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IL DISAGIO Il ricordo di quanto diversa fosse la professione qualche decennio fa
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GLI ANNI DEL RISPETTO
La storia aiuta. Soprattutto quando di un problema attuale, con cui ci si trova a fatica a fare i conti, non si rinviene traccia nelle stagioni precedenti. Per la carenza di autisti funziona esattamente così. E quando si parla con uomini che sono al volante di un camion da quaranta o più anni tanti di quegli spigoli percepiti nel presente sembrano arrotondarsi, tante criticità insormontabili assumono un aspetto rilassante. È quanto ci è capitato ponendo alcuni quesiti a Luciano Barattini, attualmente presidente del Carp di Pesaro e portavoce nazionale dell’autotrasporto merci di CNA Trasporti, ma con alle spalle una carriera alla guida sufficientemente lunga per ricordare che la carenza di autisti è storia recente. «Dagli anni Cinquanta e fino agli Ottanta – ricorda – di giovani disponibili a intraprendere la professione ce n’erano tanti. Spesso erano figli di agricoltori in fuga dalla campagna e che, piuttosto che chiudersi in fabbrica, preferivano salire su un camion». Nota di relatività storica: i camion a cui fa riferimento Barattini sono quelli di tre o quattro decenni fa e quindi valutati con gli occhi di oggi ci apparirebbero quanto di più spartano possa esistere. In realtà, puntualizza il presidente del Carp, «per i giovani dell’epoca, che avevano preso la patente durante il servizio militare e quindi ci salivano dopo aver guidato i camion dell’esercito, privi di tutto, perfino del servosterzo, erano tutto sommato un lusso. E quindi anche questo diventava un fattore attrattivo».
Oggi gli autisti vengono spesso pagati poco, trattati male, formati tanto, regolamentati in ogni tempo della giornata. Quaranta e più anni fa – come ci racconta il presidente del Carp di Pesaro, Luciano Barattini – era esattamente il contrario. E i giovani facevano a gara per salire su un camion
Si andava via in due autisti. E quindi se trascorrevi il tempo con un collega di cui ti fidavi era come “raccontarsi” durante il viaggio. Era una sensazione molto bella: sentirsi il maestro, salire in cattedra per insegnare ad altri non soltanto il modo in cui si lavora, ma anche gli stratagemmi per non mettere a repentaglio la propria vita
In termini di retribuzione come andavano le cose? Le retribuzioni erano buone perché percepivi almeno il doppio di quanto era pagato un operaio in fabbrica. Ma soprattutto la professione di autista era ricercata, serviva a sostenere il boom economico e industriale che stava esplodendo e quindi veniva valutata in modo positivo. Se eri serio, se arrivavi puntuale nelle consegne, era facile trovare lavoro. I camion di oggi, però, sono sempre connessi, consentono di fare diagnosi da remoto, in parte iniziano a guidare da soli. Difficile dire che nei tempi passati, quando anche sostituire una gomma diventava una sfida, le cose andassero meglio. È vero, ma c’era sempre un amico che si fermava e ti aiutava. Oggi, con i tempi accelerati da rispettare, nessuno si ferma più e devi sempre chiamare l’assistenza. Ma soprattutto all’epoca avevi un rapporto per così dire fisico con il camion, lo dovevi accudire. Ogni 10-15mila chilometri dovevi cambiare l’olio, ingrassare l’albero motore, provvedere a una serie di cose il sabato mattina, quando ti infilavi la tuta e ti dedicavi alla manutenzione. Insomma, avevi meno tecnologia a disposizione, ma per certi versi ti sentivi più protagonista. Per carità, non sto dicendo che era una professione più facile: il sacrificio c’era, ma era ripagato soprattutto dal senso di libertà con cui affrontavi il lavoro e che ti consentiva di scegliere anche come gestire tanti momenti del-
la giornata. Oggi tutto questo è scomparso. Intende dire che la normativa sui tempi di guida ha messo in crisi uno dei tratti più caratterizzanti la professione, quello legato al senso di libertà? Sicuramente molti dipendenti erano sfruttati e quindi, almeno in questo senso, la normativa è riuscita a contenere certi abusi. Ma per i padroncini e anche per i loro dipendenti era diverso. Poi, sia chiaro, io non sono contro la regolamentazione delle ore di guida e trovo giusto rispettarla. Però i tempi di lavoro li devo decidere io. Voglio dire: devo dormire otto ore? Bene, però devo anche avere la libertà di arrivare in un piazzale o in un ristorante se ho bisogno di mangiare o in un’area di sosta se ho necessità di fare una doccia. Perché in caso contrario finisco per sacrificare la vita e nel momento in cui mi sacrifico perdo interesse per il lavoro. A quel punto tanto vale andare a lavorare in fabbrica, dove so che la sera torno a casa e che, se faccio qualche ora di straordinario, porto a casa più soldi. Quindi, le regole vanno rispettate, ma penso ci sia bisogno di concedere alle persone interessate a svolgere questo lavoro più spazio e maggiore professionalità. Oggi la formazione di un autista non si esaurisce nel momento in cui si acquisisce la CQC, ma procede in modo costante. All’epoca come si acquisivano le conoscenze? Si andava via in due autisti. E quindi se trascorrevi il tempo con un collega di cui ti fidavi era come “raccontarsi” durante il viaggio. Era una sensazione molto bella. L’ho provata con i miei fratelli, ma poi anche con una ventina di giovani che ho formato. E anche questo era bello: sentirsi il maestro, salire in cattedra per insegnare ad altri non soltanto il modo in cui si lavora, ma anche gli stratagemmi per non mettere a repentaglio la propria vita. Spiegare, tanto per fare un esempio, che se dovevi prendere una salita lunga era meglio inserire le marce basse all’inizio dell’ascesa, perché altrimenti poteva succedere di trovarsi a metà e di non riuscire a innestarle e a quel punto di rimanere lì piantato con tutte le pericolose conseguenze da gestire. Oggi il camionista non gode di buona immagine e spesso è identificato come una figura scorretta, inquinante, ingombrante. Era così anche in passato? Assolutamente no: all’epoca c’era rispetto. Quando arrivavi in un qualsiasi stabilimento, anche in quelli più grandi, come a Taranto alla Italsider, ti trattavano tutti con gentilezza, comprese le guardie ai cancelli. Non ti dicevano, come fanno oggi, «vai lì in cabina e aspetta il tuo turno», ma soprattutto nel caso fosse la prima volta che ti recavi a scaricare in quello stabilimento, ti spiegavano come funzionava. Oppure mi ricordo quando andavo a scaricare concime nella zona di Vercelli, dove le persone ti invitavano in casa, ti offrivano il caffè con il ciambellone, ti davano da mangiare. Erano grati per quello che facevi e te lo dimostravano nei fatti. Oggi c’è voluto il lockdown per ricordare alle persone la funzione e l’importanza dell’autotrasportatore. Ma chissà per quanto tempo se lo ricorderanno…