PERIODICO della FIDAart N.6 - Giugno ANNO 2015
FIDAart
In copertina: Romano Furlani, Tondo, 2012, olio su legno, diam. 50 cm
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FIDAart sommario
Giugno 2015, Anno 4 - N.6
Editoriale
EXPO 2015
pag. 4
Politiche culturali
Cafè de la Paix (Eterna)
pag. 5
Intervista ad un artista
Romano Furlani
Mercato dell’arte?
Ed Ruscha
pag. 20-21
Storia dell’arte
Bugatti 1936 Type 57SC Atlantic
pag. 22-23
The wild wild Denim
Indigo Jo
pag. 24-25
pag. 6-19
News dal mondo ED RUSCHA
“SMASH”, 1963
pag. 28
ED RUSCHA
“MINT” (Red), 1968
pag. 29
ED RUSCHA
“BALTIMORE ORIOLE”, 1965
pag. 30
ED RUSCHA
“SENZA TITOLO” (Our Flag), 1985
pag. 31
“MAH”, 2015
pag. 32
Omaggio a ED RUSCHA
Copyright FIDAart Tutti i diritti sono riservati L’Editore rimane a disposizione degli eventuali detentori dei diritti delle immagini (o eventuali scambi tra fotografi) che non è riuscito a definire, nè a rintracciare
EDITORIALE modello di manifestazioni che si propongono di rappresentare il mondo, è andato scemando conseguentemente alla crisi della fiducia nelle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, delle ideologie e delle religioni. L’unica religione sopravvissuta al crollo dei valori del secolo passato, e oggi universalmente vincente, è quella del Dio Danaro. Ci sarebbero anche altri valori che dovrebbero essere comuni a tutti gli uomini e gli animali, ad esempio il diritto al cibo, argomento che rientra a tutti gli effetti nel tema dell’Expo. Ma non un diritto teorico, astratto, neutrale, perché se i paesi ricchi sprecano ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo e nel resto del mondo le persone denutrite nel biennio 2010-12 erano 870 milioni (dati Expo), non si può certo dare la colpa al destino cinico e baro. Vedremo se qualcuno presenterà anche qualche proposta seria e operativa che non sia solo enogastronomica. Ci sarebbe anche un altro diritto: quello di essere pagati quando si lavora ma, ancora una volta, a farne le spese sono i giovani. A loro Expo “ha offerto l’opportunità di fare i volontari”, 5.30 ore al giorno per 14 giorni per «fare un’esperienza unica e irripetibile in un contesto, internazionale, multiculturale e multilingue che sarà un percorso formativo e di crescita». Ai fortunati che hanno superato i test di valutazione di un “programma di formazione on-line”, sono forniti: un Volunteer Kit (cappellino e divisa), un pasto giornaliero e un rimborso delle spese - documentate - per i trasporti pubblici (fino ad un massimo di 55 euro). Inoltre, grazie al progetto “Accomodation”, il volontario potrà ospitare - gratuitamente - altri volontari presso il proprio domicilio. Un vero affare!
E’ partita regolarmente l’Esposizione Universale, Expo Milano 2015. Per sei mesi il tema al centro della manifestazione, “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, potrà diventare un’occasione per riflettere e confrontarsi sui diversi tentativi di trovare soluzioni alle contraddizioni del nostro mondo in cui a fianco di chi muore di fame ci sono 2,8 milioni di decessi per malattie legate a obesità o sovrappeso. Secondo Padre Zanotelli «Il problema della fame è una conseguenza del sistema. Il 10 per cento della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti da questo sistema...che permette a pochi di avere tutto, di consumare tutto, a spese di molti che muoiono di fame». Non servirebbe un’esposizione universale che ci costerà 3,2 più 12,5 miliardi di infrastrutture per parlare del problema del cibo. Persone che muoiono di fame ma anche di sete perché il business e il potere del futuro, sarà in mano a chi controllerà l’acqua, un bene pubblico indispensabile e inalienabile da cui, come si vede anche in Italia dove, nonostante il referendum del 2011, i gruppi privati non vogliono rinunciare a ricavare profitti. All’Expo si potranno visitare padiglioni, industrie, aziende, cluster, saloni, uffici, teatri, piscine, conferenze, eventi, spettacoli, circhi, negozi, banchetti, ristoranti, trattorie, self-service, happy hours ecc. Qualcuno ha sommessamente fatto notare che mancherebbero i contadini che con il loro lavoro sfamano il mondo. A partire dall’Exposition Universelle de Paris del 1889 - in cui venne costruita in poco più di due anni la Torre Eiffel - l’interesse per questo 4
