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02.3] Qualcosa in comune
[...] Allora non vi è dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni; e a nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù, avendoci posti tutti in compagnia. 21
L’Umana morte è rilevante.
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02.3 Qualcosa in comune
- YIN-YANG. Simbolo cinese della distribuzione duale delle forze, è composto dal principio attivo o maschile (‘yang’) e da quello passivo o femminile (‘yin’). Appare sotto forma di un cerchio diviso da una linea a esse; i due campi che ne risultano sono così dotati di un senso dinamico, che mancherebbe se la divisione fosse segnata sulla linea del diametro. [...] Ciascuna di esse contiene un circoletto del colore opposto, per indicare che ogni modalità racchiude sempre un germe della modalità opposta. [...] L’ingresso e l’uscita da questo movimento si trovano al di fuori di esso, così come la nascita e la morte non appartengono alla vita, in quanto cosciente e autodeterminata, della persona 22 -
Nel presente lavoro, come ho appuntato in apertura, non mi spingerò nello specifico delle tradizioni di pensiero orientali ed estremo-orientali, dato che il fulcro della faccenda vorrei rimanesse la riflessione sul nostro, occidentale, rapporto con la morte ed il lutto - come vedremo, al momento presente, alquanto problematico -, e da questo far prendere piede ad una discussione più specifica sul luogo urbano del cimitero, che è concretizzazione architettonica della faccenda. A questo si aggiunge la carenza di conoscenze riguardanti gli ambiti del
di senso, si perde qualcosa di infinitamente prezioso in cambio del perseguimento di un sogno puerile” (tratto da Dupuy J.P., Il marchio del sacro, in Latouche S., Limite, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 1). 21 Tratto da De La Boétie É., op. cit., pp. 38-39. 22 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., pp. 494, 495.
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macabro e del rapporto con la morte nelle tradizioni dell’Asia e dell’Estremo-Oriente, che al momento mi contraddistingue: mi sembra pur sempre doveroso evitare di parlare di ciò che non si conosce almeno un poco.
Ritengo però possa essere interessante - e possibile stimolo di ulteriore approfondimento - concedersi, tramite un virtuale spioncino, una momentanea visuale, per capire come, anche dall’altra parte del globo, i temi qui trattati siano stati storicamente rilevanti, e come lo siano tuttora. D’altronde, e forse anche piuttosto banalmente, si può affermare che è proprio la morte il grande comune denominatore che caratterizza indistintamente il genere umano e, conseguentemente ad essa, altre questioni di cui tratterò, dal rapporto con il macabro ai luoghi delle sepolture, per l’appunto.
Ora, il reciproco fiutarsi tra Oriente ed Occidente è sempre esistito. Quella che al giorno d’oggi è nota come “globalizzazione”, altro non è che un’intensa densificazione dei rapporti tra le diverse culture presenti, in particolar modo - per interesse personale - tra le tradizioni di pensiero occidentale ed estremo-orientale, con più esattezza giapponese, che, soprattutto a partire da metà Ottocento23, si sono vicendevolmente cercate, apprezzate ed influenzate. A partire da quel periodo, alterne vicende hanno reso molto più complici di quanto già non lo fossero le due parti: le reciproche traduzioni ed i vicendevoli rimandi lo confermano24, e l’odierna globalizzazione si può pensare come effettivamente matura proprio a partire da quei decenni.
