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05.7] Circulum ad quadratum
[...] A te che fosti la più contesa La cortigiana che non si dà a tutti Ed ora all’angolo di quella chiesa Offri le immagini ai belli ed ai brutti Lascio le note di questa canzone Canto il dolore della tua illusione A te che sei per tirare avanti Costretta a vendere Cristo e i santi
Quando la morte mi chiamerà Nessuno al mondo si accorgerà Che un uomo è morto senza parlare Senza sapere la verità Che un uomo è morto senza pregare Fuggendo il peso della pietà [...]76
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Anche questo documento, in concerto con il resto, si laicizza.
Un ulteriore aspetto rilevante: come si è accennato in precedenza, in questo momento storico, Thanatos si (ri-)avvicina ad Eros77, la morte si carica di caratterizzazioni fisiche e corporali, ed è proprio per questo motivo che la tomba, nella sua fisica concretezza e singolarità, è al centro del sentire dell’epoca riguardo al tema del finis vitae: difatti “ora i parenti volevano recarsi nel luogo preciso in cui il corpo era stato deposto”78 .
05.7 Circulum ad quadratum
- QUADRATURA DEL CERCHIO. [...] La quadratura del cerchio concerneva l’identificazione dei due grandi simboli cosmici: quello del cielo (il cerchio) e quello della terra (il quadrato). Si tratta quindi di una coincidenza degli opposti [...] di un’identificazione e annullamento dei due elementi in una sintesi superiore. Se il quadrato corrisponde ai quattro elementi, con la «quadratura del cerchio» - che in
76 Terzultima e penultima strofe di De André F., Il testamento, dall’album Volume III, 1968. 77 Si veda Capitolo 03.8 Eros. 78 Tratto da Ariès P., op. cit., p. 60.
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realtà dovrebbe chiamarsi «circolatura del quadrato» - si cercava di ottenere l’unità del mondo materiale (e della vita spirituale) al di là delle differenze e opposizioni (orientazioni) del quattro e del quadrato 79 -
Ora, in alcuni dei paragrafi precedenti, si è parlato di sepolture “nelle chiese” - intra moenia ed intra ecclesiam80 - senza approfondire più di tanto la natura specifica di tali sepolture. Ebbene, come sempre c’erano ricchi e poveri. Da questa distinzione sociale continuava a nascere la distinzione formale della sepoltura.
La forma dei sepolcri cambiava, infatti, qualora si seppellisse nella chiesa (i ricchi) piuttosto che di fianco a questa (i poveri). Questi ultimi erano sepolti nelle
grandi fosse comuni, dette «fosse dei poveri», larghe e profonde parecchi metri, dove erano ammucchiati i cadaveri, cuciti semplicemente nei loro sudari, senza bara. Quando una fossa era piena, la si chiudeva e se ne riapriva una più vecchia, dopo aver portato le ossa disseccate negli ossari.81 [23]
Per i primi invece, per i più ricchi, era prevista, oramai da secoli, una sepoltura “all’interno della chiesa, non in cripte a volta, bensì direttamente nella terra, sotto le lastre del pavimento”82 .
Ora, c’è da affermare che, durante e successivamente al dibattito settecentesco a proposito dei luoghi per la sepoltura, dal punto di vista formale le cose non cambiarono più di tanto, soprattutto per quanto riguarda la fetta maggiore di popolazione, ovvero quella meno abbiente. Si sposta - o meglio, viene fatta spostare - la sede del cimitero; cambia - come si vedrà - la forma architettonica di questo, ma ben poco varia nelle modalità effettive di inumazione, nella forma dei sepolcri, delle cavità: i meno abbienti rimangono gettati all’interno di grandi camere voltate ipogee, appena avvolti da stracci; i più benestanti passano dall’essere distesi al di sotto della pavimentazione chiesastica al rimanerci, dato che ancora per un po’ rimarrà usanza fare eccezione per “i noti” e seppellirli nei luoghi di culto, oppure ad avere tombe e lapidi singole, a sé dedicate, all’interno dei cimiteri extra-urbani che intanto stavano nascendo. Poche - anche se rilevanti,
79 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., pp. 371-372. 80 Si veda Capitolo 05.3 Gravitare intorno ai santi. 81 Tratto da Ariès P., op. cit., pp. 30-31. 82 Tratto da Ariès P., op. cit., p. 31
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come nel caso dei cimiteri del Fuga - saranno le eccezioni. Queste le doverose premesse al discorso che segue, per inquadrarlo correttamente.
