonomasia, una campanella bronzea: questo il criterio informatore dello
In alto uno dei primi svegliatori monastici. Nella pagina accanto Mantova. La Torre dell’Orologio, costruita nel 1472 su progetto di Luca Fancelli e dotata, nel 1473, dell’orologio tuttora visibile realizzato da Bartolomeo Manfredi, in grado di segnalare le fasi lunari, i giorni adatti per moltissime attività lavorative e la posizione del sole nei segni zodiacali.
TECNOLOGIA CIVILE
Svegliarino monastico
svegliarino o svegliatore monastico, precursore dell’orologio meccanico, nonché una delle maggiori invenzioni medievali. La presenza accertata di svegliarini sul finire del XIII secolo e il diffondersi, in pratica sincrono, degli orologi da torre e da campanile nei primi decenni del XIV, sembrano ribadire che il primo, piú semplice, sia anche il piú antico. In estrema sintesi, lo svegliarino potrebbe essere considerato un marcatempo, che, tuttavia, già possiede i presupposti meccanici dell’orologio, da cui si differenzia per la funzione e per non avere un dispositivo di compensazione della diversa durata delle ore nel corso dell’anno. Lo svegliatore fu la soluzione meccanica di un’esigenza implicita nella regola monastica, in generale, e benedettina in particolare. Nell’arco della giornata, infatti, la preghiera si sarebbe dovuta elevare soprattutto in coincidenza con le fasi salienti della Passione di Cristo, che, ricalcate sulla liturgia ebraica, scandivano un avvicendarsi di ore per il culto, definite canoniche, che per le Costituzioni Apostoliche furono 6: Lodi, al sorgere del Sole; Prima, alle 6; Terza, intorno alle 9,00; Sesta, intorno alle 12,00; Nona, intorno alle 15,00; Vespri, intorno al tramonto. San Francesco relazionò tali ore alla Passione di Cristo, associando a ciascuna un tema di meditazione: Compieta, Cristo prega nel Getsemani; Mattutino, è interrogato dal Sinedrio; Ora prima, è davanti a Pilato; Ora terza, è condannato; Ora sesta, è crocifisso; Ora nona, muore sulla Croce; Vespro, risorge.
«Sette volte al giorno ti ho lodato»
Ma era stato san Benedetto a introdurre la Compieta, la settima ora canonica, sebbene studi piú accurati l’abbiano già individuata in epoche precedenti nelle regioni orientali, e anche la preghiera notturna con le interruzioni del riposo. Cosí al capitolo XVI della Regola di san Benedetto: «1. “Sette volte al giorno ti ho lodato” dice il profeta; 2. Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta; 3. Perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: “Sette volte al giorno ti ho lodato”; 4. Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: “Nel mezzo della notte 38
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mi alzavo per lodarti”; 5. Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore “per le opere della sua giustizia” e cioè alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza». Come già detto, il vero interesse dei monaci non consisteva nel conoscere l’ora esatta del giorno, che poteva essere fornita da qualsiasi meridiana, ma l’inizio di ogni ora canonica col suono di una campanella. Dal punto di vista meccanico, uno svegliatore monastico si può considerare un congegno marcatempo azionato da un motore a gravità, un peso che rilascia l’energia potenziale di posizione di cui dispone, in seguito di quella elastica di una molla, in maniera frazionata tramite un meccanismo di parzializzazione. Quest’ultimo ne blocca l’immediata cessione, frazionandone il moto – di discesa del peso o di ritorno della molla – in tante oscillazioni regolari, il cui isocronismo era uniformato da un dispositivo a bilanciere, altrimenti detto scappamento. Quanto all’indicazione, è fornita acusticamente con una campanella azionata da un secondo peso – oppure otticamente con un indice fisso su un quadrante ruotante, diviso in 24 o in 12 ore –, con un meccanismo riattivato giorno per giorno, scampanellata dopo scampanellata. Essendo però il meccanismo escogitato incapace di compensare le variazioni dell’ora, con esso
In alto macchina in ferro battuto di orologio trecentesco da campanile o da torre a due pesi; si distinguono i tamburi di legno, privi però delle corde per la marcia e per la suoneria. In basso macchina dell’orologio astronomico della cattedrale di Besançon.
A destra disegno di Leonardo da Vinci tratto dal Codice Madrid I, f. 27 v, nel quale si può riconoscere un meccanismo simile a un orologio. Madrid, Biblioteca Nacional. Qui sotto macchina in ferro battuto di orologio trecentesco da campanile, o da torre, a due pesi, rispettivamente per la marcia e l’azionamento della suoneria.
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comparve pure il compito di tenerlo a ora, cosí rievocato nel Liber Unum Cistercenisum, agli inizi del XII secolo: «Sacrista debet temperare horologium, et ipsum facere sonare ante matutinas pro se excitando quotidie». L’impiego della segnalazione acustica divenne basilare negli orologi da campanile, in quanto poteva cosí fornire l’indicazione dell’ora all’interno delle case, nonché di notte, senza osservazione del quadrante, mentre la macchina diverrà a sua volta sempre piú complessa, suscitando l’interesse persino di Leonardo da Vinci. Dal punto di vista funzionale uno svegliatore monastico, come poi un qualsiasi orologio, si compone di tre sistemi meccanici: quelli del tempo, di controllo e della suoneria. Il primo comprende a sua volta tre sottosistemi: il peso motore con una ruota maestra del tempo; la ruota caterina; la verga e il foliot. In linea di massima il primo sottosistema consta di una ruota motrice, solidale a un tamburo su cui è avvolta la fune alla quale sta vincolato il peso, detta ruota maestra del tempo, e albero del tempo è definito il suo asse. Lo scendere del peso la pone in rotazione, fornendo l’energia cinetica all’intero congegno, alimentazione parzializzata dallo scappamento, per evitarne l’incontrollata caduta. Già Erone, che nei suoi automata si avvalse di analoghi motori a gravità, frenò il peso, facendo scendere in una canna del miglio, fatto fuoriuscire lentamente dal basso della stessa mediante un apposito foro a luce variabile, fungente perciò da acceleratore.
A forma di croce
La soluzione, inventata forse alla metà dell’XI secolo, consisteva in una ruota ad arpioni, detta «di scappamento» o «caterina» (curioso nome, scelto per la somiglianza con la ruota usata nel martirio della santa) e un bilanciere a verga, un albero sormontato da una verga munita di due pesi regolabili equidistanti dall’albero, che dava all’insieme una forma di croce a T, detto foliot. Sull’albero, piú in basso, due palette eccentriche divaricate fra loro di circa 100° e distanziate quanto il diametro della caterina, per cui ora l’una ora l’altra erano impegnate da uno dei suoi denti, rigorosamente di numero dispari. A ogni mezza oscillazione, la coppia di rotazione della ruota, infatti, urtando uno di tali eccentrici faceva girare l’albero di circa 90° fino al suo disimpegno, coincidente con l’urto dell’altro, che, dopo averlo arrestato, lo faceva girare nel verso opposto ancora di 90°, ripetendosi continuamente il ciclo. Ogni volta che l’eccentrico superiore batteva sul dente della caterina, si 40
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COME FUNZIONAVA UN BILANCIERE L’insieme di verga e albero, simile a una T, subiva una rotazione di 90° in un verso e poi un’analoga nel verso contrario. Dovendo la durata dell’oscillazione coincidere con un secondo la si regolava esattamente variando l’inerzia del bilanciere, piú breve spostando i pesi verso l’interno, piú lunga verso l’esterno. 1. Verga del bilanciere, montata in testa d’albero sagomato fatto girare dalla ruota caterina, munita di due pesi a distanza regolabile, per ottenere una minore o maggiore durata dell’oscillazione. 2. Estremamente semplice il contenitore della macchina, costituito da un doppio listello di ferro, piegato ad angolo retto in modo da formare una sorta di embrionale cassa. 3. Il quadrante era suddiviso abitualmente in 24 ore, espletando lo svegliatore la sua funzione di giorno e di notte. Essendo però solo per la seconda insostituibile, in molti esemplari ne aveva appena 12. 4. La maggiore ruota era quella solidale al tamburo, fatta girare dalla discesa del peso. I suoi denti ostentavano un profilo dritto con le
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centrali sfalsate di 100°, dalla verga superiore e dai pesi a distanza variabile. 7. La variazione della distanza dei pesi del bilanciere era stabilita mediante apposite tacche, perfettamente simmetriche, che ne garantivano l’esatta collocazione rispetto all’asse. 8. Ruota caterina, cosiddetta per la sua somiglianza con la supposta ruota, vanamente usata nel martirio della santa.
udiva un «tic», e quando batteva l’eccentrico inferiore, immediatamente dopo, si udiva un «tac»: il «tic tac» dell’orologio iniziò cosí a scandire la storia, trovando fra i piú accorti osservatori persino Dante, che ce ne tramanda questa poetica testimonianza nel X Canto del Paradiso: «L’una parte l’altra tira ed urge / tin tin sonando con sí dolce nota». Essendo il moto alternativo dell’albero degli eccentrici un’oscillazione, per variarne la frequenza, bastava variarne l’inerzia, aumentando o diminuendo la distanza dal centro di rotazione dei due pesi mobili del foliot. Si poteva cosí adeguare la durata dell’ora meccanica a quella solare, riducendo lo scarto: alla funzione era preposto un apposito incaricato, che aveva anche cura di sollevare il peso motore. Un treno d’ingranaggi, ruote e pignoni – realizzati secondo rapporti tesi a riprodurre la proporzione fra secondi, minuti e ore – provvedeva alla rotazione del quadrante e, piú tardi, delle sole lancette. Il movimento di ogni ruota, a partire dalla maestra, avveniva con velocità angolare crescente, per cui ancora Dante, nel XXIV Canto del Paradiso, cosí osservò: «È come cerchi in tempia d’oriuoli / si giran che ‘l primo a pon mente / quieto par, e l’ultimo che voli...».
Un peso per scuotere la campanella 8
creste smussate, al pari di tutte le altre ruote, e non avevano piú l’approssimata connotazione triangolare utilizzata sin dall’epoca classica. 5. Il moto dello svegliatore era alimentato dalla discesa di un peso, non esistendo ancora molle di sufficiente potenza. Negli orologi da torre, poi, le molle non vennero mai adottate, ottenendosi per la loro altezza durate di discese, e quindi autonomie di carica, anche di vari giorni. 6. Ricostruzione virtuale dell’intero congegno di scappamento, formato dalla ruota caterina, dall’albero sagomato a due palette
Per la suoneria, ovvero per lo scuotimento della campanella, o in alcuni esemplari solo del suo batocchio, vi era un secondo peso, con relativa fune avvolta su di un secondo tamburo, piú piccolo, indipendente dal primo. Il comando di attivazione avveniva con un pirolino sporgente da uno dei fori presenti sul quadrante: questo, la ruota dentata maggiore della macchina e la piú lenta, percorrendo un unico giro ogni 12 o 24 ore, possedeva, infatti, lungo la sua corona 12 o 24 fori, all’interno di uno dei quali, corrispondente all’ora prestabilita, si infilava il pirolino, lasciandolo sporgere di alcuni centimetri. Un indice solidale a un freno agente sul secondo tamburo era collocato poco dinnanzi al quadrante e, quando il pirolino andava a urtarlo, lo spostava di quel tanto sufficiente a sbloccare il tamburo, che posto in rotazione dal peso, con una piccola biella, scuoteva il braccio della campanella, e i conseguenti rintocchi agivano da sveglia. Esaurita la segnalazione lo svegliarino andava ricaricato, avvolgendo le sue due funi sui rispettivi tamburi, e rimesso a ora, magari comparandolo a una meridiana, pronto cosí a svegliare i monaci la notte successiva. Al pari del rombo del cannone, suo coetaneo, quel ticchettio durò fino ai nostri giorni, zittito, di recente, dallo strapotere elettronico. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LA BUSSOLA MAGNETICA
Guai a perderla!
Sulle due pagine Firenze, Galleria degli Uffizi, Stanzino delle Matematiche. Affresco attribuito a Giulio Parigi (1571-1635) raffigurante l’Amalfitano Flavio Gioia, tradizionalmente designato come l’inventore della bussola. 1587-1609. A sinistra bussola da tasca in avorio realizzata dal tedesco Hans Troschel (1585-1628). 1592. Ecouen, Musée National de la Renaissance.
I sistemi per orientarsi in mare e a terra si diffusero probabilmente già prima dell’era cristiana. La svolta decisiva si ebbe però con la bussola, di cui la tradizione attribuisce l’invenzione all’Amalfitano Flavio Gioia: un personaggio geniale, ma forse… mai realmente esistito! TECNOLOGIA MEDIEVALE
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l pari della maggior parte delle invenzioni anche la bussola, come noi la conosciamo, non comparve all’improvviso, ma dopo un lungo itinerario evolutivo, i cui prodromi già si scorgono in età ellenistica. La bussola, infatti, è uno strumento che soddisfa un’esigenza nautica basilare: l’indicazione di una direttrice precisa, facente capo a un punto di riferimento fisso invisibile, valido perciò anche col cielo coperto o nella nebbia piú fitta. Oggi, per la medesima finalità, si usano girobussole, radiobussole, bussole satellitari e in caso d’emergenza, persino, bussole solari, strumenti che forniscono prestazioni identiche, ognuno, però, col proprio criterio informatore rispetto a quello puramente magnetico della bussola per antonomasia, che la tradizione attribuisce all’amalfitano Flavio Gioia. La comune definizione di bussola ribadisce la correttezza di reputare tale, pure nel passato, ogni strumento capace di fornire quell’indicazione, prescindendo dalla sua concezione. Gli antichi navigavano per cabotaggio, senza cioè perdere di vista la terraferma, tecnica agevole nel Mediterraneo, bacino di ampia escursione in longitudine e poco in latitudine, ma, per evitare peripli interminabili, si affrontarono, forse già dalla fine del II millennio a.C., rotte dirette dal Nord Africa alla Sicilia, alla Calabria o alla Sardegna. In quei viaggi, per uno o due giorni, non si scorgeva piú alcun lembo di terra, e la direzione seguita dipendeva perciò da osservazioni astronomiche, diurne e notturne e, verosimilmente, da un semplice strumento efficace per l’orientamento, non a caso definito «bussola pelasgica», di oscura origine ma di chiaro funzionamento. Sopra l’Equatore, nell’emisfero settentrionale,
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Bussola l’ombra proiettata da un’asta verticale, per esempio di un obelisco, a mezzogiorno indica esattamente il Nord geografico, che ci si trovi a Londra, a Roma o ad Alessandria. Coincidenza accertata sin dal V secolo a.C. e verificata con la costruzione delle meridiane, sempre fisse con lo gnomone inclinato o verticale.
L’osservazione dell’ombra
Tuttavia, esistevano anche piccole meridiane con quadrante a disco, utilizzabili come bussole solari: un disco di legno o di terracotta, della grandezza di un piatto, con una cannuccia al centro e vari cerchi concentrici divisi da raggi o tacche orarie. Posta sull’acqua di un bacile, che smorzava il rollio della nave rendendola orizzontale, con l’ascendere del sole evidenziava il contrarsi dell’ombra, che, giunta al minimo, indicava il Mezzogiorno e il Nord. Usando una clessidra, ora dopo ora, si portava a coincidere l’ombra con i successivi raggi, per cui la prima direttrice continuava a indicare il Nord fino al tramonto. I Romani conobbero tale strumento e non ne mutarono il nome greco di pinax, letteralmente «quadretto». Da essa la tavola con incisa una stella a otto punte, ciascuna relativa a un vento come la Torre dei Venti di Atene, che, stando alle fonti, era dipinta sulla tolda delle navi da guerra romane, munita di una rudimentale alidada (regolo atto a individuare la direzione di una visuale, n.d.r.) a due traguardi, che indicava il Nord, nonché il Mezzodí locale. Apprese le elementari cognizioni, lo strumento era di sicuro affidamento, ovviamente col sole, e perciò utilissimo anche per i cammellieri che attraversavano il deserto, forse persino piú che per i timonieri. Un esemplare del genere è forse
Sulle due pagine, in basso ciottoli di cordierite, minerale che cambia colore al mutare della polarizzazione della luce secondo la sua direzione di provenienza. Tale proprietà potrebbe averne permesso l’uso con funzioni simili a quelle della bussola. Nella pagina accanto il disco rinvenuto a Qumran (Israele) e la ricostruzione del suo possibile funzionamento. Gerusalemme, Israel Museum. La presenza dei cerchi concentrici graduati è l’elemento su cui si fonda la sua interpretazione come bussola pelasgica.
quello ritrovato a Qumran in Israele: i cerchi concentrici sono incisioni, in cui probabilmente si versava un liquido scuro, vino o inchiostro, o fungevano da riscontro per verificare prima della lettura l’indispensabile orizzontalità. La molteplicità delle graduazioni concentriche, alquanto approssimate, le fa ritenere mere indicazioni, reiterate per la diversa lunghezza dell’ombra. Se ne legge in Plinio il Vecchio una implicita allusione, di enorme rilevanza poiché certifica, con le riserve del caso, l’uso della bussola negli itinerari terrestri. Scrive infatti: «Unum a Pelusio per harenas, in quo, nisi calami defixi regant, via non reperitur, subinde aura vestigia operiente» (NH VI, 167); cosí la traduzione: «Il primo [itinerario] da Pelusio (città dell’Egitto, sul Delta del Nilo, n.d.r.) attraversa il deserto, dove la via non si trova se non conducano cannucce infisse saldamente, dato che il vento cancella immediatamente ogni orma». In altre parole le cannucce indicano la direzione, infisse al centro della pinax, e non è casuale che, nell’archetipo della bussola magnetica, l’ago stesse sospeso su una cannuccia, calamo, appunto, da cui calamita!
LA BUSSOLA DI QUMRAN
1. Liquido colorato, forse vino rosso, che, sfiorando uno dei cerchi concentrici, confermava la perfetta orizzontalità dello strumento, necessaria per stabilire l’esatta lunghezza dell’ombra.
2. Il bordo rialzato impediva la fuoriuscita del liquido per la messa in orizzontale dello strumento e il suo recupero a osservazione conclusa.
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Le pietre solari
Nel deserto il sole non scompare quasi mai, ma sul mare succede spesso, per cui orientarsi con la sua ombra lasciava un certo margine di rischio, enormemente superiore quando si navigava nei mari nordici, tra nebbie, brume e tempeste. Fino a pochi anni fa la capacità di orientarsi in quell’opaca immensità costituiva un mistero, ma di recente se ne è compresa la modalità dando concretezza alla leggenda delle pietre solari. In mineralogia è noto il curioso fenomeno del pleocroismo, ovvero la peculiarità di alcuni minerali trasparenti di mutare colore secondo l’angolo d’incidenza dei raggi solari che li trapassano. Una manifestazione (che si definisce anisotropia ottica) data dalla diversa polarizzazione che subisce la luce all’interno del minerale, in base alla sua direzione di provenienza. Tipico il caso della tormalina, che può considerarsi una Polaroid naturale, e piú ancora
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3. In latino cannuccia si diceva calamus, e, intinta nell’inchiostro – da cui calamaio – si usava per scrivere. Nella bussola solare era un piccolo gnomone, facilmente sfilabile e sostituibile.
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4. Le incisioni sul disco di Qumran sono profonde, concentriche e progressivamente piú basse rispetto al bordo, caratteristiche che ne suggeriscono l’impiego come livelle.
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Bussola
LA VERSIONE DI PETRUS... 1 2
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della iolite o della cordierite, che mutano la colorazione dal giallo al blu violetto. In pratica, ruotando un vetrino di cordierite, la luce da esso filtrata da celeste diverrà d’un violetto intenso solo in coincidenza con una precisa direzione, trasformandosi cosí in una sorta di bussola, capace di funzionare anche con il sole coperto, avvenendo ugualmente la polarizzazione della sua luce. Con questa tecnica i Vichinghi si orientavano nelle navigazioni settentrionali, dove la visione del sole è un’eccezione piú che la norma. In molte chiese d’Islanda nel corso del XIV secolo è segnalata la conservazione di tali misteriose pietre, e le saghe che hanno tramandato la vicenda di Olaf II di Norvegia, re e poi santo (995-1030, narrano questo episodio: «Il cielo era coperto e cosí scuro che nessuno poteva sapere da che parte fosse il sole. “Dov’è il sole?”, chiede il re Olaf a Sigurd.“In questa direzione”, gli risponde Sigurd stendendo il braccio. E il re essendosi fatta portare una pietra solare, la tenne orizzontale e riconobbe, dopo averla girata, che la risposta era giusta». Quei mari furono solcati dalle navi romane, come ebbe a vantarsene nelle sue Res Gestae Augusto, e riesce difficile immaginare 46
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Ricostruzione grafica esplosa della bussola magnetica di Petrus Peregrinus. 1. Diottra rotante con le due mire alzate. 2. Ghiera di bloccaggio del vetro. 3. Perno della ghiera. 4. Perno con ago magnetico. 5. Bossolo di legno. 6. Coperchio di vetro con gradazione incisa.
una navigazione fin quasi a Thule, forse le Orcadi o l’Islanda, senza tale ausilio, trattandosi di un minerale facile da reperire e di un fenomeno facile da osservare. Per trovare i primi riferimenti a una bussola magnetica propriamente detta, occorre attendere il 1269 e l’assedio angioino di Lucera, dove stavano asserragliati gli ultimi Saraceni fedeli agli Svevi. Nella circostanza fu convocato l’ingegnere francese Petrus Peregrinus di Maricourt, il quale vi rinvenne un curioso strumento, la buxidia, o pixidis nautica, che cosí descrisse: «Si prende un recipiente di legno, di rame o di altra materia, che sia rotondo come una scodella, poco profondo e sufficientemente ampio, e vi si pone sopra una copertura di materiale trasparente, come vetro o cristallo; meglio ancora se tutto il contenitore fosse di materia trasparente. Si mette poi in mezzo a esso un asse fisso di rame o d’argento, inserendo le sue estremità sul coperchio e sul fondo del vaso; è necessario che in mezzo all’asse vi siano due fori che s’incrocino perpendicolarmente, per uno dei quali passi uno stilo di ferro a maniera d’ago, per l’altro uno stilo d’argento o rame che incroci quello di ferro ortogonalmente».
...E QUELLA DI AMALFI 1 3
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Si trattava di una rudimentale bussola magnetica a secco, che seguiva quella in acqua da lui in precedenza ricordata con queste parole: «È risaputo da tutti gli esperti che quando un ferro allungato tocca la pietra “calamita” ed è fissato a una cannuccia leggera, ed è posto in acqua, una parte si muoverà verso la stella che è chiamata nautica, perché vicina al Polo; ma è verità che non si muove verso detta stella, ma verso il Polo».
L’inventore inventato
Pertanto, intorno alla metà del XIII secolo, esisteva una bussola magnetica ad ago rotante in un bossolo, che tuttavia non poteva funzionare in navigazione per il moto del mare. E qui entra in gioco la Repubblica d’Amalfi, con Flavio Gioia. Ma, come è stato dimostrato da vari studiosi d’indubbia competenza, quel nome è l’esito di un equivoco, che scambiò un riferimento all’invenzione della bussola di Flavio (Biondo) per il supposto inventore Flavio (Gioia). Un Giovanni Gioia, di Ravello o di Positano, sembrerebbe però avere avuto realmente un ruolo nella vicenda, perfezionando la pixidis
Ricostruzione virtuale esplosa della bussola magnetica amalfitana. 1. Anello di bloccaggio del vetro. 2. Aghi magnetici sottostanti la rosa di carta. 3. Coperchio del bossolo. 4. Bossolo interno oscillante.
nautica prima del 1300 e forse addirittura prima del 1269. Essendo la sua famiglia ritenuta originaria della Puglia, può darsi che abbia migliorato proprio lo strumento descritto da Petrus Peregrinus, ad Amalfi. In pratica applicò sopra l’ago magnetico un disco di carta con sopra effigiata una rosa dei venti a otto punte, non a caso analoga alla croce d’Amalfi e poi di Malta. A farne fede i nomi dei venti della rosa, tutti di matrice arabo-bizantina, tranne uno: la Tramontana, che spira da Nord, direzione che ad Amalfi coincide con Tramonti, una sua frazione a settentrione, e indicata da un giglio, esplicito riferimento al sovrano angioino. Posto quel leggero disco su un perno in un bossolo libero di oscillare, divenne da quel momento il complemento ideale della navigazione. Di certo, soltanto con una bussola a rosa si sarebbero potute tracciare le carte nautiche, il cui primo esemplare ritrovato risale al 1296, per alcuni copia di un originale del 1250, Lo compasso de navegare, mentre le citazioni di carte del genere le fanno rimontare alla prima metà di quel secolo. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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BLUE JEANS
All’inizio fu (forse) una faccenda di marinai
Miniatura raffigurante un tessitore, da un manoscritto inglese del XIII sec. Cambridge, Trinity College. L’uomo lavora a un telaio orizzontale, azionato dai pedali: si tratta della piú antica rappresentazione a oggi
nota di questo tipo di macchinario. Nella pagina accanto San Francisco. I dipendenti della Levi Strauss & Co. posano di fronte all’ingresso dell’azienda nella sede di Battery Street.
