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03.2] Imbrogli e sostituti
Alcune persone troveranno [durante il corso della storia] la forza di voler vivere grazie alla realizzazione di grandi opere che permettano loro di immaginare la propria sopravvivenza nel ricordo dei posteri (distal defense: symbolic immortality). Altre persone vorranno guadagnare un posto di privilegio presso un Dio (distal defense: literal immortality). Altri, più semplicemente, cercheranno di gestire il terrore della morte rimuovendo il problema con le amenità che il benessere garantisce (proximal defense). In ogni caso, la difesa più efficace è quella di mantenere costantemente attivo il meccanismo di negoziazione, che permette di continuare ad agire nel mondo credendo di conoscere le ragioni di ciò che si sta facendo, perché questo permette di mantenere sotto controllo il terrore (proximal defense). In tal senso, la cultura non è altro che il prodotto di tale incessante lavoro.9
E così, tutti gli studi sociologici ed antropologici portati avanti - e sono molteplici - da personalità come James Frazer (1854-1941), Arnold van Gennep (1873-1957), Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939), Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973), Robert Hertz (1881-1915), Bronislaw Malinowski (1884-1942), Alfred Radcliffe-Brown (1881-1955), Robertson Smith (1846-1894) ed Edward Taylor (1832-1917), si basano sulla convinzione che la società ed i suoi costrutti si fondino sulla gestione della morte e sul rapporto che l’Uomo intrattiene con questa.
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Da sempre, mortalità generatrice.
03.2 Imbrogli e sostituti
- TESCHIO. In senso generale è l’emblema della caducità della vita, e così appare negli esempi letterari dell’Amleto e del Faust 10 -
Innanzitutto, per fornire delle coordinate temporali sicuramente grossolane e vaghe, ma forse un minimo utili per procedere mentalmente con ordine nella questione, cosa possiamo all’incirca intendere con “età arcaica” - dato che tale termine, proprio perché ci parla di cose a noi più distanti, ci appare più imprecisato e torbido di altre limitazioni storiografiche?
Ebbene, a mio parere, dei “paletti” sensatamente posti sono, più di mol-
9 Tratto da Testoni I., op. cit., pp. 46-47. 10 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., p. 456.
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ti altri, quelli individuati da René Girard (1923-2015), che parla di come, proprio con la venuta di Gesù Cristo - secondo il cristianesimo -, sia sorta una delle più vaste e rilevanti rivoluzioni della storia dell’umanità11 (potrà apparire scontato, ma se ancora oggi in gran parte del globo ci poniamo, nell’esprimere le date, prima e dopo la nascita di Cristo, una rilevanza forte di fondo c’è. Tale scelta è motivata anche dal fatto che, come accennavo in apertura12, la presente discussione guarderà soprattutto al mondo e agli usi occidentali, con qualche accenno e rimando solo sporadici alle altre religioni, rituali e culture). Girard distingue, nella sua opera, tra “età del mito” ed “età biblica”, fondando tale frattura sulla questione, da lui proposta, del capro espiatorio13 .
Dunque, per facilità di comprensione rispetto all’Anno Zero “all’occidentale”, questa girardiana “età del mito” - in particolare nei secoli più distanti da questo Anno Zero di svolta, in quanto avvicinandovi si faranno i conti anche con “gli Antichi”, come direbbe Leon Battista Alberti, Greci e Romani - sarà intesa, solo durante queste poche pagine, come il tempo proprio dell’età arcaica.
Durante l’epoca arcaica - al contrario di quanto avviene invece attualmente - la presa di coscienza dell’esistenza della morte era all’ordine del giorno. Anassimandro di Mileto (VI secolo a.C.) avrà modo di affermare che la morte trova il suo senso nella vita, inevitabilmente: la morte c’è perché c’è la vita. Simul stabunt vel simul cadent14 .
La questione della mortalità dell’uomo era il consapevole e perenne sfondo di qualsivoglia esistenza (assieme con la potente - e quasi ovunque accertata - credenza di una vita ultraterrena successiva a quella vissuta15): questo fatto era dovuto, anche e soprattutto, alla convivenza sullo stesso
11 “Questa voce [quella del cristianesimo], anche se mal compresa, addirittura distorta, ha distrutto per sempre la credibilità delle religioni mitiche e scatenato la più grande rivoluzione culturale della storia umana” (tratto da Girard R., Il sacrificio, Raffaello Cortina, Milano, 2004 (2002), p. 76). 12 Si veda Capitolo 01.2 Ridurre il campo d'azione. Avvertenze sul cosa. 13 “Ecco la vera differenza tra il mitico e il biblico. Il mitico rimane sin dall’inizio alla mercé dei fenomeni di capro espiatorio. Il biblico rivela la loro menzogna rivelando l’innocenza delle vittime. [...] In realtà, il mitico e il biblico differiscono radicalmente perché il biblico per la prima volta rompe con la menzogna culturale per eccellenza non ancora svelata: i fenomeni di capro espiatorio sui quali si fonda la cultura umana” (tratto da Girard R., op. cit., p. 75). Per la questione si vedano, di René Girard, due titoli su tutti: Il capro espiatorio (1982) e l'appena precedente Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978). 14 Lett.: “permarranno insieme o cadranno insieme”. Si veda Casagrande D., Studio sull’interpretazione anassimandrea della morte, in Sitografia. 15 “Tra i primi riti dei quali l’archeologia ci ha segnalato delle tracce ci sono i riti funerari di Qafzeh e dell’uomo di Neandertal, seguiti da quelli del Paleolitico superiore e del Neolitico. Le offerte deposte nelle tombe, l’ocra rossa sui cadaveri, la sistemazione delle tombe, le conchiglie inserite nelle orbite oculari, i trattamenti speciali riservati ai crani sono indici della credenza in una vita ultraterrena” (tratto da Eliade M. (a cura di), op. cit. p. 10).