Come abbiamo detto, le grandi fosse comuni ad un certo momento si trasferiscono, ma rimangono fondamentalmente uguali a se stesse. Ovvero? Ecco, diciamo che in qualche modo, durante il Settecento, vi fu una sorta di razionalizzazione, o comunque regolarizzazione, delle forme architettoniche del cimitero, inteso ora come luogo urbano delle fosse comuni. Nei capoluoghi si inizia ad affidare ai grandi architetti il progetto dei campisanti in quanto, soprattutto per numero degli abitanti e rilevanza politica, il luogo del cimitero assume importanza e carattere.
In ambito italiano, Ferdinando Fuga (Firenze, 1699 - Napoli, 1782) fu uno degli architetti più rilevanti e prolifici per quanto riguarda l’ambito cimiteriale - oltre che in generale per l'architettura nel suo complesso - del Settecento italiano.
Uno dei primi progetti di costui fu il cimitero dell’arciconfraternita dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma [24], alle pendici del Gianicolo. Benché ancora all’interno del perimetro urbano, anche questo cimitero - come quelli del successivo ultimo quarto di secolo - sorse per motivi prettamente igienici e di salute pubblica: difatti venne costruito dopo che fu impartito l’ordine di chiusura per l’antico sepolcreto, che aveva sede appena di fianco all’ospedale, perché situato troppo vicino alle sponde del Tevere, che spesso esondava. Per quanto riguarda il vecchio cimitero, si legge che “le sepolture ordinate in due file al numero di dodici, di varia profondità, che giunge sino a palmi trentasei [ovvero due metri e mezzo circa]. Può ognuna contenere fino a mille cadaveri, e si vanno ripurgando ogni sette/otto anni”83. Il nuovo cimitero - per riprendere il discorso fatto poco fa - si sposta rispetto alla sede originaria ma mantiene il modus operandi della sepoltura, perché all’epoca così si inumava. La cosa interessante, e per certi versi innovativa, è l’assenza di camere a loculo laterali, lungo il perimetro interno delle mura: tutti, indistintamente, se sepolti in questo cimitero, avrebbero trovato riposo all’interno delle grandi fosse comuni. Ad ogni modo, la forma architettonica si regolarizza, si ingrandisce e si sposta. Il progetto ai piedi del Gianicolo pensato dal Fuga prevedeva un grande recinto quadrato che contenesse cento fosse comuni, organizzate su dieci file da dieci camere ciascuna, alle quali si aggiungevano tre camere all’interno di un’esedra semi-ellittica su uno dei quattro lati del recinto. Le camere
83 Tratto da Bertolaccini L., Primi atti nella definizione dei moderni impianti cimiteriali, in Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., pp. 17, 23.
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ipogee erano ben più grandi di quelle del vecchio cimitero dell’ospedale: in pianta costituivano dei quadrati dal lato di due metri e mezzo, e misuravano all’incirca cinque metri di profondità; ognuna di queste era chiusa in sommità da un grosso tombino di pietra. Scelta progettuale interessante è lo scollamento della chiesa cimiteriale rispetto alla grande corte, ed addirittura rispetto al recinto tutt’intorno: questa infatti si trovava qualche decina di metri distante dall’area delle sepolture, collegata ad essa tramite uno spazio porticato. Rimaneggiato fortemente sotto il pontificato di Pio IX (1846-1878), il cimitero fu poi demolito nei primi anni Venti del Novecento, per far posto al nuovo Collegio di Propaganda Fide.