Nata per confezionare abiti da lavoro, la tela azzurra dei blue jeans è divenuta una delle icone vestimentarie dell’Occidente. La sua origine, però, è probabilmente molto piú antica di quanto si possa immaginare. E si legherebbe addirittura ai primi esperimenti di tessitura compiuti dall’uomo
L’
invenzione del tessuto si colloca tra le piú importanti della storia e ha contribuito, letteralmente, in maniera vistosa, al benessere dell’uomo, proteggendolo dal freddo e dal caldo. Con origini risalenti alla preistoria, fu, in genere, la risultante di due operazioni distinte: la filatura, consistente nella realizzazione del filo che formerà il tessuto, e la tessitura, cioè l’intreccio del filo medesimo, da cui scaturisce una tela. Se il filo è stato da sempre ottenuto per la coesione di fibre sottoposte a torsione, il modo per ottenerlo, dopo una lunghissima fase esclusivamente manuale, con rocca e fuso (peraltro non ancora del tutto scomparsa), agli inizi del XIII secolo, in Occidente, progredí notevolmente, grazie all’adozione del filatoio – detto anche «arcolaio» –, che, meccanizzandola, migliorò la filatura in termini di qualità e quantità. In pratica, le fibre da filare accorpate sulla rocca erano tirate con la mano per formare una piccola striscia che, fissata al rocchetto, attraverso il foro dell’aspo, per la sua rapida rotazione, ottenuta con la trasmissione a cinghia TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Blue jeans
LE TRAME SVELATE ARMATURA A TELA
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ARMATURA A SAIA
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Rappresentazione grafica dell’armatura a tela (in alto) e dell’armatura a saia (in basso), con le relative messe in carta.
da una grande ruota azionata prima a mano e poi a pedale, si torceva, originando il filo e lo avvolgeva sullo stesso rocchetto. Intorno al 1470 il filatoio si perfezionò con l’adozione delle alette, raffigurate anche in un disegno di Leonardo, che distribuivano uniformemente il filo sul rocchetto. Per ogni tipo di fibra si avevano fili di diverso spessore, igroscopicità e resistenza, peculiarità che si trasferivano al relativo tessuto caratterizzandolo. La macchina con la quale si trasformavano i filati in tessuti era il telaio, i cui primi esemplari rimontano al III millennio a.C. Modelli appena piú evoluti consistevano in una sorta di cornice rettangolare, che presto si differenziò in due allestimenti fondamentali: verticale, per poter disporre il tessuto perpendicolarmente al suolo, e orizzontale, con lo stesso parallelo. In entrambi i casi, tra i due lati corti opposti del telaio venivano tesi filamenti fissi, detti «ordito», ai quali si andava a intrecciare, con numerosi passaggi, un unico filo, detto «trama», sempre complanare al primo. Ancora in epoca molto remota, per agevolare il passaggio del filo di trama, comparve il telaio a liccio, cioè un semplice dispositivo, azionato perlopiú con un pedale, che, dopo avere diviso i fili dell’ordito in pari e dispari, li sollevava alternativamente, aprendo perciò un varco, detto «passo», al rocchetto del filo di trama, che si trasformò in una spola per spostarsi piú agevolmente. Entrata nel passo da un lato, la spola ne usciva dall’opposto per infilarsi subito, nel passo inverso, senza mai essere interrotta, per cui l’insieme delle sue estremità laterali andavano a formare la cimosa. Tra un passaggio e l’altro della spola, un apposito pettine serrava sui precedenti il filo della trama, battendolo, e dando cosí al tessuto la necessaria compattezza. Ogni anomalo intreccio, o nodo, finiva perciò tra i rebbi del pettine, inceppandolo o spezzandosi, da cui il detto secondo il quale «tutti i nodi vengono al pettine».
Soluzioni inedite
L’intreccio tra l’ordito e la trama, oggi definito «armatura», restò per millenni a tela, di gran lunga il piú semplice, in quanto si poteva ricavare incrociando, alternativamente, fili di ordito con fili di trama. Il tessuto ottenuto, proprio in ragione di questa costruzione simmetrica, presenta il diritto uguale al rovescio e per realizzarlo sono sufficienti due soli licci, e quando ottenuto da un’unica fibra ne conservava il nome: lana, cotone, lino, ecc., una corrispondenza rimasta a lungo immutata. L’idea di intrecciare 50
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Miniatura raffigurante l’etrusca Tanaquilla, che fu moglie del re Tarquinio Prisco, impegnata al telaio, da una edizione francese del De claris mulieribus, l’opera di Giovanni Boccaccio con biografie di illustri dame, dall’antichità a Giovanna regina di Napoli. 1402. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La donna usa un telaio di cui si distinguono i subbi d’ordito (in alto) e di tessuto (in basso), il corpo dei licci, perpendicolare al telaio propriamente detto, la cassa battente che apre il passo alla navetta, il pettine sollevato da una carrucola, e la navetta.
DUE ALLEATI PREZIOSI CONTRO IL CALDO Meritano un breve cenno le specie botaniche dalle quali si estraggono le fibre di base del fustagno, cioè il lino e il cotone. Il filo di lino veniva tratto dalle piante di Linum usitatissimum, appositamente coltivate in Palestina e ritenute forse la prima fibra vegetale utilizzata per la tessitura. Si ricavava dal fusto di una pianta alta dagli 80 ai 120 cm, poco ramificata e con piccoli fiori, di un colore variabile dal bianco all’azzurro intenso, che fioriscono solo per un giorno. La pianta del lino veniva estirpata dal terreno in modo da avere la massima lunghezza della fibra, e quindi fatta macerare, separandone successivamente le fibre tessili dai resti legnosi. Dal punto di vista storico il lino risulta ampiamente coltivato dagli Egiziani, dai Babilonesi e dai Fenici un po’ dovunque. Ma solo dopo l’inizio del XIV secolo se ne ebbe una vera diffusione in Occidente, tanto da non risentire la concorrenza del cotone introdotto dagli Arabi. Dal punto di vista merceologico il lino risulta composto per il 70% di cellulosa, e, in quanto tale, risulta anallergico, abbastanza igroscopico e permeabile alla traspirazione, per cui è ideale per confezionare abbigliamenti estivi, tovagliati,
lenzuola, asciugamani e, in generale, tessuti destinati a trovarsi a stretto contatto con la pelle. Altra peculiarità che lo rende ottimo per la biancheria d’uso quotidiano è il sopportare egregiamente numerosi lavaggi, divenendo ancora piú morbido, senza contare che non avendo le sue fibre pelurie superficiali non ne rilasciano, e sono perciò efficaci per strofinacci. Quanto al cotone, le sue prime tracce risalgono a tre millenni or sono, in Mesopotamia, e forse intorno all’VIII secolo a.C. se ne tentò l’acclimatazione su vasta scala in Assiria, con specie provenienti dalla valle dell’Indo, esperimento interrotto dalla caduta di Ninive. Pur essendo ampiamente utilizzato come fibra tessile, l’impiego in abbigliamento risale alla metà del Settecento, dopo l’invenzione di una macchina sgranatrice capace di dividere le fibre dai semi in maniera meccanica e veloce. Tra le sue peculiarità, vi è il forte assorbimento dell’umidità, in alcuni casi pari al doppio del suo peso, per cui il sudore è facilmente assorbito e smaltito generando una situazione di benessere in chi lo indossa in estate. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Blue jeans
fibre differenti forse si ebbe già nell’antichità, ma è nel Medioevo che un gran numero di ibridi del genere furono escogitati e prodotti sistematicamente, esaltandone le peculiarità con varie armature, diverse fra loro e inedite. L’armatura va immaginata un po’ come una molecola, cioè come l’ultima frazione di tessuto che ne possiede tutte le caratteristiche ed è definita da uno schema grafico convenzionale, detto «messa in carta» (vedi l’illustrazione in questa pagina). Al di là della modalità d’intreccio fra i fili di ordito e di trama, esisteva una diversa sollecitazione meccanica: infatti, essendo lunghi quanto l’intera tela, i primi lavoravano in trazione, cioè restando tesi da adeguati pesi; mentre i fili di trama erano privi di qualsiasi tensione. Per tale motivo si finí con lo scegliere il filo d’ordito piú resistente di quello di trama. Tale differenziazione fu il probabile avvio della realizzazione di tessuti a due tipi di filati, cosí da poterne ricavare ibridi capaci di abbinare le peculiarità d’entrambe le fibre. Forse agli inizi del Medioevo all’armatura a tela si affiancò l’armatura a saia a tre, nella quale gli accavallamenti dei fili di ordito su quelli di trama avevano una ripetitività 2-1. In pratica ogni filo di ordito passava sopra due fili di trama e poi sotto il successivo, ripetendo poi lo schema per l’intera larghezza del tessuto, e conferendogli perciò una nervatura obliqua, per lo scarto dei passaggi sopra e sotto. A parità di resistenza, il risultato fu una stoffa piú morbida, che, adattandosi meglio alle deformazioni, rendeva confortevole il vestiario. Per la sua asimmetria, l’armatura a saia fu ideale per la tessitura con due filati a diversa resistenza, poiché richiedevano soltanto telai a tre licci.
A destra stampa francese settecentesca raffigurante un marinaio italiano. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. L’uomo indossa un paio di calzoni di tela blu che, con ogni probabilità, è quella prodotta a Chieri e che ebbe vasta diffusione soprattutto a Genova, tanto da essere identificata, appunto, come «blu di Genova». Nella pagina accanto ritratto di Giuseppe Garibaldi, durante la spedizione dei Mille. 1860. Palermo, Museo del Risorgimento. Il generale indossa un paio di pantaloni di tela blu, del tipo di quelli diffusi fra i marinai e i lavoratori del porto di Genova (vedi l’illustrazione in questa pagina), che possono a buon diritto essere ritenuti il prototipo dei blue jeans tuttora diffusi in tutto il mondo.
Quel tessuto venuto dall’Egitto
Di un tessuto del genere, detto «fustagno» (nome che forse deriva da quello di El-Fustat, capitale dell’Egitto dal 641 al 969, oggi compresa nella Cairo moderna, in cui ne è attestata la produzione), si ha notizia sin dall’Alto Medioevo. Composto di lino per l’ordito e di cotone per la trama, fu a lungo reputato pregiato e quindi attivamente scambiato. Stando alle fonti, ne esisteva una varietà in cui il filo di lino impiegato era tinto di blu con l’indaco: considerando che l’esposizione del filo di ordito su quello di trama era del 66% sul diritto del tessuto, uguale a quello della trama sull’ordito sul rovescio, quel particolare fustagno appariva blu al diritto e bianco naturale al rovescio. Grazie alle sue qualità, il fustagno divenne in breve molto richiesto, nonostante il prezzo ele52
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vato, stimolandone la riproduzione: nel XIII secolo viene esportato in tutta Europa dai nuovi centri di produzione italiana, fra i quali spicca Milano. A Chieri, invece, presso Torino, si avviò poco dopo la produzione di una varietà di colore blu intenso, ottenuta forse solo sostituendo l’indaco con una tinta ricavata dalle foglie e dai fusti del guado (Isatis tinctoria): un tessuto in apparenza del tutto nuovo e presto esportato dal porto di Genova in Olanda, Inghilterra e, piú tardi, in America. Con il crollo del costo del cotone, il fustagno decadde da tessuto pregiato a popolare e, per la sua resistenza, stimolò alcune imitazioni, come il denim, la cui maggiore diversità era proprio nell’aver sempre l’ordito blu e la trama bianconaturale. Il nome di questa tela – ma non tutti concordano in proposito – deriverebbe dalla corruzione di «serge de Nîmes», denominazione con la quale si indicava una stoffa prodotta appunto nella città francese. È comunque certo che fra Nîmes e Chieri si innescò un’accesa concorrenza, proprio per la produzione di un fustagno molto robusto, di colore blu, a partire dal XIV-XV secolo. Ed è altrettanto certo che una robusta tela blu di Chieri si esportava dal porto di Genova, dove, tra l’altro, era usata per confezionare i sacchi delle vele delle navi e per ricoprire le merci accatastate nel porto. E negli stessi anni gli scaricatori del porto ligure iniziarono a farsi confezionare brache fatte con quella robustissima tela blu. Una seconda ipotesi sostiene invece che la denominazione inglese scaturí dall’uso, da parte dei marinai genovesi, di analoghe brache dall’inconfondibile colore, assurto in breve a «blu di Genova», che, nella storpiatura della parlata britannica, sarebbe divenuto blue jeans. In entrambi i casi la trasformazione da teli a indumento avvenne a Genova, mentre il termine inglese jean è accertato dalla seconda metà del Quattrocento, quando dal suo porto iniziò l’esportazione in grandi quantità di tale tessuto, che in breve s’impose in tutto il mondo. Quasi quattro secoli piú tardi, nel 1853, un ebreo tedesco emigrato a San Francisco in California, Levi Strauss (1829-1902), riebbe l’idea di realizzare, in piena corsa all’oro, pantaloni indistruttibili a uso dei minatori, muniti questa volta di cinque tasche. E il successo fu tale da farne ancora oggi il capo d’abbigliamento, maschile e femminile, piú prodotto e indossato al mondo: se mai fosse stato necessario a Levi Strauss un testimonial per quel prodotto, nessuno avrebbe potuto esserlo meglio dell’Eroe dei Due Mondi, che era solito indossarlo! TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL VOLO UMANO
Alla conquista del cielo
Secondo la leggenda, i primi «aviatori» della storia furono Dedalo e Icaro, il cui tentativo, però, fallí tragicamente. Quell’insuccesso, tuttavia, non scoraggiò i posteri e, già dall’antichità classica, si ebbero ripetuti tentativi di librarsi in volo. Molti dei quali, se dobbiamo prestare fede alle cronache, dovettero anche ottenere esiti piú che positivi, facendo alzare nell’aria curiosi e bizzarri velivoli... 54
TECNOLOGIA MEDIEVALE
P
arlare di «volo», per l’antichità classica e per il Medioevo, è forse eccessivo, ma ciò non equivale a negare ogni tentativo, piú o meno riuscito, di sollevarsi o di librarsi nell’aria, tanto che di episodi del genere se ne contano molteplici, di cui ci sono pervenute altrettante menzioni. Ambientate in varie parti del pianeta, esse si succedono, a partire dall’età classica, nelle raffigurazioni, nelle cronache e nelle leggende, in Oriente come in Occidente. Due i principi fisici alle loro spalle: sollevarsi con mezzi piú leggeri dell’aria l’uno, librarsi con mezzi piú pesanti l’altro. In altre parole, galleggiarvi sopra passivamente o mantenervisi sopra attivamente, differenza analoga a quella che vi è fra una mongolfiera e un aeroplano, come pure tra una zattera e un aliscafo. A posteriori, ne è derivata la supposizione che il distacco da terra con un mezzo piú pesante, poiché richiede una sorgente energetica abbastanza potente – un motore –, fosse la piú recente. Certamente, fu subito chiaro che gli uc-
celli assolvevano a tale esigenza con i loro poderosi muscoli pettorali, ma, con altrettanta evidenza, le foglie, che ne erano prive, si sollevavano ugualmente a ogni folata di vento, come del resto anche le falde di cenere su di un rogo, spinte dalla forza ascensionale dell’aria calda.
Lanci notturni
In Cina quel fenomeno fu presto recepito in entrambe le estrinsecazioni portando sin dall’antichità, grazie alla disponibilità di ottima carta, sia alla realizzazione d’involucri per aria calda, sia di superfici alari per cervi volanti. I primi non differivano granché dalle attuali buste per il pane. In corrispondenza della loro apertura, orientata in basso, si collocò una torcia, la cui fiamma riscaldava in pochi istanti l’aria contenuta nell’involucro. Ne scaturiva un’antesignana mini mongolfiera, che subito si sollevava. I lanci avvenivano con le tenebre e si proponevano come una surreale inversione delle stelle cadenti, dal momento che, esauritasi in breve la
Miniatura raffigurante il tentativo di volo compiuto da Simon Mago alla presenza dell’imperatore Nerone. X sec. Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile. Secondo la tradizione, l’uomo si sarebbe servito di una misteriosa macchina alare.
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TECNOLOGIA CIVILE
Volo umano
fiamma, quei punti luminosi svanivano nel cielo notturno. Via via si aumentarono le dimensioni del sacchetto e della torcia, che presto si trasformarono in capaci palloni e in ampi bracieri, essendo evidente la correlazione tra potenzialità ascensionale e volume dell’involucro, che permetteva loro di sollevare persino il peso di un uomo. Per una persona di piccola costituzione, infatti, sarebbe bastata una sfera di una decina di metri di diametro: sull’attuazione dell’ipotesi, tuttavia, non si hanno riscontri. Dove però le tracce a terra del sollevamento umano con un mezzo piú leggero sono per molti studiosi di gran lunga piú enigmatiche, o per altri, invece, piú eloquenti, è in Perú, sul deserto altopiano di Nazca. Lí centinaia di linee rette, lunghe fino a 65 km, disegni e composizioni geometriche di proporzioni colossali, si susseguono su quella sorta d’immensa lavagna. A prima vista, quel groviglio di striature sembra suggerire solo un faticoso passatempo collettivo, implicante lo spostamento di migliaia di metri cubi di pietrisco, o un partecipato rituale religioso. Per dare un’idea dimensionale del fenomeno si tratta di oltre 13 000 linee, che formano circa 800 disegni, alcuni dei quali lunghi quasi 200 m! A quei «geoglifi», neologismo co56
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niato per tentare di definirne la tipologia, si possono attribuire finalità rituali, quando a soggetto animale, ma nel caso di tracciati interminabili e di complesse composizioni geometriche, a che cosa potevano servire? Vi è poi un’altra e risaputa constatazione: tutti i tracciati appaiano nitidi se osservati da un centinaio di metri d’altezza. Al di sotto, però, sono indistinguibili e, molto al di sopra, invisibili. È dunque quasi scontato ipotizzare che chiunque li abbia eseguiti fosse in grado di poterli rimirare dall’alto, magari per dirigerne la corretta esecuzione, sollevandosi sul deserto forse con rudimentali mongolfiere ad aria calda, prodotta da roghi le cui vestigia nerastre ancora si distinguono, nel rigido crepuscolo mattutino. Di recente se ne è effettuata la verifica sperimentale, constatandone la perfetta congruità.
L’aquilone del samurai
Tornando all’Estremo Oriente, molto piú dettagliate e circostanziate risultano le notizie relative al sollevamento umano con mezzi piú pesanti dell’aria, quali i cervi volanti giganti. Una nota leggenda giapponese, per esempio, narra di un nobile samurai, Minamoto no Tametomo, che, durante la guerra Genpei (combattuta con-
tro il clan rivale dei Taira; 1180-85, n.d.r.), fu condannato all’esilio da scontare sull’inospitale isola di Oshima dell’arcipelago di Izu. A rendere la pena oltremodo intollerabile fu l’associazione nell’espiazione del giovane figlio, ingiustizia che spinse il disgraziato genitore a costruire un grande aquilone, per permettere al ragazzo di guadagnare la terraferma. Il volo riuscí e, fatta salva la felice conclusione, il racconto rievoca la vicenda di Dedalo e Icaro, lasciando intravedere fra le due avventure aeree una possibile correlazione: i contatti fra i due mondi, del resto, non sono mai mancati, dal momento che la Via della Seta era già battuta da millenni. Per rintracciare, però, riferimenti scrupolosi e cronologicamente determinati sugli aquiloni giganti con equipaggio a bordo, bisogna attendere il 1285 e Il Milione di Marco Polo. Stando alla sua narrazione, infatti, quando una nave doveva intraprendere un lungo viaggio, i marinai, per trarre auspici sul propizio spirare dei venti, costruivano un aquilone gigante, fissandolo a ben otto funi di manovra. La macchina, sebbene di vimini e carta, pesava alcune tonnellate, stazza che cresceva ulteriormente quando vi si vincolava con robuste cinghie il pilota, quasi sempre inconsapevole. All’epoca, infatti, i locali ritenevano, e non senza ragione, che so-
Nella pagina accanto deserto di Nazca (Perú). Uno dei grandi geoglifi «disegnati» sul tavolato roccioso. La constatazione che le grandi composizioni siano leggibili soltanto da una certa altezza autorizza a immaginare che i loro autori avessero messo a punto macchine o dispositivi tali da permettere il volo. In basso Cina. Lo spettacolare effetto creato dal lancio di lanterne volanti. Il principio che fa volare nel cielo le piccole torce è il medesimo della mongolfiera, in quanto basato sul riscaldamento dell’aria contenuta dall’interno, in questo caso di carta.
lamente un folle o un ubriaco, potessero sollevarsi su di un siffatto veicolo. A ogni buon conto, vincendo le intuibili resistenze e difficoltà, se il decollo avveniva regolarmente e rapidamente il viaggio non avrebbe incontrato ostacoli; in caso contrario sarebbe stato meglio rinviarlo. Marco Polo non si sofferma a ricordare la sorte dell’aviatore coatto, ma se ne deve presumere l’abituale felice atterraggio, e il successo nella temeraria impresa doveva garantirgli vasta ammirazione e... nuove bevute!
Bombardieri ante litteram
In quel XIII secolo l’aquilone gigante aveva già alle sue spalle un notevolissimo stato di servizio. Da altre fonti abbastanza attendibili e concordi, infatti, si apprende che quei colossi di carta e vimini conobbero, oltre un millennio prima, un ampio impiego militare: sul finire del III secolo a.C., per esempio, sembra che il celebre generale cinese Han-Sin sia atterrato con il suo aquilone dinanzi alle truppe schierate. Dopo tale premessa, un lunghissimo elenco di analoghe performance: dalla dinastia Song (9601279) s’iniziarono a costruire aquiloni da bombardamento, facendo loro trasportare piccole cariche di polvere pirica di circa 500 gr, a diverse centinaia dimetri d’altezza, in maniera da dirigerli sulla verticale del bersaglio Mediante rudimentali micce se ne provocava la caduta e l’esplosione sul nemico: la precisione era scarsa, ma l’effetto terrifico enorme. Ancora maggiore, quando a piombare dal cielo non furono piú rumorosi mortaretti, ma agguerriti incursori, procedura anche questa riportata da vari cronisti cinesi coevi. Stando alle loro rievocazioni la fortezza di Koryo, in Corea, fu espugnata impiegando per la prima volta assaltatori aviotrasportati, ciascuno dei quali condotto sull’obiettivo da un aquilone. Il criterio informatore alle spalle degli aquiloni giganti va quasi certamente ricondotto alla vela: come questa, catturando il vento, spingeva sul mare una barca, cosí una simile, catturando le termiche, avrebbe sollevato una leggera navicella o il solo pilota. Il «velivolo», termine mai come in questo caso appropriato, avrebbe assunto perciò l’aspetto di un’enorme vela orizzontale. Come, poi, fossero fatti quei giganti dell’aria lo sappiamo con assoluta attendibilità, dal momento che i pescatori di un villaggio marittimo del Giappone, in ossequio a una tradizione ultramillenaria, hanno continuato a costruirli con bambú e carta, anno dopo anno, fino agli inizi del secolo scorso. Per l’esattezza fino al 1914, quando iniziò a difettare la pregiata carta orienTECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA CIVILE
Volo umano
Qui sopra ricostruzione dell’ala posticcia dello scienziato arabo Abbas ibn Firnas: da notare i due alettoni che avrebbero dovuto esaltarne le prestazioni. In basso la torre della cattedrale di Cordova, già minareto dell’allora Grande Moschea, da cui Abbas ibn Firnas spiccò il suo (breve) volo.
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TECNOLOGIA MEDIEVALE
tale, la cui resistenza non differiva da quella delle vele, giusto in tempo per lasciarcene un’eloquente testimonianza fotografica. La carta si rivelò insostituibile, tanto che in seguito, pur non difettando il bambú, nessuno seppe piú dove procurarsela. Per secoli, infatti, quel complesso lavoro collettivo era iniziato proprio con l’approntamento degli spessi fogli, necessari per coprire i circa 300 mq della grande orditura e dei relativi bambú di supporto. Quasi tutti gli abitanti si dedicavano a legare le canne del telaio su di un’apposita spianata, realizzando cosí un elastico e leggero reticolo, al quale fissavano la carta con stringhe vegetali. Ultimata la costruzione del colossale aquilone, pesante alcune tonnellate e largo una trentina di metri per una decina di lunghezza, lo si tra-
Sulle due pagine, da sinistra una rarissima foto del 1914 che mostra alcuni abitanti di un misero villaggio costiero del mare interno del Giappone, intenti alla costruzione di un aquilone gigante; l’aquilone appena terminato e trasportato sulla spiaggia, viene inclinato per catturare la spinta ascensionale del monsone; la popolazione del villaggio che ha costruito l’aquilone intenta a governarlo tramite spesse gomene.
sportava sulla spiaggia, dove bastava esporlo appena inclinato ai forti monsoni per vederlo subito sollevare. A trattenerlo e a manovrarlo con spesse gomene, provvedevano centinaia di persone, le stesse che lo avevano costruito. Una seconda tipologia di dispositivi piú pesanti dell’aria che permettevano brevi voli librati vanta un’altrettanto remota anzianità, ma in Occidente: è quella delle superfici alari posticce, la cui ultima derivazione è il deltaplano. Anche di queste si rintracciano menzioni sin dagli inizi della nostra era, come quella ambientata alla presenza di Nerone con Simon Mago per protagonista. Questi, tentando di effettuare un volo librato, si lanciò dalla cima di un edificio, planando velocemente, prestazione che i cristiani attribuirono subito all’aiuto diabolico.
Stando però alle laconiche fonti laiche, Simone per quella temeraria dimostrazione, piú che sulle potenze infernali, fece affidamento su di una misteriosa macchina alare, forse ali posticce o forse un embrionale paracadute, come quelli già da secoli usati dagli acrobati cinesi. Quale che fosse il congegno, di certo non funzionò a dovere e l’incauto aviatore si schiantò al suolo, rompendosi le gambe, e accreditando cosí la leggenda di un intervento diretto di san Pietro, per porre fine al blasfemo volo.
Dall’alto del minareto
In alto la vetrata dell’abbazia di Malmesbury dedicata a Eilmer di Malmesbury, realizzata nel 1920. Il suo tentativo di volo è descritto nelle Gesta Regum Anglorum di William di Malmesbury. A sinistra l’abbazia di Malmesbury (Wiltshire, Inghilterra sud-occidentale), dal cui campanile si lanciò il monaco benedettino Eilmer.