Ebbene, tornando ora a parlare dei “fatti nostri”, tra gli occidentali dell’epoca molti si accorgono che queste maniere di pensiero, che potevano pregiudizialmente sembrare assai distanti ed alquanto strane25, differenti, sono invece per certi versi vicine o perlomeno comparabili con le ragioni e gli usi e costumi occidentali. Quelli che si possono definire i “grandi temi” infatti, come ha poi dimostrato più approfonditamente l’antropologia degli ultimi due secoli, si sono da sempre fatti ricorrenti e
23 È l’8 luglio del 1853 quando le cosiddette “navi nere” del commodoro Matthew Perry, su incarico del presidente americano di allora Millard Fillmore, giungono nella Baia di Edo (odierna Tokyo) e “convincono” il Paese del Sol Levante ad aprirsi al resto del mondo. A partire dal 1602 e fino a quell’anno, infatti, il Giappone si era chiuso in se stesso sotto il comando degli shōgun Tokugawa, in un periodo di minimi, se non nulli, rapporti con l’estero, denominato sakoku (lett.: “paese blindato”). 24 Ho qui semplificato molto: come sempre la questione è ben più complessa - e per certi versi tragica - di come si cerca di renderla esplicita. Tra i testi a mio parere più interessanti a riguardo si vedano, soprattutto, Okakura K., Lo zen e la cerimonia del tè (1906) e Said E., Orientalismo (1978). 25 Basti notare ad esempio come, fino al termine dell’Ottocento ed anche oltre, il termine esotico, che etimologicamente significa “esterno da sé”, “straniero” (dal lat. exoticus, a sua volta dal gr. exotikos, che proviene da exo, lett.: “fuori di”), sia spesso usato come sinonimo di “strano”, “particolare” e, talvolta, “oscuro”, “di difficile comprensione”, nella fattispecie se in riferimento all’Estremo-Oriente.
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presenti in tutte le culture, nessuna esclusa26 .
Insomma, vengono alla luce differenti risposte che però nascevano da domande molto simili. E tra queste risposte, più di qualcuno tra gli occidentali ci trova argomenti anche più interessanti rispetto al dibattito di appartenenza.
L’impatto è grande - e non poteva che essere altrimenti -; c’è chi, come Gustave Flaubert (1821-1880) - nelle parole di Bouvard -, mette in discussione l’originalità dell’intero impalcato teorico occidentale e prevede qualcosa che, ai nostri occhi contemporanei, non è poi così lontano dal vero:
L’uomo moderno progredisce, l’Europa verrà rigenerata dall’Asia. È la legge storica per cui la civiltà si muove da Oriente ad Occidente [...]. Le due forme di umanità infine si fonderanno insieme.27
Anche il genio di Claude Monet (1840-1926), come la gran parte della sua generazione e della successiva, ne rimane letteralmente soggiogato. Nemmeno il più algido Adolf Loos (1870-1933) si tira indietro, ed in maniera seppur grossolana, ma alquanto ficcante, asserisce che “la storia della cultura occidentale consiste di un costante processo di assorbimento dall’Oriente”28. E moltissime sono le voci di questo tipo. Ma queste appena esposte volevano essere solo alcune premesse - forse doverose più che in altri discorsi - per arrivare al focus di questo inciso iniziale.
Tornando al tema principale, penso che, tra le molte presenti29, soprattutto le tradizioni taoista e buddhista30 - nella fattispecie quella giapponese del buddhismo zen - esplichino sommamente quanto il tema della morte sia di primaria rilevanza anche nelle culture extra-europee.
