VENEZIA NEWS - JULY-AUGUST 2024 - #289-290

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Philippe Halsman, Jean Cocteau, New York City, 1949.
© Philippe Halsman / Magnum Photos

Jean Cocteau La rivincita del giocoliere

13.04 16.09.2024

Dorsoduro 701, 30123 Venezia guggenheim-venice.it

21.06.24 > 12.01.25

UN’EREDITÀ VITALE editoriale

Èstato per noi un mese e mezzo, l’ultimo che ci siamo lasciati alle spalle, decisamente irreale. Ancora siamo immersi in una bolla straniante nel cuore della quale ci è difficile, di fatto impossibile ancora, misurare le reali proporzioni di questa irreparabile perdita che abbiamo subito con la scomparsa di Fabio, Fabio Marzari, la nostra penna più versatile, fantasiosa, libera. Un colpo durissimo, raggelante, da cui rialzarsi rappresenta a tutt’oggi un’impresa titanica per noi di Venezia News, ma non solo naturalmente. Il tempo ci dirà molto a riguardo, ma una cosa è certa per tutti noi qui in maniera netta oggi: l’assenza assordante di Fabio è di fatto incolmabile. Punto. Ciò assodato senza dubbio alcuno, ci siamo detti e convinti, però, che questa cesura, questo strappo tragico e irreparabile deve rappresentare al contempo un’occasione di straordinaria responsabilità per chi questo giornale ha costruito negli anni e continua a costruire, vale a dire quella di non disperdere neanche un grammo uno del vitale, creativo deposito di idee e intuizioni che il Nostro ci ha lasciato in eredità. Una responsabilità altissima che ci chiama da subito tutti in causa per tenere viva, riattualizzandola, questa preziosa eredità culturale, umana, relazionale. È con questo spirito, quindi, con questa tensione a mantenere in vita questo straordinario percorso editoriale vissuto per quasi un ventennio con Fabio che ci siamo rimessi sotto a costruire il nostro giornale, che è un po’ la creatura che amiamo far crescere insieme di mese in mese, di giorno in giorno. Cercando di tenere il più possibile vivo quell’urgente, quotidiano anelito alla libertà nella scelta dei contenuti, delle persone da incontrare e intervistare, dei luoghi da indagare per bene restituire su pagina che Fabio possedeva e viveva con un’intensità e una qualità inarrivabili. Quindi, ecco, sappiamo che la cosa migliore che vorrebbe vedere e ricevere da noi oggi non sarebbe altro che un inesausto impegno a perseverare nella crescita libera, nello sviluppo sempre più convinto e ricco di idee, contenuti, immagine del nostro magazine e di tutti i suoi derivati, cartacei e digitali, cui lui regalava quel suo tocco ineguagliabile e ineguagliato a tutt’oggi.

E allora sì, rieccoci qui a provare a consolidare l’orizzonte profondo e libero di questa avventura editoriale indipendente che è stata capace in questi ultimi tre, quattro anni in particolare di accelerare in termini qualitativi complessivi in maniera decisamente alta, ridefinendo e riattualizzando attraverso un restyling visivo e contenutistico di respiro internazionale, urban si direbbe oggi, un magazine che, senza falsa modestia e senza presunzione alcuna, può a tutti gli effetti dirsi la voce editoriale più aperta e ricca del corpo culturale vivo di questa città.

Una ripartenza la nostra oggi, dopo questa inconsolabile perdita, che abbiamo deciso di giocare su due piani: quello della progressiva, dinamica continuità nel percorso di crescita di cui abbiamo