POLITICHE CULTURALI CAFE’ DE LA PAIX (ETERNA) Ritorniamo sul problema dell’annunciata chiusura del Cafè de la Paix, attivo circolo privato nel centro storico di Trento, non per difendere un’utile attività economica e culturale di giovani, ma per delle semplici considerazioni di opportunità sociale, culturale e urbanistica. A seguito delle continue accuse di arrecare disturbo alla quiete pubblica e dopo continue e ripetute scaramucce con gli abitanti della zona e, di conseguenza, con l’Amministrazione comunale, i titolari del locale hanno gettato la spugna annunciando la chiusura entro maggio. Non si sa se sia un tentativo di pressione per far rivedere le decisioni alla nuova giunta, oppure sia un vero e proprio addio. Gli abitanti del quartiere che gravitano sulla piazzetta interna saranno sicuramente contenti della pace e del silenzio conquistati. Vedremo se tra qualche mese, con il locale chiuso, le luci spente, la presenza di soli balordi interessati ad attività più o meno lecite, chi dovrà transitare di notte per gli androni deserti e isolati di via Suffragio sarà così soddisfatto della situazione. Usufruire di un presidio fisso frequentato garantisce - a costo zero - quella sicurezza sociale che i cittadini ormai mettono al primo posto. Allarmismo gratuito? Niente affatto, come dimostrano altre zone lasciate andare e ora difficili da recuperare. Certo è che un locale, prevalentemente frequentato da giovani (ma non solo), in cui si mangia, si beve all’aperto, si sente musica, si fanno incontri e chiacchiere per il piacere di tirar tardi, non può chiudere alle dieci di sera: è l’ora in cui cominciano ad aprire nelle altre città italiane e Trento, città universitaria, si fa ridere dietro. L’ovvia risposta è che anche i vicini hanno i loro
diritti: gli interessi privati di un locale non possono ledere il diritto ad una vita calma e al meritato riposo. Certamente sentire tutti i giorni un chiacchiericcio o, peggio, uno schiamazzo sotto le finestre di casa non è piacevole e, per alcuni, insopportabile. Purtroppo, se la logica è quella di garantire sempre, solo, comunque e dovunque la massima tranquillità, non c’è soluzione. O se ne va il circolo o se ne vanno i residenti. Nel primo caso, però, bisogna sapere che il centro storico sarà condannato ad accogliere solo uffici e negozi che chiuderanno alle 19 e che sopravvivrà solo la ricettività al chiuso. E che, se la città si svuota, ci saranno sempre meno ragioni per frequentarla dopo le ore diurne. Ancora oggi Trento, capoluogo di 115mila abitanti, è descritto dai giovani, trentini e non, come una città morta. Addio aspirazioni e progetti su Trento città turistica, città universitaria, città mitteleuropea della cultura, del turismo, cerniera tra nord e sud ecc. Forse il suo destino sarà quello di luogo destinato al tempo libero e al riposo dei pensionati, come le stazioni termali di fin de siècle in cui si respirava il tramonto di un’epoca. 5
Intervista a ROMANO FURLANI Potrà sembrare strano, ma molta pittura astratta è più affine alla musica (la più astratta delle arti) che alla pittura figurativa: mentre quest’ultima fa sempre riferimento a dei contenuti e a delle forme esplicite, l’arte astratta è autoreferenziale, parla di sè e del suo linguaggio. In questo senso, il colore e le sue modulazioni sono come suoni che vibrano sulla tela ed entrano in risonanza con l’osservatore suscitando emozioni, empatia e piacere estetico. Non concetti. L’arte astratta non si deve capire ma si deve “sentire” attraverso gli occhi. Romano Furlani è un poeta del colore perchè attraverso i suoi delicati e luminosi acquerelli riesce a comunicare il suo mondo interiore e gli stati d’animo senza dover ricorrere ad altro che non sia il pigmento utilizzato in mille modi e sfumature. La sua è una pittura di astrazione pura, “naturalistica”, ma non in quanto raffiguri una realtà fisica ma perché, affidandosi completamente alla parte emozionale, esprime in modo diretto e non mediato il senso del meraviglioso che si prova di fronte alla bellezza della natura. Le gamme delle sue tinte trasparenti e cangianti, tenui o vivacissime, le fasce fluttuanti, le ampie pennellate liquide sovrapposte, più vicine alla meditazione Zen che non alla pittura informale o gestuale, coinvolgono chi sappia accostarle con l’occhio sgombro da sovrastrutture mentali e sia capace di provare lo stupore di fronte all’essenza delle cose. In fondo, è una pittura “naturalistica” anche perché Romano ha conquistato tutto da solo, cercando, provando e riprovando: ogni sua opera nasce da una faticosa ricerca intima che gli ha permesso di essere “naturale”, leggero, libero dal peso delle convenzioni dell’arte ufficiale. Paolo Tomio A sinistra: Senza titolo, 2012, acrilico su carta 70x50 cm
In basso: Verticali, 1988, acrilici su tela,78x106 cm
Quando e perché hai cominciato a interessarti all’arte e dedicarti alla pittura? Dal 1963 al 1964, a Roma, ho frequentato musei e gallerie, studio libero del nudo. Non avendo visto niente prima di allora, è stata una corsa frenetica, per conoscere, per capire. Un giorno a vedere la scultura Greca, un altro i sacchi di Burri, tutto in fretta; c’è voluto molto tempo per comprendere quello che avevo visto.
