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Il Mare nelle Mani Viaggio fra i lavoratori dell’Adriatico
Ideazione, fotografie, progetto grafico
Tonino Mosconi Testi
Fabio Fiori Presentazione
Mario Turci Editore
Pazzini Stampatore Editore
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V I A G G I O A D R I AT I CO
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Mille chilometri separano Muggia da Otranto. Oggi ai più sembrano pochi, ma è necessario ricordare che ci vogliono più di trenta giorni per percorrerli a piedi e almeno cinque di navigazione a vela, nella grazia dei venti. Per l’uomo contemporaneo, spazio e tempo sembrano aver perso la loro antica relazione. Il tempo umano, come un feroce titano, ha quasi completamente divorato il gemello spazio umano. Una titanofagia che ha generato un mostro altrettanto vorace, chiamato velocità. Nel quotidiano, che il linguaggio comune descrive, le distanze si sono “mostruosamente accorciate”, ma come in tutti i mostri, figli di una metamorfosi, gli originari caratteri rimangono, sotto le mutate sembianze si celano gli atavici tratti. Parafrasando Ovidio, in questa prima decade del nuovo millennio, la necessità ci spinge a narrare “di forme mutate in corpi nuovi”, attraverso le immagini e le parole. Quello che segue è un racconto di paesaggi adriatici contemporanei. Del versante occidentale o per meglio dire di alcune delle sue tante facce; le meno conosciute, comunque indispensabili per avere una visione del tutto. Un racconto che si è composto negli anni percorrendo le rive e solcando le acque, cercando per un giorno o magari per settimane di ristabilire un equilibrio tra spazio e tempo. Perché rimanendo visceralmente umani, ineluttabilmente animali lenti, a volte addirittura pigri, per vedere e ascoltare, annusare e gustare, o per toccare quando necessario, bisogna andare piano. Il nostro è stato un lungo viaggio, alla ricerca dell’originale materialità dei mille chilometri che dividono l’Istria dal Salento. Una costa che, nell’immaginario geografico comune, è percepita come piatta e monotona, perché percorsa velocemente, lungo le autostrade che collegano Trieste a Mestre, Rimini a Brindisi, assistiti da un navigatore satellitare, o perché sempre più frequentemente la visione del mondo è delegata a tour operator, affiancati da promo foto-video patinati e google-maps. Il consumo ha sostituito l’esperienza, viaggi e luoghi si sono ridotti a spostamenti e simulacri. Invece quei mille chilometri si compongono di lagune e falesie, promontori e spiagge. A loro volta fatti di materia: acque, sabbie e rocce
differenti, come diversi a ben guardare sono i segni dell’uomo. Quelli antichi si sono mescolati ai nuovi, spesso trasformazioni violente hanno cancellato millenari paesaggi costieri. Ma la geografia e la meteorologia, l’orizzontale e il verticale, il freddo e il caldo, continuano a contraddistinguere gli ambienti. Anche quelli in cui più devastanti, nel bene e nel male, sono stati i cambiamenti. Trasformazioni di paesaggi naturali e umani, ambienti e mestieri, il tutto in continua evoluzione, sovrapposizione, mescolanza. In questo nostro lavoro abbiamo cercato di restituire un’immagine delle rive urbane e dei mestieri minori dell’Adriatico, delle mani che lavorano in mare o per le sue cose. Rive urbane, perché quelle adriatiche sono diventate da nord a sud una lunga conurbazione costiera a densità variabile. E’ forse superfluo riportare cifre e dati di un processo di urbanizzazione di dimensioni epocali, che ha investito la costa da Trieste a Brindisi, negli ultimi cinquant’anni. Basterà qui ricordare che si è trattato di una vera e propria migrazione interna, che ha stravolto equilibri già di per se molto precari, come lo sono quelli d’interfaccia tra terra e mare. Oggi, oltre nove milioni di persone vivono nelle province costiere italiane che si affacciano sull’Adriatico, a cui si vanno ad aggiungere i reflui delle ben più ampie aree retrostanti e milioni di turisti, che fanno di questa costa una delle più frequentate d’Europa. Il risultato è quello di trovarsi di fronte un lungo paesone o, con un termine più consono ai tempi e alle abitudini, un iperpaese costiero. Un iperpaese che non ha assunto, malgrado l’eccesso d’enfasi di alcuni amministratori e analisti, una vera e propria dimensione metropolitana, in termini di unitarierà e servizi, di cultura e socialità. Un iperpaese che comunque, da una più accorta frequentazione, sembra accomunato da un vivere, almeno potenzialmente, diverso da quello che caratterizza le tante periferie che invadono pianure e valli. Lungo la riva urbana il mare mantiene, pur nell’evolversi delle consuetudini, una sua attrattiva, diversa spesso a seconda delle stagioni.