Di ali posticce si avvalsero anche altri due misconosciuti pionieri del volo librato, vissuti quasi nella stessa epoca e finiti per analoghe ragioni entrambi con le gambe fratturate. Il primo, la cui statua si staglia dinanzi all’aeroporto di Baghdad, fu uno scienziato arabo, Abbas ibn Firnas, nato nell’810 nei pressi di Cordova. All’età di 65 anni, dopo avere a lungo studiato il volo degli uccelli, si costruí leggere ali di vimini e tela e si lanciò dall’alto del minareto della Grande Moschea della città (poi trasformata in cattedrale). Restò in aria una decina di secondi e poi, non potendo governare quella macchina priva di coda, ricadde malamente, rompendosi le gambe e fratturandosi alcune costole. Morí una dozzina d’anni dopo, e pur avendo ben compreso la ragione della caduta, non ebbe piú l’opportunità di ritentare il volo. Eilmer di Malmesbury, il secondo, nacque intorno al 980 in Inghilterra e divenne monaco benedettino presso l’abbazia di Malmesbury, dove si distinse per le conoscenze scientifiche. Tra il 1002 e il 1010, costruite ali posticce, si lanciò dal campanile dell’abbazia e, dopo una planata di circa 200-300 m, mancando anche a lui i piani di coda per governare il volo, atterrò malamente, fratturandosi le gambe. Ridisegnò la sua macchina, ma l’abate non gli consentí altre prove. Oggi è ricordato in una vetrata policroma della cattedrale. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL TORNIO
Macchine rotanti
Alla ruota e dunque al tornio, una delle acquisizioni tecnologiche piú importanti di sempre, siamo soliti associare l’inizio della produzione seriale dei vasi in ceramica. In realtà, quella rivoluzionaria invenzione fece compiere un salto di qualità formidabile anche a molte altre attività artigianali e industriali
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nche a una riflessione sommaria non sfugge che l’evoluzione tecnologica, e con essa la civiltà derivante, iniziò ad avanzare quando venne scoperta l’utilità fornita dalla rotazione di un corpo. Il fenomeno, che nella sua manifestazione piú plateale è noto come «invenzione della ruota», ebbe nella realtà ben altri e non meno importanti sviluppi, dando origine a un ampio ventaglio di oggetti. Dal punto di vista formale, questi si possono immaginare ottenuti dalla rotazione del loro profilo intorno a un asse, da cui la definizione di «solidi di rotazione»: un rullo, per esempio, si ottiene facendo ruotare di 360° un rettangolo, una sfera da un semicerchio, un cono da un triangolo rettangolo, ecc. Il vantaggio che garantivano fu subito evidente, poiché risultavano equilibrati in movimento o da fermi: un giavellotto, o una freccia, seguono una precisa traiettoria solo se ottenuti con aste tonde e diritte; una macina gira regolarmente se perfettamente cilindrica; una colonna o un’anfora stanno salde in piedi se prive di asimmetrie. Eccezion fatta per l’argilla plastica, i solidi di rotazione si ottengono per asportazione delle parti superflue da un blocco maggiore, che, implicitamente, già contiene quanto si desidera realizzare. La procedura è identica a quella della scultura, sebbene non si proceda per rimozione di schegge a discrezione dell’artista, ma di trucioli, con la meticolosa precisione della macchina. La simmetria di un oggetto in molti casi risponde soprattutto a un bisogno estetico, ma in 60
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molti altri è indispensabile per il funzionamento del congegno d’appartenenza. Un’anfora sbilenca è pur sempre un contenitore, ma uno stantuffo irregolare, fatto muovere in un cilindro altrettanto irregolare, sfiata senza produrre alcun effetto! Nelle sue innumerevoli applicazioni, la macchina inventata da Ctesibio – che si riduce appunto a uno stantuffo che scorre a perfetta tenuta in un cilindro – funziona solo a condizione di disporre di quei due componenti geometricamente precisi, con una strettissima corrispondenza tra il diametro interno del cilindro e quello esterno dello stantuffo.
Un risultato straordinario
Tanto minore è lo scarto fra i due, tanto maggiore il rendimento della macchina. Non essendo, però, meccanicamente possibile, ora come allora, realizzare pezzi del genere privi di interstizio fra loro, o «tolleranza», la si eliminava con guarnizioni, dette «fasce elastiche». Nella pompa alternativa bicilindrica di Huelva Valverde, risalente al IV secolo, tra cilindri e stantuffi vi è una tolleranza di appena 0,1 mm, un risultato straordinario ottenuto, stando alla testimonianza di Filone, utilizzando un trapano per i primi e un tornio per i secondi. Sappiamo come fosse fatto all’epoca un trapano, non altrettanto possiamo dire di un tornio, che di tutte le macchine utensili è, ancora oggi, Un laboratorio per la tornitura del legno, litografia a colori realizzata per la Revue de l’Education Nouvelle. XIX sec. Parigi, Bibliotheque des Arts Decoratifs.
la piú complessa. Certamente doveva avere una affinità con la ruota del vasaio, non a caso definita impropriamente «tornio», e, in particolare, ancora l’asse verticale, come si può vedere in alcune raffigurazioni egiziane. Poiché la suddetta ruota viene fatta risalire al IV millennio a.C. in Mesopotamia, gli archetipi dei torni dovrebbero essere di poco posteriori, in origine limitati alla sola lavorazione del legno. In essi, tuttavia, la rotazione non si otteneva agendo con i piedi, essendo d’infima potenza, ma attraverso l’alternativa trazione di una fune avvolta sul loro albero, per cui questo tornio richiedeva – e in alcune regioni arretrate lo richiede ancora –, due persone, una per tirare la corda e l’altra per manovrare il tagliente. In pratica un «motore» identico a quello del trapano, in cui però la rotazione non fa girare una punta, bensí un massello di legno, che un ferro affilato modella asportando trucioli: del resto il tornio è un trapano alla rovescia che invece di praticare fori cilindrici, realizza pezzi altrettanto cilindrici. In età classica l’asse del tornio divenne orizzontale, una mutazione che ne perfezionò le prestazioni e consentí di usarlo anche per i metalli, poggiando il tagliante sopra un supporto stabile, e permettendo anche di lavorarvi pezzi relativamente lunghi, con precisione rag62
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guardevole. Zampe di sedie e di tavoli di raffinata fattura, rinvenuti a Pompei, ne confermano l’esistenza che trova proprio nella città vesuviana un singolare riscontro, poiché nel 1878, tra i ruderi di un locale che fu subito identificato come l’officina di un tornitore – faber tornator –, vennero alla luce: «quindici scalpelli di ferro per lavorare al tornio; e due ordigni che hanno da un lato un ferro, acuminati, i quali, piazzati uno dirimpetto all’altro, venivano armati sul tornio per lavorare il legno» (Bollettino dell’Istituto di Corr. archeol. di Roma, 1878).
Nella pagina accanto stampa tedesca del 1601 raffigurante un tornitore al lavoro. Il tornio non differisce sensibilmente da quello di due secoli prima, essendo con ogni probabilità del medesimo tipo di quello in uso già da molte generazioni, e dunque paragonabile all’esemplare illustrato nel disegno dell’Hausbuch von Schloss Wolfegg (qui accanto). Sulle due pagine illustrazione tratta dal compendio noto col nome di Hausbuch von Schloss Wolfegg, databile al 1480. Sulla sinistra compare la raffigurazione, rarissima, di un tornio a mano. Gli altri disegni rappresentano macchinari vari e una scena di assedio a una torre.
La rotazione, tuttavia, era sempre ottenuta dalla trazione alternativa di una corda, poiché il tagliente collocato appena al di sotto del diametro orizzontale del pezzo in lavorazione, incideva solo nel verso antiorario. Il tornio propriamente detto consisteva in un albero rotante orizzontale, cui si fissava per incastro il blocco di legno da lavorare: la corsa di un metro della cinghia lo avrebbe trascinato appena per una decina di giri. Ciononostante, quei rozzi torni consentirono la realizzazione di elementi metallici, in genere di bronzo, di utilizzo corrente,
quali cardini di porte, maschi delle chiavi d’arresto, modioli delle macchine da lancio, ecc. Lavorazioni certificate dalle inconfondibili rigature lasciate dal tagliente. E questo tipo di tornio fu quello che, dopo una lunga pausa, ricomparve nel Medioevo, con modifiche trascurabili.
Una lunga assenza
Dopo la dissoluzione dell’impero romano d’Occidente, infatti, per lunghi secoli, del tornio si perdono sia la menzione che le tracce, come del resto dei lavori piú precisi e rifiniti, incomTECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA CIVILE
Tornio
patibili con la terribile precarietà esistenziale. Soltanto dopo il Mille, quando ebbe inizio la ripresa demografico-culturale, l’antica macchina utensile ricomparve, rievocando le ultime connotazioni maturate in età classica, ma subendo rapidamente una vistosa evoluzione. Le prime raffigurazioni pervenuteci, contenute perlopiú in codici miniati, la mostrano infatti installata su una sorta di cavalletto, a quattro zampe leggermente divaricate, sorreggenti due traverse parallele orizzontali, molto vicine fra loro, definite attualmente «bancale», con la funzione di sostegno e guida. Tre supporti verticali vi scorrono dentro, bloccati con cunei nella posizione prescelta: quello all’estremità di sinistra sostiene l’albero col rudimentale mandrino, detto «trascinatore», che trattiene il pezzo in lavorazione; quello centrale, detto «portautensile», sorregge il tagliente; quello di destra porta la contropunta, che allineata all’albero, garantisce la perfetta centratura del pezzo.
Con l’ausilio di un pedale
Pur essendo ancora ottenuta tramite una cinghia arrotolata intorno l’albero, la rotazione si avvale dell’ausilio di un pedale. La cinghia, infatti, ha un capo fissato all’asta flessibile e l’altro allo stesso pedale: spingendolo con il piede si tirava la cinghia, facendo cosí girare l’albero e flettere l’asta; esaurita la corsa del pedale, l’asta, raddrizzandosi, recuperava la cinghia, facendo nuovamente girare l’albero, ma al contrario col solito moto alternativo. Rarissimi e di scarsissima potenza sono i torni a manovella, impiegati forse per la costruzione dei primi orologi meccanici. L’asta, in genere, era di dimensioni considerevoli ed era perciò collocata a distanza dal tornio, o fissata al soffitto del locale, sovrastandolo. In seguito, con l’adozione dell’elemento elastico ad arco, il suo stativo si vincolò al cavalletto, rendendo la macchina piú compatta e di minor ingombro. Per incrementare la potenza, esigenza sentita soprattutto per la lavorazione dei metalli, intorno al XIV secolo comparve il tornio a balestra, nel quale l’elemento elastico necessario per il recupero della cinghia era ancora un arco, ma del tipo di quello delle balestre a due foglie d’acciaio, che adottava un pedale molto piú largo. Quest’ultimo, che garantiva la forza motrice, era perciò idoneo all’azionamento con ambedue i 64
TECNOLOGIA MEDIEVALE
A RUOTA E A BALESTRA
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In alto un tornio a ruota, privo della stessa. Fabbricato in Svizzera con legno di pino e di noce, è databile al XVIII sec., ma la sua tipologia è assimilabile a quella dei modelli in uso già in epoca tardo-medievale. 3
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Qui sopra ricostruzione grafica di un tornio a balestra del XV sec.
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Ricostruzione grafica di un tornio a ruota della fine del XV sec.
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piedi da parte di un tornitore seduto, o tramite l’aiuto di un assistente, restando comunque la rotazione sempre alternata, con una decina di giri utili nel verso antiorario e un numero identico di recupero, passivi, nel verso opposto. È probabile che intorno alla metà del XV secolo, nei torni piú evoluti, per evitare la continua inversione di rotazione si montasse, dietro al trascinatore, un arpionismo d’arresto, costituito da una ruota dentata fissata all’albero posta in un tamburo, munito all’interno di un nottolino o arpione, solidale al trascinatore. In fase di ritorno della cinghia, l’arpione, saltando sul dorso dei denti della ruota, non faceva girare il tamburo, lasciandolo fermo insieme al trascinatore; nella fase di trazione, invece, impegnandosi nella cavità di un dente, lo metteva in rotazione col trascinatore. La rotazione diveniva cosí intermittente, migliorando vistosamente la qualità dei pezzi torniti.
Rotazione continua
1. La molla di rinvio, necessaria per riavvolgere la fune tirata dalla corsa del pedale, fu da un certo momento in poi, per garantire una maggiore potenza, costituita da una balestra a foglie d’acciaio, fissata a uno stativo a sua volta vincolato al tornio. 2. Il pedale, per consentire il maggior numero possibile di giri per ogni discesa, era posto all’estremità di una leva di discreta lunghezza, imperniata alla base del bancale. Si deve perciò immaginare che il piede destro fosse, di volta in volta, sollevato fin quasi all’altezza del ginocchio sinistro. 3. La contropunta, oltre a garantire il centraggio del pezzo in lavorazione, ne rendeva piú stabile la presa da parte del trascinatore, definendone con assoluta precisione l’asse di rotazione. Essendo variabile la lunghezza dei pezzi, il supporto della contropunta fu realizzato scorrevole sul bancale. 4. La cinghia che trasmetteva la rotazione della grande ruota-volano,
azionata dalla pedaliera, alla piccola ruota dell’albero del tornio, era realizzata con strisce di cuoio cucite tra loro, sistema di trasmissione che fu adottato sino al secolo scorso in tutte le macchine utensili. 5. Il moto alternativo della pedaliera era trasformato in rotatorio continuo da una biella, in genere di ferro, fissata a un perno della stessa e a un eccentrico del disco solidale alla grande ruota-volano, che fungeva perciò da manovella. Dispositivo adottato immutato sulle macchine da cucire delle nostre nonne. 6. Per consentire la necessaria forza motrice, la pedaliera venne allargata in modo da poter essere azionata con entrambi i piedi, richiedendo perciò al tornitore di stare seduto su di un apposito scanno, simile a quello dell’organista. Spesso poi, per garantirgli una maggiore concentrazione, la pedaliera era affidata a un assistente, che fungeva perciò da «motore».
Sul finire dello stesso secolo, stando alle incerte fonti disponibili, iniziò a farsi strada il tornio a rotazione continua, ma sempre azionato dal moto di un pedale. In larga massima si avvaleva di una biella, di legno o di ferro, posta tra un risalto del pedale e l’eccentrico di un disco che fungeva da manovella. Questo, a sua volta, era solidale a una spessa ruota a raggi, simile a quella dei carri, sul cui cerchione insisteva una cinghia di cuoio, che ne trasmetteva la rotazione a una seconda ruota, piú piccola, solidale all’albero del tornio. La ruota maggiore, posta in rotazione dal pedale, oltre a trasmettere la rotazione all’albero del tornio agiva da volano, stabilizzandone la rotazione e dando perciò alla macchina la necessaria inerzia. Una caratteristica che, oltre a permettere una tornitura piú agevole, ne garantiva la precisione, specialmente sui metalli, perlopiú bronzo e ottone, compromessa dalle variazioni di velocità. Il tagliente, infatti, asporta dei trucioli mentre viene fatto spostare orizzontalmente sul porta-utensile, per cui variando il numero di giri dell’albero se ne altera la regolarità. Il tornio tardo-medievale, che per quanto rievocato somigliava a una vecchia macchina da cucire familiare e di cui fu senza dubbio l’ispiratore, costituí il salto di qualità che rese possibile il decollo della meccanica di precisione, dalla produzione di orologi a quella delle armi. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA MILITARE
SPADE E PUGNALI
In due per l’arma perfetta
Se già l’uso del ferro aveva nettamente migliorato l’efficienza delle armi bianche, l’introduzione dell’acciaio fece compiere un ulteriore salto qualitativo. Fino a raggiungere condizioni ottimali con l’impiego combinato del primo e del secondo
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uando l’uso del ferro, per la sua superiore durezza e abbondanza in natura, soppiantò quello del bronzo nella fabbricazione delle armi, il nome di quel metallo si fece sinonimo di tutti gli strumenti da offesa e da difesa individuali. Cuspidi di lance, spade, pugnali e persino il semplice coltello, promossi ad attrezzi del mestiere di guerriero, divennero i «ferri» per antonomasia, e il binomio «ferro e fuoco» stigmatizzò le due estrinsecazioni piú cruente dei conflitti. Uscendo dal generico, si distinsero armi da taglio – quali spade, sciabole, scimitarre, asce e coltelli, lame che, munite di uno o due bordi affilati, erano in grado di infliggere ampie ferite e gravi amputazioni – o da punta, come lance, stocchi, punteruoli, stiletti, misericordie, pugnali e, buon ultime, baionette, armi prive di fili laterali, ma dotate di punta acuminata, capaci di causare lesioni profonde penetrando anche le cotte d’acciaio. Si distinsero ancora in lunghe, medie e corte, in base alla diversa lunghezza delle rispettive lame – compresa fra il metro abbondante delle seconde, la trentina di centimetri delle terze – e dei relativi manici delle prime, che, a loro volta, andavano dal mezzo metro delle asce agli oltre cinque delle picche. Fra gli estremi, le armi individuali, usate abitualmente nei combattimenti dalle milizie e perciò reputate leali, a differenza delle corte, molte delle quali essendo occultabili fra i vestiti erano considerate insidiose. Connotazioni tanto diversificate per forma e dimensione sottintendevano altrettante divergenze d’impiego nel combattimento, tanto che, se una spada consentiva di battersi con un avversario a breve distanza dal proprio corpo, una corta, invece, implicava uno stretto contatto fisico. Ambiti decisamente antitetici, che si avvicendavano nel corso dei confronti come altrettante fasi successive, il cui fattore comune era il progressivo decrescere delle distanze, poiché si passava dal cimento con le lance in resta a quello con le spade, per finire con i pugnali, quali che fossero.
A destra spada da conestabile (uno dei grandi ufficiali della corona di Francia) con il suo fodero. Produzione francese, 1480 circa. Parigi, Musée de l’Armée. Si tratta di un’arma da parata, quasi del tutto priva dei requisiti richiesti per un ferro utilizzabile in combattimento. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il minnesänger Corrado di Hohenburg, che, con la spada sguainata, si lancia all’inseguimento di un nemico, dal Codice Manesse. 1300-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria. Tecnicamente, quindi, si andava dagli iniziali ferri lunghi a quelli corti finali, fase che coincideva con la conclusione spesso mortale della contesa: da cui l’espressione di essere ormai «ai ferri corti», ovvero al momento piú violento e letale del combattimento.
Opposte esigenze d’impiego
Prima di approfondire alcuni aspetti dell’impiego dei ferri lunghi, medi e corti, s’impone una breve digressione sulle peculiarità tecnologiche e metallurgiche delle lame nell’ultimo scorcio del Medioevo. Per i fabbri che sin dall’antichità si cimentarono con la produzione di lame, il massimo problema da superare derivava dalle opposte esigenze d’impiego, notificate dal mondo militare. La lama, soprattutto se lunga, doveva risultare abbastanza dura da riuscire a penetrare o a tranciare scudi e corazze senza deformarsi e, al contempo, anche abbastanza elastica dal sopportare gli urti piú violenti e le sollecitazioni piú gravi senza danneggiarsi, cioè senza compromettere la sua parte tagliente, o filo. La durezza si otteneva temprando acciai a basso contenuto di carbonio, tra lo 0,7 e lo 0,8%, ovvero riscaldandone la verga al calore bianco per poi immergerla nell’acqua o in soluzioni liquide di varia natura, incrementandone cosí la rigidità. La lama risultava perciò di gran lunga piú dura che in precedenza e manteneva bene il filo, ma, come ben sapevano sia i fabbri TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Spade e pugnali
B
UN NOME PER OGNI PARTE
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C
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1. La misericordia è un pugnale o uno stiletto dalla lama molto sottile, corta e a sezione triangolare, studiata per penetrare facilmente la cotta a maglie di ferro o per infilarsi tra i giunti delle piastre di corazza. 2. Lo stocco è una lunga arma bianca manesca, dall’impugnatura anch’essa molto lunga, terminante con un pomolo affusolato e con lama a sezione triangolare robusta e acuminata, destinata a ferire di punta. Fu in uso fino al XVIII sec.
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ELSA A. Pomolo; B. Manica; C. Guardia LAMA D. Coccia ; E. Forte; F. Medio; G. Filo; H. Debole; I. Cresta centrale; L. Punta A sinistra illustrazione realizzata per un Fechtbuch (trattato sul combattimento) di autore anonimo. Germania, 1485-1495. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge.
che i guerrieri, piú dure erano, piú facilmente si spezzavano! Per contro il ferro dolce, con minori contenuti di carbonio e perciò inadatto alla tempra, sottoposto alle sollecitazioni si deformava, piegandosi e perdendo del tutto il filo. La soluzione ideale per quell’antitetica esigenza sarebbe stata una sintesi delle due caratteristiche, magari utilizzate in maniera differenziata: acciaio durissimo per le facce taglienti esterne della lama e ferro dolce per l’anima interna, meglio ancora se saldate intimamente in una unica massa. E, verosimilmente, sin dall’antichità, dopo i primi deludenti tentativi, si imboccò la strada per la soluzione corretta. Alternando verghe di ferro dolce ad altre di uguali dimensioni di acciaio, riscaldando il pacchetto al calore bianco e martellandolo violentemente, gli strati si compenetravano tra loro, cioè si saldavano, creando quasi un nuovo metallo, abbastanza elastico e molto duro. Il fenomeno dipendeva dal formarsi di cementite, o piú esattamente di carburo di ferro, che, interponendosi nella microstruttura dell’acciaio, ne bloccava ogni scorrimento, rendendolo perciò rigido e molto piú duro del ferro puro, connotazione che l’improvviso raffreddamento della tempra rendeva permanente. I fabbri, col tempo, si resero conto che queste peculiarità si esaltavano ulteriormente se la verga ottenuta unendo ferro e acciaio veniva ripiegata e martellata, per cui i suoi strati si raddoppiavano. E, ancora di piú, reiterando la procedura fino a un totale di 15 piegature, che portava il numero degli strati a oltre 30 000! A dimostrazione della bontà di una lama realizzata in tal modo, le si faceva tranciare di netto l’impugnatura metallica di una mazza ferrata, e la si batteva di piatto sull’incudine, prove che non dovevano alterarne né il filo, né la forma. Poiché la sovrapposizione degli strati non avveniva in maniera regolare, come le pagine di un libro, la sezione che ne scaturiva presentava contorni curvilinei di gradevole effetto, simili a quelli di un tessuto pregiato. La successiva levigatura e lucidatura delle lame cosí ottenute ne accentuava la bellezza del disegno, procedura che raggiunse i massimi risultati presso la città di Damasco, da cui la loro definizione di «damascate», presto ritenute anche le migliori, soprattutto dopo le crociate; una fama sopravvissuta fin quasi ai nostri giorni. E, forse, proprio quella loro singolare lucentezza indusse a chiamarle armi bianche, una denominazione che si impose anche per distinguerle dopo l’avvento di quelle da fuoco. Nel combattimento i ferri medi fornivano di-
versi modi vulnerativi: la spada, impugnata a una o due mani, con una lama diritta di 1 m circa e perlopiú a doppio filo, colpiva di punta e di taglio; la scimitarra, grazie alla sua lama arcuata con un unico filo sulla parte convessa, era invece ideale per menare fendenti, specialmente dall’alto verso il basso, ovvero da cavallo; lo stocco, infine, con la lama a sezione triangolare equilatera, molto robusta e appuntita, di 1 m circa e senza alcun filo, era usato per colpire di punta, penetrando negli interstizi delle armature. Caratteristica, quest’ultima, che si adottò nei ferri corti, in particolare nelle cosiddette «misericordie», anch’esse a lama triangolare, usate per finire i cavalieri gravemente feriti (spesso su segnalazione dei prelati presenti sul campo di battaglia), infilandole nei giunti delle armature. Simili erano gli sfonda giachi e la vasta gamma di punteruoli. Perlopiú da parata, invece, era la «cinquedita», una sorta di larga e tozza daga, con diverse scanalature sulla lama.
Ferite mortali
Circa la sezione triangolare, va ricordato che era preferita, e lo è ancora nelle moderne baionette, perché infliggeva ferite difficilmente rimarginabili, non essendone i lembi speculari fra loro. Quanto alle scanalature praticate lungo l’intera lama, definite anche «colasangue», non accentuavano affatto l’emorragia, ma, piuttosto, facilitavano l’estrazione dell’arma dalla ferita, eliminando l’effetto ventosa. Qualcosa del genere viene ancora adottata sui piú sofisticati coltelli per cucina. La lama si distinse in tre segmenti, di lunghezza sostanzialmente simile: il «debole», il piú distante dall’elsa, destinato a colpire l’avversario; il «forte», l’adiacente, destinato a pararne i colpi e il «medio», di raccordo fra i due. Quando dotata di duplice filo, si chiamava «dritto» quello orientato come le nocche della mano che l’impugnava, «falso» l’altro. Un accenno infine, dopo la lama, merita il fornimento, costituito dall’elsa e dal pomolo, che permette l’impugnatura e il maneggio delle armi bianche, proteggendo al tempo stesso la mano, mediante un’apposita sbarra o piastra chiamata «coccia». Col Medioevo l’elsa si rese piú complessa di quella tradizionale del gladio, in modo da neutralizzare anche i fendenti scivolati lungo la lama, assumendo la denominazione di «crociata», finendo poi per fornire una protezione integrale con la forma di calotta semisferica. La sua parte terminale, il pomolo, serviva invece a bilanciare la lama, migliorandone la presa e riducendone lo stress. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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I FERRI DI CAVALLO E LE STAFFE
Una rivoluzione che parte dal basso Il rapporto tra l’uomo e il cavallo ha origini antichissime e, fin dall’inizio, se ne colsero i vantaggi non solo pratici, ma anche militari. Tuttavia, alcuni degli accessori indispensabili per l’utilizzazione ottimale delle cavalcature comparvero in epoche ben piú avanzate: tra questi, i ferri e le staffe
A
ll’affermarsi della cavalleria contribuí l’adozione di due modeste invenzioni, ambedue di origine remota, che ebbero come risultato la maggiore stabilità sulla sella: il ferro di cavallo e la staffa. A tutt’oggi, non vi sono elementi che permettano di stabilire dove e quando, in Occidente, si avviò la ferratura degli zoccoli dei cavalli. Di certo non avvenne in regioni aride per via dei loro terreni duri e compatti, tanto che nel Nordafrica, ancora oggi, gli animali impiegati nei lavori agricoli ne sono privi. Pure in Grecia la ferratura fu del tutto sconosciuta, nonostante il vasto impiego dei cavalli in pace e in guerra, e conobbe un impiego minimo presso i Romani, la cui cavalleria legionaria mai divenne un’arma autonoma, con cariche e scontri, e rimase sempre fanteria montata. Dalle fonti, infatti, traspare un’assidua attenzione riservata agli zoccoli dei cavalli, reputati basilari per il benessere dell’animale e per il suo impiego ottimale. Sappiamo che nei casi di scheggiature o ferite si applicavano alla zampa stivaletti in pelle per mantenervi a contatto impiastri medicamentosi, e non di rado anche dei sandali dalla suola di ferro sotto gli zoccoli, detti ipposandali, destinati secondo alcuni studiosi a preservarli dall’usura eccessiva nei lunghi spostamenti. Un distico di Catullo, che qui riportiamo, viene ritenuto un’allusione alla ferratura degli zoccoli, ma, in realtà, rievoca la forte presa esercitata nel fango da 70
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Nella pagina accanto un giovane nobile cinese a cavallo, pittura su rotolo di Qian Xuan. 1235-1300. Londra, British Museum. Si noti come il cavaliere sia ben saldo in sella, grazie alle staffe.
una siffatta calzatura, adattata anche ai bovini e ai muli adibiti al traino dei carri: Et supinum animum in gravi derelinquere caeno / Ferream ut soleam tenaci in voragine mula (E abbandonare un cuore supino in pesante melma / come la mula lascia nel denso fango la suola di ferro; Carme XVII, vv. 25-26). L’ipotesi preservativa, comunque, appare poco plausibile, dal momento che i cavalli, allo stato brado, si muovono continuamente su terreni misti senza alcun danno o usura di sorta agli zoccoli. Peraltro un cavallo cosí calzato non avrebbe potuto marciare a lungo, e meno che mai sarebbe riuscito a farlo senza scivolare, ad andature veloci e su pendenze accentuate. Mongoli, Berberi, Persiani e numerose altre etnie percorrevano enormi distanze su terreni duri e rocciosi sempre in groppa a cavalli sferrati, senza eccessive conseguenze per i loro zoccoli. Appare assurdo, perciò, vedere negli ipposandali delle calzature da viaggio o ferri di cavallo archetipali!
