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LE SOLUZIONI Il progetto «Giovani Conducenti» lanciato dall’Albo nel 2017
«PREFERISCO IL BUS»
Grande il successo di adesioni all’iniziativa concordata con associazioni, costruttori e autoscuole: oltre 2.500 domande contro le 600 preventivate. Ma, una volta conclusi i corsi, qualcuno ha rifiutato il trasferimento al Nord, altri hanno optato per una municipalizzata del trasporto pubblico. Solo pochi (e non se ne conosceil numero) hanno cominciato a guidare un camion
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Quando è stato lanciato – alla fine del 2016 – il progetto aveva suscitato grande interesse, le adesioni fioccavano e la strada giusta per contribuire a trovare nuovi autisti di camion sembrava imboccata. Poi, però, l’iniziativa ha perso smalto, i giovani autisti formati si sono perduti in mille rivoli e solo una parte è finita al volante di un tir. Quanti? Non si sa, perché finiti i corsi i giovani sono stati immessi sul mercato del lavoro, dove qualcuno è stato certamente assunto da imprese dell’autotrasporto, ma molti – appena ottenuta la CQC – si sono rivolti alle municipalizzate per candidarsi a un lavoro certamente meno stressante di quello di un conducente di tir, costretto a viaggi lunghi e disagiati, a tempi operativi stressanti, a condizioni di lavoro difficili.
UNA PARTENZA ENTUSIASMANTE
Eppure, l’avvio del progetto «Giovani conducenti» (tra i 18 e i 29 anni) era stato carico di entusiasmo. Il 26 dicembre 2016 l’Albo nazionale degli autotrasportatori aveva firmato un protocollo con le associazioni di categoria, quelle dei costruttori di veicoli industriali (Anfia e Unrae) e quelle delle autoscuole (Unasca e Confarca). Queste ultime avrebbero praticato uno sconto del 15% sulle tariffe per la CQC, l’Albo si sarebbe fatto carico dell’80% del resto e il
IL CORSO SICURO
Si chiama GuidiAmo Sicuro il programma di formazione organizzato per gli autisti di veicoli industriali dall’Albo Nazionale degli Autotrasportatori e coordinato da Ram Logistica Infrastrutture e Trasporti con il supporto del ministero dei Trasporti e finanziato con cinque milioni di euro. I corsi, iniziati a metà maggio 2020, sono finalizzati a fornire le competenze per una guida più sicura ed eco-sostenibile. I corsi prevedevano una parte teorica online per approfondire numerosi temi, quali l’impatto ambientale dell’autotrasporto, i sistemi per abbattere le emissioni, le tecniche di guida per ridurre i consumi. A questa segue una parte pratica articolata in due sessioni. Prima sulla sicurezza con un simulatore di guida capace di riprodurre contesti potenzialmente pericolosi. La seconda – quando possibile – su strada. Al corso si sono iscritti circa 1.900 autisti, il 40% provenienti da aziende di autotrasporto del Nord e il restante 60% da quelle del Centro e del Sud.
Non resta che sperare che i giovani formati con il contributo dello Stato non prendano poi la via di altri Paesi europei Franco Fenoglio, ex presidente della sezione VI di Unrae
giovane da formare avrebbe dovuto pagare solo il 20% del costo scontato, intorno ai 500 euro. Facoltativi anche i corsi per la patente C, alle stesse condizioni. Una volta superati gli esami e ottenuti i documenti di guida, sarebbe iniziata la seconda fase: un tirocinio di sei mesi presso aziende iscritte all’Albo, con costi a loro carico fino a 500 euro al mese per ciascun giovane. Nel corso del progetto le associazioni dell’autotrasporto avrebbero garantito stage formativi e avrebbero favorito l’inserimento dei giovani nelle imprese aderenti, mentre le associazioni dei costruttori avrebbero organizzato incontri promozionali nelle scuole secondarie di secondo grado. Costo totale dell’investimento: un milione di euro, sufficienti, secondo i calcoli, a dotare di patente C e CQC almeno 600 giovani. Ma il 27 aprile 2017, giorno del click day per candidarsi, le domande di adesione sono già 450 e dopo meno di 48 ore superano le mille. E continuano ad aumentare. Alla fine – grazie anche a una campagna capillare nelle scuole superiori di numerose città (Roma, Benevento, Palermo, Bologna, Verona, Bari) – le domande saranno 2.511 e ne verranno accolte 2.202. Alla prima graduatoria di 500 giovani, se ne è dovuta aggiungere una seconda di 1.700. Di conseguenza, il progetto ha avuto bisogno di essere rifinanziato, caricando altri 3 milioni di euro al milione iniziale ed elencando tra i documenti di guida ottenibili con questa procedura anche la patente E, per il traino di rimorchi e semirimorchi superiori alle 7,5 tonnellate. «Non avremmo mai pensato a una tale adesione», confessò l’allora presidente dell’Albo, Maria Teresa Di Matteo.