Quella del cimitero gianicolino è solo un’anticipazione del più noto progetto del Fuga, ovvero il - cosiddetto - Cimitero delle 366 Fosse84, realizzato nel 1762 ai piedi della collina di Poggioreale, a Napoli [25]. Tale intervento faceva parte, assieme con il Real Albergo dei Poveri (1751) ed il complesso dei Pubblici Granili (1779) del grande piano assistenziale e per il risanamento pensato per la città ed attuato in quei decenni da Carlo di Borbone. Il nome affibiatole dice già quasi tutto di quest’architettura: ancora una volta, come nell’occasione romana, un ampio recinto quadrato racchiude la corte secca lastricata delle fosse comuni, stavolta in numero di trecentosessantasei, ovvero una per ogni giorno dell’anno, tenendo conto anche degli anni bisestili. Le motivazioni alla base di questa cifra sono ancora una volta di matrice igienista e funzionalista: ogni giorno veniva aperta una ed un’unica fossa, gettati all’interno i cadaveri, al di sopra sparsa della calce viva - a facilitare il processo di decomposizione - e, quindi, richiusa la camera. Così facendo si evitava di lasciare aperta, finché non piena, la stessa camera per più giorni - cosa che evidentemente non poteva essere fatta in quanto avrebbe comportato terribili esalazioni per moltissime ore -, ma allo stesso tempo si riduceva al minimo - cioè ad un’unica volta - il numero di aperture quotidiane della fossa, che era cosa non banale: difatti il macigno a chiusura della camera sepolcrale era levato grazie ad un pesante macchinario, dalla difficile movimentazione. Il fatto che le camere fossero in numero uguale a quello dei giorni permetteva di ridurre la movimentazione del grande argano al minimo, in quanto solo qualche metro divideva
84 “Il cimitero napoletano è conosciuto con diversi nomi: Roberto Pane lo definisce “cimitero del tredici” e specifica che: “il nome Tredici, riportato anche dal Milizia, è un aferesi dialettale di Lautrec, nome del maresciallo di Francia che pose l’assedio alla città nel 1528, accampandosi nel luogo dove poi sorse il cimitero”. Raffaele Mormone si riferisce al complesso architettonico come “cimitero degli incurabili”. In altre fonti si trova citato come “cimitero del popolo” perché destinato a ospitare i corpi degli appartenenti alle classi meno agiate” (tratto da Bertolaccini L., op. cit., pp. 17-18).
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una “bocca di fossa” dall’altra; è sempre per tale motivo che la numerazione di queste non era perennemente da sinistra a destra, o viceversa, rispetto alla pianta, ma proseguiva ad “S” - quindi in una fila da sinistra a destra e viceversa nella fila successiva -, proprio per lasciare il macchinario il più vicino possibile al posizionamento delle ventiquattr’ore precedenti; questo era fondamentale anche perché era sempre lo stesso argano il mezzo con il quale si adagiava il corpo dei defunti al fondo della camera. Fatto ciò, nel giro di un anno, la natura - accelerata dalla calce viva - avrebbe fatto il suo corso, e la grande fossa poteva quindi essere “sanamente” riaperta.
Ancor più di quello romano, l’episodio napoletano, con la sua appropriatezza e “giustezza” di compromesso tra salute e rito, nel rispetto reciproco tra “città dei vivi” e “città dei morti”, si erige a modello per i decenni successivi.
Cancellando ogni pretesa individuale e ogni forma di personale celebrazione, ed evidenziando l’inesorabile ciclicità del tempo, Fuga crea a Napoli un’architettura laica e razionale che, per molti anni a seguire, sarà presa ad esempio nella progettazione di impianti cimiteriali collettivi.85
Insomma, una macchina perfetta (come dirà Quatremère de Quincy86) che allo stesso tempo però, tiene conto dell’aspetto rituale. Il fatto che il cimitero di Poggioreale passi alla storia come pochi altri italiani - e non solo - del periodo è dovuto soprattutto all’aspetto rituale e simbolico, che in questo progetto è risolto compiutamente, più che in quello gianicolino o in altri: in questi ultimi, Fuga traccia impianti molto simili - ovvero, recinto rettangolare a contenere la corte lastricata con le camere ipogee - ma, metaforicamente, non chiude il cerchio. Non riesce ad inscrivere perfettamente il cerchio - simbolo della ritualità e della ciclicità della vita - nel quadrato - simbolo del recinto costruito -. In quello napoletano, invece, il progetto è con-cluso, serrato, completo: una fossa per ogni giorno dell’anno fa in modo che l’intero ciclo delle stagioni, l’intero circulum annuale - che altro non è se non l’emblema della più grande ciclicità, ovvero quella della nostra esistenza - sia inscritto all’interno del quadrato (ad quadratum) del recinto architettonico. Ritengo sia corretto quindi, nel caso del progetto napoletano, parlare di un vero e proprio modello, di un exemplum: di una macchina rituale ineccepibile.
Circulum ad quadratum.