Tu sei un autodidatta: quali sono i vantaggi e gli svantaggi a dover fare tutto da solo? Molti svantaggi, mi è mancata la parola del Maestro, l’esperienza trasmessa all’allievo. AnVisione, 2014, pigmenti su carta, 70x100 cm (particolare)
che per le cose semplici, i piccoli problemi, si è costretti a fare e rifare più volte la stessa cosa. L’insicurezza è costante, si guarda in tutte le direzioni, forse per questo, si possono avere intuizioni istintive date dalla necessità.
Ci sono stati artisti o correnti artistiche che ti hanno influenzato? Tutti i segni dell’uomo, dalle caverne all’arte digitale. La conoscenza degli artisti nei primi anni è stata lenta, non c’erano molte riproduzioni a colori, e abitando in un piccolo paese di provincia, si accumulava un certo ritardo. Mi hanno influenzato gli espressionisti, i cubisti, i futuristi, l’Action Painting, Franz Kline, ecc. Per il colore Rothko, Newman, Noland, Stella,
(particolare), 2013, pigmenti su carta,70x50 cm
Albers, Morris Luis. Mi convincevano quegli artisti che trasferivano nelle opere energia, sia nel costruire che nel distruggere.
Hai avuto un periodo figurativo tradizionale o hai subito cominciato a sviluppare un tuo linguaggio astratto?
Nel corso della tua carriera, hai conosciuto artisti locali o nazionali?
All’inizio facevo copia dal vero, esercizi, studi della figura. Dopo qualche anno ho iniziato a scomporre il paesaggio, la figura. In quegli anni non c’era la possibilità di essere molto informati, non c’erano molte riproduzioni a colori, e ci si trovava sempre in ritardo con quello che accadeva nell’ambiente artistico internazionale. Dipingevo paesaggi visti dall’alto, che sembravano opere astratte, che potevano ricordare Klee.
Conosco il lavoro degli artisti, sia locali che nazionali, ma non ho avuto molte frequentazioni. Abito in un paese di montagna ed è stato più difficile avere contatti. Negli anni ottanta ho frequentato la stamperia di Maurizio Giongo e Gloria Canestrini a Rovereto. In quel periodo ho collaborato, nello studio di Folgaria, per tre estati con il Maestro Giovanni Korompay. Esperienza per me importante, specialmente per il colore.
Come definiresti il tuo stile? Quali sono, secondo te, le caratteristiche che ti rendono ricono9
scibile? Non penso di avere uno stile. Mi comporto come un sismografo che traccia dei segni nel vuoto. Le verticali, le orizzontali, danno origine ad un alfabeto sconosciuto. Certamente ti sei accorto, che non pratico molto il parlare e lo scrivere, ma il silenzio si è trasformato in segno, le parole non dette si sono concretizzate in ritSenza titolo, 2005, vino e verderame su carta, 25x23 cm
mi, calligrafie. Dal 1984 ho iniziato a fare delle strisce di colore che attraversano la superficie del quadro. Queste fasce cromatiche “Segnocolore” non piatte, ma che comunicano le vibrazioni, le emozioni dell’autore.
Qual è la tecnica artistica che utilizzi principalmente nella tua attività?
Orizzontale verticale, 1998, acrilici su tela, 42x52 cm
Principalmente uso resine acriliche e pigmenti, il supporto carta o tela perfettamente in piano, i colori liquidi. Uso anche olio e smalti molto liquidi, solo all’aperto d’estate.
Ho iniziato ad usare le trasparenze, le velature, la qualità dei colori fa la differenza.
Da dove nasce il tuo amore per i pigmenti che utilizzi per dipingere?
Le tue opere sono fondate sul colore. Cosa rappresenta per te?
Nel 1989 a Monaco in un negozio di soli pigmenti mi fu spiegato quali erano, coprenti, trasparenti, puri o mescolati a polvere di marmo. Da allora mi preparo i colori, sembra una perdita di tempo, ma invece mi aiuta a riflettere, a preparare l’opera fuori dalla tela.
Ho disegnato molto, poi il colore ha voluto i suoi spazi, il colore per me è tutta la storia della pittura. E’ la disperazione del pittore, è lì, che promette risultati e poi sfugge, si prende gioco del pittore e a ognuno fa vedere i propri limiti.
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Situazione indefinita,1990, acrilico e pigmenti su tela, 103.5x75 cm
Krause. Per un pittore disegnare, dipingere su una pietra da stampa è un’esperienza che è utile fare. Scomporre manualmente, ricomporre un’opera, aiuta ad arrivare all’essenziale. La prima pietra, continuando a provare, l’ho consumata, poi, tornato a Venezia con Maurizio Giongo, ho trovato alla Giudecca un buon numero di pietre. La litografia usata da grandi artisti, da
Ti sei anche applicato alla litografia che hai imparato dal solo. Nel 1972 a Venezia “la Biennale” presentò a Cà Pesaro “Grafica d’oggi”. Fui attratto dalla litografia per i risultati che si possono ottenere. Mi sono procurato la prima pietra e un torchio 12
noi sembra dimenticata. Negli USA al Tamarind Institute si insegna e si pratica, si vedono cose nuove. Al Mart, in questo periodo sono esposti manifesti della “Grande Guerra” realizzati manualmente e stampati da pietre litografiche, andrebbero visti con particolare attenzione verso quest’arte ormai perduta.
