Giorgio Brogi “un passo indietro”
“un passo indietro”
Giorgio Brogi
Giorgio Brogi vive e lavora tra Firenze e Milano. Tra le attività più recenti: nel 2006, il progetto “Fuori sequenza” è presentato a Parigi al Centre d’Art et d’Essais du Mercedes-Benz, a La Maison Rouge ed alla Fondazione AT Kearney. Nel 2007 la performance “Ba Ba”, realizzata con la Compagnia Teatrale Piccoli Principi, è alla Biennale d’Art Contemporain de Lyon. Nel 2008 Giorgio Brogi presenta “Out of sync” a New York all’Italian Academy. Il successo di “Ba Ba” lo porta nel 2010 a Palazzo Reale ed al MADRE, Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina a Napoli, poi al Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino, Firenze e nel 2009 al Centre Culturel et Artistique di Aubusson, alla Neue Söchsische Galerie di Chemnitz ed al Centre Culturel, Youi Le Moutier. Nel 2011“Ba Ba” viene presentato al Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea. Nello stesso anno è alla Galleria Artra di Milano con la performance “Save the tought” ed alla collettiva “Venduto 2”. Nel 2012 presenta a Lucca, negli spazi di Villa Bottini, la mostra “un passo indietro”, a cura di Enrico Mattei.
“un passo indietro”
opere selezionate
Questo libro accompagna la personale “un passo indietro” di Giorgio Brogi. Le opere selezionate per questa mostra rappresentano la sua ultima produzione, ispirata al contrasto tra ciò che appare oggettivamente e ciò che invece “legge” l’artista, motore centrale della sua ricerca sin da “Out of sync”. Il tema è il ri-pensamento, la rilettura dell’esperienza, raffigurati attraverso il movimento e l’energia del colore: “il non essere ripetitivo grazie alle infinite differenze che mette in atto nelle sue opere fa in modo che tutto possa diventare un elemento nuovo da scoprire, permettendo all’artista di sperimentare e creare ma non prima del pensare, che nel suo caso è spontaneo, di getto, immeditato e pone lui stesso a ripensamenti sottili alla ricerca della conclusione finale dell’opera”. Enrico Mattei curatore della mostra di Villa Bottini, spiega il significato di “un passo indietro” mentre l’estratto di una conversazione tra Giorgio Brogi e Lorenzo Bruni, evidenzia alcuni dei temi ricorrenti nell’intera produzione dell’artista.
Giorgio Brogi
“un passo indietro”
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Contenuti opq
6 Un passo indietro
Enrico Mattei
10 Da una conversazione con Giorgio Brogi
Lorenzo Bruni 16 Villa Bottini
19 All'infinito / La luce 27 Immagine negata 35 Coordinate assenti / Equazione di luce 43 Energia reale 51 "un passo indietro" 56 El Cairo
Giorgio Brogi 65 Una luce 71 Luogo di luce 75 Interna estensione
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Un passo indietro Enrico Mattei
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L’esigenza del recupero della dimensione spirituale, che si esprime anche nel contatto con la parte più intima di noi stessi, con le esigenze più nascoste, si concilia anche con il forte bisogno di rallentare i propri ritmi di vita, di liberarsi dalla frenesia quotidiana che impedisce di vedere, capire e vivere i segreti più profondi del nostro essere e della natura che ci circonda. Alcuni autori latini, hanno in passato evidenziato l’importanza del riprendersi il proprio tempo, l’importanza di ricavare uno spazio della nostra giornata nel quale il tempo, non sia la dimensione del fare e del finire, ma sia anche la dimensione nella quale spegniamo ogni tipo di accessorio e ci guardiamo intorno. In questa dimensione