appena parlato; quello della riflessione, di un dovuto e convinto ripensamento di alcune parti, di alcune sezioni del magazine decisamente definite in maniera costitutiva e identitaria da Fabio in questi lunghi anni. Mi riferisco nello specifico alle sezioni o alle sottosezioni trasversali attinenti al costume, alla lettura, alla convivialità a tavola e più estesamente in società, alla tradizione rivissuta con un’attitudine e una disposizione contemporanee, presenti. Parti importanti del corpo editoriale di Venezia News, costruite da Fabio Marzari con un finissimo equilibrio tra eleganza, innata leggerezza e profondo spirito di indagine nel cuore vivo dei riti e delle radici di una città senza pari e dall’incertissimo futuro. Sezioni oggi parzialmente e necessariamente sospese, dovutamente in decantazione, in attesa di una nostra rielaborazione delle stesse in grado di dare loro, laddove possibile, continuità con quanto sin qui realizzato negli anni da Fabio, ma al contempo, consapevoli dell’irriproducibilità oggettiva dello specifico del Nostro, cercando di delinearne i profili con nuovi tratti, informati sicuramente da quanto disegnato sin qui, sino a solo ieri, ma attentissimi a non scivolare nella retorica dello scimmiottamento di uno stile che può certo ispirare, ma che ancor più certamente non è possibile ricalcare. Una sanissima pausa di meditazione, insomma, per noi necessaria più di ogni altra cosa ora, ma nella quale desideriamo investire tutto il nostro bagaglio di idee, di progettualità, di spunti emozionali vissuti e immagazzinati in questi lunghi anni di condivisione professionale ed umana con Fabio.

Ciò detto, godetevi questa estate che, almeno in alcuni settori del tempo libero e della cultura, promette di essere a dir poco appassionante. Sfogliare e leggere queste duecento pagine di cultura viva che avete tra le mani per credere. Buone vacanze a tutti e ci rivediamo a settembre, sarà già cinema!

PS: Desidero qui, infine, da parte di noi tutti ringraziare di grande, autentico cuore tutti coloro i quali, e siete stati moltissimi!!, hanno inviato dei messaggi di affetto in nessun modo rituale, né tantomeno scontato, per Fabio. Il quale, anche in questo suo ultimo scatto che mai avremmo voluto però vedere, ha dimostrato fino all’ultimo dei suoi giorni di quanta curiosità, eleganza, attenzione sia stato in grado di seminare con quel suo tratto insieme antico e gioviale, ironico e affettuoso, in tutte le persone, e sono state davvero tantissime, che diversamente, ma sempre con eguale discrezione e irresistibile fascino, ha saputo da par suo mirabilmente frequentare.

july-august2024

CONTENTS

coverstory (p. 12 ) Intervista Daniele Finzi Pasca – Titizé – A Venetian Dream | Intervista Federico Buffa – Olimpiadi 2024 | Giochi Olimpici di Parigi Guida Semi-Sportiva | tradition (p. 26 ) Festa del Redentore biennale danza festival guide (p. 30 )

Intervista Wayne McGregor | Leoni: Trajal Harrel, Cristina Caprioli | Intervista Cheng Tsung-lung – Cloud Gate | Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor | GN|MC Guy Nader María Campos | Melisa Zulberti | Alan Lucien Øyen | Nicole Seiler | Intervista Rafael Palacio – Sankofa Danzafro | Intervista Shiro Takatani – Dump Type | Stereoptik | Intervista Miller de Nobili | VIDAVÈ | Benji Reid | Ben Duke – Lost Dog | Biennale College Danza arte (p. 68 ) Intervista Beatriz Milhazes – Padiglioni Arti Applicate | Stranieri Ovunque/Foreigners Everywhere artists: Gabrielle Goliath, Madge Gill | Giulia Andreani, Louis Fratino | National Participations: Spagna, Romania, Gran Bretagna, Polonia, Libano, Seychelles, Singapore, Argentina, Intervista Edith Karlson – Estonia, Zimbabwe | Collateral Events: Elias Sime, Catalonia in Venice, Robert Indiana, Per non perdere il filo, Cosmic Garden | Not Only Biennale: Yu Hong, Pierre Huyghe, Christoph Buchel, Intervista Lucia Veronesi – La desinenza estinta, Willem de Kooning, Jean Cocteau, Intervista Emilia Kabakov –Between Heaven and Earth, Palazzo Diedo, Re-Stor(y)ing Oceania, Julie Mehretu, Nebula, Intervista Edward Burtynsky – Extraction/ Abstraction, Francesco Vezzoli, A World of Potential / Tracey Snelling, Monique Jacot, Arena for a Tree, Eleonora Duse, I mondi di Marco Polo | Galleries | Officina Malanotte storie (p. 138 ) I Portolani di Gasparo Tentivo musica (p. 142 ) 16. Venezia Jazz Festival, Gregory Porter, Incognito, Cobi, Adam Holzman Trio | Women for Freedom in Jazz | Intervista Giovanni Dell’Olivo – Venetiko Rebetiko | Ultimo | Tom Morello | Cristiano De André | Festival del Vittoriale | Mirano Summer Festival | AMA Music Festival | No Borders Music Festival | Marostica Summer Festival | C’mon Tigre | Intervista Snackulture – ilMuretto | ‘Ndemo a far splash! | Pagoda Des Bains classical (p. 158 ) Omaggio a Puccini dal mondo | 101. Arena Opera Festival Verona | Operaestate Festival theatro (p. 164 ) Intervista Michele Mele – Operaestate Festival | Venice Open Stage | Estate Teatrale Veronese | Il Tango cinema (p. 170 ) 81. Mostra del Cinema di Venezia: Beetlejuice, Beetlejuice, Sigourney Weaver | Operaestate Cinefestival | Cinemoving 2024 | Cinema Barch-in | SerieTV: Ripley | Supervisioni: Kinds of Kindness | Cinefacts: Donald Sutherland etcc... (p. 178 ) Marjorie Agosín, Aldo Izzo: Il custode della memoria e l’antico cimitero ebraico di Venezia | Premio Campiello | Parole: Incontri citydiary (p. 187 )