Cosa ti interessa rappresentare nelle tue tele? Un diario di segni, colori, situazioni, cose non chiare, dire, non dire, fare, cancellare. L’energia del colore a contatto con diversi materiali. Cambio spesso supporti per permettere al colore di adattarvisi e ottenere nuovi risultati.
Oggi, quali sono gli artisti contemporanei che ti piacciono?
Mi interessano artisti trasgressivi, sia figurativi che astratti, specie tedeschi: Kiefer, Penck, Baseliz, Gerhard Richter, ecc.
Come mai hai rinunciato alle potenzialità che ti aveva offerto il mercato tedesco? Istinto di sopravvivenza! Ho avuto la sensazione che il mio curriculum finiva lungo l’autostrada. Per me, abituato al ritmo delle stagioni, vivere a contatto con la natura, in poche ore di viaggio, mi trovavo in un ambiente così diverso anche nel percepire la pittura. Anni di lavoro, sacrifici, per poi dipendere dal telefono: l’ho spento.
Come ti sembra il panorama dei pittori trentini d’oggi? Colore del vino, 2003, vino su carta, 70x100 cm
Segnocolore, 2007, acrilico e pigmenti su carta 25x23 cm
Mi tengo informato abbastanza di quello che succede nella cultura trentina. Sicuramente si può fare di più, a meno che non ci sia un progetto di sfoltimento degli artisti meno convinti.
Non sono in grado di dare un giudizio, non conosco abbastanza la situazione. Ho fiducia in alcuni giovani, fortunati che hanno la possibilità, la voglia di muoversi fuori provincia.
Cosa manca al Trentino per poter essere più presente sul mercato esterno?
Segui la “politica culturale” trentina? Pensi che si possa fare di più o meglio per il settore artistico?
Non te lo so dire. So cosa è mancato e manca
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a me. L’inglese, la facilità nel viaggiare, nei contatti, liberarsi dal peso delle montagne, camminare leggeri.
Cos’è la bellezza? E’ un valore che ricerchi o è subordinato ad altri valori?
Per me la bellezza non è sempre visibile, si può intuire. In pittura la bellezza appartiene al passato, oggi dire che bel quadro è un limite. In pittura cerco di trasferire energia, tensione, ritmo, poi mi ritrovo con un bel colore. Della bellezza è difficile farne a meno. Colore su colore, 2011, acrilico e pigmenti su carta 70x50 cm
Lasciare il segno, 1990, acrilico su tela, 140x104 cm
E, per finire, cosa è per te l’arte?
Chi è l’artista?
Io non la chiamo arte, troppo impegnativo: la chiamo “pittura”. Questo “fare pittura” mi segue da molto tempo, una compagna di viaggio esigente, che non mantiene le promesse, che ogni giorno pretende qualcosa.
Può essere artista un artigiano, un operaio, un contadino che fanno il loro lavoro con passione, con leggerezza, senza sforzo, senza fatica. Per un pittore, scultore, è difficile dire da dove inizia l’arte, l’artista.
Stupirsi del colore, 2014, pigmenti su carta, 70x50 cm
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‘900” 1975-2000 a Palazzo Trentini, Trento, nel 2003; “RenArt” a Palazzo Trentini, Trento, nel 2007; “Viaggio nell’ombra”, Studio 10 di Malcesine, nel 2010; “Sperimentazioni Blu” Studio 10 di Malcesine, nel 2010. Studio e abitazione a Vattaro Tel 0461-848457 ... L’opera d’arte deve essere come l’iceberg: nel risultato del fare artistico si intravvede solo una piccola parte della conquista interiore. Questo era quanto voleva indicare Kandinskij con il suo libro “Dello spirituale nell’arte”. Kandinskij non ha infatti, inventato I’arte astratta (della quale, a ben guardare, si conoscono tanti precedenti) egli ha solo posto il problema (che del resto è comune anche all’arte figurativa e già Itten lo ha ben rilevato) fondamentale che è quello di aggredire, nel proprio specifico, con i mezzi quindi, della pittura(nel nostro caso) la difficile salita di tanti gradini per i quali I’uomo mette meglio a fuoco Ie sue esperienze, si affina, passa in definitiva, da una routine oggettiva ad una valutazione utopica di orizzonti più lontani: Ià dove si misura iI tempo con un orologio senza lancette, dove Ia retta è curva e contorta, I’entropia impoverisce I’energia del cosmo e Ia mente umana si sperde nell’intuizione del caos. Per questo Furlani, spesso istintivamente o quasi inconsciamente, da parte di coloro che lo guardano, seguono e stimano, ha trasmesso le coordinate del suo operare che non sono solo quelle metodiche del pittore professionista(progetto, processo, fattualità e attualità) ma achievement (raggiungimento) di una attualità astratta, perché invisibile, ben viva sotto le onde dell’Oceano ma che non appare in superficie. Che I’osservatore deve svelare oltre i segni, macchie, spaziature, schizzi, tracce di colore, invenzioni di nuvole o oggetti metafisici, tutto ciò che costituisce I’oggetto retinico (Duchamp) per mettersi in sintonia con quello che all’artista sta più a cuore e che non troverebbe parole per dire. (Furlani, infatti, resta di rara taciturnità). A che punto poi si trovi nel suo lungo trasbordo, non sarebbe facile identificare, tuttavia ci resta la possibilità di notare un grosso distacco già in questo momento, fra lui e i suoi compagni di cordata. 1994 Luigi Serravalli Critica: Pacher, G., Sandri, R., Eccher, D., Degasperi, F., Serravalli, L., Cossali, M., Bernardi, P., Goedel, M., Bertel, F., Schicktanz, C., Herzog, U., Francescotti, R., Nardi, A., Canestrini, G., Scudiero, M., Turrina, R., Rizzioli, E., Helinolt, C. Nicoletti, G.