Giorgio Brogi vuole porre alcune riflessioni sulla situazione contemporanea del nostro vivere immerso in quella continua e frenetica evoluzione che il più delle volte ci fa dimenticare come le cose erano in origine e impedisce di capirne il senso. Essenzialmente è un modo per dire fermiamoci, rallentiamo il passo e cerchiamo di capire le nostre trasformazioni, sia come singoli uomini, sia come genere umano. Facciamo “un passo indietro”. La serie di opere presentate da Giorgio Brogi può essere identificata come una sorta d’interpretazione estetica del mondo in cui viviamo che cerca di fornire alternative alla visione stereotipata classica della realtà e alla possibilità di spostare lateralmente e di qualche millimetro il normale senso di comprensione. Il tentativo è non tanto perseguire un ideale estetico, ma, al contrario, provare a demolire il significato delle cose attraverso strutture derivate dalle cose stesse. Roland Barthes ha scritto che il nome del noema della fotografia coincide con l’«è stato», cioè con qualcosa che, nel momento dello scatto si è trovato là, in quel luogo per poi separarsi immediatamente da questo legame e diventare qualcosa di diverso. Ogni foto quindi è la testimonianza di una cosa necessariamente reale posta dinanzi all’obiettivo. Secondo Barthes dunque, la referenza è l’ordine fondatore della fotografia. Queste parole sulla fotografia servono a dare una lettura oggettiva del lavoro proposto da Giorgio Brogi che, partendo sempre da un dato reale, arriva poi a qualcosa di altro, ma pur sempre iniziando dalla vera matrice della realtà circostante. Fu Walter Benjamin a parlare di «uomo ammobiliato» per intendere la colonizzazione dello spazio interiore da parte di oggetti, d’immagini e di suoni che letteralmente non lasciavano più spazio per riflettere, stare da soli, pensare e ascoltare. Lo spazio interiore è a tal punto coloniz-
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zato da «cose» irrelate che ci risulta difficile trovare un momento per quella penetrante e profonda solitudine dalla quale nasce l’ispirazione artistica o l’intuizione filosofica; anche quando siamo da soli il mondo ci penetra dentro, non con la legittima esigenza di socialità e di socializzazione (per cui non si è mai del tutto da soli perché tutto il mondo è riflesso dentro di noi) ma con una presenza ingombrante e non richiesta. Siamo abitati dal mondo e questo ci rende difficile abitarlo in senso proprio e compiuto. Occorre allora una pedagogia degli spazi vuoti come operazione preliminare di un’educazione dell’anima; occorre che i soggetti siano allenati a creare dentro se stessi quelli che definiamo buchi bianchi, ossia frammenti di interiorità che salviamo dall’assedio, rettangoli di senso e di sé che sottraiamo alla dittatura di un mondo che ci ammobilia dentro. Se occorre educare a creare i propri buchi bianchi è però vero che non c’è buco bianco al nostro interno se non ci sono spazi e tempi del disimpegno all’esterno. È ricercando o creando i buchi bianchi nella propria giornata e nel proprio ambiente di vita e di lavoro che è possibile creare le condizioni per un vuoto spirituale interiore. Il viaggio porta Giorgio Brogi ad interpretare gli oggetti scartati, finiti per il loro uso oppure danneggiati dall’usura del tempo, e gli oggetti nuovi, pronti per un uso indipendente o come elemento, tassello di un progetto più grande, come singolarità potenziali per essere elevate nel loro insieme, sotto la mano dell’artista, al mondo dell’arte contemporanea