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visibile palcoscenico, molto più che in tutti i secoli successivi, di violenza e morte. Quest’ultima - la morte - era carnalmente, spudoratamente esibita (questo in quanto, contrariamente alla questione rousseauiana del “buon selvaggio”16, tutto in natura è polemos. La Natura è innanzitutto violenta).
Nella cultura arcaica [...] persino la malattia e la morte non sono affatto un evento interno al corpo17 , vengono anzi ricondotte a influssi esterni 18 . Ogni morte è [letta e interpretata come] violenta. 19
Ora, nell’arcaico, era comunque presente la volontà di difendersi dalla morte20, ma in una maniera completamente diversa dall’attuale: le esplicite violenza-e-morte quotidiane e non-nascoste, completamente esibite - e disinibite21 -, rendevano tutti consapevoli della caducità della vita. Tutti erano consci dell’impossibile mutazione dello sfondo comune dell’esistenza, cioè quello della mortalità. Nell’epoca arcaica, la fisica violenza - intesa come “negativa” (cioè proveniente dall'esterno-da-sé) - era evidente e la morte creduta e certa: l’unica possibilità di rimanere vivi era tentare - si potrebbe dire - di imbrogliarla.
Nella pratica arcaica della vendetta si ha a che fare con l’omicidio in sé, non con l’omicidio in quanto imitazione22. [...] La violenza esercitata sull’Altro incrementa la
16 “Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo” (frase iniziale di Rousseau J.J., Émile, 1762). Il mito del cosiddetto “buon selvaggio” sarà esposto da Rousseau (1712-1778) in molte delle sue opere, come nel Discorso sulle scienze e le arti (1750) e nel Contratto sociale (1762). 17 La caratterizzazione di “interna” può essere letta, nel pensiero di Han, come “positività”. Per il filosofo, un esempio di violenza del “positivo” è l’autosfruttamento (si veda, in particolare, Han B.-C., La società della stanchezza, 2010). Il periodo storico della “positività” è la contemporaneità (intesa come pura attualità); il soggetto fondamentale della “positività” è l’Io. 18 La caratterizzazione di “esterna” può essere invece letta, nel pensiero di Han, come “negatività”. Il periodo storico della “negatività” è lo storicizzato, il pre- momento attuale; il soggetto fondamentale della “negatività” è l’Altro. 19 Tratto da Han B.-C., Topologia della violenza, Nottetempo, Milano, 2020 (2011), p. 26. 20 Si rammenti anche di come amuleti e talismani facessero parte della quotidianità molto più che nelle epoche successive, ed il principale dei loro - forse infiniti - ruoli era proprio quello di tenere lontano le disgrazie, tra tutte, ovviamente, la morte. Per la questione si veda il capitolo Amuleti e talismani in Eliade M. (a cura di), op. cit., pp. 25-28. 21 Si vedrà invece come Philippe Ariès (al 1975) definisce la situazione odierna come della morte inibita, o proibita. 22 Così scrivendo, Han vuole andare oltre l’eccessiva semplificazione del pensiero di René Girard, che invece riconduce qualsiasi forma di violenza al tema della mimesi (si veda, in particolare, Girard R., Il sacrificio, cit.). Da notare come, invece, la questione in sé - ovvero slegata da quella della mimesi - del capro espiatorio, sempre di Girard, non venga messa in discussione da Han, cosa alquanto ragionevole, a mio modo di vedere).
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capacità di sopravvivere. Uccidendo, s’imbroglia la morte. Si uccide credendo di poter in tal modo prendere il controllo della morte stessa23 ,
e ciò è possibile solo in quanto si è costantemente rammemori di quest’ultima. Allo stesso modo, per fare un esempio più localizzato, ogni regnante celtico (V-III secolo a.C.) “aveva i suoi druidi che, con le loro maledizioni, potevano far rimare con la morte i suoi nemici”24. Si cerca un sostituto per la morte.
Al tempo, non si disconosce la morte, ma si cerca d’imbrogliarla.