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Durante un sopraluogo a Muggia cercando contatti per fotografare la pesca con le lampare, incontrai Adriano e Franco che stavano lavorando a delle nasse in uno scantinato sul porto. Parlammo di mare e di pesca,di viaggi e di amicizia. Mi raccontarono questa storia. Il Gabbiano Jhonny Qualche anno fa uscivamo a pesca con un nostro amico, un tipo in gamba a cui piacevano i gabbiani; rimaneva ad osservavarli mentre ci volavano intorno cercando i pesci che ributtavamo in acqua o che uscivano dalle nostre reti. Mi reincarnerò in un gabbiano, diceva sempre. Se ne andò portato via da un male incurabile. Qualche tempo dopo mentre eravamo in mare un gabbiano si posò sulla nostra barca e rimase lì sul bordo dello scafo per un bel po’ di tempo. Venne tutti i giorni per diversi mesi, e tutti i giorni si fermava come a guardarci pescare, lo avevamo chiamato Jhonny, senza un motivo particolare, perché ci piaceva il nome. Chissà se era lui. Un giorno non si fece vedere, e neanche i giorni successivi. Non lo abbiamo mai più rivisto. T.M.
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F O R CO L E
In tutta Italia ciò che tiene unito il remo alla barca si chiama scalmo, parola mediterranea per eccellenza, lo skalmós dei padri greci della navigazione. Lo scalmo non è certo semplicemente un supporto, ma svolge un ruolo fondamentale nella dinamica vogatoria, ne è infatti il fulcro, “la caviglia di legno o ferro nella quale lavora il remo”, per usare le parole di un autore rinascimentale. Solo a Venezia, e per osmosi nelle Romagne come in Istria, la parola è sostituita da forcola. Solo i veneziani potevano permettersi di sostituire un così importante lemma nautico, che riassume in sé le comuni radici della mediterraneità. Un nome che sembra quasi un omaggio alle vicine e utili forche alpine. Le strette incisioni delle creste montane, fin dai tempi antichi hanno consentito i collegamenti, facilitando gli interscambi tra il mondo marino-lagunare e quello montano-continentale. Certo è che se lo scalmo ha indubbie qualità ingegneristiche, la forcola è insieme l’elevamento di queste alla massima potenza e il loro farsi arte. Non a caso la forcola è diventata uno dei simboli dell’artigianato veneziano, le sue sinuose forme coniugano straordinaria bellezza e incredibile funzionalità. Alla lineare lunghezza del remo si contrappone la sinuosa brevità della forcola. L’apparente semplicità dell’organo propulsore si esplicita nelle diverse andature grazie alla molteplicità delle curve del supporto. La forcola si divide in due parti, una inferiore chiamata gamba, nascosta dalla fiancata, e una superiore, visibile e curvilinea. Alto è il morso, il principale degli appoggi, quello che consente all’unico remo posto a destra, di spingere la gondola in avanti. Ma altrettanto importanti sono il sotomorso in partenza e la sanca per l’arresto. Se per nomi e funzioni delle diverse parti della forcola è necessario un glossario illustrato, per imparare a farle bisogna frequentare bottega. Lì da secoli si tramandano conoscenze sui vari legnami e sulle loro qualità, su tagli e venature di noci, meli e peri. Lì sono custoditi e rinnovati gli antichi strumenti di lavorazione, oltre ai segreti per fare di un pezzo di tronco non un qualsiasi scalmo, ma una perfetta forcola.
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ANGUILLE
L’anguilla è da sempre il più anfibio dei pesci e al contempo rimane la più misteriosa delle risorse ittiche. Solo l’anguilla è capace di affrontare migliaia di chilometri portandosi dalle pozze continentali alle fosse abissali, di muoversi sulle umide terre come nelle profondità oceaniche. Solo dell’anguilla non è ancora del tutto chiaro il ciclo biologico e le abitudini riproduttive, tanto che non la si riesce a riprodurre in cattività e a svezzare. Nell’Ottocento gli studiosi scrivevano: “Tante sono le differenze che le anguille presentano nei loro costumi e tante le difficoltà di spiegare certi fenomeni, che da tempo antichissimo si tennero diverse affatto dai pesci”. Negli ultimi decenni l’anguilla, forse più di altri pesci, ha risentito drammaticamente dei cambiamenti ambientali, certamente in maniera quasi mortale per l’economia che produceva. A Comacchio, che in Europa dell’anguilla era la capitale, la produzione si è ridotta drasticamente, un crollo che ha disgregato un mondo. L’anguilla è, nel gergo degli zoologi, migratrice catadroma, ossia dai fiumi scende al mare per riprodursi. Del richiamo autunnale del mare, i vallanti hanno fatto il momento conclusivo del lavoro, la grande festa del raccolto. E’ infatti nelle prime burrasche d’ottobre che entrano in funzione i lavorieri, le trappole poste lungo i canali che collegano la valle al mare. Una volta nate nelle misteriose profondità oceaniche, le larve, divenute prima leptocefali e poi cieche, in primavera si riportano in prossimità della costa, per passare dalle foci alle aree vallive. E’ il tempo della rimonta, del rifiorire della vita dopo il gelido silenzio invernale, dopo il suo covare nelle più profonde e tiepide acque marine. Anche in questo momento interviene l’uomo, regolando i flussi mareali, le ingressioni di acqua e di vita. Perché il ciclo vallivo si rinnovi sono necessari saperi affinatisi nel tempo, conoscenze maturate nel ciclico riproporsi delle stagioni. Quella dell’anguilla è poi una cultura di fuochi e marinature, di legna da ardere per la cottura, di oli, aceti e spezie per la conservazione, di zagoli e barattoli per il confezionamento.