diventando opera. Il viaggio inteso come elemento che rompe la monotonia della vita e porta l’individuo a confrontarsi sempre con nuove realtà, alla continua ricerca di una nuova forma di esistenza che possa allontanare il pericolo della noia. Il viaggio assume la funzione portante di vero e proprio maestro di vita: non è inteso solo nella forma materiale di spostamento fisico ma anche come viaggio virtuale per l’abbandono nei piaceri. Tutto questo comunque è presentato non come un processo di degrado, bensì come una ricerca dell’istinto primitivo dell’innocenza e della creatività umana oramai perdute e soffocate nel conformismo dell’uomo moderno. L’idea della trasformazione, del riuso, del recupero e di tutto ciò che porta Brogi su una ricerca, attraverso l’astrazione geometrica, di codici e linguaggi segnici che emergono dalla proliferazione dei messaggi che il mondo gli rimanda continuamente, è quanto di più duttile ci sia e si offre a illimitate varianti. Non occorre produrre continuamente
‘altro’, che sia possibile rigenerare ciò che c’è; via dalla logica dell’usa e getta praticata senza attenzione dalla cultura consumistica. Ma non è solo questo: sottrarre allo scarto definitivo e prolungare la vita di ciò che pareva aver concluso il suo ciclo vitale ed economico è atto poetico per eccellenza. Giorgio è un sognatore ad occhi aperti che vede nella miriade di queste occasioni mancate quotidianamente un riuso che possa diventare di natura estetica, “oggetti trovati”, reperti usciti dal mondo di natura o dall’urbanizzazione e caratterizzati da un qualche grado di bizzarria, stranezza, forza di impatto sensoriale; oggetti, in ogni caso, esteticamente rilevanti, in quanto capaci di stimolare in noi la reazione del bello, del brutto, del sublime, del volgare, del ributtante, del provocante, del religioso. Così facendo, l’artista, distrugge ogni residua fiducia nelle qualità oggettive del valore artistico estetico, vuole invece dimostrare che esso è il frutto di una convenzione, o quasi di un’autodichiarazione; basta volerlo, emanare una “intenzione” in tal senso, e tutto può divenire ”opera d’arte”, il che è, ancora una volta, un modo per rinforzare la dimensione noetica. Il non sporcarsi le mani con le pratiche “artistiche”, nessun approccio manuale alle opere, il rifiuto di lavorare visto che nel suo operare non ha importanza primaria il materiale ma il modo in cui viene impiegato. Quello che conta, è il coefficiente mentale che permettiamo a qualsiasi esperienza, la quale può seguire il suo normale decorso pratico-utilitario, ma può anche essere dirottata, “straniata” su altri binari, e allora, anche senza che nulla muti nel suo assetto fisico, essa entra nella sfera del valore estetico. Il non essere ripetitivo grazie alle infinite differenze che mette in atto nelle sue opere fa in modo che tutto possa diventare un elemento nuovo da scoprire, permettendo all’artista di sperimentare e creare ma non prima del pensare, che nel suo caso è spontaneo, di getto, immeditato e pone lui stesso a ripensamenti sottili alla ricerca della conclusione finale dell’opera. La forma che Brogi cerca non è altro che la risultante di una continua ricerca di un linguaggio comunicativo. Non sono forme fini a se stesse ma risultano vibranti e in movimento, cercano di comunicare attraverso la loro composizione e al loro colore grazie ad un codice che trasmette e comunica il vivere quotidiano per riuscire a trovare quegli stati d’animo inconsci non considerati durante la nostra frenetica esistenza.
