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03.9] Bichat, o di colui che rischia la morte
dine del giorno. “Come l’atto sessuale nel marchese de Sade, la morte è [ora] una rottura”122 .
Odi et amo. Ossimorico “stupendo terrore”: è di fatto questo il grande cambiamento che sfocerà, successivamente, nel sentire romantico nei confronti della morte, tra fine Settecento ed Ottocento123 .
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03.9 Bichat, o di colui che rischia la morte
- CADUCEO. Verga con due serpenti intrecciati, che reca nella parte superiore due piccole ali o un elmo alato. La sua origine è spiegata [...] narrativamente con il presunto intervento di Mercurio per separare due serpenti in lotta. Per i Romani il caduceo era simbolo dell’equilibrio e della rettitudine [...] in Mesopotamia i due serpenti intrecciati erano già simbolo del dio della guarigione, attributo passato poi al dio greco della medicina per giungere fino agli emblemi dei nostri giorni. [...] Esprime sempre l’idea di equilibrio attivo, di due forze opposte che si controbilanciano per creare una superiore forma statica 124 -
A cavallo tra XVIII e XIX secolo, la foucaultiana follia ritorna in auge: autori come il marchese De Sade, Friedrich Hölderlin e Francisco Goya sono libere ed audaci voci rispetto al periodo di “grande internamento” precedente, autori che trovano la loro fiamma ardente nella forza liberatoria della “non-ragione”, nel campo che si può intendere dell’irrazionale, della provocazione, del mistero e della sessualità. Quasi profeti di cose non dette.
122 Tratto da Ariès P., op. cit., p. 51. 123 In realtà, come per tutti gli appuntamenti nella storia, non c’è un orario preciso. Affinità e parziale connubio tra Eros e Thanatos o, più precisamente in merito all’arma usata, tra Cupido e la Morte, si possono ravvisare già dagli albori della raffigurazione della danza macabra tardo-medievale: come nel Trionfo della Morte (di autore ignoto, 1446) esposto a Palazzo Abatellis di Palermo, questa scocca “cupidianamente” delle frecce. La falce l’ha pur sempre con sé, ma non la usa. 124 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., pp. 122, 123.
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Ma l’Ottocento è anche, sempre riprendendo Foucault, il periodo della “grande medicalizzazione”. Periodo nuovissimo, scosso dalle fondamenta, per la medicina: giunge “l’epoca di Bichat”125, che porta ad anni di rifondazione metodologica. Sono decenni in cui
il cadavere, lo stato del corpo morto [è] visto non più come la semplice negazione della vita ma, al contrario, come la condizione che permette di vedere chiaro nella dimensione del vivente.126
È da quel periodo che, in una concezione tutta contemporanea, la morte - come condizione medica - diventa uno strumento incredibilmente utile, e l’unico veramente affidabile, per lo studio del vivente.
Per il tramite del morto - il suo corpo -, si intende la vita.
Ad ogni modo, il sentimento romantico di primo Ottocento ha contribuito a trasformare la società occidentale portandola ai valori affettivi del singolo individuo127, nei suoi propri confronti e della sua famiglia, che sono oggi all’ordine del giorno, e che hanno portato alle inibizioni attuali nei confronti della morte e del macabro. Ma a fine Settecento, in Italia, - per certi versi in maniera che ricorda la tardo-medievale ironia - la morte è anche, ed ancora, Macabro ridens128, e la si esorcizza facendosene beffe (il gusto cosiddetto del “macabro ridanciano” farà parte soprattutto, nella Penisola, del gusto settecentesco di zona bergamasca e siciliana129). [11]
L’inizio dell’Ottocento è poi, nella filosofia, il periodo di Friedrich Hegel (1770-1831) e delle sue teorie, nelle quali la morte ha ancora un carattere “simil-platonico” (che sarà poi proprio anche di Martin Heidegger), denotata però da un sentimento eroico130 - d’altronde parla di “liberazione”
125 Marie François Xavier Bichat (1771-1802) fu uno dei padri fondatori della moderna istologia, branca della medicina che si occupa dello studio dei tessuti, cosa assolutamente rivoluzionaria per l’epoca. Si veda Foucault M., Nascita della clinica, 1963. 126 Tratto da Catucci S., Introduzione a Foucault, Laterza, Bari-Roma, 2019 (2000), p. 50. 127 Questione dell’individualità su cui si sofferma il filosofo Edgar Morin in un suo testo in particolare, L’uomo e la morte (1951). 128 “Macabro ridens” è il nome del ciclo di dipinti presso l’abside della chiesa di Santa Grata Inter Vites a Bergamo, fuori porta Sant’Alessandro, realizzati da Paolo Vincenzo Bonomini (1757-1839) nel 1797, anche intitolato più semplicemente Scene di scheletri viventi. 129 Come avrà modo di dire Philippe Daverio, “il siciliano è di per sé barocco, macabro e pasticcere” (si veda Daverio P., Passepartout - La danza macabra, in Videografia). 130 Tale sentimento eroico, che potrebbe definirsi anche “serioso”, nei confronti della morte da parte della tradizione tedesca, in particolare dall’Ottocento in poi, è molto distante ad esempio
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[11]
- di fondo che perdurerà, soprattutto in ambito germanico, fino a metà Novecento131 .