85 Tratto da Bertolaccini L., op. cit., p. 18. 86 Si veda Bertolaccini L., op. cit., p. 18.
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A partire dal 1732 fino al 1773, il regno sabaudo di Carlo Emanuele III di Savoia vive un’epoca di grande miglioramento della situazione igienica delle città piemontesi, ed è a partire da questi decenni che si progettano i nuovi impianti cimiteriali in zone maggiormente decentrate87, operazione di rinnovamento del vivere civile che continua anche sotto il regno del successore, Vittorio Amedeo III (1726-1796), e durante la prima metà dell’Ottocento. Questo, dato che la situazione non era molto “aggiornata”:
a Torino [ma un po’ dappertutto88] sino alla prima metà del Settecento [...] le sepolture nelle chiese sono delle “camerette” che si aprono sotto il pavimento, e sono coperte da una grossa pietra tagliata su misura che, solitamente, presenta un’iscrizione; le casse sono accatastate una sopra l’altra.89
Si decide quindi, secondo una nuova regolamentazione da parte del Senato di Torino in merito ai tempi ed i modi dei trasporti delle salme verso i nuovi cimiteri, pensati extra moenia, che
i cadaveri non possano più essere trasportati al camposanto se non all’interno della cassa, alla quale deve provvedere la famiglia del defunto. Per i poveri sono previste casse comuni reperite dalla parrocchia, la quale si fa carico delle spese di trasporto. L’orario è legato alle stagioni: in inverno si procede alla tumulazione prima delle otto del mattino, in primavera e in autunno entro le sei e mezzo e in estate entro le cinque e mezzo. Se il cadavere deve restare in chiesa per la “messa presente cadavere”, e non viene quindi sepolto in mattinata, non può rimanere in chiesa l’intera giornata, ma la parrocchia dovrà munirsi di una camera mortuaria. La sepoltura dei cadaveri è vietata prima che sia passato un lasso di tempo di almeno ventiquattr’ore dal decesso [...]. Il trasporto del defunto viene affidato all’amministrazione municipale che, con appositi carri attrezzati, offre un servizio gratuito. Si pongono in questo modo le basi per la nascita e lo sviluppo della politica igienico-sanitaria moderna, realizzata nel corso dell’Ottocento dall’amministrazione municipale torinese.90
A Torino, chiaramente ispirato al Cimitero delle 366 Fosse è quello di San Pietro in Vincoli (1777), posto vicino al corso della Dora ed anche conosciuto col nome dialettale di “San Pier de’ cavoli” - in quanto, secondo la leggenda, sorge su un orto di cavoli -, impianto tutt’oggi presente seb-
87 Si veda Dameri A., Dellapiana E., La città dei morti nella città che cresce. Torino e il Piemonte, 17701860, in Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., p. 67. 88 Lo scopo è, nel corso dei vari casi analizzati in questo capitolo, sempre il medesimo: giungere ad un’immagine generale della situazione cimiteriale attarverso la presentazione di casi specifici, da intendersi come significativi e paradigmatici. 89 Tratto da Dameri A., Dellapiana E., op. cit., p. 67. 90 Tratto da Dameri A., Dellapiana E., op. cit., p. 68.
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bene non più attivo da molto tempo, progetto dell’architetto piemontese Francesco Valeriano Dellala di Beinasco (1731-1805). Ancora una volta un recinto retttangolare di alte mura racchiude la corte “fredda” delle fosse comuni ipogee, stavolta in numero di quarantaquattro (griglia in pianta da nove file da cinque camere ciascuna, con la centrale riservata all’ossario). La peculiarità della realizzazione, rispetto ai progetti del Fuga, stava nel fatto che le sepolture erano distinte in base alla classe sociale di appartenenza ed al censo: al di sotto delle arcate perimetrali trovavano posto solo i cittadini più abbienti, con lapidi ornate e veri e propri monumenti funerari. Se l’architetto fiorentino sembrava aver superato la storica impasse, ecco che, in realtà, permarrà ancora fortemente una distinzione di rango all’interno della maggioranza dei cimiteri costruiti in quel periodo. Con somma gioia di Francesco Valeriano, tra l’altro, sarà il suo progetto - e non i più meridionali del Fuga - ad essere spedito nel 1781 a Carlo III di Borbone, da poco salito sul trono di Spagna, assieme con gli scritti del romano Lancisi (1707, 1711) e del fiorentino Piattoli (1774), nel tentativo di porre in essere le utili innovazioni che stavano avvenendo nelle principali città italiane anche nella corte spagnola.