26 Due libri esaurienti in merito alla questione sono quelli di Han B.-C., Filosofia del buddhismo zen, Nottetempo, Milano, 2018 (2002), soprattutto nei capitoli - nell’ordine in cui vengono presentati dall’autore - Religione senza Dio, Non dimorare in alcun luogo e Morte, e, dello stesso autore, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano, 2021 (2009) - soprattutto nei capitoli II. Tempo senza profumo, III. La velocità della storia e XII. Vita contemplativa. Entrambi i volumi saranno in questo lavoro ripresi più volte. 27 Famose parole pronunciate dal personaggio Bouvard in Flaubert G., Bouvard e Pécuchet, 1881, riprese nella sua trattazione anche un secolo dopo da Said E., op. cit., 1978. 28 Tratto da Loos A., Nudità, Giometti & Antonello, Macerata, 2021, p. 65. 29 “Non si può parlare di [generica] estetica orientale per il fatto, del tutto evidente, che “Oriente” designa una varietà di regioni, culture, tradizioni assai diverse, che comprende le tre grandi civiltà dell’Islam, dell’India e della Cina, ma anche quelle meno ampie, benché non meno importanti, del Giappone, della Corea, del Tibet, della Birmania e della Thailandia, ciascuna delle quali possiede una propria lingua, proprie tradizioni artistiche, nonché propri canoni estetici. [...] Quando si parla di “Oriente” si dovrebbe quindi sempre specificare di quale Oriente si sta parlando e ci si sta occupando” (tratto da Pasqualotto G., Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 2019 (1992), p. IX). 30 Un’affinità tra le due culture, quella nostra occidentale e la orientale buddhista, sta nella incredibile somiglianza tra - rispettivamente - lo schema medico proposto da Ippocrate e quello del
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Due dei testi più importanti di queste tradizioni di pensiero-e-pratica - dato che è tipicamente “orientale” la non-distinzione di fondo tra teoria (dal gr. theoria, lett.: “stare osservando”) e pratica (dal gr. praxis, lett.: “praticare”, “operare”), precipuamente occidentale - sono sicuramente il più antico Tao Te Ching (Il Libro della Via)31, testo fondamentale del taoismo di derivazione cinese, ed il Bushido (La Via del Guerriero)32, raccolta scritta delle riflessioni e degli insegnamenti dei grandi maestri samurai, che per secoli hanno costituito una delle caste più rispettate e conosciute, anche oltre confine, del Sol Levante.
I. Il primo dei due, brevissimo libricino di saggezza secolare, è, di fatto, un testo enigmatico, ermetico, del quale ogni versione non fa che ridurre e “scegliere” una delle numerose possibili varianti di traduzione dei corti brani presenti all’interno: è come se fosse un unico grande sinogramma - ovvero simbolo - difficilmente riconducibile a precise parole - ovvero univoco significato -, paradigma di un’intera tradizione di pensiero dai presupposti molto diversi dagli occidentali. Infatti, recita lo stesso, ad incipit degli ottantuno sintetici capitoli33, che “il Dao di cui si può parlare non è l’eterno Dao”34 . Fin da subito nel testo, ad esempio, è sottolineata la transitorietà dell’esperienza terrena umana:
Poche parole, natura intrinseca / Un vento tempestoso non dura tutto il mattino / un acquazzone improvviso non dura tutto il giorno / Chi fa queste cose? Il cielo e
cosiddetto Discorso sulle Quattro Nobili Verità di matrice buddhista (ed entrambi hanno al centro la questione del dolore). Così come ci dice Giangiorgio Pasqualotto, “la prima verità costituisce la diagnosi che individua la presenza del male; la seconda contiene l’eziologia che coglie nella brama la causa del male; la terza indica la prognosi positiva, ossia la possibilità di estirpare tale causa; la quarta propone la terapia dell’Ottuplice Sentiero” (tratto da Pasqualotto G., Viaggio nelle quattro Nobili Verità. Il dolore negli insegnamenti del Buddha, articolo in La Chiave di Sophia n. 11 - Vivere il dolore, Nodo, Treviso, 2020, p. 36). 31 La scrittura del Tao Te Ching è fatta risalire, secondo i più recenti studi, intorno al IV-III secolo a.C.; l’opera è attribuita a Lao Tzu (lett.: “vecchio saggio”), proprio perché precisa attestazione non è a noi pervenuta (e molto probabilmente non è mai esistita). 32 La parola Bushido è composta da tre kanji (bu-shi-do), che significano rispettivamente “guerriero” (bu), “gentiluomo” o “nobile” (shi) e “via” o “cammino” (do). Letteralmente, quindi, la “Via del nobile guerriero”. Il testo che conosciamo oggi sotto questo nome è in realtà una raccolta di scritti di differenti epoche: i primi di questi videro la luce intorno al 1100, anche se le riflessioni che sono al loro fondamento fanno tutte parte di una tradizione guerriera che, fino a quel momento, era tramandata per via orale dal VII secolo a.C. 33 Il termine “capitolo” per un testo come il Tao Te Ching, è improprio, ma utile a rendere l’idea della frammentarietà della raccolta. Ottantuno sono, quindi, i “componimenti”, “corti” o, ancora, “sentenze”, “frammenti”, brevi capitoli per l’appunto, che lo strutturano nella sua totalità. 34 Tratto da Lao Tzu, Tao Te Ching, Feltrinelli, Milano, 2020 (2011), edizione a cura di Sabbadini A.S., p. 39.