Una spessa piastra di ferro
L’archeologia ha ritrovato un discreto numero di questi sandali, che, per la peculiare connotazione sono risultati sempre di facile interpretazione e ricostruzione. In linea di massima consistevano, come accennato, in una spessa piastra di ferro, dai bordi rialzati, munita di un
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Ferri di cavallo e staffe
L’IPPOSANDALO, UNA «SCARPA» CONTRO QUELLE ACUMINATE INSIDIE NASCOSTE
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1. Gancio di fissaggio posteriore di un ipposandalo romano, per la stringa di bloccaggio allo zoccolo del cavallo. 2. Spessa piastra di ferro, che fungeva da suola sotto lo zoccolo del cavallo.
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3. Ricostruzione grafica di uno zoccolo di cavallo che calza un ipposandalo, debitamente allacciato. 4. Particolare del passaggio nei ganci di fissaggio della stringa di bloccaggio dell’ipposandalo. 5. Particolare della modalità di calzatura intorno allo zoccolo equino di un ipposandalo romano.
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Con ogni probabilità, l’ipposandalo veniva utilizzato solo in previsione di spostamenti in zone dove si temeva l’uso dei triboli da parte del nemico
6. Ricostruzione grafica di un tribolo romano, il chiodo con tre cuspidi di sostegno sempre a terra e la quarta vulnerante sempre alzata verticalmente.
anello anteriore e di un gancio posteriore, nonché di due o piú alette laterali con risvolto esterno, per le stringhe di fissaggio. Le alette poi, in ferro dolce, con un solo colpo di martello si ripiegavano sullo zoccolo, cosicché, insieme alle stringhe, impedivano alla sottostante piastra di spostarsi o di staccarsi. Il frequente rinvenimento di ipposandali frammisti ai resti di armi o di proietti non può essere casuale; e dobbiamo perciò associarli alle operazioni campali piuttosto che ai trasporti civili, e con una motivazione nettamente diversa da quella dei ferri di cavallo, propriamente detti. La spessa suola metallica, infatti, a differenza del ferro, copriva completamente la pianta dello zoccolo, impedendogli perciò qualsiasi contatto diretto col suolo: una soluzione pessima per l’aderenza in marcia, ma indispensabile per attraversare i terreni cosparsi di triboli, i micidiali chiodi a quattro punte che ferivano militi e cavalli in modo insidioso, bloccandoli come le odierne mine antiuomo. Calzando un ipposandalo, invece, la cuspide verticale del tribolo non riusciva a trapassarne la suola, mentre il sovrastante peso del cavallo lo faceva affondare nel terreno, rendendolo innocuo e per l’animale e per gli uomini che lo seguivano ricalcandone, scrupolosamente, le orme. Logico concludere che gli ipposandali fossero applicati ai cavalli, ai muli e ai buoi in prossimità o in previsione dei triboli e subito tolti al cessare della minaccia, sciogliendo le stringhe. Tornando alla ferratura propriamente detta, per alcuni studiosi rimonterebbe, sia pure a livello
embrionale, al VI secolo a.C., incentivata dalla disponibilità del ferro e dalla capacità di lavorarlo. I Galli e forse i Celti, pertanto, sembrerebbero essere stati i primi a usarla per proteggere gli zoccoli dei cavalli, come provano i rinvenimenti in tombe nelle quali cavallo e cavaliere furono sepolti insieme. Dopo la conquista della Gallia, i Romani appresero quella tecnica e forse la perfezionarono, ma non l’adottarono diffusamente per la ricordata marginalità della cavalleria nelle legioni. Solo a partire dall’VIII secolo si registra un sensibile aumento del ricorso alla ferratura, e rimonta al 910 il primo testo con riferimenti ai ferri e ai chiodi che, spesso, i cavalieri usavano portare con sé.
Un’arte vera e propria
Il ricorso alla ferratura crebbe con l’avvento della cavalleria pesante, che, costretta all’adozione di cavalli di grande taglia per sostenere i ponderosi cavalieri corazzati, richiese una maggiore stabilità sul terreno. La ferratura si trasformò cosí in una esigenza tattica, ma ancora non divenne un uso generalizzato. Quest’ultimo si ebbe con le crociate, quando lo scontro basato sull’urto impose al sistema d’arma lancia-uomo-destriero la massima saldezza e coesione. Tuttavia, solo nel XV secolo si cominciò a studiare la maniera migliore di ferrare i cavalli, giungendo a una sorta di riconoscimento ufficiale della mascalcía (dall’antico maliscalcìa, derivato da maliscalco, cioè maniscalco, è il termine che indica appunto l’arte della ferratura,
Ipposandalo romano in ottimo stato di conservazione, sebbene la bandella di fissaggio anteriore (sulla destra) risulti leggermente piegata. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Ferri di cavallo e staffe
n.d.r.). Ciononostante, ci vollero ancora molti decenni di ricerche, prove e tentativi perché la ferratura venisse intesa innanzitutto come protezione dello zoccolo, senza alterare le sue funzioni naturali, e, secondariamente, come ausilio per migliorare l’aderenza, applicandosi perciò anche ad altri animali da traino. Piú ancora della ferratura degli zoccoli, fu l’introduzione della staffa a consentire di stare in sella in maniera meno precaria, favorendo perciò il combattimento per urto con il cavallo lanciato e, quindi, implicitamente, l’avvento effettivo della cavalleria.
fornire un saldo appoggio consentiva una congrua postura fisiologica. Non è un caso che Galeno e Ippocrate accennino ai problemi che colpivano le gambe dei cavalieri, costrette a penzolare per ore dalla sella, inerti e distese con il corpo ripiegato all’indietro. La staffa mutò drasticamente la maniera di cavalcare, la sella, il morso e persino i cavalli, imprimendo all’equitazione civile e militare un evidente salto di qualità. Col suo impiego divennero possibili prestazioni altrimenti precluse come, per esempio, tirare con l’arco in corsa, azione in cui eccellevano Unni e Mongoli. La procedura, infatti, implicava una posizione eretta e stabile, a gambe tese e a briglia sciolta, per mantenere una distanza abbastanza costante dal terreno, indispensabile per la corretta mira. Per non parlare, poi, dei vantaggi nel maneggio della lancia, dello scudo pesante e dell’armatura, consentiti solo dalla sua adozione. O della facilità con cui permise di montare in sella e di smontarne con l’armatura indosso, operazioni in precedenza estremamente complicate, e spesso persino pericolose. E grazie alla staffa si ampliò anche il raggio operativo e, per conseguenza, la velocità media degli spostamenti.
Una svolta decisiva
L’invenzione della staffa è attribuita a un gran numero di popoli, in epoca imprecisata e comunque remota, concomitanza che sembra suggerirne piuttosto una invenzione multipla, compiuta cioè autonomamente da piú individui, distinti cronologicamente e distanti geograficamente. Anche se, come già ricordato nell’Introduzione (vedi alle pp. 6-21), il primato sembra potersi assegnare all’India, dov’era stata sperimentata e perfezionata già nel II secolo a.C. Diverso è il caso della sua adozione sistematica in ambito militare. A chi si deve l’introduzione in Occidente di quell’umile accessorio della sella? E, soprattutto, quando accadde? La risposta che trova concordi il maggior numero di studiosi ne attribuisce la paternità ad Attila (406-453), sebbene non si abbiano al riguardo conferme esplicite. Il re degli Unni forse maturò l’apprezzamento osservando che le tribú presso le quali già si usava la staffa erano piú rapide e attive nei saccheggi e, per giunta, mostravano di sopportare piú a lungo la fatica prolungata. Perciò, dopo il deludente esito della battaglia combattuta contro Flavio Ezio ai Campi Catalaunici (località francese nei pressi dell’odierna Troyes) nel giugno del 451, riorganizzando le sue orde, impose a tutte l’adozione della staffa, divenendone in tal modo se non l’ideatore, almeno il propugnatore! Quanto alle origini della staffa, come poc’anzi sottolineato, è logico anticiparla di molti secoli, essendo all’epoca già da tempo ampiamente usata presso i Mongoli, tanto piú che oltre a
Dormire in sella
In alto staffa in bronzo di fabbricazione cinese. VI-VII sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto particolare dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, in cui sono ben visibili i cavalli e l’attrezzatura necessaria per cavalcarli. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi.
È significativo al riguardo constatare che, nel corso dei trasferimenti piú lunghi, i nomadi, non di rado, con i piedi nelle staffe riuscivano anche a dormire in sella, puntellandosi con una forcella fissata sull’arcione. Persino sotto il profilo del comfort la staffa offrí non pochi vantaggi: nei climi nordici, per esempio, imbottita e allargata, proteggeva il piede dal freddo, per cui i postiglioni, dovendo montare il primo cavallo delle diligenze, se ne avvalsero sempre. I popoli germanici, sconfitti dagli Unni e dai Mongoli, adottarono per derivazione la loro staffa, divenendone perciò i veri diffusori nell’intero Occidente e nella parte orientale dell’impero romano. Non a caso le prime testimonianze scritte relative al suo impiego sono bizantine, e si leggono in un documento redatto nel 602 sotto l’imperatore Maurizio, seguite da attestazioni simili dei Franchi e dei Vichinghi, ai quali si devono pure i rari esemplari arcaici pervenutici. E a testimonianza dell’importanza acquisita dall’accessorio, non si può non ricordare Carlo Magno, che volle essere sepolto con una staffa da cavallo. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL FUOCO GRECO
Quelle acque incendiarie In epoca bizantina, solo l’imperatore e pochi artigiani specializzati conoscevano la formula del fuoco greco: una micidiale miscela di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, che, spruzzata con ordigni simili ai moderni lanciafiamme, seminava terrore e morte. Soprattutto perché l’acqua, invece di spegnerla, non faceva che rafforzarne la potenza
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a guerra navale non ha come fine la conquista del mare, bensí il controllo delle rotte per il traffico mercantile. E poiché senza navi sull’acqua non si può combattere, il confronto non mirò mai alla soppressione dei combattenti, ma, appunto, alla distruzione delle imbarcazioni. E poiché le navi, fin quasi al secolo scorso, si costruivano in legno, il fuoco assurse ad agente distruttore per antonomasia. Già Tucidide descrisse un rozzo lanciafiamme navale, ma fu col fuoco greco che, quasi un millennio piú tardi, debuttò l’arma incendiaria piú efficace. Per le cronache medievali il fuoco greco fu una terrificante miscela incendiaria inventata dai Bizantini e adottata dal 637 per la guerra navale, in grado di accendersi furiosamente al semplice contatto con l’acqua e di bruciare senza potersi spegnere persino sulla superficie del mare. La leggenda vuole che un angelo ne avesse suggerito la formula all’imperatore Costantino per meglio difendere la sua nuova capitale. Per la storia, invece, fu papa Innocenzo II che, nel 1139, la proibí, per la sua ingiustificata efferatezza, nel Secondo Concilio Lateranense. Come spiegare, però, una presa d’atto cosí tardiva per atrocità subito tanto evidenti? E perché un’arma dimostratasi risolutiva negli scontri navali venne rapidamente dismessa appena pochi decenni piú tardi? Appare logico supporre che l’interdizione prima e il progressivo abbandono poi non scaturirono da improbabili motivazioni umanitarie, bensí dal parallelo evolversi della polvere pirica che, col conseguente imporsi di artiglierie capaci di colpire a distanza le navi nemiche, inibiva la tattica dei lanci di fuoco, 76
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subordinata invece alla loro adiacenza. Si trattò di un salto tecnologico non inverosimile e neppure improvviso, dal momento che, come ritengono molti studiosi, la polvere da sparo faceva già parte della formula piú avanzata della miscela. Infatti Marco Greco – autore sulla cui reale esistenza permangono forti dubbi –, nel trattato Liber ignium ad comburendos hostes (probabilmente redatto sul finire del XIII secolo, n.d.r.), cosí ne precisava la composizione, alla XIII ricetta: «Una parte di zolfo, sei di sale di pietra (salnitro) e due di carbone di legna di tiglio o di
A sinistra affioramento naturale di bitume frammisto a petrolio. In basso miniatura raffigurante un dromone bizantino con sifone per fuoco greco, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
salice», aggiungendo che il piroforo da lui definito ignis volabilis, andava considerato un propyron, una sorta di pre-fuoco del fuoco greco, cioè, con definizione moderna, l’«innesco»!
La versione di Ruggero
Il Liber ignium potrebbe essere la rielaborazione del codice bizantino di Costantino Porfirogenito (913-957), ipotesi che spiegherebbe peraltro la riproposizione della formula da parte di Ruggero Bacone (1214-92), cosí decifrata: «Prendi sette parti di salnitro, cinque di legno di
nocciolo giovane e cinque di zolfo». Un sistema d’arma, quindi, che pone almeno tre interrogativi: qual era la vera formula del fuoco greco, detto anche «fuoco liquido» o «fuoco marino»; perché si accendeva a contatto con l’acqua; e come veniva proiettato? Dal punto di vista storico, tutti i liquidi incendiari, tecnicamente definiti «pirofori», traggono origine da sostanze infiammabili già disponibili in natura, una potenzialità progressivamente esaltata con empiriche
TECNOLOGIA MILITARE miscelazioni. Spicca fra tutte la nafta che affiora spontaneamente, spesso frammista al bitume, in vari luoghi dell’Asia Minore e, distillata forse fin dal VI secolo dagli alchimisti bizantini, forniva un liquido leggero e volatile, fortemente infiammabile e a noi ben noto col nome di benzina. In breve divenne la componente imprescindibile per la preparazione di qualsiasi piroforo.
Antenato del napalm
Stando però alla stragrande maggioranza delle testimonianze sul fuoco greco, le sue piú temute peculiarità erano la capacità di aderire a qualsiasi superficie e di continuare a bruciare anche se cosparso d’acqua. La benzina non si concilia con la prima connotazione e meno che mai con la seconda, per cui si deve ipotizzarne l’integrazione con un additivo gelatinizzante, tratto da oli animali o vegetali e con un forte reagente esotermico all’idratazione. L’aggiunta alla benzina di palmitato, tratto dall’olio di palma, risponde all’esigenza, poiché la rende densa e appiccicosa, dalla violenta combustione difficilmente estinguibile. Non a caso, una composizione del genere si ritrova nel tristemente celebre napalm, elaborato nel 1942 e cosí battezzato dalle sillabe iniziali di na-fta (anche se altri sostengono che derivi da Na, simbolo chimico del sodio) e palm-itato. Per l’autoaccensione a contatto con l’acqua, l’ipotesi meno astrusa contempla l’impiego del ricordato pre-fuoco, cioè dell’embrionale polvere pirica. Con una ulteriore aggiunta di calce viva: il rilevante calore di quest’ultima, infatti, sviluppato dalla sua idratazione, era insufficiente per incendiare un idrocarburo, ma non la polvere pirica, cosicché la miscela, dopo una esplosione iniziale, bruciava furiosamente. Né si può escludere che il medesimo risultato si ottenesse utilizzando al posto della calce viva il sodio, metallo cosí avido di ossigeno da sottrarlo all’acqua con emissione di idrogeno, subito acceso dal calore sviluppato, o un qualche suo composto, come la soda caustica, che ha un comportamento simile ed è perciò altrettanto idonea ad accendere la polvere pirica. Si spiegherebbe forse cosí la rievocata terrificante capacità del fuoco greco non solo di bruciare sul mare, ma anche di infiammarsi istantaneamente tra violenti scoppi e acre fumo nero, se asperso con acqua. E tanto il sodio che la soda caustica, sia pure confusamente per le diverse denominazioni avute all’epoca, sembrano nella disponibilità dei tecnici bizantini, confermando perciò indirettamente anche questa seconda ipotesi. 78
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Fuoco greco A una miscela tanto complessa e pericolosa non si giunge per un’invenzione fortuita, ma attraverso sperimentazioni forse protrattesi per secoli, per cui la data del 637 può segnare il debutto della sua composizione ottimale. È dunque verosimile che i Bizantini disponessero del piroforo forse già nel IV secolo, come alcuni storici sostengono, epoca a partire dalla quale furono apportate continue migliorie che permisero la realizzazione di tipologie idonee a vari impieghi. L’imperatore Leone VI (886-912) infatti, nel suo trattato Tactica, ne menziona tre varianti, evitando con cura di entrare nei dettagli chimici, ma precisandone la destinazione.
Dalla prua dei dromoni
La prima, il fuoco greco per antonomasia, era riservata alla guerra navale e negli scontri sul mare la si proiettava dalla prua dei dromoni (navi da corsa e da guerra a remi e vele in uso nell’Alto Medioevo, soprattutto presso i Bizantini, n.d.r.) lanciafiamme tramite lunghi tubi di rame. La seconda, invece, si usava per riempire gli ordigni incendiari, vasi di terracotta o di vetro muniti di una rozza miccia, come antesignane bottiglie Molotov, da scagliarsi con le normali baliste. Armi che rapidamente si diffusero dal Vicino Oriente all’India. La terza, infine, forse piú fluida e che, stando alle sue parole, sembra essere l’esito di una invenzione recentissima, è il sifone a mano o micron sifonon, una sorta di lanciafiamme manesco o portatile. Raffigurato in una miniatura si potrebbe definire d’assalto, utilizzato forse per incendiare le macchine d’assedio o i tavolati difensivi, entrambi di legno. Ma che cos’era esattamente un sifone? Un congegno simile, concettualmente e per funzionamento, alle pistole ad acqua giocattolo!
SULLA PRUA DEL DROMONE Ricostruzione grafica ipotetica della prua di un dromone lanciafiamme con il relativo sifone e serbatoio del liquido piroforo. 1. Il tubo metallico che fuoriusciva dalla scatola di accumulo era raccordato tramite giunti flessibili ed era munito di lungo braccio di manovra che consentiva di dirigerne il getto. 2. I due cilindri muniti di stantuffi erano azionati da una leva oscillante, servita da due uomini. Costituivano perciò una pompa alternativa: uno, salendo, aspirava il liquido incendiario;
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l’altro, scendendo, lo espelleva. Una scatola di accumulo ne stabilizzava l’emissione, immettendola in una lancia munita di ugello anteriore direzionabile. 3. Il liquido incendiario era contenuto in un serbatoio ermetico, quasi certamente di rame come le caldaie, posto sul fondo dell’imbarcazione, dove risultava piú protetto dai dardi nemici che, forandolo, avrebbero prodotto una istantanea e terrificante fiammata. 4. I tubi che fuoriuscivano dalla
scatola di accumulo terminavano con un ugello a delta. Ugelli del genere sono ancora in uso per le lance antincendio, poiché consentono di incrementare la gittata del liquido, accentuandone la pressione e favorendone la nebulizzazione, presupposto per una combustione piú violenta e immediata. 5. A protezione della pompa alternativa e dei suoi serventi, oltre che del puntatore, si deve ipotizzare una spessa
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scudatura di ferro, per schermarli dal tiro nemico, che per ovvie ragioni convergeva su di loro, e per proteggerli da eventuali ritorni di fiamma, provocati da repentini cambiamenti del vento. 6. I cilindri e i relativi stantuffi della pompa alternativa erano realizzati in bronzo, con una grande cura. I primi venivano alesati internamente e i secondi torniti esternamente, riducendone cosí la tolleranza fino a 0,1 mm, che si annullava del tutto con guarnizioni di cuoio. 7. Un tubo di bronzo, collegato alle valvole di aspirazione dei cilindri della pompa alternativa, succhiava il liquido dal serbatoio, munito alla sua estremità inferiore di una valvola di non ritorno, per evitarne il disinnesco. In alto pompa alternativa a doppio cilindro, interamente in bronzo, munita di 4 valvole, anch’esse in bronzo, e di lancia con ugello a delta, da una miniera romana presso Huelva Valverde, Spagna. Madrid, Museo Nazionale. Non si può escludere che si tratti di un proiettore per fuoco greco. A sinistra involucro in terracotta di granata a mano incendiaria per fuoco greco. Le cronache attestano l’uso di ordigni simili nell’assedio crociato di Gerusalemme del 1099 o, per esempio, nelle guerre fra Senesi e Orvietani, quando, nel 1229, furono adottati nella difesa di Montefollonico (Siena).
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A destra illustrazione raffigurante l’attacco a una torre portato da un uomo che imbraccia un lanciafiamme manesco in uso ossidionale, dal Codex Vaticanus Graecus 1605, IX-XI secolo. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Anna Comnena (1083-1148 circa), figlia dell’imperatore Alessio I Comneno, nella sua Alessiade (opera in cui narra la storia del regno paterno, dal 1081 al 1118, n.d.r.), afferma che i lanci avvenivano attraverso gli strepta e per mezzo di tubi. Il segreto rimane tale, poiché la principessa si limitava a ricordare ciò che tutti vedevano. Aggiungeva ancora, però, che nella battaglia navale combattuta presso Rodi nel 1103, fra Bizantini e Pisani, il terrore prodotto dai lanci scaturiva, piú che dalle fiamme, dal loro non essere ascendenti, ma innaturalmente orizzontali, orientate a discrezione del direttore del tiro, dall’alto in basso e da destra a sinistra.
Accensione immediata
Nonostante la laconicità del testo, sono comunque possibili alcune osservazioni: la combustione a fiamme orizzontali prova che il fuoco si accendeva subito dopo l’espulsione dal sifone e non al suo arrivo sul bersaglio, per cui il contatto con l’acqua doveva avvenire alla sua fuoriuscita dall’ugello dell’arma, forse sempre bagnato per raffreddarlo. Inoltre il brandeggio e l’alzo del sifone sembrano testimoniare la presenza di un giunto universale e quindi di una manichetta flessibile tra il serbatoio del liquido e il sifone 80
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stesso. Non a caso, appunto, col termine «flessibile» viene abitualmente tradotto l’enigmatico vocabolo greco strepta, una manichetta di pelle o di tela rinforzata, munita anteriormente di una lancia di rame. Quanto alla pressione necessaria per i lanci del piroforo, l’unica risposta soddisfacente è data dall’impiego di una pompa del tipo di quelle già adottate a Roma per spegnere gli incendi. Congegno che Vitruvio attribuisce a Ctesibio, vissuto nel III secolo a.C., di cui ci sono pervenuti i resti di numerosi esemplari, tutti mecca-
IL LANCIAFIAMME IN AZIONE
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1. Una «camicia» che circondava il cilindro con stantuffo del lanciafiamme manesco conteneva il liquido incendiario, sufficiente probabilmente solo per una mezza dozzina di lanci. 2. L’arma veniva azionata mediante una robusta maniglia, che ne consentiva la salda impugnatura con la mano destra, mentre
nicamente concordanti essendo costituiti sempre di due cilindri con i relativi stantuffi e valvole. Non manca chi si ostina a tradurre il termine sifonon con «tubo», designazione fin troppo generica per una pompa nota col nome del suo inventore sin dal I secolo a.C. agli uomini di mare e ai coevi vigili del fuoco.
Da una miniera la soluzione?
Il senso, che sembra indiscutibile per il greco e per il latino decadenti, non lo è per il latino raffinato e il greco classico, per i quali la voce verbale sifonizo sta per «aspiro come un sifone», azione traente che solo il tubo di una pompa può esercitare. In latino, per contro, il tubo si chiamava fistula, essendo il sifone sempre la pompa alternativa a doppio stantuffo che Erone e Plinio il Giovane ravvisano in quella antincendio. E appunto a essa aderisce per criterio informatore, ma se ne discosta per connotazio-
la sinistra sorreggeva il tubo di alimentazione della pompa. 3. Una protezione cilindrica in rame, traforata, veniva posta intorno alla pompa, che, in fase di lancio, per lo stretto contatto con la fiamma doveva arroventarsi. Quei fori consentivano il piú rapido raffreddamento della pompa, o, almeno, ne impedivano l’eccessivo surriscaldamento. 4. La pompa era costituita da un cilindro di bronzo in cui scorreva uno stantuffo, simile a una normale siringa
per uso medico o a un irroratore per piante. Le dimensioni deducibili dalla miniatura ne fanno ipotizzare un volume di circa 250-400 cc, dando perciò alla camicia serbatoio una capacità di circa 2,5-3 litri. Dinnanzi all’ugello della pompa, si deve immaginare una piccola zolletta di brace, che fungeva da innesco al liquido incendiario, proiettato piú o meno nebulizzato dalla pompa. 5. Il liquido incendiario contenuto nella camicia veniva aspirato dalla pompa tramite un robusto tubo arcuato, che fungeva anche da impugnatura per la mano sinistra, munito al suo innesto con la pompa di una piccola valvola di non ritorno.
ni materiali, un singolare reperto rinvenuto in una miniera romana presso Hueva Valverde (Spagna), interamente in bronzo e di pregevolissima fattura, tanto accurata da non potersi assolutamente equiparare alle suddette, se non altro per il suo intuibile altissimo costo. Grazie alla perfetta compressione, l’arnese era in grado di proiettare un liquido a una ventina di metri di distanza, una gittata coincidente col raggio offensivo dei dromoni. Che quel singolare reperto potesse essere un proiettore per fuoco greco potrebbe sembrare una forzatura, ma la constatazione che i Bizantini ebbero sovranità su quella parte della Penisola iberica proprio dal VI al VII secolo rendono l’ipotesi meno peregrina. La breve parentesi, conclusasi con una rapida evacuazione, parrebbe suggerire che, dopo l’esaurimento del liquido, l’arma, ormai inutile, finí nascosta in una miniera, in attesa di un successivo recupero, dopo la riconquista. Una speranza rimasta tale. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LA BALESTRA
In principio era l’arco...