2.511
È il numero di domande presentate da giovani interessati a diventare autisti. Alla fine ne furono accolte 2.202
INSERIMENTO DIFFICILE
Ma, una volta conclusa la prima fase, nella seconda – l’inserimento nelle imprese – sono cominciate le difficoltà, soprattutto da parte dei candidati. I numeri dei giovani portati dal progetto alla guida di un camion oggi sembrano introvabili e probabilmente, nel groviglio fra autoscuole e imprese, neppure esistono. Gli stessi rappresentanti delle associazioni che siedono nell’Albo a mezza bocca lamentano la mancanza di un vincolo stringente sugli sbocchi lavorativi e accennano al fatto che, molti giovani – ottenuta la CQC – hanno preso la patente D e si sono presentati ai concorsi in qualche municipalizzata per il trasporto pubblico; molti altri, residenti al Sud (la maggior parte delle adesioni provenivano dalle Regioni meridionali) non hanno accettato di trasferirsi alle imprese del Nord che si erano fatte avanti. Qualcuno sarà anche finito all’estero. Franco Fenoglio, sponsor dell’iniziativa in quando presidente della sezione veicoli industriali dell’Unrae, aveva del resto paventato quest’ultima possibilità e, intervenendo il 15 febbraio del 2018 all’incontro con le scolaresche in un teatro romano, aveva concluso con una frase significativa: «Non resta che sperare che i giovani formati con il contributo dello Stato non prendano poi la via di altri Paesi europei». Quasi profetico.
Un occhio agli stranieri gli autotrasportatori italiani ce l’hanno sempre avuto. Quattordici anni fa, quando la carenza di autisti non era ancora un dramma, come nel resto d’Europa, ma (grazie all’alto numero di padroncini) soltanto un problema delle poche aziende strutturate, la FAI di Bergamo guardò all’Egitto, paese vicino e (allora) in buoni rapporti diplomatici, come serbatoio per un mestiere che in Italia cominciava a trovare scarsa offerta. Il progetto – subito ribattezzato «Tutankamion» – prevedeva una parte di formazione in Egitto (lingua italiana, Codice della strada e norme di sicurezza), poi le pratiche per l’immigrazione, quindi il trasferimento in Italia con la formazione pratica sul luogo di lavoro. Ne furono assunti sette, poi la cosa finì lì, anche perché proprio in quel 2007 entrarono nell’Unione europea Bulgaria e Romania, immettendo sul mercato mano d’opera a basso costo e stravolgendo il mondo dell’autotrasporto nazionale, tra delocalizzazioni, società di somministrazione, cabotaggio spesso abusivo e dumping sociale. Per avere un ordine di grandezze: al lordo di tasse e oneri previdenziali, un autista italiano costa all’azienda 51.219 dollari l’anno, contro i 17.868 di un conducente rumeno e i 15.859 di uno bulgaro, che lavorino, naturalmente, per un’impresa, anche di somministrazione, del loro Paese.
6 mila
È la quota di lavoratori extracomunitari che, in base al decreto Flussi, possono venire in Italia a lavorare nell’autotrasporto, ma anche nel settore turistico ed edile RITORNO A CASA
Una pacchia, da un certo punto di vista, che però oggi – dopo aver depresso il mercato, contribuendo a tenere bassi gli stipendi – sembra che stia concludendo la sua parabola. «Prima le imprese attingevano gli autisti dai Paesi neo comunitari», osserva Giuseppina Della Pepa, segretario generale di Anita, «ma adesso anche lì stanno finendo: sono migliorate le condizioni interne e molti preferiscono rientrare a casa». In questi 14 anni, infatti, il reddito medio annuo pro capite è schizzato in alto del 47,1% in Romania (da 8.360,17 a 12.301,16 dollari) e del 36,5% in Bulgaria (da 5.885,95 a 9.272,63dollari). Il colpo di grazia l’ha dato il Covid. La quarantena imposta al rientro nei propri Paesi ha finito per trattenerne molti a casa loro. Dopo lo scoppio dell’epidemia, secondo i dati del ministero dell’Interno di Bucarest, sono stati 250 mila i rumeni residenti all’estero tornati in Romania. Un caso per tutti: Vasile Florea faceva l’autista in Inghilterra, per la Thames water company del Berkshire. Ha lasciato un lavoro da 4 mila sterline al mese, dopo essersi comprato nel suo Paese d’origine due case e tre automobili. Quando è arrivato il virus, ha mollato tutto ed è rientrato: «Non credo che tornerò», ha affermato. «Nel mio paese, a Certeze, sono tornati in molti, ma non perché all’estero non avessero di che vivere. Hanno mollato tutto. Mio cognato era capo cantiere in una azienda che asfalta le strade a Londra, e se n’è andato. Il mio padrino lo stesso».