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5 TITIZÉ A VENETIAN DREAM

Forty years of international activity, over forty shows, three Olympic ceremonies, two Cirque du Soleil shows, eight operas, six hundred theatres visited in over forty-six countries, and an audience of fifteen million. This is Daniele Finzi Pasca and his Company in numbers. Titizé is the most anticipated show of our Venetian summer, and will be staged at Goldoni July to October—a mix of tradition, innovation, acrobatics, and clown show that will amaze the international audience. cover story p. 12

BIENNALE ARTE AND THE CITY

Curator Adriano Pedrosa brings together 331 artists, 89 national participations, and 30 collateral events for a Venice Art Biennale without borders, where being Foreigners Everywhere means being citizens of a free world. And around town, 100+ other magnificent exhibition venues outline a unique urban landscape of contemporary art. arte p. 68

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GIOCHI OLIMPICI DI PARIGI

Looking forward to Paris 2024 with the greatest epic cantor of our time. Federico Buffa tells us about his Olympiads: memorable editions, new entries, a millennia-old history of humankind and of challenging limits, overcoming them, and draw new ones. New geographies of sports and the everlasting appeal of joyous effort. The athletes of yesterday and those of today, anticipating the most important moment in their lives.

cover story p. 20

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NOTTE DEL REDENTORE

Midsummer nights: hot, crowded, loud – though always beautiful. An amazing party that knows no crisis: folklore, tradition, legend, religion, rituals, and much, much fun. The notte famosissima is the night when Venice lights up and shines under the light of fireworks. t radition p. 26

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18. BIENNALE DANZA

Venice Dance Biennale director Wayne McGregor devised a programme –We Humans – that comprises seven world premieres, two European premieres, eleven Italian premieres. From icons of international dance to new, emerging talents, over 160 performers will converge in Venice and produce eighty shows in seventeen days.

biennale danza festival guide p. 30

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GREGORY PORTER VENEZIA JAZZ FESTIVAL

The star of the 2024 Venice Jazz Festival is Gregory Porter, a performer that knows what international success feels like and whose shows sell out in minutes. Porter will be at Fenice Theatre on July 9 – the only Italian date of his tour. A winner of two Grammys, in his warm baritone voice live jazz, soul, and gospel.

musica p. 142

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PUCCINI IN PIAZZA SAN MARCO

After Orff’s Carmina Burana (2022, conductor Fabio Luisi) and Beethoven’s Ninth Symphony (2023, conductor Juraj Valcˇuha), the 2024 summer in Piazza San Marco will host a new Feniceproduced concert night dedicated to Giacomo Puccini, one hundred years after his death. Conducted by James Conlon, the Fenice’s resident orchestra will accompany Selene Zanetti, Francesco Demuro, and Alexander Malofeev in arias from the Bohème, Tosca, and Madama Butterfly classica l p. 158

ESTATE OLIMPICA

La notte e la sua follia, i buffoni, gli acrobati che volano, pioggia surreale e un continuo ricreare equilibri impossibili.

Il gioco mitico del mascherarsi che rimanda al velarsi per svelarsi e per poi ancora rivelarsi. E poi Venezia con il suo splendore, le sue atmosfere, la sua poesia e i misteri che la abitano...