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CO LO R I E’ forse l’apparente monocromismo del mare che rende ancor più spiccati i tanti colori dell’uomo, di reti e cime, di scafi e vele. Colori che possono informare della materia utilizzata, ma il più delle volte si legano alla necessità, materiale o immateriale, sacra o profana. Tramagli e reti d’imbrocco, vengono da secoli sapientemente colorate per aumentare la loro efficacia piscatoria. Le vele per millenni, oltre a portare la nave, hanno permesso con i loro colori anche una primitiva, ma indispensabile, comunicazione. Nella scelta cromatica dello scafo si mescolano invece usanze, personali predilezioni, indispensabili contrasti, che cercano di rendere almeno un poco più visibile quel microscopico mondo che è la barca, sempre piccola quando è in alto mare.
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A pesca di cozze con Enrico e Cristian, alle barriere artificiali di Cattolica Pag. 90-91 Il vecchio borgo di pescatori di Casteldimezzo.
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U N A V I TA CO N I L M A R E
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Non è ancora giorno e la spiaggia è illuminata dalle lampade gialle della strada davanti alle case che un tempo formavano il piccolo borgo di pescatori del paese. Qualche barca sta già uscendo in mare, mi avvicino e chiedo di Franco: “Franco chi, ‘el duro?, l’ultime barche, in fondo”. E’ lui. Lo trovo che spala la sabbia accumulata dalla corrente sulla spiaggia davanti alla sua barca. “Ciao Tonì, guarda qua? Tutti i giorni lo stesso, è dal 1400 che devono fare il porto a Porto Recanati”. Arriva Sandra, compagna di tutta la vita, con i documenti; si può uscire, il segno della croce per salutare il sole appena spuntato e via, si va a seppie. C’è una luce perfetta e il massiccio calcareo del Conero risplende al primo sole del mattino. Franco tira su da solo almeno cinquanta nasse, le svuota, le pulisce, le rimette in acqua; si guarda intorno e decide, solo lui sa perchè, che quella zona non va più bene, domani ne sposterà qualcuna. Rientriamo, Sandra lo aiuta ad ormeggiare e prende il secchio con le seppie, intorno al suo banchetto sulla spiaggia cominciano ad arrivare le prime donne. Noi ci sediamo al sole e cominciamo a parlare di lui, del suo lavoro; la pesca: ”Io non so stare senza il mare”, mi mostra la mano destra senza due dita perse in barca tagliate da un verricello d’acciao, “dopo una settimana ero di nuovo al lavoro”. Mi racconta la sua vita con il mare e si illumina quando mi parla dell’Orgoglio il suo peschereccio di tanti anni fa. Mi racconta del 23 dicembre 1979, quando un fortunale devastò la costa marchigiana dal Conero a San Benedetto del Tronto. Alle quattro di mattina le barche del porto di Numana, spazzate via da una marea che si era alzata di due metri, erano in balia di un mare forza nove. Franco aveva raggiunto il suo peschereccio che, sbattendo sulla banchina, aveva una falla di un metro nello scafo e il motore oramai sott’acqua. Il fratello, che cercava di raggiungerlo con una piccola barca era stato sbalzato via dal vento e dalle onde e la barca distrutta sugli scogli. Ma lui era riuscito a portare il suo peschereccio in una zona più riparata e, malgrado fosse oramai mezzaffondato, l’aveva salvato. Ci salutiamo, mentre sono in strada penso alla generazione di Franco, alla gente come lui, ultimi baluardi di una civiltà perduta. Penso alla forza fisica e morale di questi uomini di mare, che malgrado una vita di lavoro durississimo, in una quotidiana lotta per la sopravivenza, si sentono parte integrante di questo ambiente e non riescono a starvi lontano. Perchè appartenere a qualcosa che non appartiene a nessuno, è l’essenza stessa della libertà.