In maniera pressochè identica a quello di San Pietro in Vincoli, viene edificato, sempre a Torino e sempre a partire dal 1777, il Cimitero di San Lazzaro, su un terreno libero donato dal re ad est della città.
Entrambi presentano lo stesso impianto rettangolare con portici su tre lati, la chiesa sul fondo, un cortile con pozzi adibiti alle sepolture comuni, dove si accalcano bare e cadaveri l’uno sopra l’altro. I sepolcri più importanti si trovano invece sotto il porticato che cinge i tre lati. [...] In ognuno dei due cimiteri si aprono circa quaranta pozzi, molto profondi, ognuno con una capacità media di duemila corpi o trecento feretri, per un totale di circa novantamila sepolture per ogni cimitero. [...] Gli ebrei, i giustiziati, i ricoverati all’Ospedale della Carità continuano ad essere sepolti in luoghi separati, mentre quelli che sono esclusi dai cimiteri sono sotterrati di notte, in un recinto di terra comune, fuori dai due camposanti.91
Altra questione che accomuna i due cimiteri torinesi - e che accomuna in generale i recinti cimiteriali dell’Europa meridionale e continentale, più che quella settentrionale -, è il fatto di racchiudere al loro centro una corte secca: difatti, com’era solito farsi, prima della loro apertura vengono benedetti dall’arcivescovo di Torino, che, giustificando il fatto per mezzo della natura sacra - ed ancora religiosa - di quei luoghi, al pari delle pavimentazioni interne delle chiese, ribadisce la “necessità di non farvi crescere all’interno nessun arbusto e nessun genere d’erba incolta, la quale avrebbe avvicinato
91 Tratto da Dameri A., Dellapiana E., op. cit., pp. 69, 70.
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i due spazi a luoghi tipici del mondo profano”92 .
La corte cimiteriale è sacra (e religiosa), perciò secca - e non fiorisce.
Una città su tutte manca ancora all’appello: Milano, dove le inchieste non mancarono, ma si differì dalle altre città nelle loro attuazioni pratiche. Ebbene, anche qui, nel 1767, un’ordinanza ducale impediva il perdurare delle sepolture nelle chiese e si richiedeva la costruzione di un grande cimitero extra-urbano: “Si ripristini, per quanto sarà praticabile per maggior decenza delle chiese, l’uso di seppellire i morti fuori dalle chiese, disponendo a questo effetto il cimitero in sito aperto e lontano dall’abitato”93 . Numerose furono le proposte degli architetti per la costruzione di questo spazio: prima Carlo Riccardi (1772), poi Giuseppe Piermarini e Giovanni Antonio Bettolli (1781), quindi il tentativo di Leopoldo Pollack (1785) dalla particolare forma pentagonale. Proprio nel 1785 però, l’amministrazione cambiava idea, e valutava più coerente l’apertura di un sistema di più piccoli cimiteri extra moenia, a servizio dei vicini quartieri. La questione del grande cimitero cittadino si rifà viva neanche vent’anni dopo, quando Carlo Amati, nel 1802, presenta la sua proposta di “recinto sepolcrale”, ma il tutto rimarrà bloccato ancora per molto, di preciso fino al 1864, anno di avvio del cantiere dell’attuale Cimitero Monumentale, presieduto da Carlo Maciachini, in un’area a nord di Porta Garibaldi94 .
In terra toscana le cose non vanno molto diversamente, anzi. Piuttosto precoce - rispetto alle tempistiche ravvisate nel resto della Penisola - è la costruzione del nuovo camposanto fiorentino di Santa Maria Nuova, avvenuta tra il 1747 ed il 1748 (poi ingrandito nel 1765), spostato dall’omonima area ospedaliera, questa intra moenia, ora al di fuori di Porta a Pinti. Per tale progetto sembra che la prima proposta sia stata fatta proprio dallo stesso Ferdinando Fuga, in quegli anni di stanza a Firenze: riprendendo l’esatta impostazione funzionale del suo esito romano di qualche anno precedente, egli si fa però maggiormente “lezioso” dal punto di vista planimetrico, circoscrivendo il cortile lastricato delle fosse comuni - che sarebbero dovute essere stavolta ben centocinquantadue - per mezzo di un recinto ottagonale95 , dai lati sbieghi leggermente flessi. Inoltre, quattro identiche estroflessioni a mo’ di “scarselle” laterali erano state previste sui quattro lati maggiori ortogonali. Ma lo sforzo del Fuga rimane del tutto vano.