Particolarmente interessante anche l’approccio arcaico al lutto (premessa sarà fatta: è forse impossibile il novero, anche solo ridotto, della totalità di villaggi, tribù o popoli di quest’epoca e delle loro usanze specifiche, molto più che nei secoli successivi, di cui abbiamo nette testimonianze, per cui i commenti seguenti vogliano essere indicativi di una situazione arcaica più o meno diffusa, anche se imprecisa). Ebbene, non la morte in sé, ma il rituale ad essa associato era l’ingresso, per il defunto, ad un aldilà sereno, ad una possibile “nuova vita”; e proprio tale rituale (fatto soprattutto di danze, maschere - quest'ultime tipico modo di impersonificarsi nel morto, scongiurando il ritorno di questo tra i vivi, oppure nella Morte - e versi propiziatori) poteva segnare la fine del lutto25. La fine del lutto era il momento di re-iniziazione nella società della famiglia, o clan, o comunità vicina al defunto, dato che questi dal momento della sua dipartita ne erano stati dis-sociati26 .
Così come l’integrazione della persona defunta, questo rito [quello funebre] consacra anche la reintegrazione nel gruppo di coloro che sono in lutto: l’ordine viene ristabilito e le interdizioni tolte.27
Il rituale funebre era inteso come atto di collettiva pseudo-iniziazione.
Il periodo di lutto in epoca arcaica era poi, in successiva analisi, un tempo lungo rispetto all’attuale - la cui brevità è dettata anche da questioni tecniche, come vedremo in seguito. Tale dilungarsi funebre molto maggiore era dettato anche dalla diffusa credenza di una morte, conclusione della vita, che non sopravveniva con l’esalazione dell’ultimo respiro, bensì
23 Tratto da Han B.-C., Topologia della violenza, cit., p. 25. 24 Tratto da Eliade M. (a cura di), op. cit., p. 264. 25 Periodo di lutto che nell’età arcaica poteva durare poco, giorni o settimane, o molto, alcuni mesi.
26 Si veda Eliade M. (a cura di), op. cit., pp. 276-277. 27 Tratto da Eliade M. (a cura di), op. cit., p. 399.
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dopo giorni - se non settimane28 -, quando la putrefazione del cadavere già raggiungeva stadi avanzati, in quanto “doveva trascorrere un periodo intermedio di non-vita e non-morte”29 .
Il morire arcaico è un tempo lungo, un segmento; la morte - medicalizzata - attuale è un istante, un punto.
Altra questione molto interessante, anche perché mai più così presente come nei secoli arcaici, è quella del lamento funebre, che rientra nei cosiddetti pianti rituali. Tale lamento veniva in genere praticato dalle donne. [04] Questo del lamento, assieme con gli altri modi simbolici e rituali di gestione dell’angoscia e della separazione dal defunto in ambito arcaico, sanciscono il definitivo passaggio dell’Homo dal naturale al simbolico30 (ovvero dalla sua “fase naturale” a quella “simbolica”). Come dirà Edgar Morin: dopo il faber e il sapiens, l’homo loquens31 . Sono giunte a noi fonti di carattere mitologico che attestano del praticarsi di questi lamenti, in occasione della morte di qualcuno, in culti babilonesi, siriani (ed in generale dell’Asia-Minore), oltre che in Egitto, dove pare che le lacrime possedessero proprietà rigeneranti32 .
La funebre lamentazione ha il suo antenato nel grido, che, a metà anni Ottanta del secolo scorso, Emanuele Severino (1929-2020) definisce così (quando, già un secolo prima, Nietzsche aveva posto sempre il grido a fondamento del futuro linguaggio umano):
Il grido. Sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. [...] L’intera vita dei popoli più antichi si raccoglie attorno alla rievocazione del grido, cioè attorno al canto33; e il canto avvolge i viventi ben più strettamente del calore dei fuochi attorno a cui essi stanno.34
28 Tale “porzione” di tempo di non-vita e non-morte è cosa presente in molte culture arcaiche: ad esempio, ha il suo famoso corrispettivo buddhista nel bardo tibetano (in sanscrito antarābhava), momento di transizione tra la vita e la morte in cui si decidono le sorti ultraterrene dell’individuo, che dura quarantanove giorni. Il Bardo Todol - sorta di manuale che prescrive i comportamenti da tenersi durante questo periodo rituale di poco meno di due mesi - è, a suo modo, una forma di Death Education ante litteram. Con le stesse finalità nasce anche il Kitab el-mayytun in ambito antico-egizio. 29 Tratto da Testoni I., L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 75. 30 Si veda De Martino E., Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (titolo aggiornato all’ultima edizione, 2021), 1958. 31 Si veda Morin E., L’uomo e la morte, 1951. 32 Si veda Eliade M. (a cura di), op. cit., p. 100. 33 Grido, quindi canto, da cui trae la festa. Dappoi, la cibazione rituale, o banchetto. Si veda Severino E., La strada, 1983. 34 Tratto da Severino E., Il parricidio mancato, Adelphi, Milano, 1985, p. 41.
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