Titizè @ Viviana Cangialosi - Compagnia Finzi Pasca

cover story

TITIZÉ – A VENETIAN DREAM

Per incanto o per delizia

Intervista

Attori, acrobati, musicisti e interpreti multidisciplinari immersi in universi onirici e rarefatti. Da luglio a ottobre 2024 sul palcoscenico del Teatro Goldoni debutta in prima assoluta Titizé – A Venetian Dream, lo spettacolo coprodotto dal Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale con la Compagnia Finzi Pasca, in partnership con la compagnia Gli Ipocriti Melina Balsamo. L’opera è scritta e diretta da Daniele Finzi Pasca, tra i membri fondatori dell’omonima compagnia di base a Lugano in Svizzera, che nei suoi 40 anni di attività internazionale ha realizzato oltre 40 spettacoli, fra cui 3 cerimonie olimpiche, 2 spettacoli per il Cirque du Soleil e 8 opere liriche, che hanno calcato i palcoscenici di circa 600 teatri e festival in 46 paesi di tutto il mondo, per oltre 15 milioni di spettatori. Musiche, orchestrazione e sound design sono di Maria Bonzanigo, la scenografia di Hugo Gargiulo, scenografo associato Matteo Verlicchi, i costumi di Giovanna Buzzi, il tutto al servizio di un cast di undici talentuosi interpreti: Alessandro Facciolo, Andrea Cerrato, Caterina Pio, Francesco Lanciotti, Gian Mattia Baldan, Giulia Scamarcia, Gloria Romanin, Leo Zappitelli, Luca Morrocchi, Micol Veglia, Rolando Tarquini. Fedele al linguaggio dei sogni che restituisce immagini evanescenti, allusioni e miraggi, Titizé – A Venetian Dream è uno spettacolo che conduce lo spettatore in un universo rarefatto e surreale. La sua narrazione, apparentemente frammentata ma profondamente allusiva, si sviluppa in un gioco caleidoscopico che intreccia diversi piani di significato, rievocando un iperbolico grammelot Uno spettacolo internazionale per tutti, veneziani e viaggiatori, che fonde tradizione e innovazione in un affascinante connubio tra clowneria, linguaggio del corpo e acrobazia con l’utilizzo di innovative macchine sceniche che danno vita a un teatro dello stupore e della leggerezza, senza dover ricorrere alla parola. Un invito a immergersi nell’essenza di Venezia, dove il passato e il presente si mescolano in un unico splendido racconto e le storie, sparse come conchiglie sulla spiaggia, ognuna con la sua bellezza e il suo mistero, si ricompongono in un prezioso mosaico. Una prima assoluta da non perdere!

Come definirebbe il suo teatro?

Lo definirei un “teatro dell’empatia”. Quarant’anni fa abbiamo cominciato a lavorare su questo tema, studiando le migliori modalità e forme sceniche attraverso le quali poter contribuire a curare gli animi attraverso le storie. Negli anni ha preso così forma questa idea di teatro, un personalissimo stile di creazione e di produzione. Intera-

Titizé – A Venetian Dream 18 luglio-13 ottobre Teatro Goldoni www.teatrostabileveneto.it

giamo con centri universitari e di medicina con i quali ci relazioniamo in termini concretamente collaborativi, come se fossimo colleghi impegnati in uno stesso laboratorio. Non ci sono medicine qui con noi, solo storie! Il linguaggio del teatro di clowneria invita a un dialogo continuo con il pubblico, quindi in generale i nostri attori, acrobati, musicisti, danzatori e tecnici sono specialisti dell’empatia. Parallelamente potrei definirlo anche “teatro dell’artificio”. Sono pazzamente innamorato delle macchine sceniche: nella scena si sa che la realtà non serve, non sembra vera. La verità sulla scena ha bisogno di artificio, ha bisogno di illusione e allusione e noi siamo dei pazzi scatenati in questo, ci piace usare tutti gli elementi e i mezzi che possono creare illusione.

Qual è stata la scintilla che ha guidato questa nuova dimensione teatrale verso la definizione della compagnia Finzi Pasca?