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la terra / Se perfino il cielo e la terra non possono farle durare / a maggior ragione non lo può l’essere umano.35
O ancora, similmente a quanto verrà scritto anche nel levantino Bushido secoli dopo: “Morire ma non essere dimenticato è longevità”36, dove la condizione mortale è insuperabile ma allo stesso tempo necessaria e non compromettente la vera longevità. Anche il tema del lutto compare potentemente; pianto rituale e riti funebri i suoi due fratelli:
Nelle occasioni di buon auspicio si innalza la sinistra / nelle occasioni funeste si innalza la destra / Il vicecomandante nell’esercito siede a sinistra / il comandante in capo dell’esercito siede a destra / vale a dire che sono disposti come per un rito funebre / Massacrare un gran numero di esseri umani causa lutto, tristezza e pianto / In guerra i vincitori sono disposti come per un rito funebre. 37
Il tema vero e proprio della morte compare con nettezza al frammento cinquantesimo, quando tutto il discorso ruota attorno a tale parola chiave:
Emergendo nella vita entriamo nella morte / [...] / In verità ho udito che coloro che eccellono nel coltivare la vita / viaggiando per via di terra non incontrano rinoceronti né tigri / entrando in battaglia non indossano corazza né armi / [...] / Perché? Perché in loro non c’è un luogo della morte. 38
Ora, pur accorciato ai versi fondamentali, tale frammento rimane particolarmente criptico, ma il senso di fondo ritengo si possa cogliere nelle parole iniziali, che evocano subito un senso di “malsano” nell’eccessivo attaccamento alla vita. L’attaccamento ossessivo alla vita è esso stesso nemico della vita. La vera arte del vivere sta nel distaccamento da qualsiasi desiderio, compreso quello dello stesso permanere in vita a tutti i costi. Ma ciò che non è per nulla scontato - e che potrebbe non essere saltato all’evidenza nelle poche righe qui citate - è che, come si vedrà essere anche per il Bushido, il Tao Te Ching è primariamente un testo di consigli pratici, pragmatici, dagli esiti anche politici. Ed il macabro, il lutto, il mortifero, rien-
35 Tratto da Lao Tzu, op. cit., p. 203. Tao Te Ching e Bushido sono, per certe espressioni ed insegnamenti, davvero molto simili. Si noti la somiglianza con un passo di Hojo Shigetoki del Bushido che recita: “[...] I boccioli fioriti aspettano l’arrivo del temporale. Da tutte queste cose si capisce che la transitorietà non si limita alla vita dell’uomo” (tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), Bushido. La Via del guerriero, Feltrinelli, Milano, 2020 (2013), p. 52). 36 Tratto da Lao Tzu, op. cit., p. 275. Si veda la somiglianza con la citazione di Shiba Yoshimasa alle pagine seguenti. 37 Tratto da Lao Tzu, op. cit., p. 259. 38 Tratto da Lao Tzu, op. cit., p. 381.
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trano in tale condizione: questi, come gli altri grandi temi (affetto, amore, amicizia, ecc.), sono strumenti “sociali”, “politici”. E su questo sfondo risuonano insegnamenti che possono apparirci come grandemente attuali: “Se la gente non teme la morte / come è possibile usare la morte per dissuaderla?”39 .