ROMANO FURLANI Nato a Vattaro nel 1941, ha iniziato come autodidatta verso gli anni Sessanta. Si è trasferito a Roma dove per un certo periodo ha frequentato l’ambiente artistico della capitale. Verso la fine del decennio compie dei viaggi di studio a Venezia, Milano e Parigi per approfondire il lavoro delle avanguardie storiche. Espone nel 1969 a Rovereto presso il Circolo Roveretano. Le sue ricerche si indirizzano verso l’approfondimento delle possibilità cromatiche e geometriche. Nel 1980 realizza in proprio una serie di litografie e nel 1985 abbandona il geometrismo e si dedica all’acquerello per approfondire le nuove ricerche verso un morbido grafismo steso per fasce cromatiche.Tra le personali si segnalano anche quella alla Galleria Mirana a Trento nel 1970, Galleria “Nuovo Spazio” Folgaria nel 1971, alla Galleria Pancheri a Rovereto nel 1973; allo Studio Andromeda di Trento nel 1980; a Castel Vigolo nel 1987; alla Galerie Croon di Monaco nel 1989; alla Dannenberg Gallery di New York nel 1990; alla Gallerie Ruf di Monaco nel 1992; al Mart Palazzo delle Albere nel 1993; all’Istituto Italiano di Cultura di Monaco nel 1994; Palazzo Festi (Teatro Sociale) di Trento nel 2004; Tra le collettive si segnalano: Galleria “Il Brandale” di Savona nel 1983; “Situazioni”, M.A.R.T. Palazzo delle Albere nel 1988; Palais Liechtenstein di Feldkirch (A) nel 1990; alla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte nel 1992; alla Dannenberg Gallery di New York nel 1992; Gallerie Ruf di Monaco di Baviera nel 1993; alla Galerie Roesinger di Colonia nel 1993; “Incontro con la grafica”, Palazzo Geremia di Trento nel 1995; “Correnti & Arcipelaghi” a Castel Ivano nel 1995; Galerie Katia Rid di Monaco nel 2000; “Inciso tra memoria e presente”, Palazzo Libera, Villa Lagarina, nel 2000; “Arte Trentina del
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Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015 della rivista FIDAart sono scaricabili da: www.fida-trento.com/books.html Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015 della rivista FIDAart sono sfogliabili su: http://issuu.com/tomio2013
Il 23 maggio, all’età di ottantasei anni, è morto il matematico John Nash, premio Nobel dell’Economia nel 1994, rimasto ucciso insieme alla moglie a causa della perdita del controllo del mezzo da parte dell’autista del taxi su cui i due stavano viaggiando senza cinture di sicurezza. La coppia stava rientrando a casa dalla Norvegia, dove lo scienziato aveva rtirato il prestigioso premio Abel per la matematica. John Nash, ritenuto tra gli scienziati più brillanti e originali del Novecento grazie agli studi di matematica applicata alla teoria dei giochi che hanno rivoluzionato l’economia, era divenuto famoso anche presso il grande pubblico dopo che la sua vita era stata raccontata (e romanzata) dal regista Ron Howard nel film “A Beautiful mind” (Una bella mente). Interpretato da Russell Crowe e premiato con un Oscar, vi si racconta di come Nash avesse sofferto per lungo tempo di una grave forma di schizofrenia. Quale sia il rapporto tra l’arte e un matematico, o meglio la matematica, è abbastanza intuitivo per quanto riguarda l’architettura, la musica e anche tutta l’arte classica le quali obbediscono a regole di proporzioni e di misure secondo canoni geometricomatematici: vedi l’uomo Vitruviano di Leonardo o la sezione aurea (la divina proportione), chiave mistica dell’armonia nelle arti e nelle scienze. Meno evidente, ma pur sempre fondamentale, il legame con le avanguardie del ‘900 e l’arte contemporanea: la geometria di Mondrian, la teoria della forma di Klee, la musica e Kandinskij, Malevich, Albers, Barnett Newman, Reinhardt, Castellani, Boetti, Merz, Kapoor, l’arte cinetica, il minimalismo, su su fino alla computer art, ai frattali ecc. La teoria del caos è la chiave interpretativa dello stesso “dripping” di Pollock, figlio delle teorie junghiane e surrealiste ma anche della relatività eisteniana.