Essere una comunità di artisti come poche ne sono rimaste, un gruppo che nel tempo si mantiene molto unito, come per esempio la compagnia di Pina Bausch. Con Maria (Bonzanigo) quest’anno sono quarant’anni che lavoriamo insieme, con mio fratello Marco pure. Siamo partiti da un teatro di clowneria e, quindi, anche se non c’è un vero e proprio collegamento diretto, da un teatro che ha a che fare con la Commedia dell’Arte, caratterizzato da un modo di stare in scena come se tutto il tempo si fosse in proscenio, in dialogo con

Titizè (prove di creazione) © Viviana Cangialosi - Compagnia Finzi Pasca

il pubblico. Che lo si veda o non lo si veda, si è sempre lì, tutto il tempo a creare una connessione con il pubblico.

Un curioso titolo “veneziano”, ma che diventa un suonoparola internazionale. Com’è nata l’idea di Titizé per questo progetto e quale il significato letterale e simbolico che ha voluto far assumere a questo titolo?

Titizé, “tu sei”: una parola emblematica e piena di ritmo, che con la sua evocativa sonorità richiama l’attenzione sul potere del verbo “essere”, sottolineando l’universalità di un’esperienza immaginata per coinvolgere intimamente un pubblico eterogeneo e di ogni età. L’idea è venuta a mio fratello Marco. Stavamo confrontandoci su diversi verbi, poi è venuto fuori quel “ti” come modo per rafforzare il tu; alla fine abbiamo compresso tutto insieme ed è nata questa parola: titizé, “tu sei”. Abbiamo scelto il “zé”, anche se ci sono due forme di scriverlo in veneziano, alcuni lo scrivono con la “s” e altri con la “z”, tuttavia abbiamo scoperto che le comunità venete che, ad esempio, vivono in Brasile usano la “z”. Questa seconda formula funziona dappertutto perché titizé può essere pronunciato agilmente da un orientale, da un tedesco, da un anglofono, da uno spagnolo. In questi anni ci siamo esibiti in più di cinquanta paesi in giro per il mondo, siamo abituati a calcare scene internazionali, quindi siamo pienamente consapevoli che trovare un titolo che non abbia bisogno di traduzione è sempre una buona cosa.

Enchantment ENG & delight

Actors, acrobats, musicians, and multi-discipline performers playing in dreamland. Upcoming show Titizé – A Venetian Dream will be staged at Goldoni Theatre July to October 2024. A co-production of Teatro Stabile del Veneto—Teatro Nazionale and Compagnia Finzi Pasca, the piece has been authored by the company’s co-founder Daniele Finzi Pasca. In forty years of business, Finzi Pasca produced over forty shows, three Olympic ceremonies, two shows for Cirque du Soleil, and eight operas.

Music, arrangement, and sound design by Maria Bonzanigo, scenes by Hugo Gargiulo and Matteo Verlicchi, costumes by Giovanna Buzzi, and a main cast comprising Alessandro Facciolo, Andrea Cerrato, Caterina Pio, Francesco Lanciotti, Gian Mattia Baldan, Giulia Scamarcia, Gloria Romanin, Leo Zappitelli, Luca Morrocchi, Micol Veglia, Rolando Tarquini.

Titizé – A Venetian Dream is a show that will take us into a surreal universe. Staggered, allusive narration develops into a kaleidoscopic game of planes of meaning and hyperbolic grammelot. An international show for everyone, it blends tradition and innovation into a fascinating mix of clownery, body language, and acrobatics thanks to innovative mechanical equipment. Titizé is a piece of theatre of amazement and lightness that is able to forgo words entirely and an invitation to immerse yourself in the essence of Venice.

Your theatre.

I will call it ‘empathy theatre’. Forty years ago, we started working on this theme and studying the best ways and techniques to treat souls using stories. Over the years, we developed this form of theatre, a very personal style of creation and production. Clown shows invites interaction with the audience, meaning our actors, acrobats, musicians, dancers, and engineers are empathy specialists. I may also call it ‘artefact theatre’, because I just love stage machinery. Everybody knows that on stage, you don’t need reality. It just doesn’t look real. What we need on stage is artefacts, illusion, and allusion, and we are crazy about it! We love to use anything and everything that can generate illusion.

A new direction for theatre.

Being one of the few artists’ communities like it still around, we are a team that is very close-knit, like Pina Bausch’s company, for example. I have been working with Maria Bonzanigo for forty years, and the same goes for my brother Marco. We started out with clown shows, so a kind of theatre that is similar to Commedia dell’arte. The way we perform on stage is such that there is always some active connection with the audience, whether you see it or not.