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Da una conversazione con Giorgio Brogi Lorenzo Bruni
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LB: Le tue opere video e fotografiche nascono da una appropriazione di frammenti di realtà. Sono dei reade made di particolari che spesso non cogliamo nella nostra vita quotidiana, come un pixel rotto su uno schermo televisivo che diffonde pubblicità su una piazza del normale paesaggio urbano di questa nostra modernità liquida. Perché sei attratto proprio dall’errore dell’immagine comunicazione/pubblicitaria? L’errore in questo caso è il limite, il limite di un mezzo a cui si affida un messaggio, una comunicazione. Un mezzo a cui si attribuisce un ruolo preminente per trasmettere delle informazioni, per mettere in contatto mondi, senza valutare l’errore. Il limite che può causare una dicotomia, un non messaggio. E proprio questo mi interessa: la non comunicazione dell’arte in quanto tale. Il non messaggio dell’arte, soprattutto all’interno di contemporaneità dove troppo è affidato al mezzo. LB: Cosa è per te la fotografia? Solo un mezzo per narrare il tuo incontro con il mondo o i soggetti scelti da te sono un’allegoria per riflettere sulla natura, limiti e potenzialità della fotografia? Portami degli esempi. In questo caso per me la fotografia o meglio la macchina fotografica è un mezzo per catturare il reale, qualcosa che accade, che si manifesta di fronte a me, mentre percorro le strade della mia quotidianità urbana o quando attraverso la campagna in cui vivo. E’ come una sorta di occhio che legge segni, colori, significati non allegorici ma reali, quotidiani, così quotidiani che spesso passano inosservati alla superficie ma si addentrano nella subliminalità del pensiero, dell’agire, a livello inconscio e per questo temibile. Probabilmente è come un gioco scaramantico che mi attrae per avvicinarmi sempre più alla natura, dove non esiste allegoria ma solo oggettiva realtà. LB: Prima, domandandoti del tuo lavoro, mi riferivo ad esso come a reade made. Infatti tu inserisci nel reale, come a Villa Bottini di Lucca, un particolare che viene percepito come se fosse un’altra cosa. Ad esempio la fotografia della croce di led, in realtà non è un simbolo mistico ma fa parte degli oggetti kitsch che vengono posti sui cruscotti dei camion. Noi però,
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bagnati nella cultura occidentale riconduciamo, come primo approccio, questo segno ad un particolare codice linguistico e simbolico. Mi chiedo allora se il tuo lavoro ruoti attorno ai simboli della comunicazione e a come il pubblico reagisce ad essi nel quotidiano, di cui tanto uso hanno fatto i media dagli anni sessanta e dalla diffusione del messaggio pubblicitario. La croce è oggettivamente un simbolo, quando io mi trovo davanti ad un segno che sollecita il mio interesse, sono lontano da qualsiasi “credo” per così dire. Il nostro quotidiano corre su uno schermo, così io guardo cosa scorre sui diversi schermi che incontro durante i miei viaggi. Il mio lavoro è quello di rappresentare una “deriva visiva”, che come in questo caso altera significativamente la percezione degli osservatori ed intende mettere in discussione un’idea. Non aggiungere immagini a immagini, ma sottrarre per dare forza all’essenza della percezione e della emozione. La croce, come altri segni a Villa Bottini, diventa il termine di un’equazione di luce, al pubblico è affidato il compito di risolverla. LB: Quale è la modalità processuale a cui ti ispiri? Che scarto vuoi creare con il tuo lavoro rispetto ai media pubblicitari? Sicuramente la manipolazione degli strumenti, il loro utilizzo al limite annullando il fine per cui sono stati progettati quali la macchina fotografica, il computer: strumenti utili a creare immagini, ad archiviarle, a registrarle, io invece li utilizzo cercando di ripulirle, trovare l’essenza che le crea, la struttura, il colore, l’intensità, il significato di un segno per creare un nuovo scenario, una possibilità di lettura aperta. LB: Fotografie di schermi rotti che rimandano a decorazioni di stoffe o a paesaggi astratti, fotografie di insegne pubblicitarie che in assenza del loro schermo da illuminare evidenziano lo scheletro interno di neon che rimandano a un paesaggio notturno animato dalle luci di grattacieli in lontananza. Queste tue due serie di fotografie sono allo stesso tempo immagini di superfici in trasformazione. Vuoi cogliere il momento di transizione tra una forma e l’altra, tra un segno e l’altro?