92 Si veda Dameri A., Dellapiana E., op. cit., p. 69. 93 Tratto da Bertolaccini L., op. cit., pp. 21, 23. 94 Si veda Capitolo 05.11 Cortei. 95 Ora, se formalmente l’esito progettuale è ben diverso, nel significato più proprio rimane lo stesso
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Accantonata, perché ritenuta eccessiva per le reali esigenze dell’ospedale fiorentino, l’idea di realizzare un’installazione più imponente e abbandonato parimenti il metodo delle fosse, ci si limita a un semplice campo rettangolare per sepolture in piena terra, la cui costruzione inizia il 25 aprile 1747 per terminare [...] il 2 maggio dell’anno successivo.96
Quasi del tutto identica (anche se più ridotta nelle dimensioni) è la soluzione del 1783 per il cimitero di Arezzo, anno in cui questo viene ampliato - sempre su provvedimento “dell’illuminato” Pietro Leopoldo - e reso adatto alle nuove e mutate esigenze, così come quella per il nuovo camposanto di Pisa (1783) - disegnato appena fuori Porta Nuova da Giuseppe Salvetti -, e quella della novella necropoli di San Gimignano (1785), ad opera di Pietro Conti, che si appoggia su un lato all’impianto esistente delle mura cittadine.
Altra occasione in cui il granduca si rende sicuramente protagonista è quella inerente alla - si potrebbe definire - travagliata gestazione del cimitero di Livorno. Al 1758 infatti, divenuto insufficiente il vecchio, cominciano a redigersi le prime proposte per il nuovo: solo nel 1774, però, viene di fatto deciso il luogo adatto alla sua costruzione, questa incaricata a tale Ignazio Pellegrini (1715-1790).
Pur non criticando apertamente il disegno, che prevede un impianto a pianta quadrata con cappelle angolari e peristilio di 112 colonne doriche, il granduca, con la concretezza che gli è propria, raccomanda che intanto si cominci con fare le sepolture, l’arca ed il muro circondario, perché se mancassero i denari per fare le colonnate e le cappelle, almeno quello che importa per il servizio pubblico sia fatto.97
Ebbene, il Pellegrini segue i lavori solo fino al 1777, quando ci si accorge che, intanto, ciò portato avanti è stato messo in opera molto malamente, concedendo numerose infiltrazioni che - a detta dei cronisti dell’epoca - neppure permettono l’inumazione dei corpi sotto i loggiati e nelle cappelle. L’impianto è quindi, nei suoi primi trent’anni di vita, utilizzato quasi esclusivamente per le sepolture a sterro all’interno del cortile centrale, poi successivamente ampliato (ad inizio Ottocento) per permettere la costruzione di nuovi loggiati perimetrali in luogo di quelli già fatiscenti, perché mal costruiti.
visto precedentemente. Infatti: “OTTAGONO. Gli ornamenti, gli edifici, le più varie costruzioni architettoniche basate sull’ottagono (nella forma o nella pianta, se si tratta di strutture come battisteri, fontane e così via) simboleggiano la rigenerazione spirituale, essendo il numero otto associato a questa idea in qualità di intermediario tra il quadrato e il cerchio” (tratto da Cirlot J.E., op. cit., p. 340). La quadratura del cerchio avviene comunque. 96 Tratto da Orefice G., op. cit., pp. 38-39. 97 Tratto da Orefice G., op. cit., p. 39.
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Di fatto quindi, tralasciando alcune eccezioni98, in questa prima fase di “riforma” delle necropoli in area toscana le sepolture rimangono semplicemente a sterro, ma, grazie soprattutto all’operato “ferreo” di Pietro Leopoldo, la regione si appresta ad essere all’avanguardia per l’epoca in fatto di igiene e salubrità cittadine.