A curious Venetian name for your show.

Titizé is Venetian for ‘you are’, and is an emblematic, rhythmic word that highlights the universality of an experience that involves a diverse audience of all ages. We found it interesting to build upon the verb ‘to be’ and to make it sound like an open question. My brother, Marco, came up with that. It works, it is easy to read for everyone, no matter where they come from, and we love knowing that it can work all around the world with no translation needed.

cover story

TITIZÉ – A VENETIAN DREAM

Qual è il fattore più importante nella creazione di uno spettacolo di questo tipo? E quale equilibrio si determina tra storia, attori, acrobati, effetti speciali, improvvisazione, musica, luci...?

Quando nel teatro si parte da un testo, l’ossatura chiaramente la dà la struttura narrativa. Ma in questo spettacolo, come in altri miei precedenti, la struttura narrativa è data da un’architettura di immagini che si sovrappongono l’una all’altra, esattamente come in un meccanismo onirico. Nei sogni c’è un continuo passaggio da un luogo all’altro dell’immaginario o del reale sognato, che procede per forme, per salti quasi temporali: ci si trova in una stanza, si apre l’armadio e si viene proiettati da un’altra parte... Per creare una narrazione di questo tipo bisogna tenere conto di tutta una quantità di elementi che vanno a costruire per l’appunto un’architettura. Ci sono acrobati che possono stare in scena, cambiarsi di costume, essere nella successiva immagine secondo un tempo e un luogo diversi; è una composizione che viene interamente ideata e disegnata prima di andare in prova. La fase di creazione richiede mesi di lavoro durante i quali con scenografie, costumi, musiche, soprattutto con Maria, incominciamo a immaginare tutto quello di cui avremo bisogno. Per fare un’analogia, il tutto assomiglia molto alla cucina. Prima di cucinare ci si prepara, soprattutto se si tratta di un’occasione importante in famiglia, di un banchetto o di un veglione di fine anno; ci si confronta, si parla, si pensa a cosa comprare. Poi si va al mercato a prendere il necessario, dove capita di trovare quello che si cercava o talvolta di prendere altro a cui non si era pensato. Ecco, noi abbiamo fatto proprio queste discussioni per capire quello che volevamo, siamo andati a fare la spesa e da quattro settimane stiamo ‘cucinando’. Ora è iniziata un’altra fase: tutto è stato disegnato, immaginato e ora, cucinando, scopriamo che quello che avevamo in mente non sta venendo esattamente come avremmo voluto. Diventa quindi necessario rimpolpare il piatto forte. Così si continua, come si fa in cucina, cercando di sfruttare al massimo quello che c’è a disposizione, mettendosi al riparo da eventuali imprevisti, perché forse ciò che hai preso non è come ti aspettavi o perché magari hai preso una piccola fregatura al mercato.

C’è anche una dose di improvvisazione che rimane viva?

Non userei il termine improvvisazione; più che altro c’è un continuo adattarsi. I nostri spettacoli sono un continuo lavoro di cesellatura. Dopo un anno, infatti, spesso invitiamo gli stessi amici che hanno assistito al debutto di un dato spettacolo perché sentano e vedano che cosa è successo nel frattempo. Ci sono diverse tappe: prima c’è il debutto, successivamente, dieci giorni dopo, ci sono degli assestamenti inevitabili dovuti all’incontro con il pubblico, se ne valuta la reazione ed eventualmente si aggiustano alcune cose. Infine, dopo circa tre mesi, c’è la fase in cui lo spettacolo si definisce e diventa ciò che è. Da quel momento comincia un lungo processo. C’è un nostro spettacolo, ad esempio, che va in scena da trentatré anni e che continuiamo a cesellare, a limare, cercando di farlo almeno una volta esattamente come vorremmo.

Nello spettacolo musica e costumi hanno un ruolo sicuramente fondamentale. Cosa rappresentano davvero per voi questi due elementi scenici?

La parola teatro, usando tutte le possibilità che ti fornisce l’artificio, significa proprio osare.