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Piuttosto voglio cogliere ciò che sono, ciò che trasmettono e rimandano attraverso la forza di un segno, di una forma. Probabilmente per dimostrare quanto la non rappresentazione è forte nella nostra realtà, così piena e satura di immagini. Perché aggiungere a ciò che c’è, preferisco sottolineare ciò che non si percepisce. Mi interessa il non letto, il non detto che una forma e un segno riescono a esprimere. LB: Cosa è per te la manipolazione? E’ la scoperta! E’ qualcosa che ti permette di creare, di formare. E’ anche un gioco attraverso il quale ti immetti su una strada dove non sai ti condurrà. E’ un vortice che ti ingoia e ti restituisce diverso. LB: Quale è il ruolo dell’arte? E quello della comunicazione? Da quale parte stai? Non sto da nessuna parte, credo che tutte e due sono parte di me perché l’arte è opposta alla comunicazione. Questo è il grande equivoco della situazione attuale dell’arte. L’arte non comunica, per cui ha un ruolo molto diverso dalla comunicazione. Tutto è molto chiaro alla voce comunicazione del vocabolario della lingua italiana: “partecipazione, trasmissione effettuata per ragioni informative, organizzative, direttive” mentre l’arte è ben altra cosa: “forma dell’attività dell’uomo come riprova e esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva, per cui egli modifica se stesso e l’ambiente naturale secondo un rapporto drammatico, accompagnato da esigenze individuali o sociali, di ordine logico o morale”. Non credo ci sia da aggiungere altro. LB: Quale è il tuo primo lavoro che si è rivelato essere un’opera d’arte e che hai esposto? E’ abbastanza lontano ed è stato piuttosto scioccante. Ancora allievo dell’Istituto Statale d’Arte sono stato invitato a partecipare ad un concorso che mi ha trascinato con violenza sotto le telecamere a ricevere un fiorino d’oro nel Salone del Duecento in Palazzo Vecchio. Credimi, da essere uno studente a sentirsi chiamare artista è stato un trauma. Il la-
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voro era molto bello e interessante, probabilmente si legge ancora oggi il percorso che ho intrapreso, ma quella violenza mediatica mi ha portato a fare subito le prime mostre e poi ad allontanarmi dall’arte per molti anni. Ma i vecchi amori prima o poi si ripresentano e ti tramortiscono di nuovo e tu maledici quel giorno, ma lo continui ad amare. LB: Quale è l’opera che avresti voluto realizzare? Sicuramente quella che non ho ancora fatto. Il mio lavoro è continuo, è il divenire del mio pensiero per cui non lascia niente di intentato, sicuramente un desiderio, ha bisogno di tempo per realizzarsi ma sicuramente non rimane nelle pieghe, emerge sempre e trova la sua realizzazione. LB: La prima opera (pittura, film, libro, architettura o qualsiasi altra cosa) che ti ha colpito nella tua vita? E quale ricordi più volentieri? Molte sono le opere, gli artisti, i video e anche le opere architettoniche che mi hanno colpito o hanno segnato il mio percorso di ricerca, proprio perché è attraverso l’indagine, l’analisi attraverso le strade del mondo che nasce il mio lavoro, ma un’opera è quella che è rimasta nella mia mente: la Maestà di Ognissanti di Giotto che si trova agli Uffizi. La trovo di una sorprendente modernità per la sua completa astrazione dalla realtà attraverso il reale che esprime. Una fissità che travalica la percezione. Una figurazione che attinge alle forme più possenti e astratte. Un unicum compositivo, statico e dinamico allo stesso tempo. E poi contemporanea alla sua contemporaneità, come poche opere riescono ad esserlo.
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Villa Bottini Villa Bottini o Buonvisi al Giardino si trova nel centro storico di Lucca. Costruita da Paolo Buonvisi nella seconda metà del XVI secolo, fu acquistata agli inizi dell’ottocento da Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone.