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T R A B O CC H I
Trabocchi dal latino trabe, trave, o dal francese trébuchet, letteralmente trappole per animali o ancora trabone, sempre dal francese, una macchina da guerra simile a una catapulta? Lì dove sorsero, tra il basso Abruzzo e la costa settentrionale del Gargano, la lingua latina fu quella della prima civilizzazione, il francese la lingua degli immigrati d’Oltralpe che ripopolarono queste terre dopo terribili terremoti e pestilenze, in origine pontieri e forse anche i primi sperimentatori di queste passerelle pescherecce. Incerta rimane l’etimologia, come quella di tante altre parole marinare che, se proprio non galleggiano come relitti portate dalle onde dei tempi, sono da queste inesorabilmente sbattute e continuamente rimaneggiate. Malgrado ciò i trabocchi sono ancora lì, nel loro apparentemente precario equilibrio. Costruiti e migliorati nei secoli, abbandonati e dimenticati per decenni, da qualche anno riscoperti e assurti a costruzione simbolica di una costa anch’essa in precario equilibrio: il tratto di riva frentano, da Ortona a Termoli. Più breve, ma altrettanto mutevole nelle forme è quello garganico, da Lesina a Vieste sede dell’altra affascinante parata di trabocchi. Dicevo delle dimenticanze passate e degli inevitabili guasti, ma altrettanto pericolosa per certi versi è anche la nuova attenzione, fatta di usi e costumi che ancora devono trovare una loro armonia con le antiche macchine pescherecce, che devono saper coniugare le nuove necessità economiche a quelle ittiche, che danno significato alle povere e ardite architetture del trabocco. L’idea che sta dietro a queste costruzioni è relativamente semplice, molto più complessa la loro realizzazione, gli artifizi fatti di pali e tavole, cavi e funi, argani e carrucole, reti e retini. Solo ristabilendo gli originari equilibri ecologici, che come contropartita garantirebbero anche acque più pescose, si può pensare di restituire significato alla cultura dei trabocchi, che sono lì in attesa non solo di tour operator, ma soprattuto di traboccanti.
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Laguna di Lesina
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Il porto di San Foca con la torre costiera. Pag. precedente Porto Badisco nel Salento. appena oltre il confine ufficiale dell’ Adriatico
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio prima di tutto, naturalmente, tutti i pescatori e gli artigiani che mi hanno permesso di documentare il loro lavoro, i nomi sono nelle didascalie delle foto. Per fare un libro che copre un tratto di costa di oltre 1000 chilometri si ha bisogno sopratutto di contatti, tanti contatti; un grazie quindi e un caro saluto a Adriano e Franco di Muggia, Cristina Giussani della Libreria il Mare di Carta di Venezia, Marco Ruffino biologo di Chioggia, Doriano di Gorino, Pier Carlo Farinelli della stazione Foce di Comacchio, Gianfranco Dalle Vedove di Porto Recanati, Gabriele Cavezzi storico e Francesco Perotti di San Benedetto del Tronto, Pietro Cupido e Rinaldo Veri di San Vito di Chieti, il prof. Mimmo Aliotta di Vieste, Antonia Riondino e Tonino dall’Orco dell’ Atisale di Margherita di Savoia, Marialaura Putzu per i preziosi contatti in Puglia, Orlando di Otranto e tanti altri ancora. Un pensiero anche per Giorgio Marcoaldi amico e collega per i preziosi suggerimenti su luoghi da fotografare. Per Corrado Benedini e mio fratello Marco che hanno condiviso con me alcune uscite in barca e diverse cene a base di anguilla, nel Delta del Po. Per Cinzia Ceccoli per il prezioso aiuto grafico. Infine ai miei amici Tiziano e fiorenzo con le loro rispettive mogli Renata e Luciana con cui insieme a Paola, mia moglie, ho condiviso, qualche anno fa, una splendida crociera didattica in Croazia agli ordini di Pepe Caglini, comandante di lungo corso e sua moglie Laura; le prime idee di questo libro sono nate insieme a loro. In questo lavoro ho avuto la fortuna di conoscere tante persone interessanti, che oltre ad essermi stati di grande aiuto hanno contribuito, con la loro cultura e umanità a farmi conoscere meglio ed apprezzare ancora di più il nostro mare Adriatico. Che fossero studiosi o pescatori, studenti o artigiani avevano tutti una cosa in comune; un grande amore per il mare. Questi incontri sono le esperienze più belle che si possano fare nel mio lavoro. Questo libro è per loro. Tonino Mosconi
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A fianco Ritorno dalla pesca con le lampare a Trieste Pag 150-151 La costa salentina fra Torre dell’Orso e Torre Sant’Andrea pag.152 Peschereccio all’alba in Adriatico centrale Pag 158-159 Alba nella Laguna di Goro Pag 160 Pesca con lampare a Trieste
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