In questa pagina ricostruzione virtuale di un arco composito, con i suoi tre strati fondamentali.
Ispirandosi a un’arma utilizzata dall’uomo fin dalla preistoria, la balestra, nell’età di Mezzo, divenne protagonista dell’arte della guerra. E, in tutte le sue varianti, si rivelò eccezionalmente efficace, anche di fronte agli attacchi piú violenti
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ell’aprile del 1139, al termine del Concilio Lateranense II, tenuto sotto Innocenzo II, le conclusioni salienti furono esposte in 30 canoni: di essi, il 29° cosí metteva al bando le armi telecinetiche da corda: «Inoltre proibiamo sotto pena di maledizione di adoperare quell’arte mortifera, e anche odiosa a Dio, dei balestrieri e degli arcieri contro i cristiani e i cattolici». Un divieto ribadito da Innocenzo III nel 1199, con un’apposita bolla, che comminava la scomunica a quanti ne avessero fatto uso nelle guerre. A prima vista sembrerebbe una prescrizione dettata dalla recente comparsa o da stravolgenti migliorie, di armi a quel punto dimostratesi particolarmente atroci. Ma tanto l’arco quanto la balestra erano usati da millenni in tutte le guerre e da tutte le fazioni, senza alcuna esplicita riprovazione: perché solo allora la Chiesa si accorgeva della loro intrinseca inumanità? Peraltro, a ben leggere l’anatema – e la distinzione contribuí alla sua inosservanza –, le due armi non erano messe al bando tassativamente, in quanto tali, ma esclusivamente negli scontri fra cristiani e cattolici, restando lecite contro gli infedeli, in particolare Saraceni. A essere precisi, l’arco e la balestra vantavano già un utilizzo di varie decine di millenni il primo, e di oltre quindici secoli la seconda! Dal punto di vista cronologico, infatti, è probabile che l’arco esistesse già prima della fine del Paleolitico, costituito da un unico pezzo di legno a curvatura circolare con la concavità verso il tira-
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tore. Efficace per la caccia, non lo era altrettanto per la guerra, adozione che avvenne solo molto piú tardi, dopo l’elaborazione dell’arco composito, realizzato con piú strati di varia resistenza alle sollecitazioni. È probabile che ciò sia avvenuto nell’Asia Occidentale o forse in Grecia; di certo l’arco composito compare nei poemi omerici, nell’Odissea in particolare, e proprio questa tipologia si rivelerà idonea per la trasformazione in balestra.
L’elasticità innanzitutto
Sotto il profilo strettamente tecnico, tanto l’arco quanto la balestra non sono armi propriamente dette, ma semplicemente propulsori elastici, essendo il dardo la loro vera arma. Poiché, dunque, l’efficacia di tali armi dipendeva dalla loro gittata, funzione della velocità iniziale di lancio, si finí per perfezionare sempre il propulsore e quasi per nulla il proietto: non a caso, vi è poca differenza, formale e funzionale, fra la cuspide di una freccia e quella di piombo di una cartuccia. Per raggiungere quel risultato si operò incrementando la capacità elastica degli archi, unendo su di un listello centrale di legno di tasso, piastre cornee sulla faccia interna, per sopportare le compressioni, e tendini bovini su quella esterna per resistere alle trazioni. Gli esiti di quei perfezionamenti furono subito evidentissimi, al pari dell’accresciuta rigidità di caricamento, che finí per renderlo improbo e faticosissimo.
Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante l’assedio di una città, con arcieri in primo piano. XV sec. Chantilly, Musée Condé. La balestra costituisce, di fatto, una evoluzione dell’arco, arma in uso già in epoca preistorica e ripetutamente perfezionata nel corso dei secoli.
A destra un balestriere intento a caricare l’arma e un altro in atto di tirare, particolare di un dipinto raffigurante il martirio di San Sebastiano e attribuito a un artista dell’Alta Baviera. 1475 circa. Colonia, Wallraf-Richartz-Museum. Nella pagina accanto, a sinistra statua di balestriere facente parte dell’Esercito di Terracotta di Xi’an, deposto nel grandioso complesso sepolcrale dell’imperatore Ying Zheng. 221-210 a.C. L’abbigliamento di questi uomini si componeva di una corazza corta e di un gonnellino, cosí da permettere la libertà di movimento necessaria per tirare con il ginocchio poggiato a terra, tenendo fermo l’arco con il piede, nel momento in cui si doveva armare la corda. Nella pagina accanto, al centro due scrocchi per grilletto provenienti da una delle fosse dell’Esercito di Terracotta di Xi’an. Nella pagina accanto, a destra ricostruzione virtuale dello scatto di una balestra Han.
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TEST DI PENETRAZIONE DEI PROIETTI XI-XII secolo L ’armatura del cavaliere è la cotta di maglia. La freccia di un arco lungo, del peso di 100 g circa, con 120 J (joule) può forarla a distanza ravvicinata, come pure una balestra non molto potente. XIII-XIV secolo Il cavaliere dispone sopra la maglia di ferro una cotta di piastre di 2 mm di spessore. Una freccia avrà bisogno di 200 J per ferirlo, esito non conseguibile con l’arco lungo, ma solo a breve distanza da balestre pesanti, con dardi da 140 g, caricate con martinetto, capaci di erogare 250 J. XV secolo Un cavaliere con la migliore armatura potrà resistere ai dardi di balestra fino a 280 J, che non sono conseguibili neppure dalle balestre con archi d’acciaio. In pratica è ormai al sicuro dai colpi di balestra, ma tra poco non lo sarà piú da quelli di moschetto.
Da un determinato momento in poi vennero realizzati anche archi interamente in metallo, generalmente in bronzo, come si scorge in un noto bassorilievo assiro e, piú tardi, in raffigurazioni greche, perlopiú in due sezioni con un’impugnatura centrale. Quest’ultimo dettaglio lascia supporre l’aggiramento dell’incapacità di fucinare e di temprare verghe d’acciaio, un’incapacità protrattasi fin quasi allo scadere del Medioevo, quando comparvero le poderose balestre con archi d’acciaio. Disporre di un’arma di notevole potenza non risolveva il problema della sua congruità in funzione difensiva: come si sarebbe potuto mantenere in tensione, cioè pronto a saettare da una sottile feritoia, un arco tanto rigido? Se il tiro dagli spalti dietro le merlature dava agli arcieri una certa libertà nel mirare i bersagli, abbreviandone i tempi, non cosí accadeva per quello effettuato dalle feritoie. Il bersaglio, infatti, appariva nel campo visivo dell’arciere per brevi istanti, per cui, non disponendo del tempo necessario per il caricamento dell’arma, questa avrebbe dovuto essere già pronta al tiro. Ma in che modo si sarebbe potuta mantenere tesa la corda di un arco composito per piú di qualche secondo? La fortificazione piú avanzata, con le sue sottili feritoie, pertanto, tradisce l’avvento di un nuovo propulsore, capace di restare in tensione a lungo senza alcuno sforzo, e di garantire un’assoluta stabilità di lancio, nonché un facile maneggio e un rapido addestramento. Alle spalle di quelle fessure, si intravede perciò un processo evolutivo che prese avvio dal fissare l’arco a un regolo, «teniere», a cui venne vincolata, tramite un
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Balestra
BALESTRE: UNA TIPOLOGIA L’insieme propulsore-proietto diede origine a una vasta gamma di balestre che cosí può riassumersi: a staffa perché si caricava mantenendola con il piede in un’apposita staffa anteriore; a bolzoni dal nome dei dardi che con essa venivano lanciati; a bussola perché caricata con un arganello posto in una scatola tonda; da tornio perché, essendo la piú grande, si caricava con un tornio, o verricello; a girella perché si caricava con una carrucola che tirava la fune fissata alla corda; a piè di capra perché si caricava con un congegno biforcuto; a ruota perché si caricava con un ingranaggio su una cremagliera; a pallottole perché lanciava pallottole di piombo; a panca perché montata sopra un affusto a forma di panca; a tagliere perché montata su un affusto a forma di tagliere; balestrino perché di piccole dimensioni; si caricava con una vite all’interno del teniere ed era considerata un’arma insidiosa, potendosi facilmente nascondere sotto i vestiti; balestrone grossa balestra da posta ad arco d’acciaio, tipicamente difensiva, caricata con un potente argano.
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1. Arco composito del gastraphetes in tre strati: tendini lungo l’estradosso, per resistere alle sollecitazioni di trazione, legno al centro come raccordo, e piastre cornee lungo l’intradosso per resistere alle sollecitazioni di compressione.
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2. Flangia con ancoraggio superiore della matassa elastica ritorta destra, nella quale sta vincolato uno dei due braccetti dell’arma. A riposo entrambi erano protesi anteriormente per aumentare, ruotando di 150°,l’angolo di caricamento e quindi l’energia potenziale accumulata. Il supporto, la flangia e il braccetto sono raffigurati scomposti.
3. Riscontro posteriore ricurvo, usato per la punteria dell’arma. Allo scopo la barra di accoppiamento superiore delle matasse fu arcuata al centro per favorire la massima visibilità allineando il dardo sul bersaglio.
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A sinistra ricostruzione virtuale di un gastraphetes. L’arma prese nome dalla modalità di caricamento, effettuata inserendo nella piastra concava posteriore la muscolatura gastrica e spingendola tenendo la punta bloccata contro un muro. La doppia dentatura laterale impediva sganci accidentali della slitta. dispositivo di arresto mobile, «noce», pure la corda una volta tesa. In ultima analisi il teniere era un po’ il braccio teso che sorreggeva l’arco, mentre la noce le due dita dell’altra mano che trattenevano la corda: essendo però entrambi gli sforzi sostenuti da supporti lignei e metallici, al tiratore restava solo di traguardare il bersaglio e liberare la corda all’istante opportuno. L’arma, pertanto, una volta caricata e magari poggiata su una base, consentiva d’attendere, senza alcuna tensione o stress muscolare, il presentarsi del bersaglio su cui saettare istantaneamente, con precisione inusitata, essendo stato soppresso ogni tremolio. Forse a quell’archetipo pervennero
Nella pagina accanto ricostruzione virtuale della cheiroballistra di Erone. Nell’arma, che in sostanza ripropone la concezione del gastraphetes, i due corni dell’arco sono stati sostituiti da due molle a torsione, di gran lunga piú potenti. I braccetti inoltre ruotano nel loro interasse per circa 150° contro gli appena 40° dei corni esaltando la gittata.
indipendentemente piú popoli, primi fra tutti i Cinesi, o forse si diffuse rapidamente per imitazione: di certo qualcosa di molto simile a una rudimentale e approssimata balestra, si ritrova sin dal XII secolo a.C. in Cina. Sebbene l’ulteriore messa a punto e l’adeguamento alle specifiche esigenze si protraessero per secoli, quella ingegnosa fusione tra un arco e un bastone segnò l’inizio della storia dell’artiglieria. Quanto al nome, la sua etimologia esplicita la derivazione da ballista, che a sua volta deriva da balla, cioè dalla sfera di pietra fungente da proietto, ma la comune origine è nel verbo greco bàllein, che significava «scagliare una pietra». La ballista, infatti, scagliava palle di pietra, definizione che restò appropriata fino al basso impero, quando ballista divenuta ballistra e poi manuballistra, iniziò a scagliare dardi, avvicendando la catapulta col nome di balistra e infine balestra, ormai in pieno Medioevo. Etnicamente, quindi, l’origine della balestra sembra essere cinese e non risulta in alcun modo presente in precedenza presso altre civiltà
asiatiche e mediterranee. Cinese, del resto, è il sofisticato congegno di scatto realizzato in bronzo sotto la dinastia Han e del quale ci sono pervenuti diversi esemplari, che, appunto perché tale, deve ritenersi l’epilogo di una lunghissima teoria di perfezionamenti. Complesso nella sua semplicità, già montava una sorta di grilletto e di alzo graduato, per il tiro di precisione a distanza, e, sebbene ne fossero state vietate l’esportazione e la diffusione, qualche esemplare si è trovato pure all’interno dell’impero romano, dove vi giunse intorno al II-III secolo della nostra era.
Le attestazioni piú antiche
A Roma, del resto, la balestra non era affatto ignota, e il suo impiego è documentato in epoca imperiale. La sua menzione piú antica si legge però nel De Re Militari di Vegezio, scritto, con molta probabilità, tra la seconda metà del 300 e gli inizi del 400 d.C. Il trattatista ne fa rimontare l’impiego all’epoca di Diocleziano (284-305), unitamente ad altre armi da lancio. A suo parere, la manuballistra anticamente era chiamata «scorpione», in quanto munita di due bracci presso la testa e di un aculeo mortale presso la coda. La manuballistra sembrerebbe dunque la traduzione latina della cheiroballistra di Erone, una sorta di adattamento meccanico di molle a torsione al posto di quelle a flessione dell’arco di una remota balestra dall’enigmatico nome: gastraphetes. I trattatisti e gli autori classici piú antichi alludono spesso, nelle loro opere, a un tipo d’arma da lancio antiuomo individuale, chiamata con quello strano nome e comparsa sul finire del V secolo, forse presso i Siracusani o forse presso i Fenici. A un’indagine piú accurata, sembrerebbe trattarsi di un’antesignana balestra manesca, con un meccanismo di scatto rudimentale, che però, a differenza degli scorpioni, era priva di verricello o di leva di caricamento. Per la mancanza di tale ausilio, la messa in flessione dell’arco di tipo composto implicava un teniere formato da due regoli, dei quali il minore, solidale alla corda arciera, scorrevole nel maggiore, che terminava con una staffa arcuata. Per caricare l’arma, il tiratore poneva l’estremità del regolo minore contro un muro, e, inserito l’addome nella staffa del maggiore, spingeva, costringendo il primo a retrocedere trascinando la corda, provocando cosí il caricamento, reso stabile da denti d’arresto incisi lungo il secondo. Dal gastrafete derivò l’ampia gamma delle artiglierie a flessione, che, a loro volta, precorsero quelle, piú potenti, a torsione. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA MILITARE I resti del castello di Châlus, nel Limosino (Francia occidentale). Sotto le sue mura, nel 1199, morí Riccardo Cuor di Leone, dopo essere stato ferito da una freccia.
Balestra
La manuballistra romana, quindi, non sembra scaturire da possibili contatti orientali con etnie che già la usavano, ma, evento raro, dalla miniaturizzazione di un’arma esistente di grandi dimensioni, dal che «balista manesca». In quanto tale, un gastrafete, con propulsore a torsione e bracci a moto inverso, «palintone», fino ad allora esclusivo delle baliste. Tuttavia, non si può escludere che il gastrafete sia stato in qualche modo suggerito dalla balestra cinese: ma, in tal caso, come e quando, a partire dal XII secolo a.C., quel suggeri-
mento pervenne nel Mediterraneo? I Mongoli fecero probabilmente da tramite per quel verosimile trasferimento di tecnologia dall’Oriente all’Occidente. Di certo non dovette passare inosservato alle loro orde, non fosse altro che per le cospicue perdite subite nel corso delle cicliche scorrerie a danno del Celeste Impero, tra il XII e il V secolo a.C., che i Cinesi si difendevano efficacemente da dietro i merli della loro Muraglia impugnando un curioso arco, fissato all’estremità di un bastone. Facile comprenderne l’uso e copiarlo, tanto piú che rendeva possibile il tiro con una sola mano, servendo l’altra a dirigere il cavallo.
Un potenziamento costante
Appare quindi logico ritenere che disporre di un’arma da lancio manesca potente, a tiro comandato e differito, fu la peculiarità alle spalle dell’invenzione e dell’evoluzione della balestra. Tuttavia, i vantaggi conseguibili dal suo impiego nella difesa di fortificazioni non sembrano da soli sufficienti a giustificarne il costante potenziamento, che andrebbe piuttosto ascritto all’esigenza di incrementarne la violenza dell’impatto e la gittata. Se l’adozione della balestra ebbe come scopo iniziale il fiancheggiamento delle mura, in un secondo momento se ne accentuarono le prestazioni per interdire anche le aree a esse antistanti. L’esperienza aveva insegnato che, tirando dall’alto delle mura, la gittata superava quasi del 30% l’inverso, e quindi i balestrieri non dovevano temere neppure la reazione nemica. In breve l’organizzazione della difesa attiva ne uscí modificata: il terreno compreso fra la distanza massima da cui gli assedianti avrebbero potuto tirare contro le mura e la (segue a p. 92) Nella pagina accanto illustrazione ottocentesca nella quale si immagina il momento in cui Riccardo Cuor di Leone, durante l’assedio del catello di Châlus, viene colpito da una freccia scagliata da uno dei difensori asserragliati sulle mura della fortezza. Il re morí per i postumi della ferita il 6 aprile del 1199. 88
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Balestra
LA DIFESA PIOMBANTE E IL BALESTRONE DA POSTA 1
Qui accanto ricostruzione virtuale di apparato a sporgere posticcio in legno, atto alla difesa piombante. Constava di travi di legno, infisse in buche pontaie, sorreggenti i tavoloni dell’impiantito fra i quali, dietro le schermature, si aprivano le piombatoie, da cui venivano fatti cadere sassi e liquidi ustori sugli attaccanti. 1. Copertura di tavoloni spioventi, posti sopra l’incastellatura a sbalzo dell’apparato a sporgere posticcio. La sua funzione era quella di proteggere dalle palle e dai dardi, scagliati da molto lontano, che cadevano con traiettoria quasi verticale. 2. Merlatura di tipo arcaico costruita a filo, cioè senza fuoriuscire in aggetto sul muro sottostante, disposizione che frustrando un’efficace difesa piombante, rese necessario un apparato a sporgere posticcio. A destra miniatura raffigurante una battuta di caccia alla gru condotta da un personaggio che imbraccia una balestra, da un’edizione del Theatrum Sanitatis. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense.
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A sinistra ricostruzione di un balestrone da posta basata sull’esemplare disegnato dell’architetto e storico dell’arte francese Eugène Viollet-Le-Duc. Per le sue notevoli dimensioni, non poteva essere caricato con un semplice verricello, ma richiedeva l’impiego di due cremagliere trascinate da due opposte coppie d’ingranaggi. Sempre per la grandezza, la punteria poteva avvenire soltanto agendo sulla coda dell’arma mediante un dispositivo a vite, sistema che sarà ripreso anche nelle artiglierie a polvere. 3. Le matasse nervine erano portate alla giusta tensione di torsione da due coppie di leve inserite nelle loro spire e bloccate da apposite funi. A suggerirne l’adozione fu la constatazione che raramente la siderurgia dell’epoca garantiva semi-balestre di pari elasticità. 4. Ancoraggio della matassa nervina che compensava le differenti elasticità delle opposte semi-balestre d’acciaio a piú foglie sovrapposte, frenate a loro volta contro i montanti dell’arma. 3 5
Il nome «balestra» discende da balla, cioè dalla sfera di pietra che veniva utilizzata come proietto
A destra ricostruzione virtuale di una delle due scatole di ingranaggi riduttori per il trascinamento delle cremagliere di caricamento del balestrone da posta. Scatole analoghe, piú piccole e singole, vennero adottate anche su balestre del XIV-XV sec. 5. La leva di caricamento del balestrone è una manovella ormai perfettamente definita, organo che, non a caso, viene ritenuto di epoca medievale. In realtà, a questo periodo storico va ascritto
soltanto il suo perfezionamento. 6. I denti degli ingranaggi del riduttore sono ancora triangolari, connotazione arcaica e di rapida usura per l’eccessivo gioco. Piú interessante il rocchetto che impegna con i suoi denti cilindrici la cremagliera. 7. Il riduttore è alloggiato in una scatola di lamiera che lo preserva dalla corrosione e dal rischio di incepparsi per frammenti finiti fra i denti degli ingranaggi, evento non raro nel corso dei combattimenti.
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Disegno di una improbabile balestra gigante, con due diversi congegni di scatto, dal Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. 1478-1519. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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TECNOLOGIA MEDIEVALE
Balestra
distanza massima da cui gli assediati potevano tirare dalle mura, si trasformava in una zona di esclusivo dominio della difesa, il cui semplice attraversamento si risolveva in una strage. La formazione di una difesa antemurale imponeva agli attaccanti gravosi tributi di sangue, spesso sufficienti ad arrestare l’investimento; inoltre, la gittata delle balestre, eccedendo quella dell’arco anche nel tiro radente, ne impediva il controtiro, frustrando ogni possibile reazione.
Costruire balestre piú semplici e assai meno costose degli archetipi greco-romani, significò perciò moltiplicare virtualmente il numero dei difensori, trasformando anche il villano inesperto in un discreto arciere. L’arma compensava con la sua potenza e stabilità le deficienze fisiche e di tirocinio: dardi piú pesanti e gittate maggiori non significarono, perciò, semplicemente colpire piú duramente e da piú lontano, ma che tutti erano in grado di farlo!
E forse proprio questa terribile e irriverente efficacia della balestra spiega l’anatema del 1139: un’arma elementare ed economica, maneggiata da un rozzo contadino, con una unica verretta scagliata da lontano, poteva uccidere un nobile cavaliere nella sua costosissima armatura, in groppa al suo focoso destriero, a onta del suo interminabile addestramento. Piú che un delitto, era una rivoluzione sociale, un attentato alla stabilità statuale, la micidiale premessa di un nuovo ordine con valori antitetici, da porre perciò immediatamente al bando. Riccardo Cuor di Leone, nel 1199, in occasione dell’assedio di Châlus, e Filippo II, settimo re di Francia, adottarono la balestra per le loro truppe, senza badare all’anatema, e l’arma ebbe in Italia un ruolo primario in tutte le contese, non solo fra cristiani, ma persino nelle faide fratricide dei Comuni e, nei Comuni stessi, dall’alto delle torri gentilizie. A Genova, poi, si addestrarono i balestrieri, le cui compagnie mercenarie erano ovunque arruolate.
Tiri sempre piú violenti
Intorno alla fine del XII secolo, una discreta balestra manesca forniva una gittata utile di 100 m circa, con una cadenza di tiro di due o tre verrette al minuto, capaci di trapassare in quel raggio le corazze (vedi tabella a p. 85). Simili prestazioni determinarono la riscoperta e l’esaltazione del tiro di basso fiancheggiamento, e i tecnici di Federico II di Svevia ne accentuarono al massimo lo sfruttamento, dimensionando sulle sue potenzialità i loro castelli. In almeno un paio di quei manieri, si osserva un impianto planimetrico talmente studiato da eliminare ogni settore defilato. Sempre in relazione all’accresciuta violenza dei tiri, nella fattispecie offensivi, i castelli vennero dotati di coronamento merlato, con merli rettangolari distanziati fra loro da un intermerlo di uguale larghezza, definita merlatura guelfa. Al loro riparo i tiratori potevano tranquillamente ricaricare le armi, limitando l’apparizione dall’intermerlo al solo istante di lancio. Come per il fiancheggiamento, anche quella merlatura fu un recupero culturale classico, essendo identica alla romana, cioè perfettamente a filo con l’estradosso delle cortine sottostanti, senza gli aggetti che compariranno alcuni decenni dopo per rimediare a comprovati inconvenienti. La merlatura a filo, infatti, proteggeva ottimamente gli arcieri e i balestrieri, ma impacciava gravemente la difesa piombante, sempre indispensabile contro gli assalti. Per gettare verso il basso massi, o liquidi ustionanti, era indispensa-
bile sporgersi dagli intermerli, rendendo l’operazione non solo lenta e imprecisa, ma soprattutto rischiosissima, soprattutto se anche l’assediante disponeva di balestre. Il rimedio di lí a breve introdotto, peraltro già sporadicamente e parzialmente presente sui dongioni normanni, fu una sorta di ponteggio ligneo applicato all’estradosso del coronamento. Si componeva di travi infisse nelle mura alla base delle merlature, con un aggetto di 1,5 m circa, sulle quali poggiavano tavoloni e s’innalzavano murali, che sorreggevano una schermatura di graticci e assi leggere. Quella sorta di balconata a sbalzo era completata da una copertura spiovente, anch’essa di legno, formando una specie di veranda pensile corrente lungo l’intero perimetro del castello. Buche disposte a intervalli regolari lungo l’impiantito, dette piombatoie o caditoie, consentivano la difesa piombante in assoluta sicurezza. L’infiammabilità e la rapida deperibilità di tale apparato a sporgere spiegano l’assoluta mancanza di una sua anche minima permanenza, limitandosi le relative testimonianze alle fonti iconografiche e alle ricostruzioni. Dal punto di vista dinamico, la balestra medievale con arco organico composito disponeva – nella migliore delle ipotesi – di una forza pari a 45 kg, con una gittata di un centinaio di m; dopo l’introduzione dell’arco d’acciaio la forza salí fino a 500 kg circa e la gittata a oltre 400 m, equiparando cosí le migliori manuballistre a torsione romane, senza averne però l’estrema complessità meccanica. Forze del genere non potevano essere accumulate tirando semplicemente la corda arciera, ma necessitavano di verricelli e appositi congegni, detti crocchi, leve, martinetti, mulinelli, torni, ecc., tutti in sostanza costituiti da piccoli argani fissi o mobili. Quanto alle munizioni, furono presto distinte dai normali dardi degli archi, essendo necessaria una maggior robustezza per resistere alla spinta di lancio: si ebbero perciò quadrelli, strali, bolzoni, dardi e persino palle. L’avvento di armi da fuoco individuali abbastanza affidabili, precise e potenti sembrò decretare la fine della balestra, ma alcune sue prerogative ne evitarono la dismissione. L’arma, infatti, era silenziosa e non emetteva lampi di luce, quindi perfettamente invisibile: impossibile pertanto percepire l’arrivo del dardo o scorgerne la provenienza. Ideale perciò per tiri notturni, peculiarità che la fece riutilizzare nel corso dell’ultimo conflitto da parte degli incursori, che, con aggiornamenti tecnologici – archi in lega di carbonio, cannocchiali di mira, visori notturni e puntatori laser –, continuano ad avvalersene. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL SOLENARION
La potenza di un ibrido Gli arcieri bizantini si dotarono di un accessorio che assicurava ai loro tiri gittate eccezionali e rendeva assai piú potente l’impatto delle frecce, quasi fossero proiettili sparati con un’arma da fuoco. Sembra un paradosso e invece è quanto suggerisce un fregio della basilica di S. Nicola, a Bari
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in dall’antichità, la logica del cozzo campale tra due eserciti (ancora oggi, peraltro, non del tutto dismessa) è consistita nell’anticipare il contatto fisico con lo scagliarsi reciprocamente contro proietti la cui capacità vulnerativa si dimostrava tanto piú efficace quanto maggiori ne fossero stati il peso e la gittata. Connotazioni che si confermarono, e si confermano, inesorabilmente antitetiche, per cui, al crescere dell’uno, deve inevitabilmente decrescere l’altra e viceversa. L’opzione prioritaria, però, preferí sempre incrementare la gittata a discapito del peso. Dal punto di vista tattico, infatti, chi disponeva di armi o di sistemi d’arma capaci di offendere a distanza maggiore dell’avversario godeva del
cospicuo vantaggio, spesso risolutivo, di percuoterlo senza subirne la simmetrica reazione. Assai di rado, tuttavia, la superiorità sopravvisse al primo confronto o alla singola battaglia, dal momento che armi equivalenti in breve tempo erano acquisite o riprodotte dal nemico di turno, a patto che disponesse delle necessarie competenze tecnologiche.