FIDAart copertina del N.6 2015 Periodico di arte e cultura della FIDAart Curatore e responsabile Paolo Tomio
PERIODICO della FIDAart N.6 - Giugno ANNO 2015
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MERCATO DELL’ARTE ? meno di 7milioni di dollari. Anche altre opere come “Baltimore Oriole Securing Frehwater Fish” del 1965 e “Mint (Red)” del 68 (vedi pag. a 29, 30) aggiudicate entrambe nel 2013 per cifre inferiori ai 5 milioni rimangono nella media di questo pittore. Non a caso, “Smash”, è stato messo all’asta da Christie con una stima tra i 15 e i 20 milioni; il fatto che il prezzo finale sia addirittura raddoppiato dimostra come, spesso, i meccanismi del mercato siano economicamente (oltre che esteticamente) imperscutabili. Edward Ruscha, dopo il diploma in arte conseguito nel 1960 a Los Angeles, ha lavorato fino al 69 come impaginatore, prima per un’agenzia pubblicitaria e poi per la rivista Artforum. Interessato alla fotografia, al disegno, al cinema, ai libri d’artista, dopo l’incontro con la Pop Art Ruscha sposta i suoi interessi dalla grafica alla pittura vera e propria o, sarebbe meglio dire, alla grafica dipinta. La sua caratteristica principale, infatti, è quella di utilizzare sui dipinti delle parole o brevi frasi che richiamano esplicitamente i loghi e gli slogan della pubblicità e della grafica commerciale. Il suo “Smash” da 30milioni di dollari potrebbe essere benissimo il logo di un detersivo, mentre “Mint” (vedi a pag. 29) il poster di cioccolatini ripieni di crema alla menta. Al contrario di Warhol che, negli stessi anni, recuperava le icone della cultura popolare e consumistica di massa (la “Big Campbell Soup”) riproponendole poi uguali, Ruscha cominciava a inventare un mondo composto da sue figure e parole che dovevano diventare le nuove icone. Il lavoro di Ruscha si differenzia da quello dei suoi omologhi di New York anche per l’influenza del clima culturale di Los Angeles, dei piatti paesaggi californiani con i boulevard, le autostrade, le architetture, i cartelloni stradali e il cinema di Hollywood.
ED RUSCHA (1937) “SMASH”, 1963, olio su tela, 182x170 cm, stimato 15-20 milioni $ e venduto nel 2014 da Christie’s New York a $ 30.405.000 (€ 24.437.390) (vedi dettaglio a pag.30). Ed Ruscha, artista americano vivente di 78 anni, è un nome sconosciuto al grande pubblico e, probabilmente, anche a molti addetti ai lavori. Pur avendo partecipato nel 1962 insieme a Roy Lichtenstein e Andy Warhol alla mostra considerata una delle prime manifestazioni di “Pop art” in America e presentato nel 1973 la sua prima personale alla galleria di Leo Castelli a New York, Ruscha è rimasto finora ai margini delle grandi quotazioni. Per questa ragione, i 30 milioni di dollari battuti alla fine del 2014 per “Smash”, una tela del 65-6, sono inaspettati. “Burning gas station” (vedi pag.21) di dimensioni più piccole ma certo più interessante, era stata battuto nel 2007 da Christie’s per poco 20
ED RUSCHA Se alcune opere del 65-66 come quella dell’evocativa stazione del gas che brucia sono innovative nella composizione prospettica, stimolanti e provocatorie nei riferimenti ad una realtà socio-economica dell’”american life”, non altrettanto sembra di poter dire dell’abusata bandiera degli Stati Uniti: una monumentale “Stars and Stripes” lunga tre metri, rappresentata con una tecnica iperrealistica mentre sventola contro il tramonto infuocato (o sarà anche lì un incendio?) e intitolata “Our Flag”, “La nostra Bandiera”. Ma, poichè la vista rappresentata è in realtà il “posteriore” della bandiera, cioè il rovescio della faccia normalmente offerta, vi si intuisce una sottile critica dell’artista a un certo tipo di iconografia patriottica. Anche se molte delle sue opere minimaliste in cui sono riportate parole simboliche, onomatopeiche o ironiche su sfondi monocromi risultano piuttosto ripetitive e scontate, è prevedibile un’impennata dei prezzi di questo maestro superstite dell’epoca d’oro del Pop americano, oggi premiato dalla critica e dal mercato.