Collaboro con Giovanna Buzzi, la nostra costumista, dai tempi delle Olimpiadi di Torino del 2006 e da allora non ci siamo più separati, attraversando nel tempo diversi mondi, dall’opera lirica ai grandi eventi al teatro. Con Giovanna nei costumi siamo riusciti a trovare un linguaggio, una cifra che ci permette di abitare uno spazio e un tempo sospesi, non precisamente databili o identificabili, non essendo mai coincidenti con quelli presenti. Con Hugo Gargiulo e Matteo Verlicchi, i nostri scenografi associati, cerchiamo sempre di trovare delle possibili sorprese, delle soluzioni per cambiare la scena. Naturalmente nei grandi teatri, nelle grandi produzioni o nel mondo lirico tutto questo accade in una dimensione gigantesca, stupefacente e monumentale, mentre in un teatro come il Goldoni bisogna tenere conto di tutta una teoria di elementi stringenti per riuscire a ottenere lo stesso effetto.

La luce per me è fondamentale, disegno tutti i miei spettacoli partendo sempre dalla luce. Io e mio fratello siamo figli di fotografi e anche nostro nonno e il nostro bisnonno lo erano, quindi credo che entrambi nel nostro lavoro portiamo questa eredità legata alla luce. In Titizé lavoriamo con dei tagli, delle tecnologie dal punto di vista della luce poco utilizzate a teatro, che creano delle possibilità di costruzione di geometrie davvero strabilianti.

Non ho lasciato la musica per ultima a caso. Con Maria lavoriamo come dicevo da quarant’anni insieme; c’è quindi molta osmosi tra di noi, ci continuiamo ad influenzare a vicenda. Tutti i nostri spettacoli sono profondamente legati alla sua musica. Per questo spettacolo ha costruito una colonna sonora per certi aspetti quasi cinematografica, mixando musiche registrate e performance live, dal momento che tutti i nostri attori possiedono la caratteristica di essere acrobati, musicisti o clown, e poi alla fine tutte le cose insieme.

Il ruolo del pubblico. Come si costruisce un rapporto vivamente dialettico con esso e quanto conta stabilire una connessione empatica con lo spettatore?

Come detto, ci ha interessato fin dall’inizio il rapporto di empatia con il pubblico. Uno dei nostri lavori più emblematici ancora in scena è Icaro, uno spettacolo per un solo spettatore. Un progetto che al tempo stupì molto Guy Laliberté, che mi chiese poi di andare a dirigere il Cirque du Soleil. È una strana magia quella che si crea in Icaro, dove un attore incontra un solo spettatore ogni notte e gli racconta una storia in scena prendendolo per mano.

Probabilmente prima che a Parigi i teatri diventassero all’italienne, prima che si inventasse il sipario, ci sarà stata una sorta di scatola nera che assomigliava molto a quello che succede nei sogni. Quando chiudiamo gli occhi, lì dentro, in quella scatola nera che abbiamo nella testa o nel cuore, chissà dov’è…, c’è ancora luce e puoi vedere e immaginare cose. Tutto ad un tratto si crea questa bella dimensione in cui spegni le luci e dal buio iniziano ad affiorare immagini che ti vengono a cercare.

Il proscenio rimane il territorio dei clown, degli attori che dialogano con il pubblico. Noi siamo specialisti del proscenio, siamo nella terra di mezzo, su di un pontile dal quale si osserva e su cui non si può recitare. C’è una differenza enorme tra un clown e un attore, perché un attore interpreta un personaggio, ma nessuno a teatro ha bisogno di credere che sia vero. Quando guardi un attore, sai che non è Amleto, che sta solo interpretando una parte, invece il clown non puoi pensare che stia recitando. Chaplin è un attore, Charlot è sé

stesso; avrebbe potuto stare in proscenio a dialogare con il pubblico come poteva farlo Dario Fo, come può farlo Benigni, come lo faceva in modo ammirabile Troisi. Non credi stiano recitando anche se in realtà lo stanno facendo, però è appunto una forma che non dipende dalla modalità della recitazione ma piuttosto, secondo me, dalla morfologia del luogo. Se sei in proscenio il pubblico ti crede, ma se gli sfiora il dubbio che stai recitando l’incanto svanisce.

Dalle sue parole pare matericamente evidente che questo vostro progetto sia assolutamente adatto al luogo che lo accoglie. Come si è trovato a lavorare in quello che è il più antico teatro al mondo ancora in attività? Quale ruolo giocano Venezia e il Teatro Goldoni in Titizé?