[Parafrasando il discorso hegeliano:] La morte dirige il finito verso il fondo: nella morte il singolo si libera della propria finitezza e si avvicina al proprio fondamento infinito. Il paradigma platonico della morte determina la stessa comprensione hegeliana della morte. La morte annuncia l’infinito: “Il finito è determinato come il negativo, e deve liberarsi di sé; la prima liberazione del finito dalla sua finitezza è la morte”.132
Anche per Hegel, così come per Fichte (1762-1814), la morte possiede una sorta di potere salvifico, perlomeno catartico, riguardo alla vita ed al fare filosofia. È un punto di inizio - e non terminale -, nella vita come all’interno della sua filosofia. Pur di molti secoli successiva, la filosofia di Hegel è permeata, per quanto riguarda il nostro tema, da un alone d’aspirazione all’infinito che si può far risalire alle vicende letterarie di Meister Eckhart (1260-1328):
A dispetto di una certa prossimità, la “grande morte” [ch’è quella buddhista, a cui Han fa riferimento] si differenzia dalla mors mystica [quella a cui vogliono condurre gli insegnamenti di Meister Eckhart]. Eckhart insegna, è vero, che nella morte “ogni desiderio” dell’anima svanisce. Ma, su un piano più elevato, il desiderio dell’anima si ripresenta: il “morire in Dio” è animato da un’aspirazione all’infinito. Nella “morte divina” l’anima si fonde interamente con Dio, dove “nulla muore”.133
Tutto il discorso intorno alla dialettica (“hegeliana”, appunto) che vede contrapposti servo e padrone si fonda sul “pensiero di morte”: colui che - in un’accezione che quasi ricorda alcuni passi del Bushido134 - non teme la morte diventa padrone, è colui che riesce a sottomettere il servo che invece non riesce ad andare oltre alla nuda vita135 timorosa della morte.
dalla concezione buddhista - che rientra in quel “grado zero della filosofia” hegeliano - che, come insegnano molti kōan, di fronte alla morte ride, e non rimane per nulla “seriosa”. “All’opposto della grande morte del buddhismo zen, in cui ci si risveglia a un’assenza del sé, in Hegel il rischio di morte è legato a quell’autocoscienza enfatica che esclude interamente l’altro. L’io eroico non ride” (tratto da Han B.-C., Filosofia del buddhismo zen, cit., p. 137). 131 Si veda Capitolo 03.11 “La Terre et les Morts”. 132 Tratto da Han B.-C., Filosofia del buddhismo zen, cit., p. 116. 133 Tratto da Han B.-C., Filosofia del buddhismo zen, cit., pp. 122-123. 134 I samurai giapponesi come coloro “padroni” in Hegel: penso che il paragone non sia poi così azzardato. Si veda Capitolo 02.3 Qualcosa in comune. 135 Il termine nuda vita è in questa sede ripreso all’interno dei confini tracciati da Giorgio Agamben (si veda Agamben G., Homo sacer, 1995-2015), per il quale è mera sopravvivenza biologica della persona, priva di alcuno scopo o motivazione che riguardano invece la vera vita. Una vita nuda, cioè
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