ED RUSCHA, “Sex at Noon Taxes”, 2002 acrilico su tela, 162x193 cm, Phillips New York 2010 venduto a 4.338.500 $ (€ 3.118.000)
ED RUSCHA, “Burning gas station”, 1965-66, olio e grafite su tela, 52x99 cm, Christie’s New York, 2010 venduto a 6.985.000 $ (€ 4.784.500)
BUGATTI 1936 Type 57SC ATLANTIC
Una delle due Bugatti 1936 Type 57SC Atlantic esistenti al mondo (degli unici tre esemplari realizzati dal costruttore) è stata acquistata l’anno scorso dal Mullin Automotive Museum di Oxnard, California, per la cifra record di 20milioni di dollari. L’a seconda Atlantic, di colore nero, è di proprietà dello stilista Ralph Lauren. Una fuoriserie nata nel 1936 e prodotta fino al 1938 derivata dalla berlina Type 57 dove la “S” in 57SC significa surbaissé, in francese “abbassata”, e “C” sta per compressore. Malgrado la venerabile età - 80 anni - l’Atlantic è modernis-
sima, un vero gioiello elegantissimo nelle linee della carrozzeria nate dal felice connubio tra lo stile Art déco e l’industria aeronautica. Il sinuoso coupé, progettato da Jean, uno dei figli di Ettore, l’italiano fondatore della Bugatti, è facilmente riconoscibile per la cresta che percorre la mezzeria della carrozzeria e per le linee filanti che si chiudono nella coda a goccia in cui è nascosta la ruota di scorta. L’aggressiva e aerodinamica fusoliera centrale che racchiude il vano motore, i parafanghi anteriori esterni carenati e collegati al corpo vettura da alettoni, le ruo-
STORIA DELL’ARTE te posteriori mascherate, gli sportelli sportivi e impraticabili, tutto contribuiva a rendere unico questo bolide pubblicizzato da Bugatti come “l’auto più veloce nel mondo”. Il disegno derivava direttamente dalla Bugatti “Aerolithe Electron Coupe”, un prototipo presentato nel 1935 al Paris Auto Salon e costruito in Electron, un materiale a base di magnesio usato per gli aerei, leggerissimo ma altamente infiammabile. Non potendo essere saldate proprio per questa ragione, le scocche della carrozzeria erano accostate e assemblate tra di loro mediante rivetti lasciati a vista. Per l’Atlantic, Jean Bugatti aveva deciso di utilizzare al posto dell’Electron una lega di alluminio che permettesse la saldatura, pur mantenendo le necessarie caratteristiche di leggerezza e solidità. Nonostante avessero perso lo scopo originario, le creste longitudinali rivettate vennero mantenute per motivi puramente estetici e questa fu una scelta felice dato che quelle linee che dividono in due il parabrezza, il lunotto posteriore e corrono lungo i parafanghi, contribuiscono a rendere la vettura inconfondibile. La Bugatti Atlantic è il risultato degli studi condotti sull’aerodinamica in seguito all’invenzione della galleria del vento, considerata una delle
auto più significative e preziose del mondo che ha ispirato molte delle automobili che sarebbero seguite oltre che un capolavoro dell’Art déco francese, lo stile eclettico modernista dell’epoca. Ma anche dal punto di vista della meccanica è una vettura estremamente avanzata: rispetto alla berlina, il telaio era stato ribassato e il motore 8 cilindri in linea da 3250 cc di cilindrata permetteva di raggiungere una velocità massima, eccezionale per quei tempi, di 210 km orari. Purtroppo, il rombo era tale da impedire ai passeggeri qualsiasi conversazione oltre i 60 km orari. Una berlinetta sportiva, spartana e riservata a veri appassionati: l’accesso all’abitacolo era estremamente difficoltoso, la visibilità ridottissima a causa della posizione di guida e la conformazione dei finestrini. Inoltre, con il sole, la scarsa aereazione e l’alluminio della carrozzeria causavano un calore interno talmente insopportabile da renderla impossibile da guidare. Come e più di tante altre opere d’arte, questa “scultura plastica” è una testimonianza che coglie e rappresenta perfettamente lo spirito di quell’epoca di pionieri affascinati dalla velocità e dalla modernità che oggi appaiono coraggiosi e ingenui in modo commovente.