Una pietà solo apparente
Quanto fosse importante disporre di una maggiore gittata si può dedurre dall’aver sacrificato, non di rado, la letalità del tiro di molte armi da lancio a favore di un suo allungamento, col risultato, nella migliore delle ipotesi, di ferire soltanto i colpiti, senza eliminarli definitiva-
Miniatura con l’assedio di Costantinopoli guidato da Leone Tornicio, che, nel 1047, cercò di destituire Costantino IX Monomaco, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. Si vedono numerosi arcieri, che dovevano verosimilmente disporre anche del solenarion, l’accessorio capace di scagliare frecce da grandi distanze.
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Solenarion
COME FUNZIONAVA IL SOLENARION A destra ricostruzione assonometrica di un solenarion metallico tubolare. Si tratta di una sorta di canna, perlopiú in ferro, tagliata longitudinalmente per far fuoriuscire il piccolo gancio del cilindretto posto al suo interno. Quest’ultimo, trascinato dalla corda, scagliava la freccia, collocata anch’essa nella canna e perciò priva di impennaggi. 1. La canna era ottenuta curvando un lamierino di ferro su di un tondino d’acciaio, senza saldarlo per l’intera lunghezza, ma solo in prossimità della bocca, lasciandovi perciò un’asola longitudinale. 2. Anche se nella ricostruzione non risulta visibile, presso la bocca della canna il taglio longitudinale si interrompeva, per impedire la fuoriuscita del cilindretto al termine della corsa di lancio. 4 3. Un cilindretto di ferro, munito di gancio superiore, scorreva nella canna quando la corda dell’arco lo trascinava, e, a sua volta, trascinava la freccia, scagliandola dalla bocca, dove si arrestava. 4. Un tappo di bronzo chiudeva la canna una volta inseritovi dentro il cilindretto, impedendogli cosí di fuoriuscirne accidentalmente. Pertanto il cilindretto restava sempre nella canna, non potendone uscire né da dietro, per il tappo, né davanti, per la saldatura.
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In basso ricostruzione assonometrica di un solenarion ligneo. Ottenuto con un regolo inciso per la sua intera lunghezza da una scanalatura centrale, in cui veniva posta la freccia, munita di impennaggi, rendeva l’arma simile a un’antesignana balestra.
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5. L’estremità posteriore del solenarion ligneo era appena piú stretta dell’impennaggio della freccia: in tal modo, le piume ne fuoriuscivano lateralmente, riducendo gli attriti per eventuali contatti. 96
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mente. Quell’apparente «clemenza», in realtà, non faceva altro che posticipare la morte, che, per le infime conoscenze medico-chirurgiche, sopraggiungeva anche a seguito di lesioni lievi, dopo pochi giorni, per emorragia, setticemia, cancrena, tetano, ecc. Appare allora piú sensato interpretarla come una cinica scelta tattica, poiché ferire un soldato in un reparto che avanza risulta di gran lunga piú penalizzante della sua uccisione. Costringe, infatti, i commilitoni a soccorrerlo, distraendoli dal combattimento, e magari a esporsi piú del necessario e, soprattutto, li avvilisce psicologicamente, provocando scelte crudeli sulla loro sorte. Sarebbe perciò azzardato sottovalutare armi siffatte, relegandole fra quelle militarmente ininfluenti o velleitarie: una stima che, invece, andrebbe ponderata in base all’efficacia effettiva, ribadita dall’adozione in eserciti di elevata competenza.
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Frecce piú corte e piú leggere
6. La scanalatura centrale doveva essere meno profonda del raggio dell’asta della freccia, per garantire alla corda di impegnare diametralmente la cocca e alle due piume dell’impennaggio di non strofinare sul regolo. 7. Il regolo di legno era sagomato in basso, in modo da incastrarsi nell’impugnatura centrale dell’arco, favorendo, con la sua stabilità, il maneggio da parte dell’arciere, che doveva limitarsi a tenerlo aderente.
Fu questo il caso del «solenarion», un elementare accessorio dell’arco composito che debuttò nelle armate bizantine, tra le piú addestrate e preparate del Medioevo, intorno al VII-VIII secolo. Esso permetteva di scagliare piccole frecce, lunghe meno della metà delle usuali e quindi piú leggere, a distanze inusitate. Lo strano nome gli fu imposto sicuramente dagli arcieri imperiali e, purtroppo, la sua deperibilità non ce ne ha lasciato alcun esemplare, anche a causa della sua rapida dismissione con l’avvento della balestra. In greco solen significa «tubo», «canale» e solenarion ne è il diminutivo, da tradursi perciò come «tubetto» o «canaletto»: stando a varie descrizioni coeve, infatti, somigliava proprio a un piccolo tubo di ferro, percorso per la sua intera lunghezza da un sottile taglio regolare; stando ad altre, invece, somigliava a un regolo di legno, inciso, sempre longitudinalmente, da uno stretto solco. In entrambi i casi una piccola freccia, tanto corta che nessun arco poteva scagliare, si inseriva nel tubo o si poggiava sul solco prima di esserne espulsa. La sua modalità d’impiego si può desumere dalla prassi arciera: l’arco si metteva in tensione tenendone l’impugnatura centrale con la mano sinistra e traendone con la destra la corda, nella quale stava inserita la cocca della freccia. La tensione si raggiungeva quando il braccio sinistro stava completamente proteso in avanti e l’avambraccio destro piegato all’indietro, distanza che in gergo viene definita «allungo», variabile da uomo a uomo.
La freccia, pertanto, un istante prima del tiro, doveva avere la cocca nella corda e la cuspide fuoriuscente dall’impugnatura, ovvero doveva essere appena maggiore dell’allungo, di entità pari a circa 1200 mm. Dal momento però che le forniture di un esercito contemplavano decine di migliaia, se non centinaia di migliaia di frecce, queste dovevano essere standardizzate forse in due o tre misure al massimo, per prestazioni mediamente accettabili. Per gli archi compositi di grandezza normale, ciò significava una freccia lunga fra gli 800 e i 1000 mm, con un diametro di circa 8-10 mm, e un peso, impennaggio incluso, fra i 30 e i 40 g, che si riduceva ad appena 18-20 g quando la lunghezza scendeva a 350-400 mm. Ma una freccia cosí corta rispetto all’allungo non può essere scagliata da un arco normale e, a questo punto, subentrava il solenarion, reputato dai Bizantini tatticamente significativo per la sua superiore gittata, forse eccedente i 250-300 m. Attualmente, tiri eseguiti solo per raggiungere le massime distanze sono detti «di gittata» e costituiscono una particolare branca dell’arcieria. Da diversi anni essi hanno superato gli 800 m e spesso si avvalgono di una versione moderna del solenarion – detta in gergo tecnico «sovrallungo» o «overdraw» – che, proprio come l’accessorio bizantino, permette di tirare frecce piú corte, piú leggere e meno resistenti dal punto di vista aerodinamico.
Il perfezionamento di un’invenzione piú antica?
Il solenarion non veniva in alcun modo fissato stabilmente all’arco, ma, forse, solo incastrato al profilarsi dell’impiego, riducendo in tal modo lo sforzo dell’arciere. In ogni caso lo si manteneva aderente all’impugnatura dell’arco con la mano destra e aderente alla corda con la mano sinistra, alla quale restava vincolato con un laccio che ne impediva la perdita dopo il tiro. Definibile con appropriata dizione moderna «guidafrecce», non sembra essere stata una vera invenzione bizantina, ed è verosimilmente il perfezionamento di esemplari arabi o persiani. La sua adozione è testimoniata nello Strategikon di Maurizio, scritto appunto tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo, dove nel XII libro, relativo alle «Formazioni miste», si può leggere che i fanti armati alla leggera, dovevano portare l’arco sulla spalla con una grande faretra contenente almeno trenta o quaranta frecce, e alcuni «solenaria di legno con piccole frecce (…) Grazie a essi, con l’arco, si lanciano a grande distanza frecce che sono inutilizzabili dal nemico» (Das StrateTECNOLOGIA MEDIEVALE
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TECNOLOGIA MILITARE gikon des Maurikios, edizione a cura di George T. Dennis, Vienna 1981; p. 422, XII, B, 5). E anche nell’appendice ai Taktika dell’imperatore Leone VI (IX-X secolo) si può leggere questo preciso ragguaglio sulla loro dotazione: «Due solenaria con piccole frecce e un’altrettanto piccola faretra: le piccole frecce sono chiamate myas («mosche», n.d.T.). Siffatte frecce sono utili da usare in guerra poiché con gli archi esse sono scagliate lontanissimo e sono invisibili ai nemici grazie alle loro piccole dimensioni, colpiscono veloci e sono inutilizzabili dal nemico» (da Sylloge tacticorum, edizione a cura di Alphonse Dain, Parigi 1935; p. 77, XII, 8). Va ancora osservato che le corte frecce dei so-
Solenarion lenaria, proprio per la loro dimensione ridotta, risentivano meno delle deformazioni prodotte dall’accelerazione iniziale del lancio, per cui, pur non essendo utilizzate per tiri mirati, grazie alla preponderanza della cuspide dopo regolari traiettorie, si abbattevano di punta sul nemico, scompaginandone le file. E quando le distanze diminuivano, smontati i solenaria, si scagliavano le frecce normali.
Il fregio rivelatore
Stando ad alcuni studiosi disponiamo di un’unica raffigurazione del solenarion: quella scolpita nel fregio che orna la Porta dei Leoni della basilica di S. Nicola di Bari, il sontuoso portale
PER IL CONTROLLO DELLE TRAIETTORIE 1
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In alto ricostruzione della canna avente funzione di guidafreccia di un solenarion ligneo. 1. La cuspide della freccia, per le ridotte dimensioni dell’asta, aveva l’innesto a gorbia di pari diametro, appena maggiore della cuspide, in modo che il suo spigolo non arasse il legno. 2. Il solenarion (anche se in ferro) era munito anteriormente di un alloggiamento rettangolare che serviva a incastrarlo nel fusto dell’arco, alleviando cosí lo sforzo dell’arciere a tenervelo fissato.
In basso la canna guidafreccia di un solenarion in ferro. 3. La canna del solenarion metallico non era chiusa, per consentire, mediante una lunga asola, al gancio del cilindretto interno di fuoriuscirne per essere impegnato dalla corda. 4. Il piano di curvatura dell’arco si trovava sempre sotto il loro dorso, per cui la corda, in fase di lancio, vi strofinava sopra, trascinando il gancio negli esemplari metallici e direttamente la freccia in quelli lignei.
5. L’asta della freccia, priva di impennaggi nei solenaria metallici tubolari e con impennaggio diametrale in quelli lignei a regolo, era talmente corta da non potere essere scagliata da alcun arco normale, per cui il nemico non poteva rilanciarla. 6. La cuspide in ferro della freccia era lunga circa un terzo della stessa e ne costituiva la parte preponderante del peso, per cui ne regolarizzava la traiettoria, facendola impattare sempre di punta.
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In alto Bari, basilica di S. Nicola, Porta dei Leoni. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Nel fregio sulla lunetta si riconosce un arciere che, con ogni probabilità, si serve di un solenarion: si tratterebbe della sola testimonianza a oggi nota di questo dispositivo. 6
aperto sulla facciata nord della chiesa e databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. In essa si vede un arciere impugnare un’arma che per connotazioni geometriche non è un arco e neppure una balestra, e va perciò identificata con un arco munito di solenarion. Da un punto di vista costruttivo, come accennato, i solenaria potevano essere realizzati con un tubo munito di una ininterrotta asola laterale o di un regolo scandito da un solco longitudinale: la funzione di guidafreccia era sostanzialmente identica dal punto di vista balistico, ma non da quello operativo. Nel primo tipo, dalla canna tagliata fuoriusciva un piccolo gancio, solidale a un cilindro interno alla stessa a contatto con la freccia, che impegnava la corda dell’arco.
Al rilascio della corda, questa trascinava violentemente il cilindro, provocando l’espulsione della freccia, che fuoriusciva velocissima, quasi come dall’anima di un antesignano fucile. Ovviamente, per ridurre gli attriti le frecce non dovevano aver impennaggi, ma la sola cuspide di ferro. Circa il maneggio non vi erano posizioni obbligate, potendosi disporre l’arco sia verticalmente che orizzontalmente. Nel secondo tipo, essendo il canale aperto, la freccia poteva conservare l’impennaggio con due alette, ma poteva essere adoperato solo con l’arco in posizione orizzontale. Somigliava allora a una sorta di balestra semplificata, in quanto priva del dispositivo di scatto inutile per le modeste forze in gioco. E a questo tipo sembra riferirsi il fregio della basilica di Bari. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LE TORRI D’ASSEDIO
Colossali, ma inutili Impiegate con successo da Alessandro Magno e poi dai Romani, le torri d’assedio conobbero nel Medioevo un lungo oblio. E quando tornarono sui campi di battaglia si rivelarono ben presto poco efficaci: soprattutto dopo l’avvento delle artiglierie a polvere, infatti, quegli enormi apparati finirono con il trasformarsi in bersagli che si potevano centrare con grande facilità...
Miniatura raffigurante l’assedio della città di Belina, da un’edizione manoscritta della Gran conquista de Ultramar. 1295. Madrid, Biblioteca Nazionale di Spagna. Sulla sinistra, si riconosce una rudimentale torre impiegata dagli assedianti. 100
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ino all’avvento dell’artiglieria a polvere, le macchine d’assedio medievali mostrano un netto arretramento tecnologico rispetto a quelle dell’età classica, eccezion fatta per il trabucco. La regressione è particolarmente evidente nelle armi avanzate azionate da congegni complessi o da meccanismi di accurata costruzione,
comunque frutto di indubbie conoscenze tecniche: competenze che si persero quasi del tutto con il dissolversi dell’impero d’Occidente e furono parzialmente e lentamente recuperate solo dopo il Mille. E se la caratteristica architettonica piú vistosa del Medioevo fu la proliferazione dei castelli, moltiplicatisi a dismisura soprattutto fra
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Torri d’assedio
MA COM’ERA FATTA DAVVERO UNA TORRE D’ASSEDIO?
In alto una torre mobile d’assedio ricostruita dall’autore secondo criteri che avrebbero potuto renderne possibile l’effettivo impiego. A sinistra xilografia ottocentesca in cui si immagina l’assalto alle mura di una città con una torre mobile d’assedio. A destra la ricostruzione di una torre mobile d’assedio proposta dall’architetto e storico dell’arte medievale Eguène Viollet-le-Duc nel suo Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo, pubblicato tra il 1854 e il 1868. 102
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il XIII e il XV secolo, quella singolare manifestazione deve essere addebitata proprio alla perdita delle procedure ossidionali e, per conseguenza, all’incapacità d’espugnarli. Un prevalere della difesa sull’offesa, non rarissimo nella storia, che in seguito all’adozione dei lanci piombanti – ovvero il rilascio di massi e liquidi ustori sugli attaccanti –, rese progressivamente piú letale l’investimento ossidionale e, per contro, sempre piú alte le fortificazioni. Non a caso, «altezza» divenne nel linguaggio corrente sinonimo di inviolabilità e, pertanto, il miglior attributo regale. In pratica, però, grazie a quel facile espediente anche il maniero piú vulnerabile poneva gli assedianti di fronte a un drammatico dilemma: avviarne l’assedio, ben sapendo che, esauritasi la buona stagione, le operazioni si sarebbero dovute interrompere, oppure desistere persino dal provarci, una soluzione che fu di gran lunga preferita e contribuí all’anzidetta proliferazione dei fortilizi. Tuttavia, ogni volta che, potendo contare su maggiori risorse e fidando in un esito certo, si volle ridurre alla resa un castello, la tattica restò per secoli invariata quanto banale: assodato che il numero degli assediati era sempre inferiore a quello degli assedianti, sarebbe bastato violare l’edificio per annientarne la resistenza. Prima, però, con lanci continui di ogni specie – cadaveri e teste comprese –, si tentava di fiaccare la saldezza dei difensori, atterrendoli con la macabra anticipazione della sorte a loro riservata nel caso di una resa troppo tardiva...
Macchine pesanti e instabili
Piú articolata, invece, era la modalità di attuazione dell’espugnazione, poiché obbligava a scegliere tra il passare sotto le mura, con insidiosi cunicoli, o al di sopra, scavalcandole con scale d’assalto e, soprattutto con torri ambulatorie. Tenendo conto che le fondazioni della maggior parte dei castelli insistevano su rocce compatte, la torre mobile divenne la soluzione per antonomasia, a patto che la si costruisse significativamente piú alta delle mura assediate. Ne conseguiva una macchina molto pesante e dalla stabilità precaria, dal momento che il suo baricentro veniva a trovarsi distante da terra e su di una base inevitabilmente ridotta: e possiamo immaginare gli sforzi massacranti che dovevano essere necessari per manovrarla, nonché la rilevante perizia richiesta ai conduttori, poiché bastava uno scarto di pochi gradi dalla verticale per provocarne l’abbattimento. L’operazione, quindi, era delicata e lenta, compiuta per giunta sotto la gragnuola dei dardi TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Torri d’assedio
Miniatura raffigurante la presa di Gerusalemme da parte dell’esercito crociato, nel 1099, guidato da Goffredo di Buglione, da un’edizione del Livre d’Eracles o Estoire d’Oultre-Mer di Guglielmo di Tiro. 1350 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. nemici, che decimavano gli addetti al rischioso compito, a cui non di rado si costrinsero i prigionieri. E non stupisce, pertanto, il sistematico e inumano espediente di legarne altri dinanzi alle torri, per far desistere i difensori dal tirare sulle stesse. Raramente, però, quell’espediente ottenne la sospensione dei tiri che, anzi, spesso si intensificarono per abbreviare le sofferenze degli ostaggi. Durante l’assedio di Crema, nel 1159, Federico Barbarossa fece incatenare dinnanzi a una torre numerosi suoi abitanti da lui catturati: gli sventurati, tuttavia, non solo non mostrarono alcun segno di panico, ma addirittura incitarono i concittadini a tirare: morirono quasi tutti, confortati dalle commosse grida che esaltavano il loro sacrificio!
La «conquistatrice di città»
Sotto il profilo storico, la torre ambulatoria aveva raggiunto forse il vertice delle sue potenzialità in età ellenistica, sviluppando oltre alla protezione metallica integrale a base di piastre di ferro e a un dispositivo antincendio, embrionali sistemi di autolocomozione, elaborati dagli ingegneri di Alessandro Magno. Fu perciò considerata la risolutrice degli assedi, tanto da essere ribattezzata «elepoli», ovvero conquistatrice di città. I Romani la perfezionarono ulteriormente, e, senza raggiungere gli oltre 40 m di altezza delle torri del Macedone, ne fecero un’enorme macchina semovente, compatta e valida in qualsiasi assedio. Ma, come accennato, agli albori dell’XI secolo, di quella sua avanzata concezione sopravviveva soltanto la ricerca della preminenza verticale sulle mura assediate. L’esigenza scaturiva dalla necessità di eliminare i difensori dagli spalti, con tiri provenienti dalla piattaforma sommitale della torre mobile. Diveniva a quel punto possibile l’assalto in massa, in un primo tempo condotto con le scale e quindi accostando la stessa torre, in modo che il ponte levatoio di cui la si dotò, abbattendosi sulle merlature come un antico corvo, consentisse l’irrompere degli assedianti. Tale piattaforma, che nelle torri piú arcaiche, per contenerne l’altezza, era la stessa a cui era incernierato il ponte, in quelle piú recenti lo sovrastava di diversi metri, simile in sostanza a un’altana. Schermata con un parapetto scandito da una fuga di sottili saettiere,
restò adibita al solo tiro d’interdizione, effettuato dai suoi arcieri, che non l’abbandonavano mai per tutta la durata dell’assalto. Dal punto di vista strutturale, la torre d’assedio medievale non differiva granché dalle varie costruzioni a forte sviluppo verticali erette, e spesso trasportate anche a braccia, per devozione, nelle numerose celebrazioni religiose dell’epoca, alcune tutt’oggi praticate e propriamente definite «macchine votive a spalla». Spiccano fra le maggiori i «gigli di Nola» che superano i 25 m di altezza e tramandano un evento accaduto nel 431 in seguito all’invasione dei Goti. Nell’esposizione delle macchine d’assedio, l’architetto e medievista francese Eugéne Violletle-Duc prende in esame anche una torre ambulatoria tipo, alta una quindicina di metri e suddivisa in quattro piani, oltre alla copertura. A consentirle di accostarsi alle mura provvedevano verricelli collocati al suo interno, che alando le gomene fissate alla base della mura, ne provocavano il lento avanzare. Stando alle sue deduzioni, la manovra era agevolata da un pagliolato, ottenuto affiancando tavoloni di legno posati su robusti travi sottostanti, a loro volta collocati sulla colmata del fossato. Una manovra squisitamente navale, come non manca di farci cosí osservare: «Queste torri, erano in genere costruite con legno verde, appena tagliato nelle foreste vicine all’assedio, per renderne piú difficile l’incendio. Di solito venivano collocate su quattro ruote e munite di verricelli fissati al loro interno, al piano terra. Con pali di ancoraggio e cavi, si facevano avanzare queste pesanti macchine, nella stessa maniera con cui si ormeggia una nave». In altre circostanze a quella pista lignea si dava una discreta pendenza verso le mura, per cui la torre avanzava spinta dal suo stesso peso, arrestandosi alla giusta distanza per l’impiego del ponte, come cosí ancora ci precisa: «Il terreno su cui muove era stato livellato in precedenza e coperto con tavoloni dal bordo della controscarpa del fossato, colmato con una lieve pendenza fino al piede delle mura. Anche l’argine del fossato era stato rivestito di tavoloni, e su questi è condotta la torre, che da lí scende per il proprio peso fino ad arrestarsi vicino alle mura». Il rapido perfezionamento dell’artiglieria a polvere, fornendo la potenza distruttiva necessaria per aprire ampie brecce nelle cerchie assediate, alle due modalità di violazione delle mura (al di sotto o al di sopra), ne aggiunse una terza – il passaggio attraverso –, segnando la fine irreversibile delle torri mobili, divenute esse stesse un facile bersaglio per i cannoni della difesa. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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A sinistra San Felice a Cancello, Caserta. I resti del castello federiciano, per il quale furono sperimentate soluzioni architettoniche e ingegneristiche insolite rispetto allo schema canonico delle fortificazioni sveve. In particolare, la disposizione delle torri permetteva l’accentuazione della difesa attiva, che aumentava sensibilmente l’area che gli assediati potevano agevolmente interdire in caso di attacco. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Federico II di Svevia, dal Libro dei Privilegi della città di Palermo. XIII sec. Palermo, Biblioteca Comunale.
LE FORTIFICAZIONI
Imbattibili bersagli Insieme alle armi e alle macchine d’offesa progredí anche l’evoluzione delle opere di difesa. E cosí, pur non potendo garantire l’inespugnabilità assoluta, spesso si progettarono strutture di eccezionale efficacia, come il castello federiciano di San Felice a Cancello, presso Caserta
I
n prima approssimazione, una fortificazione tende a fornire una superficie interna non raggiungibile da eventuali aggressori, né direttamente, né indirettamente, ovvero con il tiro delle armi. Può essere perciò assimilabile a un anello murario continuo, passivo, penetrabile soltanto dalla porta, perlopiú di dimensioni ridottissime. Definiti questi termini elementari, che coincidono con gli archetipi nei quali non sussisteva alcuna differenza significativa tra la facciata interna ed esterna del muro, va sottolineato che tale simmetria cessò presto, perché se ne strutturarono l’estradosso, per renderne ardua la scalata agli assedianti, e l’intradosso, per agevolarla agli assediati, che dalla sua sommità
avrebbero dovuto respingerla. E, da quel momento, la difesa divenne anche attiva. Volendo precisare meglio il concetto di difesa passiva e attiva, va osservato che la mera protezione passiva fu quella fornita dall’altezza del sito d’impianto e delle sue mura: un po’ come quando ci si arrampica su di un pino, perché inseguiti da un cane malintenzionato. Se dai suoi rami si scagliano pigne contro l’«assediante», la difesa si è attivata, creando una fascia di rispetto pari al raggio di tiro.
CASTELLI A CONFRONTO 1
Percuotere a distanza
Con l’adozione di accorgimenti architettonici via via piú elaborati, si eressero opere capaci di compensare la carenza numerica dei difensori, fattore primario della loro ragion d’essere, e di ridurre, invece, la supremazia degli attaccanti, diminuendo la vulnerabilità dei primi e accrescendo quella dei secondi. Il che equivale a poter percuotere a distanza senza dover subire la stessa sorte. A pochi diveniva cosí possibile aver ragione di tanti: l’ingegno sopperiva alla carenza di forza, cioè «fortificava». Tutto ciò si tradusse nel progressivo incremento della componente offensiva della fortificazione, ferma restando quella puramente ostativa. Il concetto di raggio di rispetto di una fortificazione, definito «dominio », oltre a crescere in proporzione alla gittata delle armi, aumentò con l’accentuarsi della loro letalità reattiva. In pratica era proporzionale al numero dei tiratori A destra le due torri del castello di Cancello che fiancheggiano la posterla, posta sul lato posteriore, meno accessibile per l’impervietà della collina. Le ampie finestre che si scorgono sulla foto sono frutto di alterazioni posteriori adottate per favorirne l’impiego abitativo.