II. Per quanto riguarda l’altro fondamentale scritto, il Bushido, questo si può considerare come un grande testo di iniziazione alla morte, ancor prima che alla guerra:
Ma non esiste una Via che permetta all’uomo di superare i limiti della propria natura? Di andare oltre se stesso? La risposta è il Bushido, la Via del samurai40 . Nella vittoria sulla paura della morte, nostra paura primaria, raggiunta attraverso una costante speculazione sulla fine, sull’impermanenza dell’esistenza e sull’importanza del vivere nel momento presente.41
Ci è subito chiaro di come il samurai - e, più in generale, l’uomo che si attiene agli insegnamenti del Bushido - sia definibile come “colui che non ha timore della morte”, proprio in virtù di un suo quotidiano confronto con essa. E durante lo scorrere del testo tal cosa è subito evidente, viene presto portata alla luce. “La Via del guerriero è la ferma accettazione della morte. [...] Vòtati alla Via, non curandoti della morte [Miyamoto Musashi]”42 . “Gli uomini di ieri non ci sono più oggi, e non è certo che quelli che vivono oggi ci siano domani. Il destino dell’uomo non si cura di attendere il tempo di un respiro”43, recita Hojo Shigetoki. Colui che segue il Bushido è, quindi, costantemente pronto a perire. “Se il pensiero non è rivolto costantemente alla morte, si sarà imprudenti [Daidoji Yuzan]”44 . Allo stesso modo, però, la morte non deve per forza escludere una più generica permanenza - da non intendersi come necessariamente corporea -, dato che:
Se un uomo si focalizza solo sulla gioventù, quali pensieri lo assaliranno quando si troverà vecchio? Sebbene la vita di un uomo sembri solo un sogno o una visione fugace, il suo nome potrebbe riecheggiare per l’eternità [Shiba Yoshimasa].45
39 Tratto da Lao Tzu, op. cit., p. 549. 40 Il termine samurai deriva dal verbo saburau, che significa “essere l’attendente di-”, “servire”. 41 Tratto dall’Introduzione di Panatero M. e Pecunia T. a Idd., op. cit., p. 11. 42 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., pp. 99, 112. 43 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., p. 52. 44 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., p. 127. 45 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., pp. 56-57.
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Nemmeno il generico dolore fisico, coerentemente a tutto ciò, è tenuto in disparte e rifiutato: “Tutti dovrebbero fare esperienza della fatica così come la conoscono le classi inferiori”46, sentenzia Nabeshima Naoshige. In chiusa, il bellissimo insegnamento di Issai Chozanshi:
La vita è come un sogno, e anche nell’altro mondo vivrai una sorta di vita. Quindi anch’esso sarà simile a un sogno. In questo caso, è sciocco angustiarsi per il passaggio tra vite di cui non si sa nulla. Si dovrebbe morire semplicemente pensando: «Ecco, è così». Questo è il pensiero migliore che si possa avere in quel momento e di fatto in ciò consiste diventare un Buddha. [...] Se c’è vita, c’è morte. Perché dovrei aver paura? [...] Mentre sei vivo, segui la Via in ogni modo; quando muori, sii semplicemente felice di essere ritornato. Perché dovrebbe essere così difficile?47
Ecco che allora mi pare evidente come, anche nelle tradizioni geograficamente lontane dalla nostra - delle quali ho voluto farne emblematiche portavoci due sole per tutte, a mio rischio e pericolo -, sia inequivocabile la presenza della speculazione riguardo alla morte, della sua rilevanza all’interno della società, che sia questa quella “del saggio” (Tao Te Ching) o “del guerriero” (Bushido).
La rilevanza della morte non ha mai conosciuto confini nazionali.
46 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., p. 66. 47 Tratto da Panatero M., Pecunia T. (a cura di), op. cit., pp. 137, 139, 140.
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