TIHE WILD WILD DENIM della storia americana e mondiale. Un oggetto d’uso, semplice, razionale ed economico che, nel corso del tempo si è caricato di significati e di simboli in modo assolutamente imprevedibile perché legati alla rivoluzione dei costumi e ai nuovi stili di vita esportati dagli Stati Uniti attraverso i film di James Dean, Marlon Brando, Marylin Monroe, Paul Newman ecc. Malgrado siano nati come abiti da lavoro e di grande serie destinati a minatori, operai e cow boy, il denim dei blu jeans quando lavato e consumato dal tempo (oggi artificialmente) assume il suo particolarissimo colore: il blu-azzurro dell’indaco (“indigo”, in inglese), un colorante ricavato da una pianta dell’India sostituito alla fine dell’800 dai coloranti sintetici. Il denim, infatti, viene tinto quando è ancora filo, prima della tessitura, e il colore si depone all’esterno dei fili lasciando bianco naturale l’interno: per questa ragione scolora migliorando col tempo e con i lavaggi. Il suo caratteristico effetto bicolore deriva dal tipo di tessitura: innanzitutto, solo l’ordito è colorato mentre la trama (il filato orizzontale) resta bianco; secondariamente, l’armatura in diagonale (cioè il modo di intrec-
Non tutti sanno che il tessuto in cotone (blu o di tutti gli altri colori) con cui sono confezionati i jeans, si chiama “denim”, un tipo di tela molto robusta usata per i calzoni da lavoro di color indaco indossati dai marinai genovesi e cuciti con la tela di Nîmes (“de nimes” e poi “denim”). Il termine “jeans”, invece, si riferisce al taglio del pantalone unisex a 5 tasche, di cui le posteriori cucite sopra la stoffa. Questo particolare indumento da lavoro dotato di cuciture rinforzate da rivetti di rame è stato inventato dal sarto ebreo lituano Jacob Davis immigrato negli Stati Uniti, e brevettato nel 1873 da Davis in società con un venditore di tessuti, l’ebreo bavarese Levi Strauss. Nel 1890 è stato messo in vendita il primo modello di jeans Levi Strauss 501 da cui ha avuto inizio l’epopea dei blue jeans - due miliardi di capi prodotti nel mondo ogni anno - una delle icone giovanili più importanti 24
INDIGO JOE
ciarsi dei fili di ordito con quelli della trama) in cui un filo di ordito passa sopra un filo di trama e poi sotto due, ottenendo un disegno obliquo. Il denim blu è stato il materiale con cui Joseph Jackson, da tutti chiamato Indigo Joe, operaio afroamericano, ha avuto a che fare per tutta la vita lavorando in tintoria, al taglio e alla cucitura dei jeans nelle fabbriche Levi’s di S.Antonio, sobborgo di S.Francisco. Questa sua profonda conoscenza di un materiale che aveva imparato ad apprezzare, lo ha spinto a riutilizzarlo nel suo tempo libero cucendo tra loro parti di denim recuperato dagli sfridi in fabbrica e sottoposti a trattamenti meccanici o chimici di sua invenzione. Con una macchina da cucire Singer sistemata nell’interrato di casa occupato da cataste di pezzi di blue jeans, Indigo Joe ha pazientemente creato in quasi quaranta anni centinaia di opere in denim sempre più apprezzate, inizialmente come oggetti di artigianato e più recentemente, come vera arte popolare figlia della storia dei
neri americani. Nel corso degli anni le iniziali composizioni geometriche ed elementari sono diventate via via più complesse fino a raggiungere uno stile assolutamente personale. Oggi alcune composizioni di Indigo Joe, in particolare le ultime, i “Rings of the Gold Rush”, caratterizzate da disegni ellittici o circolari concentrici, molto decorative ed evocative, sono sempre più ricercate dai collezionisti anche fuori dagli stati del West. Nel 1980, la Levi Strauss & Co aveva negli Stati Uniti 63 stabilimenti di produzione, nel 2004 ha chiuso gli ultimi due impianti di cucito rimasti a San Antonio spostando tutta la produzione in Cina e India e mandando a casa qualche migliaio di operai, tra cui Jackson. La libertà involontariamente acquisita non è stata goduta a lungo da Indigo Jo, operaio-artista, che è morto l’anno successivo proprio a causa del “suo” denim responsabile delle gravi malattie respiratorie contratte per non aver mai fatto uso di mascherine sul luogo di lavoro. 25
Febbraio 2015, Anno 4 - N.6
News dal mondo ED RUSCHA
“SMASH”, 1963
pag. 28
ED RUSCHA
“MINT” (Red), 1968
pag. 29
ED RUSCHA
“BALTIMORE ORIOLE”, 1965
pag. 30
ED RUSCHA
“SENZA TITOLO” (Our Flag), 1985
pag. 31
“MAH, 2015
pag. 32
Omaggio a ED RUSCHA
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ED RUSCHA, SMASH, 1963, olio su tela, 182x170 cm Christie’s New York, 2014, venduto a $ 30.405.000 (€ 24.437.390)
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ED RUSCHA, MINT (Red), 1968, olio su tela 152x140 cm, Christie’s New York 2013 venduto a $ 4.827.750 (€ 3.750.500)
ED RUSCHA, BALTIMORE ORIOLE SECURING FREHWATER FISH, 1965, olio su tela, 150x140 cm Sotheby’s 2013 venduto a 4.757.000 $ (€ 3.681.000)
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ED RUSCHA, SENZA TITOLO (Our Flag), 1985 olio su tela, 137x307 cm, Christie’s New York 2014, venduto $ 4.197.000 (€ 3.120.446)
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PAOLO TOMIO, Omaggio a ED RUSCHA, “Mah”, 2015 fine art su tela, 300x210 cm