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SETTORE TIRO RADENTE SETTORE TIRO INCROCIATO SETTORE DEFILATO
Tavola 1. Schema di castello a pianta quadrata con quattro torri quadrate innestate ai vertici: il tiro di fiancheggiamento (in celeste) non può coprire l’area antistante lo spigolo piú esterno delle torri (in rosso), che pertanto risulta defilata. Tra le torri, invece, il sovrapporsi dei tiri di fiancheggiamento (in blu) determina ampi settori battuti dal micidiale tiro incrociato.
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SETTORE TIRO RADENTE SETTORE TIRO INCROCIATO SETTORE DEFILATO
Tavola 2. Criterio informatore del castello di Cancello: ogni torre fuoriesce rispetto alla successiva (ruotando in senso antiorario), in modo da poterne battere il piede: i settori defilati sono pertanto dimezzati. Tavola 3. Schema di dettaglio del castello di Cancello: l’adozione di speroni dinanzi alle due torri principali, laterali all’ingresso, elimina completamente i relativi settori defilati. 3
SETTORE TIRO RADENTE SETTORE TIRO INCROCIATO SETTORE DEFILATO
e, soprattutto, alla loro abilità di mira, sebbene, nei maggiori assedi, si fosse constatato che nugoli di dardi scagliati senza una destinazione precisa, nel mucchio, con traiettoria orizzontale ad altezza d’uomo, creassero sbarramenti mortiferi e insuperabili. Il perché della letalità di quel tiro a casaccio, definito «radente», rispetto a quello mirato dall’alto delle mura, o «ficcante», dipendeva dalla concomitante presenza di piú bersagli potenziali lungo la traiettoria del dardo: fallito il primo questo poteva colpire il successivo, o quello piú indietro ancora, mentre piombando obliquo, fallito il bersaglio si conficcava inerte nel terreno. Con il tiro radente e non mirato, il rapporto fra bersagli colpiti e dardi scagliati saliva da un già ottimo 0,1 a un massimo prossimo a 1, cioè a nessuna freccia sprecata: in termini militari fu definito «sfruttamento dell’errore battuto». La definizione statistica del fenomeno non fu compresa, ma il suo utilizzo fu subito attuato, accentuando la sporgenza delle torri dalle cortine. Del resto l’investimento ossidionale, contemplando sempre l’accostamento in massa alle mura, sembrava ideale per esaltare il tiro radente con traiettoria parallela alle stesse. Scaturendo dai fianchi interni delle torri, cioè da quelli innestati alle cortine, e diretto ai fianchi degli assedianti, fu definito «tiro di fiancheggiamento».
Deroghe rivoluzionarie
Ma se il fiancheggiamento frustrava l’accostamento al piede delle cortine, non l’impediva ai piedi delle torri, che, paradossalmente, creavano settori defilati, risaputi e critici per la difesa. Ne derivò l’impegno costante, dall’età classica al Medioevo, a contrarli, non essendo possibile sopprimerli completamente, e la fortificazione che piú si avvicinò a tale ambito traguardo fu un piccolo castello federiciano, di effimero impiego: quello di San Felice a Cancello (in provincia di Caserta), detto anche del Matinale. Dimenticato poco dopo la morte dell’ultimo erede degli Hohenstaufen, scampò a riqualificazioni successive, ma non alla destinazione di comoda cava di pietra. Tuttavia, i suoi ruderi conservano, oltre alle connotazioni peculiari dell’architettura militare sveva, alcune deroghe alla sua rigida geometria, non vistose, ma rivoluzionarie. Si tratta dell’adozione di una planimetria che, con lievi modifiche, estende la difesa di fiancheggiamento del castello dal 65% del perimetro (coefficiente generalmente fornito dalle fortificazioni dell’epoca) a oltre l’80%, ottenendo TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Fortificazioni
un risultato già sensibilmente piú efficace. Ma la presenza di anomale murature sghembe alla base delle torri (vedi le tavole 1, 2 e 3 alle pp. 108109), che a prima vista possono sembrare errori di verticalità o d’impianto, si rivelano, a una indagine piú attenta, modifiche sofisticate quanto misconosciute, che portano il fiancheggiamento quasi al 100%, traguardo raggiunto con l’avvento del bastione, agli inizi del Cinquecento, cioè solo tre secoli piú tardi! Quanto al significato tattico dell’incremento, esso consisteva nel sopprimere intorno al castello, fin dove le balestre riuscivano a tirare, qualunque area non battibile o defilata. Piú di un indizio concorre a identificare il progettista del castello nel conte Tommaso d’Aquino, genero di Federico II per averne sposato la figlia Margherita e zio dell’omonimo santo. I suoi trascorsi militari gli accreditano la competenza tecnica per farlo, e la parentela con l’im110
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In alto, a sinistra la torre posta sul lato sinistro dell’ingresso conserva ben evidente lo sperone di base, adottato per eliminare qualsiasi settore defilato. La foto evidenzia la forte alterazione della verticalità del suo spigolo conseguente a tale modifica. La vistosa anomalia architettonica, non suggerisce alcuna giustificazione, non esistendo nulla di analogo negli altri spigoli, a eccezione di quello simmetrico della torre sul lato destro dell’ingresso.
peratore l’autorità per imporlo! A quota 260 m slm, sul piccolo centro campano, incombe una massa geometrica severa, prima e indubbia connotazione della matrice sveva del castello. È un prisma quadrilatero, con quattro tozze torri quadrate ai vertici, piú una quinta, appena posteriore, di rinforzo a una posterla, in posizione asimmetrica sul lato di ponente. In origine, torri e cortine avevano la medesima altezza: quella che oggi sovrasta l’intera costruzione dallo spigolo di levante è il risultato di una soprelevazione di pochi anni posteriore, che conserva, nella sua muratura ben leggibile per forma e dimensioni, l’originaria merlatura lungo l’intero perimetro. È costituita da merli rettangolari, larghi 1,30 m circa, con intermerlo di pari ampiezza, a filo con l’estradosso delle cortine, riscontro cronologico rarissimo, poiché, con l’avvento degli Angioini, questi elementi furono sostituiti con apprestamenti similari, ma
in aggetto. Scendendo in dettaglio, alla corte, un tempo quadrata, si accede per un portale gotico in pietra calcarea bianca e chiave in granito scuro, dotato di un doppio sistema di serramenti: l’esterno a saracinesca, di cui permangono in ottime condizioni le guide di scorrimento, e l’interno a due battenti, di cui restano gli alloggiamenti dei cardini. Nessun fossato e ponte levatoio antistante alla saracinesca e nessuna corte di sicurezza retrostante testimoniano la bassa minaccia presunta.
Un insieme di quadrati
Particolare di una feritoia, a doppia strombatura e a bocca di lupo, all’interno di una sala del castello.
Un solo corpo di fabbrica addossato al recinto è conservato, limitatamente al piano della corte: una sala voltata a ogiva, di 23 x 6,7 m circa, sotto un analogo ambiente ipogeo piú basso, voltato a botte. Al di sopra, come confermano le tracce sulle cortine, si trovava un’altra identica sala sempre voltata a ogiva, di cui sopravvive una breve sezione. In pianta, quindi, si tratta di un castello quadrato di 27 m circa di lato, con una corte quadrata di 12 m circa di lato, con ai vertici quattro torri quadrate di 9,5 m di lato. Verticalmente si componeva di due piani fuori terra, originariamente pari a 15 m circa, al netto della merlatura, altezza conservata intatta solo dalle torri, che mantengono immutata anche la suddivisione interna. In tutte, il sotterraneo risulta adibito a cisterna, a cui una tubatura sottotraccia, in cotto, convogliava le acque piovane raccolte in copertura. Sempre nelle torri il piano terreno, di 5 x 5 m circa, è bucato da sottili feritoie fortemente strombate verso l’interno, a bocca di lupo, analoghe a quelle delle sale; era accessibile dalle sale adiacenti, ma non disponeva di alcuna comunicazione diretta con i vani sovrastanti, raggiungibili solo dalle sale superiori e dai quali si accedeva alle coperture con una scala strettissima, ricavata nel muro. Su ambedue i piani, sale e torri avevano delle latrine, la cui colonna fecale sfociava sulla base esterna delle mura, con cavedi per il prelievo dell’acqua dalle sottostanti cisterne. Al primo piano, ogni torre, su entrambi i lati non innestati alle cortine, disponeva di due finestre, fortemente strombate e munite di battenti e cancellata, raggiungibili mediante pochi scalini e dotate di sedute laterali. Ultima pertinenza di ognuno di tali ambienti era un grande camino, dalla cappa altissima. Circa la difesa passiva, le murature perimetrali non eccedono lo spessore di 1,80 m, che sale a 3 m circa nelle torri, che ostentano un curioso impianto, teso a sopprimere ogni settore defi-
lato. Ogni torre quadrata fu innestata allo spigolo del recinto quadrato con le due facce esterne intere, non allineate alle coniugate delle torri adiacenti. In particolare, ruotando in senso antiorario a partire dalla torre a sinistra dell’ingresso, la sua faccia di levante parallela alla cortina sporge di 2 m circa sulla contigua della seconda torre. Di questa, l’altra faccia intera, volta a nord, sporge sempre di un paio di metri su quella coniugata della terza torre, la cui altra faccia di ponente sporge ancora ugualmente sulla faccia coniugata della quarta torre, che sporge con la faccia meridionale sulla coniugata della prima. In tal modo ogni torre copre e protegge il piede di una faccia della successiva ed è protetta a sua volta dalla precedente. Il che già dimezza lo sviluppo complessivo dei settori defilati. A eliminarlo quasi completamente contribuiva un secondo e piú avveniristico espediente, per l’epoca sicuramente enigmatico: le due torri poste ai lati del portale, erette sul versante meno ripido della collina e quindi sul fronte piú esposto, ebbero una singolare torsione della base, fino all’altezza di 4-5 m circa, che ne mutava la pianta da quadra a trapezia. Una forte alterazione della verticalità, che sembrerebbe ascrivibile a imperizia costruttiva, in nessun modo giustificabile e maldestramente camuffata rastremando le due facce delle due torri interessate.
La difesa perfetta
Ma, traguardando da entrambi i vertici acuti di tali torri, si scorge la faccia della torre successiva rientrante, protetta, quella che per il suo impianto ritirato dovrebbe, invece, essere del tutto invisibile. Per cui, per reciprocità, dalla protetta nonostante la minore sporgenza, torna battibile il piede della protettrice, fiancheggiandolo interamente. La torre protettrice diviene cosí al contempo protetta, eliminandosi qualsiasi settore defilato. E, logicamente, identica potenzialità possiede la seconda rispetto alla terza: in nessun punto gli attaccanti si sarebbero potuti defilare al tiro radente, soprattutto dinanzi ai tre lati meno scoscesi, inserendo, in epoca appena posteriore, una quinta torre sul lato piú impervio a ulteriore protezione. Siamo di fronte, insomma, alla prima sperimentazione, grezza quanto si vuole e congrua al tiro della balestra, nella prima metà del Duecento, del forte a quattro bastioni cinquecentesco. L’accorta disposizione non trovò verifiche pratiche e, al pari del castello, finí rapidamente dimenticata! TECNOLOGIA MEDIEVALE
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LE MERLATURE
Quasi come dei ricami A profilo rettangolare oppure «a coda di rondine», i merli sono uno degli elementi che piú connotano l’architettura militare medievale, anche se le loro origini sono assai piú antiche. Nel tempo subirono ripetute modifiche, finalizzate a perfezionarne la funzione difensiva, che, tuttavia, divenne insufficiente all’indomani dell’avvento delle armi da fuoco Miniatura raffigurante una città al cui interno un re detta un proclama, mentre, fuori dalle mura, alcuni operai provvedono a selciare le strade, da un manoscritto del XV sec. Bruxelles, Bibliothèque royale de Belgique. Sia i bastioni che gli edifici dell’abitato appaiono coronati da merlature. 112
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ARCHITETTURA
Merlature
L
e etimologie sono molteplici, ma nessuna aiuta a chiarire perché furono chiamati «merli» i rialzi sui parapetti a distanza regolare: fra le piú probabili, vi è mergula, denominazione latina della forca, con uno o piú rebbi. Per i Romani si chiamarono pinnae, con una piú puntuale aderenza al loro ergersi su un profilo orizzontale. Di certo la merlatura ha talmente caratterizzato l’architettura difensiva, dal suo debutto intorno al III millennio a.C. fino alla metà del XVI secolo, da diventarne l’emblema. La sua storia è semplice: per evitare che gli assediati, schierati sulle mura, costituissero un comodo bersaglio per i tiri delle fionde e degli archi degli assedianti, la cortina esterna s’innalzò sino all’altezza del petto – da cui «parapetto» – consentendo di defilarvisi dietro. Dovendo, però, reagire con tiri verso la campagna (ficcanti), e verso il basso (piombanti), occorreva sollevarsi sul parapetto per saettare o sporgersi per lasciar cadere massi, azioni troppo lunghe per uscirne indenni.
I MERLI: UN ESPEDIENTE PER PROTEGGERE ARCIERI E BALESTRIERI
La muraglia del faraone
La contromisura scaturí dalla constatazione che tra il fare capolino e l’essere colpiti intercorrevano pochi istanti, sufficienti tuttavia a reagire, a patto di essere già pronti a farlo, avendo spiato il bersaglio, in piedi e con l’arco in tensione, da dietro un sottile ed elevato riparo. Da simili ripari nacque la merlatura, agli albori della storia in Mesopotamia e in Anatolia, sebbene il frammento piú antico di cui disponiamo si trovi a Tebe, sulle mura merlate e turrite fatte erigere a Medinet Habu da Ramesse III, faraone della XX dinastia (1184-1153 a.C.). A partire da quella, tutte le maggiori costruzioni difensive furono merlate, tanto che Filone di Bisanzio, fra i massimi trattatisti dell’architettura militare, prefigurando pure per gli edifici civili un ruolo ostativo, in caso di aggressione nemica, suggerí di «coronare di merli le case private prospicienti la cerchia [quelle] situate ai margini degli spazi liberi [e] quelle lungo le strade principali [sempre] alla stessa maniera». I Romani sui loro limites fortificati, come i Cinesi sulla Muraglia, resero canonico l’impianto della merlatura, standardizzando le dimensioni del singolo elemento. Le Mura Aureliane di Roma (270-273), per esempio, hanno un parapetto di 1 m circa, con merli, a intervalli regolari, di due tipi: il primo alto 60 cm e largo 45, per interassi eccedenti i 3 m; il secondo (posteriore, in quanto appartenente alla ricostruzione di 114
TECNOLOGIA MEDIEVALE
In alto ricostruzione di merlatura a filo con merli a coda di rondine. Il curioso profilo, definito di appartenenza ghibellina, offriva un leggero vantaggio rispetto a quello coevo squadrato, definito a sua volta guelfo, consentendo al difensore e, in particolare all’arciere, una migliore visibilità del terreno sottostante a parità di defilamento.
Qui accanto Carcassonne (Francia). Veduta dell’apparato a sporgere posticcio ricostruito in occasione dei restauri avviati nel 1853 dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc.
A sinistra ricostruzione della merlatura a filo con profilo superiore e dell’intermerlo sfuggente e balestriere cruciformi. Ampliato il retrostante camminamento di ronda mediante ballatoio a sbalzo ligneo, per consentire ai balestrieri di restare appostati dietro i merli, con l’arma pronta a tirare, anche a lungo senza per questo intralciare il movimento dei difensori.
Massenzio, 278-312) piú grande, alto 90 cm e largo 75, con interesse oscillante fra 75 e 150 cm. Quale ne fosse l’entità lo testimonia la presenza, lungo i 19 km della cerchia, di ben 7000 merli, sempre – come tutti i predecessori – rigorosamente a filo, cioè senza alcun aggetto o sporgenza rispetto alla cortina sottostante.
Un’efficace protezione passiva
Con il Medioevo e il relativo proliferare della fortificazione, i merli si differenziarono e si fecero piú evoluti, soprattutto dopo il XII secolo per rispondere all’accresciuta potenza delle armi manesche da lancio, archi e balestre. Merli rettangolari, separati da un intermerlo di uguale larghezza, connotarono la merlatura guelfa, mentre quella ghibellina li ebbe delle stesse dimensioni, ma sagomati superiormente a coda di rondine. Garantivano un’efficace protezione passiva, e in diversi casi persino parzialmente attiva, grazie alle sottili saettiere ricavate nel loro corpo, che in opere piú tarde, divennero le feritoie cruciformi per balestre. Per alcuni studiosi, tuttavia, già con la sua presenza, la merlatura forniva una potenziale, seppure estrema, difesa attiva, poiché era possibile farla crollare sugli assalitori, amplificando in tal modo la difesa piombante che, paradossalmente, ne impose la trasformazione. La TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Merlature
GLI APPARATI SPORGENTI
In alto ricostruzione grafica di apparato a sporgere su archetti e beccatelli, con ventiere lignee. A destra ricostruzione grafica di apparato a sporgere su archetti e beccatelli. Costruito con materiali non deperibili, si è conservato fino ai nostri giorni in discrete condizioni in castelli non provati dagli assedi, consentendone la puntuale ricognizione.
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In alto scudatura mobile di Francesco di Giorgio Martini. La bocca della cannoniera, inevitabilmente molto ampia e perciò imboccabile con facilità, dopo ogni sparo poteva chiudersi spostando il pesante carrello mediante un paranco.
merlatura a filo, infatti, proteggeva bene gli arcieri e i balestrieri, ma non offriva alcun riparo a quanti erano adibiti al lancio di massi e liquidi ustori, nonostante il ruolo ostativo ormai attinto dalla difesa piombante. Il rimedio, attestato dagli inizi del XII secolo, ma verosimilmente assai piú antico, consisteva in un impalcato posticcio, una sorta di ponteggio ligneo continuo ancorato all’esterno del coronamento. Si componeva di travi a sbalzo, infisse alla base delle merlature, su cui insistevano i tavoloni orizzontali dell’impalcato e i montanti verticali dei graticci di schermatura, sui quali gravava anche una falda spiovente di copertura. Nell’impalcato, a intervalli regolari, si aprivano buche, dette «piombatoie» o «caditoie», lasciate per poter effettuare il tiro piombante in discreta sicurezza, la stessa comunque di cui godevano arcieri e balestrieri che, celati dalla schermatura, scagliavano i dardi attraverso le sue fessure. A causa della sua repentina infiammabilità e dell’altrettanto repentina deperibilità, dell’espediente non abbiamo alcun esempio, ma soltanto testimonianze iconografiche. Appare quindi sensato concludere che forse anche i Normanni, come gli Svevi, e prima ancora, occasionalmente, anche i Longobardi dotarono le loro fortificazioni di simili dispositivi, limitandoli magari a brevi segmenti nei punti critici. L’apparato a sporgere posticcio trovò adozione fin quasi al termine del XIII secolo, quando il tiro dei mangani e dei trabucchi, che ne schiantavano con grandi massi le orditure o ne incendiavano con pignatte pirofore i graticci, ne decretò la dismissione tipologica, ma non il superamento concettuale, tanto che, in breve, se ne elaborò una rilevante miglioria, subito adottata nei castelli angioini. In dettaglio, al posto delle travi si ammorzarono spesse mensole di pietra, a scansione ravvicinata, dette «beccatelli», sulle quali si poggiò una teoria ininterrotta di archetti sorreggenti la merlatura. Il nuovo apparato a sporgere in muratura consentiva aggetti di oltre 1 m rispetto al filo delle cortine, sufficienti per solide caditoie dietro le merlature, dalle quali le vertiginose altezze dell’architettura gotica garantivano lanci micidiali. L’ottimizzazione della difesa piombante presupponeva la verticalità delle cortine, alla quale, invece, si dovette presto rinunciare, poiché occorreva proteggere il piede delle mura, con scarpature inclinate, dai tiri delle bombarde. Forse in alcuni castelli non si volle ancora rinunciare alla difesa piombante, per cui si fece coincidere l’inclinazione della scarpa con l’angolo necessario a far rimbalzare le palle, fatte
piombare dall’alto, secondo una direttrice pressoché orizzontale, con esiti micidiali per gli attaccanti, persino a una decina di metri di distanza. Col perfezionarsi delle armi da fuoco, inoltre, i merli subirono dapprima lo smusso dello spigolo superiore esterno, solito a frammentarsi, quando colpito da una palla di bombarda, quindi furono notevolmente ispessiti per evitarne la drastica ablazione.
Soluzioni velleitarie
Iniziò cosí, agli albori del Rinascimento, una sorta di rincorsa fra maggiorazione delle merlature e potenziamento delle artiglierie, che portò all’effimero avvento dei merloni e al loro rapido abbandono. Tra i due eventi, si introdusse la schermatura degli intermerli – ormai troppo spesso imboccati da pallottole e quadrelli vaganti – con scudature lignee, sorrette da cardini superiori che ne consentivano il parziale sollevamento, dette ventiere. La loro robusta struttura riusciva a fermare sia i verrettoni delle balestre con arco d’acciaio, sia le palle di piombo degli archibugi, chiudendo cosí del tutto l’intero coronamento. Alle bocche da fuoco di piccolo calibro della difesa vennero lasciate delle feritoie circolari, soluzione inadeguata quanto velleitaria. Sul finire del Quattrocento le maggiori fortificazioni erano ormai sormontate dal coronamento a merloni, dai cui varchi tiravano i grossi calibri, piazzati sulle retrostanti coperture, non a caso definite «piazze d’armi». La collocazione, che per molteplici ragioni si dimostrò ben presto infelice, ostentava tra le varie deficienze un’eccessiva vulnerabilità. Le cannoniere tra i merloni erano spesso infilate dalle palle nemiche, che danneggiavano anche i relativi cannoni. Questi, infatti, a differenza degli arcieri non potevano ripararsi dietro i merloni a ogni colpo, restando perciò esposti, insieme ai serventi, alla reazione nemica per l’intera durata del caricamento. Un rimedio efficace a tanta vulnerabilità si ravvisa nei disegni di Francesco di Giorgio Martini (1439-1502), che, sebbene ipotizzato per una postazione campale, poteva facilmente adattarsi a una fortezza: un grosso carrello ripieno di terriccio, simile a quelli usati nelle miniere, stava posizionato alle spalle di un gabbione, lasciandone perciò aperta la cannoniera (Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, f. 57, tav. 105). Effettuato il tiro, con un paranco lo si spostava, portandolo a chiudere interamente la bocca della cannoniera, impedendone perciò l’infilata. La soluzione, quand’anche ingegnosa, fu il canto del cigno della merlatura, che in pochi decenni scomparve del tutto. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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IL PONTE LEVATOIO
Le due facce della mobilità Considerato come l’accessorio che garantiva l’inviolabilità dei castelli, sbarrandone le porte e trasformando i fossati in ostacoli insormontabili, il ponte levatoio nacque in realtà per ragioni opposte: in origine, infatti, costituiva il logico complemento delle torri d’assedio, ideato per scavalcare le difese nemiche
N
ella nostra esistenza quotidiana ci serviamo di molti congegni inventati, o diffusi, nel Medioevo, quali, per esempio, la manovella o il caminetto domestico. Tuttavia nessuno di essi si ritrova ancora utilizzato in architettura, sugli autocarri, sui traghetti, sugli aerei e persino sugli elicotteri, tranne uno: il ponte mobile, il cui archetipo, pur perdendosi nella notte dei tempi, con lievi modifiche e l’etichetta di «ponte levatoio», conobbe la massima adozione proprio nell’età dei castelli, dei quali costituí un accessorio immancabile. Dal punto di vista tecnico, si definisce tale una struttura di collegamento impiegata per garantire una continuità di transito, in modo non stabile, ma discrezionale e discontinua. Per quanto strano possa sembrare, il portellone che abbattono i traghetti sul molo per far entrare o uscire i veicoli è un ponte levatoio e funziona esattamente come quello incernierato davanti alle porte delle fortificazioni: non scavalca l’acqua torbida del fossato, ma quella salata del
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TECNOLOGIA MEDIEVALE
mare. Un discorso simile, nella sostanza, vale anche per le rampe di carico usate dagli aerei cargo e da trasporto militare, cosí come dai grandi elicotteri da trasporto CH 47 Chinook.
Precedenti preistorici
Applicazioni che testimoniano la lunga vicenda di una idea concepita forse già in età preistorica. Almeno dal punto di vista concettuale, infatti, l’embrione del ponte levatoio può essere individuato nell’espediente adottato dagli allevatori neolitici che si stabilirono nell’area del Tavoliere apulo-materano, dando vita agli insediamenti che gli studiosi hanno definito «trincerati». Si tratta di villaggi la cui area è appunto circoscritta da fossati che, secondo una delle ipotesi piú probabili, avevano anche lo scopo di impedire la fuga del bestiame allevato. E che, quando si voleva uscire dall’abitato, venivano superati per mezzo di passerelle mobili. Il ponte amovibile, cioè che poteva essere levato, debuttò cosí agli albori della storia,
In alto ricostruzione grafica di una elepoli semovente con ponte levatoio abbassato. Nella pagina accanto il mese di Luglio, miniatura dalle Très Riches Heures du Duc de Berry, libro d’ore commissionato dal duca Jean de Berry ai fratelli Limbourg. 1412 circa-1416. Chantilly, Musée Condé. Al castello raffigurato, l’antico Château de Poitiers, si accedeva attraverso un ponte levatoio e una passerella di legno.
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Ponte levatoio
divenendo realmente levatoio quando la sua estremità adiacente all’ingresso fu munita di cerniere che permisero di trasformare la faticosa rimozione in un piú rapido e comodo sollevamento, rotandolo sul piano verticale. Col crescere delle dimensioni del fossato, incrementatisi la campata e lo spessore delle travi, crebbe notevolmente anche il suo peso complessivo, obbligando perciò all’impiego di paranchi con carrucole per la manovra e, soprattutto di congrui contrappesi. Questi, durante il suo sollevarsi scendevano in appositi pozzi, risalendone all’abbassarsi: in tal modo lo sforzo richiesto divenne soltanto quello necessario per compensare la differenza fra il peso e il contrappeso del ponte.