6 mila
Sono i Paesi con i quali esistono accordi di reciprocità e dai quali quindi possono immigrare per essere impiegati in l’Italia autisti muniti di patenti professionali equivalenti a quelle italiane di categoria CE e convertibili nel nostro Paese. Per la precisione sono: Algeria, Marocco, Moldova, Repubblica di Macedonia del Nord, Sri Lanka, Tunisia e Ucraina
LA PARABOLA CHE VENIVA DALL’EST
Dopo anni di dumping sociale – tra crescita dei loro Paesi e paura del Covid – rallenta l’arrivo degli autisti dell’Europa orientale. E per la prima volta l’autotrasporto può accedere al decreto Flussi che assegna al settore quote di lavoratori extracomunitari. Ma è solo un primo passo
IL DECRETO FLUSSI
Allora, per trovare autisti stranieri bisogna guardare oltre l’Europa. La Germania, che soffre più di noi della carenza di conducenti di camion, ha cominciato già da anni a muoversi in questa direzione. Da noi, soltanto lo scorso ottobre il governo, nel varare il cosiddetto decreto «Flussi», il provvedimento con cui ogni anno viene stabilito il numero di cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro subordinato, autonomo e stagionale, per la prima volta ha elencato l’autotrasporto di cose per conto terzi tra le attività che tali cittadini possono svolgere in Italia, sia pure facendogli condividere una quota di 6 mila ingressi (su oltre 30 mila) con edilizia e turistico-alberghiero. Per essere impiegati come conducenti, però, tali cittadini dovranno essere muniti di patenti professionali equivalenti a quelle italiane di categoria CE, convertibili in Italia e, dunque, potranno provenire unicamente da Paesi con cui esistono accordi di reciprocità, che sono solo sette: Algeria, Marocco, Moldova, Repubblica di Macedonia del Nord, Sri Lanka, Tunisia e Ucraina.
UN PRIMO PASSO
Ma è difficile che il decreto Flussi possa risolvere di colpo il problema del ricambio degli autisti. Lo stesso presidente di Anita, Thomas Baumgartner, che si è battuto a lungo per questo risultato, alla pubblicazione del provvedimento sulla Gazzetta Ufficiale ha subito dichiarato che «è una bella notizia», ma l’ha definita «un primo passo», sia pure «importantissimo». Anche perché la misura rischia di essere vanificata dalla condivisione con il turismo e, soprattutto, con l’edilizia, che dalle prime anticipazioni sulle richieste presentate (scadenza lo scorso 31 dicembre ed esame secondo l’ordine cronologico) avrebbe fatto la parte del leone. Il prossimo passo, dunque – per usare le parole di Baumgartner – sarà quello di «riservare una quota completamente dedicata» all’autotrasporto. Ma anche questo sarà un secondo passo. «Non è sufficiente avere la patente di guida», ha osservato il segretario nazionale di PMI-Autotrasporto, Roberto Galanti, «è necessario anche verificare se i nuovi lavoratori sono a conoscenza delle normative italiane in materia di trasporto, e – condizione minima – hanno la conoscenza parlata e scritta della lingua italiana». Il problema, dunque, è la loro formazione. Stefano Pedot, amministratore delegato dell’omonima azienda di Lavis (Trento), augurandosi anche lui che «il prossimo anno l’intero decreto Flussi possa essere dedicato all’autotrasporto», ha raccontato l’itinerario di una di queste assunzioni, effettuata in Ucraina: «Il nostro futuro autista ritirerà in ambasciata il permesso di soggiorno, verrà qui, ci prenderemo cura di lui e lo formeremo. Certo, è una scommessa: sarebbe necessario sistematizzare queste assunzioni». «E allora», propone Andrea Manfron, segretario generale di FAI-Conftrasporto, «una parte della formazione dovrebbe essere fatta già nel paese di provenienza: di base è la conoscenza della nostra lingua. Il resto si potrà fare direttamente in azienda». Non ricorda una procedura già sperimentata quattordici anni fa con l’Egitto? Stiamo tornando indietro. Deve essere la maledizione di Tutankamion.