In terre emiliane, ancor prima della nota opera del Piattoli, il suo Saggio intorno al luogo del seppellire del 1774, il cardinale Vincenzo Malvezzi Bonfioli pubblica la sua Notificazione sopra la sepoltura dei Cadaveri (1762): anche qui si inizia dunque a dibattere in merito alle modificazioni ed aggiornamenti da eseguirsi in ambito cimiteriale, per migliorare le condizioni di salubrità delle città. A Bologna si affida all’architetto Gian Giacomo Dotti, nel 1774, uno studio per la ricognizioni dei luoghi extra muros più appropriati dove poter collocare il futuro cimitero:
una ripartizione topografica che pare riallacciarsi alle proposte d’inizio secolo di Giovanni Maria Lancisi per i quattro cimiteri romani fuori dalle mura dell’urbe, ma che non viene tuttavia rispettata. [...] Tre anni più tardi [1776-1777] il Dotti poté comunque riferire ai magistrati felsinei di avere individuato due soli siti “per formarvi un cimitero a disgombro delle arche delle chiese di città: l’uno è un pezzo di terra di casa Bolognini tra le mura fuori di San Mamolo e Castiglione, l’altra è una piazzetta presso la tribuna al principio dei portici di San Luca.99
Alla fine viene deciso l’utilizzo di questa seconda area, anche perché già pubblica, che viene “semplicemente” recintata e resa pienamente agibile, il campo lasciato alle inumazioni in fossa comune, il tutto tramite lavori minimi organizzati dal Dotti: è appena il febbraio del 1777 quando il primo cimitero pubblico della città di Bologna viene aperto al pubblico ed ai “compianti concittadini”. Ma la soluzione adottata di San Luca, fuori porta Saragozza, è, di fatto, ridotta nelle dimensioni, e non sopporta le inumazioni di più di qualche lustro. Già allo scadere dell’anno 1784, infatti, viene rimessa sul tavolo e ridiscussa presso il Senato cittadino l’ipotesi dei quattro camposanti fuori le mura, opzione decentralista rispetto ad un unico grande cimitero comunale. Quest’ultima maniera di intendere il futuro cimitero viene però, nel giro di qualche anno, preferita alla prima - che sembra dar vita a risultati non troppo efficienti -: tra il 1800 ed il 1801 si lavora attivamente verso
98 Presso il nuovo cimitero di Grosseto ad opera di Leonardo Ximenes (1716-1786), sempre su ordinanza del granduca, viene previsto l’uso delle camere ipogee comuni. 99 Tratto da Ceccarelli F., La “cittadella tumularia”. Progetti architettonici di Ercole Gasparini per il cimitero della Certosa di Bologna in età napoleonica, in Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., p. 75.
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l’attuazione di un cosiddetto “piano cimiteriale”, che si risolve - dopo numerosi sopralluoghi e studi di carattere ambientale ed architettonico - il 21 febbraio 1801, quando inizia il cantiere del Cimitero della Certosa100, così titolato in motivo della presa possesso, decisa dai commissari comunali, del terreno in disuso di un ex convento di Certosini del XIV secolo,
distante poco più di un chiometro dalle mura della città e circondato da un terreno apprezzato per le sue qualità pedologiche, adatte ad “assorbire e corrodere i corpi”. [...] La novità più significativa del regolamento del nuovo cimitero comunale di Bologna è in primo luogo quella della sepoltura singola, sopra alla quale si poteva deporre una pietra tombale [...].101
Del fu convento rimane a testimonianza - tutt’oggi - la chiesa di san Girolamo. L’area è estesissima (circa trenta ettari) e viene inizialmente occupata solo in parte, prevedendo i più che probabili futuri ampliamenti, che avverranno sino alla metà del secolo scorso. A capo del progetto è l’architetto Ercole Gasparini (1771-1829), il cui segno distintivo dell’occasione è l’utilizzo continuato di un lunghissimo portico che, in un dentro-fuori rispetto al vero e proprio recinto sepolcrale, collega architettonicamente il percorso d’accesso al cimitero con la strada che procede in direzione del centro abitato, quindi si trasforma nel loggiato perimetrale sui quattro lati del cimitero medesimo; il tutto in una ragionata reinterpretazione dei monumenti funerari lungo la strada di epoca romana, declinata nei riguardi delle aggiornate “maniere del seppellire” tardo-settecentesche102 .
Un porticato, in sintesi, di confinamento del sacro ma, allo stesso tempo, cucitura con il tessuto urbano profano.