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All’infinito 2012
Sala delle Scienze stampa digitale su tela cm 120x250
La luce 2012
Sala delle Scienze stampa digitale su tela cm 96x78
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Immagine Negata 2012
Sala di Diana stampa digitale su tela cm 120x250
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Coordinate assenti 2012
Sala delle Virtù stampa digitale su tela cm 120x250
Equazione di Luce 2012
Sala delle Virtù stampa digitale su tela cm 96x78
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Energia reale 2012
Sala di Venere stampa digitale su tela cm 120x250
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“un passo indietro” 2012
Foulard cachemire e modal cm 120x120
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El Cairo 2012
Piano cucine sala centrale stampa digitale su pvc vari formati
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Sono arrivato al Cairo la prima volta che non era ancora l’alba. Una non luce, rendeva questo grande spazio, infinito. Percepivo già l’enormità di questa città. Correre lungo le tangenziali sopraelevate mi dava una visione distante, al limite della moltitudine di gente che stava sotto - viva, pulsante, animata, in eterno movimento per raggiungere una meta forse immaginaria quanto reale. Il contrasto tra un costume antico e una contemporaneità ormai al limite, reduce di un altro continente, ma con la voglia di progredire. L’abbandono di una civilizzazione verso un’ identità ancora non propria. E sopra a tutto, su un piedistallo così alto e irraggiungibile, l’occhio della comunicazione pubblicitaria aveva lasciato il posto alle forme del nulla. Quei grandi tabloid luminosi erano diventati nuove fonti di energia. Energia allo stato puro. Un nulla che brucia energia, non utile a nulla se non a registrare un declino, legato alla debolezza del danaro. E’ di notte che la città prende forma, che si anima, un serpente che si dipana tra le sopraelevate e le piccole vie; un fluire di gente, di esperienze. Si sente nell’aria una sospensione e un presente, un nulla e ora. Luce, colori, suoni, profumi e poi ti addentri in un altro mondo, diverso ma uguale, intenso come se ti fossi lasciato alle spalle un altro paese, un’altra città. Vieni catturato e risucchiato, coinvolto attraverso il movimento, dall’energia che le persone emanano. E di nuovo in un’altra dimensione, in un altro quartiere, un’altra epoca.
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Una luce 2012
Piano cucine video 1,30 minuti
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Luogo di luce 2012
Piano cucine stampa digitale su tela vari formati
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Interna estensione 2012
Piano cucine stampa digitale acrilico e pastello su tela cm 110x160
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Riconoscimenti opq
Pubblicato in occasione della mostra: Giorgio Brogi “un passo indietro”, Villa Bottini, Lucca Alcune opere sono esposte alla Galleria Numero 38, Lucca
A cura di Assistente Art manager
Enrico Mattei e con un contributo critico di Lorenzo Bruni Federico Dalla Battista Daniele Comelli
Produzione video
Tommaso Awerbuch Villa Bottini, Lucca 20 ottobre – 4 novembre 2012 Galleria Numero 38, Lucca 20 ottobre – 4 novembre 2012
Con il sostegno di
Città di Lucca, Settembre Lucchese, Galleria Numero 38, Tenuta del Buonamico, Hotel Celide, Hotel Ilaria Residenza dell’Alba Istituto Sandro Pertini
Pubblicato da
CeG Editore, Piazza San Felice 1, 55125 Firenze
Graphic Design
Andrea Sabia
Editing
Monica Evangelisti
Organizzazione
Luisa Ceccherini
Foto
Filippo Brancoli Pantera, Giorgio Brogi
Ufficio Stampa
Chicca Manca, Giovanni Pacifico, Marco Taddeo
Stampato da
Ciani Arti Grafiche
Ringraziamenti
Un ringraziamento particolare a Antonella Giannini, Marta Piacente, Mohamed Abdel Salam, Massimo Bertolani, Vladimiro Meini, Simone Franchi, Claudio De Luca, Rita Mainardi, Nicola Giaquinto, Alessandro Picchiotti, Daniela Volpi, Iacopo Brogi, Costanza Brogi.
Tutti i diritti sono riservati. E’ vietata la riproduzione in parte o totale di questa pubblicazione senza l’autorizzazione da parte dell’editore. © 2012 CeG Editore - Prima edizione