Una logica deduzione
Difficile stabilire quando avvenne tale basilare trasformazione, ma un indizio suggerirebbe agli inizi del IV secolo a.C., poiché si ritrova una identica concezione nei ponti volanti delle torri ambulatorie che, proprio in quello scorcio storico, debuttarono forse per iniziativa del tiranno di Siracusa, Dionisio il Vecchio. Dal momento che una macchina ossidionale del genere non poteva non disporre di un siffatto accessorio, sembrerebbero scontate priorità e datazione. Con l’invenzione poi delle grandi elepoli semoventi, ascritte agli ingegneri di Alessandro Magno nella seconda metà dello stesso IV secolo a.C., il ponte levatoio acquisí la sua definitiva connotazione formale e funzionale. Quanto alla tattica d’impiego, la fase conclusiva dell’accostamento delle elepoli alle mura, consisteva nel calarvi sopra il ponte, permettendo cosí agli assalitori di irrompervi in massa, sotto il tiro di copertura degli arcieri posti sulla copertura della stessa elepoli, annientando ogni resistenza. Il ponte, in pratica una stretta passerella incernierata alla base e trattenuta da funi di manovra, non poteva eccedere per ragioni strutturali una campata massima, o «luce», di una decina di metri, dimensione che conservò in un altro impiego atipico, sul mare, anticipando per la seconda volta la fagocitazione nel repertorio dell’architettura militare. L’ambito d’adozione risale al 260 a.C., quando, profilandosi per i Romani lo scontro con la flotta cartaginese, sulle nuove unità da guerra fu fatto impiantare dal console superstite Gaio Duilio un ponte mobile, molto simile a quello dell’elepoli. Munito all’estremità libera di due rostri, somiglianti a un becco spalancato – da cui forse il nome di «corvo» – abbattendosi, si inchiodava sulla tolda delle navi
nemiche, permettendone ai legionari di piombarvi in assetto di combattimento. In ultima analisi anche il corvo era un ponte levatoio e che tale fosse lo si arguisce dal suo sollevamento al termine dell’abbordaggio.
Per bloccare le porte
Dopo averne sperimentato in terra e in mare i vantaggi e verificata la razionale concezione, il ponte levatoio rotante trovò impiego nell’architettura militare, divenendo il dispositivo di interdizione di porta per antonomasia. Va osservato, infatti, che, una volta alzato, il ponte
Nella pagina accanto la fortezza nota come Cittadella di Saladino (Qal’at Salah al-Din), presso Latakia (Siria). In questa pagina il pilone intermedio che sorreggeva il ponte levatoio della fortezza, visto di profilo.
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Ponte levatoio
COME FUNZIONAVA IL PONTE LEVATOIO Sulle due pagine ricostruzione virtuale sezionata di ponte levatoio ad abbattimento nel fossato. 1. Coppia di carrucole utilizzate per azionare, tramite contrappesi, i listoni di bloccaggio del ponte, scorrevoli, che si intravedono sotto le travi portanti. 2. Ruotando il paranco, si ritiravano i bloccaggi, facendo sollevare,
tramite le carrucole, i rispettivi contrappesi. Il ponte, non piú trattenuto, si abbatteva nel fossato, frenato dal paranco. Alandone le funi, lo si sollevava, mentre i bloccaggi, spinti dai rispettivi contrappesi, andavano a poggiarsi sui supporti, bloccandolo orizzontalmente. 2
3. Nel ponte ad abbattimento, la sala di manovra con il paranco era posta al di sotto del piano di calpestio, e agiva non sull’estremità anteriore, ma su quella posteriore delle sue travi. 4. Intorno al tamburo del paranco di manovra stavano avvolte due funi in senso opposto: ruotandolo in senso orario, si sfilavano i bloccaggi dai supporti,
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In alto Lagos, Portogallo. Il ponte levatoio, con i relativi bolzoni di manovra, del Forte da Ponta da Bandeira. Fine del XVII sec.
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abbattendo cosí il ponte e srotolandone le funi di sollevamento. Ruotandolo al contrario mentre si sollevava il ponte, i contrappesi dei bloccaggi li spingevano sugli appoggi, stabilizzandolo. 5. Per il funzionamento ottimale di un ponte ad abbattimento, era necessario che il fossato fosse completato dal muro di controscarpa, sulla cui sommità erano posti i supporti delle aste di bloccaggio. 6. Il bloccaggio del ponte avveniva tramite un sistema di aste mobili con modeste tolleranze, ed era perciò indispensabile che fosse estremamente stabile la campata e quindi molto solido il muro di controscarpa.
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si anteponeva alla saracinesca e ai retrostanti battenti di chiusura, rinforzandoli vistosamente, poiché in pratica triplicava gli ordini di serramenti e ne amplificava la resistenza complessiva. Per scongiurarne l’incendio si rivestirono travi e impalcato con piastre di ferro, incrementando enormemente il peso, obbligando all’adozione di cardini rinforzati, paranchi piú grandi e contrappesi maggiorati, potenziamento che si manifestò a partire dal III secolo della nostra era.
Come grandi binari
Il ponte descritto, che conobbe discreta adozione in epoca romana, ma massimo impiego dopo l’XI secolo, era costituito da una coppia di travi parallele con molte traverse, un po’ come grandi binari, sulle quali si inchiodava uno spesso tavolato, in modo da formare un robusto impalcato in grado di sostenere il transito dei carriaggi piú pesanti. Le estremità delle travi adiacenti al vano d’ingresso erano munite di cerniere, mentre le opposte, debitamente ferrate, dovendo abbattersi su blocchi di pietra fungenti da piedritti, avevano grossi anelli per l’ancoraggio delle catene di sollevamento. Nei migliori congegni le catene erano, a loro volta, fissate a uno o due bolzoni, travi in bilico parallele a quelle dell’impalcato e alquanto piú corte, fuoriuscenti ai lati della porta, in alto. Posteriormente erano solidali a contrappesi che ne favorivano la manovra, per cui, sollevandosi, alavano il ponte, rientrando al termine in apposite fessure sulle cortine, destinate ad alloggiarli. L’avvento dell’artiglieria elastica costrinse ad ampliare la larghezza dei fossati per evitare che gli impatti dei loro proietti sfondassero o incendiassero porte e ponti, costringendo di conseguenza a una loro modifica strutturale. Non potendone incrementare la luce per ragioni squisitamente statiche si optò per un compromesso: il ponte avrebbe avuto varie campate, insistenti su altrettanti piloni, di cui solo l’ultima, adiacente alla porta, sarebbe stata levatoia. L’attaccante, pertanto, durante l’attraversamento del lungo viadotto si sarebbe trovato inquadrato da un micidiale tiro d’infilata delle difese, finché giunto, con gravi perdite, a una decina di metri dalla porta non poteva proseguire oltre. Un primo esempio di ponte parzialmente levatoio lo si può osservare nel terzo fossato del Castello Eurialo di Siracusa, la cui costruzione originale fu voluta da Dionisio il Vecchio, tra il 402 e il 397 a.C. La fortificazione, tuttavia, nei secoli successivi ebbe molteplici riqualificazio-
ni difensive, la piú importante delle quali sembra aver risentito della consulenza di Archimede e di Filone di Bisanzio, profilandosi la minaccia di Roma agli inizi del III secolo a.C. A questa tornata appartiene verosimilmente il ponte a due campate, una fissa e una levatoia, che contribuí a rendere anche per i Romani inespugnabile il caposaldo, caduto infatti per tradimento nel 212 a.C. Il criterio del ponte parzialmente levatoio con pilone intermedio, non di rado due o tre, conobbe nel Medioevo singolari e stupefacenti realizzazioni come quella tuttora visibile nella cosiddetta Cittadella di Saladino (Qal’at Salah al-Din), nei pressi di Latakia, in Siria. Il pilone nella fattispecie è una vertiginosa lama di roccia, lasciata durante il massacrante scavo del fossato, integrata da una sopraelevazione in muratura. Il castello in origine crociato e denominato di Sahyoun, fu ribattezzato col nome di Salah al-Din, il celebre Saladino, che lo prese nel 1188, nonostante la sua reputazione di inespugnabile, derivatagli dallo spettacolare fossato. Lungo circa 160 m e profondo 28, ebbe una larghezza di 18 m, costringendo perciò all’adozione di un ponte a doppia campata, presupposto inevitabile per il vertiginoso pilone intermedio.
Tra due corazze ferrate
Col tempo, il ponte levatoio si arricchí d’innumerevoli varianti strutturali tutte miranti, in vario modo, a esaltarne la funzione ostativa, limitandone al contempo la vulnerabilità. Si ebbero perciò ponti a snodo con doppio impalcato, col fulcro collocato fra due fossati, uno esterno e uno interno alla porta: sollevandosi contemporaneamente, serravano la porta stessa tra due pesanti corazze ferrate. E si ebbero anche ponti che, invece di alzarsi, ponendosi dinanzi alla porta, si abbattevano nel fossato, soluzione che ne impediva la forzatura ottenuta tranciandone con arditi assalti le catene di manovra. Tuttavia, anche quando il ponte sollevato copriva pienamente i serramenti della porta, non ne scongiurò del tutto la debolezza strutturale, aggravatasi ulteriormente dopo l’avvento dell’artiglieria a polvere che, con pochi tiri ben assestati, poteva sfondare entrambi. La soluzione che da quel momento s’impose fu l’edificazione, sul ciglio esterno del fossato, di un massiccio corpo di fabbrica in asse con la porta, detto «rivellino», che la defilava con la sua massa, obbligando ad accedervi con un percorso angolato. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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In basso, nel riquadro l’isolotto di Nisida, nel golfo di Baia, prospiciente la cittadina di Pozzuoli. Nelle sue acque, nel 1284, Carlo II d’Angiò fu sconfitto dalla flotta guidata da Ruggero di Lauria.
Sulle due pagine miniatura raffigurante la sconfitta subita dalla flotta siciliana a Capo d’Orlando, nel 1299, per mano delle forze guidate da Giacomo II d’Aragona e Carlo II d’Angiò, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
LE TORRI COSTIERE
La salvezza appesa a un filo... di fumo
Nella seconda metà del Duecento, molti degli scontri che scandirono la guerra dei Vespri si combatterono in mare, rendendo perciò decisivo il controllo dei movimenti delle flotte. Gli Angioini misero allora a punto un’articolata rete di torri costiere, che, anche dopo la fine del conflitto, continuarono a essere gli elementi fondamentali di un collaudato sistema di sorveglianza e di difesa
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Torri costiere
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l 31 marzo 1282, Lunedí di Pasqua, sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo di Palermo, un soldato angioino, tal Drouet, oltraggia una nobildonna, finendo subito ucciso con la sua stessa spada: è l’inizio della guerra dei Vespri. La rivolta, che da tempo cova nell’isola, esplode con il diffondersi della notizia e in pochi giorni, dopo una furiosa caccia all’uomo, il presidio lasciatovi dal re Carlo d’Angiò è sterminato. Per vendicare le vittime e riaffermare il suo potere in Sicilia, il sovrano, con un cospicuo corpo di spedizione, sbarca a maggio presso Reggio, da dove avvia l’assedio di Messina. Il 2 giugno il primo assalto anfibio si infrange contro le salde mura della città, e la disfatta si rinnova il 25 luglio, convincendo Carlo, nel settembre successivo, al definitivo abbandono dell’impresa. Per la dinastia angioina quello fu l’irreversibile addio alla Sicilia, imposto anche dal sopraggiungere a Trapani, il 30 agosto, con la possente squadra navale di Ruggero di Lauria, di Pietro III d’Aragona, marito di Costanza, che, in quanto figlia di Manfredi, rivendicava per il consorte un qualche diritto al regno. Carlo d’Angiò non poteva certo accettare l’umiliante mutilazione, per cui avviò i preparativi per un attacco in grande stile, mentre l’Aragonese, sfruttando la vittoria riportata dalle navi di Lauria, il 5-6 giugno del 1283 nelle acque di Malta, lo autorizzò a moltiplicare le incursioni contro le coste napoletane. La sua guerra di corsa infuriò sempre piú temeraria, tanto che nell’aprile dell’anno seguente, con una trentina di galere, dopo avere saccheggiato le coste della Calabria e del Principato, comparve nel golfo di Napoli.
La sconfitta definitiva
Il principe ereditario, Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, disobbedendo agli ordini paterni, uscí per rintuzzare la provocazione, accettando battaglia presso l’isolotto di Nisida, ma venne sconfitto e catturato – fu poi liberato, ma solo nel 1288 – insieme a molti nobili della sua corte, ponendo termine cosí a ogni velleità di riconquista. Le ultime illusioni tramontarono quattro anni piú tardi, quando Ruggero di Lauria, con una squadra numericamente inferiore, distrusse la flotta angioina, premessa per la conclusione della guerra, che giunse soltanto nel 1302. In questo ventennio, vi furono ripetute scorrerie e incursioni contro gli abitati rivieraschi, che si aggiunsero alle razzie che compivano da secoli barbareschi, Genovesi e Pisani. Dal punto di vista strategico, questi attacchi differivano fra loro, ma erano tatticamente simili, per cui si cercò di contenerli con un unico sistema di di126
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SENTINELLE A STRAPIOMBO SUL MARE Spaccato assonometrico di una torre angioina, come l’Assiola di Positano. 1. Il terrazzo di copertura delle torri, per l’ingegneria militare, si definiva «piazza d’armi», anche quando queste si riducevano a semplici balestre, o a massi da far piombare dalle caditoie, buche ricavate nell’impalcato alle spalle dei merli. 2. Il corpo delle torri angioine era cilindrico, su basamento leggermente scarpato. La scelta derivava, probabilmente, dalla piú facile ed economica esecuzione rispetto a una torre quadra e, al contempo, dalla maggiore resistenza ai colpi. Il coronamento torico che scandiva l’avvicendarsi della sezione cilindrica su quella tronco-conica, ebbe in seguito la funzione di deviare le schegge prodotte dagli impatti balistici. 3. Nel basamento era sempre ricavata una cospicua cisterna, che raccoglieva l’acqua piovana invernale, assicurando al caposaldo un’ampia autonomia idrica. La conserva, necessaria tutti i giorni, diveniva però fondamentale in caso di attacco corsaro, improbabile, ma non raro. 4. Gli spessori murari delle torri costiere angioine sono relativamente modesti, non dovendosi opporre a investimenti ossidionali, sia pure di minima entità, esulando tale prassi dagli assalti corsari. 5. I piani interni erano ottenuti perlopiú con volte a calotta, di grande resistenza, interponendo fra loro impalcati lignei. L’accesso a ciascun livello era garantito da scale volanti, che alla leggerezza abbinavano la facilità di rimozione in caso di intrusioni nemiche 6. Alle cannoniere verticali fu data la sagoma di una spatola, poiché anche le torri angioine
furono dotate di cannoncini petrieri, che generavano un’ampia rosa di frammenti di pietra e schegge di ferro appena fuori dalla bocca, come fossero grosse «lupare».
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In alto il coronamento vicereale di torre Assiola. La struttura doveva sicuramente esistere nel 1279, quando è nominata fra 13 postazioni dislocate tra Agropoli e Sorrento.
7. Sulla piazza d’armi delle torri angioine, trasformate in vicereali, si aprivano, sotto le cannoniere orizzontali (per il tiro offensivo) le buche delle verticali, o «troniere» (per il tiro difensivo). 8. Dietro un «merlone» dal profilo sfuggente, definito «profilo balistico», sbarcava la scala d’accesso alla piazza d’armi, ricavata nello spessore del muro perimetrale dal lato monte.
In basso ricostruzione del coronamento sostitutivo di epoca vicereale: sotto le cannoniere orizzontali per il tiro offensivo, quelle verticali per il tiro difensivo.
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fesa. All’epoca anche il solo ipotizzare un dispositivo attivo di interdizione costiera era una mera utopia, poiché non esistevano armi in grado di colpire le navi in atterraggio e le balestre potevano, al massimo, decimare eventuali razziatori nel raggio di un centinaio di metri. Il solo aiuto per le popolazioni inermi era un dispositivo di allarme che, segnalando la presenza di navi sospette, ne sollecitava la fuga. Una prassi modesta, eppure rimasta in uso per secoli, di cui si coglie un’eco nelle note strofe, cantate in tutti i dialetti italiani: «A tocchi a tocchi la campana sona, li mori so’ sbarcati alla marina». Carlo d’Angiò, del resto, sin dal suo insediamento, aveva dovuto prendere provvedimenti per frustrare le incursioni da mare, che si abbattevano con micidiale frequenza lungo le sterminate coste del suo regno. Constatata l’efficacia delle torri di avvistamento e di avviso, decise di incrementarne il numero, collegandole fra loro in prossimità degli abitati e ubicandole nei punti di piú probabile sbarco, cioè arenili, foci fluviali e piccoli promontori. Elementari erano le loro caratteristiche architettoniche: pianta circolare, corpo cilindrico su base scarpata, ingresso sopraelevato, cisterna alla base e coronamento merlato con caditoie. Sulla loro copertura si effettuava la vigilanza continua, tra aprile e novembre, utilizzandone i vani interni, uno o due impalcati lignei, per il soggiorno del personale. L’altezza non eccedeva la quindicina di metri: piú che all’avvistamento, però, serviva a proteggere gli uomini di vedetta da eventuali assalti.
Segnalazioni ottiche e acustiche
La segnalazione degli avvistamenti effettuati dalle torri va distinta in due tipologie: di preallarme, destinata alle torri contigue, e di allarme, destinata alla popolazione. Spesso, infatti, l’avvistamento prima di essere diretto, cioè compiuto dagli uomini della torre, era anticipato dai segnali delle altre torri, che lo rilanciavano a partire da quella che lo aveva realmente effettuato, ponendo cosí l’intero dispositivo zonale in allerta. Una condizione che, accentuando la vigilanza, consentiva anche di evacuare la popolazione con maggiore anticipo, nonché di far convergere in tempo utile reparti militari. Le modalità di segnalazione erano due: ottiche per il preallarme, acustiche per l’allarme. Le prime diffondevano tramite un facile codice, di giorno con colonne di fumo e di notte con fiamme emesse da appositi bracieri, l’avvistamento, notificando col numero dei fumi e fuochi il numero delle navi sospette, o facendoli roteare se piú di tre. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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Il promontorio d’impianto di torre Assiola.
Torri costiere
L’origine di quei segnali si perde nell’antichità classica, e ne troviamo menzione già in Plinio il Vecchio (Storia Naturale, II, 181) che, definendole Turres Hannibalis, cosí ne tratteggiò il funzionamento: «In Asia simili osservatori di difesa furono istituiti sotto la spinta del terrore dei pirati, e piú volte i loro fuochi d’allarme appiccati alla sesta ora del giorno erano scorti alla terza ora notturna nel punto piú arretrato». Anche Dante (Inferno VIII, 1-9) ricorda quelle segnalazioni con queste tre terzine: «Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre e un’altra da lungi render cenno tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: “Questo che dice? e che risponde quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”». Il perché delle due diverse modalità scaturiva dall’essere quello ottico migliore per trasmettere informazioni piú dettagliate, avendo come presupposto operativo la vigilanza diurna e notturna dei torrieri. Discorso diverso per la
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popolazione che, o perché intenta al lavoro o perché nel sonno, non poteva costantemente osservare le torri per decidere quando porsi in salvo. L’allarme, perciò, era acustico, captabile dovunque senza alcuna attenzione particolare: la campana delle strofe popolari è appunto quella delle torri che, con i suoi rintocchi, spesso amplificati dalle maggiori delle chiese, sollecitava la fuga.
Incursioni devastanti
Come accennato, le torri costiere angioine, sebbene si fossero moltiplicate dopo l’esplodere della guerra dei Vespri, rimontano all’avvento della dinastia nel 1266: tre anni dopo, infatti, in data 18 novembre, si ordinava di disporre «sentinelle, riparare e fortificare le torri di tutto il Regno per difesa contro i pirati e contro i nemici» (questa e le successive citazioni sono tratte da I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, Napoli 1950-80, III, p. 61). Non trattandosi di un ordine di costruzione, ma di manutenzione, ne deriva la conferma di quanto ipotizzato, cioè che si trattasse, all’inizio, di un gruppo eretto durante il biennio 1267-68, solo in seguito incrementato. E proprio dal 1268 iniziano le incursioni piú devastanti condotte dai Pisani lungo la costa d’Amalfi, per resistere alle quali Positano rinforzò
glio del Regno. E manda a Rimbaldo de Alamannia capitano della parte montuosa di Amalfi 75 stipendiari fanti toscani per ingrossare le milizie che à sotto il suo comando e per rimanere giorno e notte a custodia di que’ luoghi e a difesa degli abitanti contro i nemici». Anche la perlustrazione navale venne rinforzata, spingendola fin dentro il golfo di Napoli, poiché in data 10 maggio «avendo saputo che alcune galere sicule-aragonesi navigavano pel mare di Principato e facevano temere delle scorrerie a danno di quelle terre messe sul littorale, ordina a Guglielmo di Donnamaria che con gli uomini e vascelli della sua terra di Gragnano, e a Geberto de Herville che con gli uomini e vascelli della sua terra di Lettere stiano a custodia del littorale di Castellammare di Stabia e sue adiacenze. A Landulfo Caracciolo giustiziero degli scolari dello Studio di Napoli affida la custodia del littorale della città di Napoli e de’ luoghi circostanti, e a Tommaso di Aquino poi ordina che co’ suoi uomini e vascelli di Capua, Aversa, Calvi, Rocca di Mondragone, Sessa, Traetto, Fondi ecc. custodisca il littorale da Sperlonga fino a Pozzuoli».
L’ordinanza del re le mura, di cui sopravvivono due torri, Trasita e Sponda – poi trasformate in abitazioni – premessa di un piú fitto schieramento. Un documento del 1279, infatti, nomina altre 13 torri tra Agropoli e Sorrento, tra cui torre Assiola, presso Positano, ancora al suo posto, ma ridotta in altezza e alterata nel coronamento. Il peggiorare della situazione causato dalla guerra dei Vespri costrinse Carlo d’Angiò a istituire una continua perlustrazione lungo la stessa costa, compiuta da una galera di Amalfi per la sorveglianza fino a punta della Campanella, e una di Ischia fino alla foce del Volturno. In data 26 febbraio 1284 fu inoltre ordinato a «tutti i Giustizieri del Regno che tanto nelle torri che in tutti i luoghi marittimi si facciano i fari (fuochi) per potere avvisare l’approssimarsi del nemico e dei ribelli, avendo saputo che i SiculiAragonesi con gran numero di vascelli si preparavano a passare contro il continente». E ancora in data 2 maggio: «Ordina ai Giustizieri del reame di fare custodire con somma diligenza le torri del littorale destinate pe’ fari , e che gli uomini messivi a custodia siano attenti di sollecitamente avvertire lo avvicinarsi al lido delle navi nemiche e de’ ribelli col segno del fumo nel giorno e col fuoco nella notte, e nel modo consueto per indicare il numero delle navi; del quale ordine ne dà avviso a Giacomo de Burson viceammira-
Positano, torre Trasita. Una delle due torri angioine conservatesi fino ai giorni nostri.
La situazione rimase sempre critica anche dopo la liberazione di Carlo lo Zoppo, il quale, nel 1290, diede ordine di restaurare tutte le torri litoranee e di costruirne di nuove lungo le coste del regno. Il programma, però, fu attuato solo parzialmente, per le difficoltà intrinseche e per i relativi costi. Il concetto informatore restava sempre quello di una sorta di sistema di allarme perimetrale, che, evitando le impreviste incursioni, ne frustrava la virulenza. È del 1298 un’altra ordinanza, intitolata De locis marittimis bene custodiendis, che intimava «a tutti i castellani; affinché tengano vedette che segnalino l’approssimarsi di galere dei nostri nemici e che facciano tanti segnali quanti sono le galere o i navigli da guerra avvistati, di giorno col fumo e di notte con l’accensione di fuochi». Anche sugli scogli delle Sirene, abitualmente denominati «i Galli» di fronte a Positano e a Punta delle Campanella, si eressero torri del genere intorno al 1332, segno che, pur essendosi ormai da un trentennio conclusa la guerra dei Vespri, la situazione lungo le coste non era affatto migliorata. E purtroppo non migliorò neppure nei secoli successivi, fino al 1830. Delle torri angioine molte furono distrutte dal mare, molte altre finirono aggregate alle successive e piú grandi torri vicereali o restarono come ruderi al loro fianco e solo pochissime, come l’Assiola, continuano a svettare, sicuro rifugio di gabbiani. TECNOLOGIA MEDIEVALE
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VO MEDIO E Dossier n. 27 (luglio 2018) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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Illustrazioni e immagini: Ferruccio Russo: copertina – Mondadori Portfolio: Album: pp. 6/7, 12-15, 22/23, 70/71; Leemage: pp. 8/9, 11, 16-17, 18; AKG Images: pp. 9, 104/105; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 74; AGE: p. 89, 90 (basso) – Flavio Russo: tavole a p. 10 – DeA Picture Library: p. 19; Icas 94/Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 20; A. Dagli Orti: p. 107 – Cortesia dell’autore: p. 21 – Doc. red.: pp. 22, 72-73, 75, 88 – The Morgan Library & Museum, New York: p. 23. Il restante corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Medioevo», e, in particolare, dai nn.: 178, novembre 2011 (pp. 24-29); 198, luglio 2013 (pp. 30-35); 165, ottobre 2010 (pp. 36-41); 164, settembre 2010 (pp. 42-47); 177, ottobre 2011 (pp. 48-53); 168, gennaio 2011 (pp. 54-59); 185, giugno 2012 (pp. 60-65); 189, ottobre 2012 (pp. 66-69); 191, dicembre 2012 (pp. 7681); 157, febbraio 2010 (pp. 82-87, 90 [alto], 91, 92); 193, febbraio 2013 (pp. 94-99); 212, settembre 2014 (pp. 100-103); 159, aprile 2010 (pp. 106, 108-111); 170, marzo 2011 (pp. 112-117); 179, dicembre 2011 (pp. 118-123); 187, agosto 2012 (pp. 124-129). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
In copertina: ricostruzione grafica virtuale dell’insieme di verga e albero, simile a una T, su cui si basava il funzionamento di uno svegliarino monastico.
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