Una breve ma curiosa parentesi potrebbe aprirsi in merito ai più rari casi, forse ancor più “illuminati” ed affascinanti, di recinti cimiteriali - o, più in generale, di architetture funerarie - pensati in forma circolare103, nei quali il valore del simbolismo architettonico, che già abbiamo visto essere presente nell’uso del quadrato, si è fatto sentire ancora di più.
In primo luogo, ecco che subito potranno saltare in mente due dei progetti settecenteschi più famosi, ovvero quello pensato da Étienne-Louis Boullée (1728-1799) del Cenotafio per Newton (1784) [26] - anche se in que-
100 Si veda La Certosa, in Sitografia. 101 Tratto da Ceccarelli F., op. cit., p. 77. 102 Si veda Ceccarelli F., op. cit., pp. 77-78. 103 L’elenco, ovviamente parziale, delle opere di impianto circolare di seguito esposte è in parte ripreso da Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., p. 22.
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sto caso l’architettura in questione è una sorta di mausoleo ad personam, ed allo stesso tempo monumento ad scientiam, quindi è forse meno interessante per il nostro discorso - assieme con il progetto di impianto circolare sviluppato su tre livelli, con enorme corpo sferico centrale, per il Cimitero della città di La Chaux (1785), opera di Claude-Nicolas Ledoux (1736-1806) [27]. In questo caso, invece, l’opera era stata pensata per ospitare le salme di tutti gli abitanti della città; non perciò elitaria come nel caso di Boulléè, bensì per tutti104. Il cerchio, nel caso di Ledoux, è utilizzato come trascrizione fisica del modello sociale ideale al quale ambiva, allo stesso tempo di impianto egualitario anche se solo parzialmente democratico - tutti i punti del cerchio sono equidistanti dal centro, ma un centro continua a sussistere105 - ed insieme del rousseauiano reciproco controllo sociale.
Il comune denominatore di tali progetti, però, pare sia stato quello del non aver visto la loro fisica realizzazione: quasi come se la scelta del cerchio avesse prescritto loro di rimanere per sempre su carta.
Fine-settecenteschi sono alcuni tra i progetti più famosi in tal senso, come ad esempio il cimitero circolare per Parigi solamente pensato nel 1782 da Capron - e, allo stesso modo, nessuno dei successivi lavori verrà realizzato -, così come il più generico “Progetto per un recinto funerario” dell’italiano Giuseppe Barberi (1790), il “tondo recinto” per il grande cimitero di Verona pensato pochi anni dopo da Luigi Trezza (1804), od anche la pretesa perfetta circolarità del recinto cimiteriale per il nuovo Monumentale di Roma (1811), di cui “non è rimasta però alcuna traccia, se non le brevi e poco dettagliate descrizioni presenti nella corrispondenza tra il progettista e la committenza”106 .
Insomma, durante il secolo dei “Lumi” - che apre alla contemporaneità - anche il cimitero entra a far parte degli spazi controllati dal potere, normati e razionali: al pari degli altri spazi tipicamente “moderni” quali l’ospedale, il manicomio o le carceri, anche il cimitero è razionalizzato. Arriva più tardi degli altri, ma entra anch’esso a far parte dei luoghi tipici del periodo del “grande internamento”107, dove tutto ciò che è malsano, malato o bizzarro viene recluso, recintato.
104 Il progetto cimiteriale in questione di Ledoux faceva parte di un complesso molto più ampio di un’intera “città-del-lavoro” di fondazione, le Saline Reali di Arc-et-Senans (in Borgogna), voluta in quegli anni da Luigi XVI all’interno della foresta di La Chaux, cittadella nella quale le abitazioni dei lavoratori sarebbero state affiancate ai luoghi di lavoro degli stessi. L’impianto pensato da Ledoux per l’intera città era inizialmente di forma quadrata, poi divenuta circolare (il tutto venne quindi interrotto dallo scoppio della Rivoluzione di lì a pochi anni). 105 Non a caso l’impianto centrale nei disegni per il cimitero di La Chaux ricorda, e non poco, il Panopticon benthamiano (1791), modello di impianto carcerario moderno per eccellenza. 106 Tratto da Bertolaccini L., I cimiteri a Roma nel periodo napoleonico, in Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., p. 119. 107 Si veda Foucault M., Storia della follia nell’età classica, 1961.
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La morte e i suoi luoghi. Cronache da Eusonia