Siamo partiti da Venezia, volevamo raccontare in modo “onirico” la città, ricreare la sua magia, invitando le persone a frequentare questo magnifico teatro anche durante l’estate, quando di solito è chiuso. L’intuizione consiste nel raccontare quello che d’estate

The essentials.

When you build a show upon text, it is obvious that narration will be its structure. In our show, though, as in others we made before, narration is rather an architecture of images that pile up on one another, much like in a dream. In dreams, there is constant going back and forth between imagination and dreamed real life. You jump from one scene to the next… to create such a narrative, there are all sorts of items to account for. You have acrobats that can stay on stage, change their costumes, and play the next act in a different time and space. It takes months to design: scenes, costumes, music… it’s like planning a banquet. In fact, we have been cooking for over four weeks now. We plan ahead and use everything we have.

Improvisation.

I’d rather say adaptation than improvisation. We constantly tweak our shows, in fact, we invite the same friends at the same shows at yearly intervals so they can see and hear what’s changed. There

Titizè © Viviana Cangialosi - Compagnia Finzi Pasca

cover story

TITIZÉ – A

chi visita Venezia non può vedere: il silenzio, le nebbie, gli incontri fantastici che accadono in questa città sorprendente, dove si può imboccare una calle e trovarsi all’angolo giusto o trovarsi in un labirinto o, ancora, in un vicolo cieco che porta direttamente all’acqua e non resta che tornare sui propri passi. Vogliamo mostrare questo mondo labirintico e affascinante a chi si accalcherà quest’estate tra le calli e sui ponti di Venezia ma anche ai veneziani stessi, per far sentire e riscoprire la sua parte più magica, più notturna, quella del mascheramento, del Pulcinella di Tiepolo piuttosto che del Maestro Goldoni. Riferimenti e citazioni tali che chi li riconosce possa rifarli suoi e chi invece non li riconosce non abbia bisogno di farlo per capire cosa accade in scena, perché l’unica nostra vera intenzione è di riuscire a sorprendere, a toccare, ad eventualmente commuovere.

È come dialogare con l’esperienza di ognuno; ogni spettatore avrà per così dire il suo Titizé? Dove c’è allusione è così. Ci sono spettacoli che sono dei romanzi e ci sono degli spettacoli che sono più raccolte di poesie e Titizé appartiene a questa seconda sfera; è più allusivo, necessita meno di comprensione, anzi.

Si prospetta un’estate fantastica, acrobatica, magica, che ci porta inevitabilmente a fare un collegamento alle prossime Olimpiadi di Parigi. Quale ricordo conserva della sua esperienza alle Olimpiadi di Torino e Sochi?

Sono state due cose molto diverse. I Giochi di Torino erano Olimpiadi in terra conosciuta, soprattutto una festa. È stato un vero e proprio debutto nel mondo delle cerimonie olimpiche che mi ha portato a rapportarmi con una dimensione enorme. Mi sono trovato a dover ideare uno show particolare per uno stadio e al tempo stesso un gigantesco spettacolo televisivo.

Sochi è stata una cosa differente perché era necessario creare monumentalità. Se ospitano le Olimpiadi gli austriaci, gli italiani o i greci, la dimensione da restituire deve innanzitutto riguardare il tratto umano, il fascino di un paese; se le ospitano invece i cinesi, gli americani o i russi la dimensione fisica della messa in scena assume un’importanza fondamentale per dimostrare che stiamo parlando di giganti, di grandi potenze mondiali, cosa che per un creatore e per un team come il nostro è stata anche ben divertente.

In Russia dovevamo curare due cerimonie, quella di chiusura delle Olimpiadi e quella di apertura dei Giochi paralimpici. Ebbene, ci siamo resi conto presto che non avremmo avuto il tempo di ‘cucinare’ tutto quello che avremmo voluto. Così ci siamo riuniti tutti a Mosca, un centinaio di persone tra produttori e altri addetti ancora, perché era ormai chiaro che eravamo costretti a dover fare necessariamente delle scelte. Prima della riunione però ricevo una telefonata dalla mente dietro a tutto, Kostantin, il capo assoluto, che mi dice: «Dani, everything is fantastic, no doubt, but we need something more». Noi pensavamo a tagliare e loro volevano di più! Sorpreso, sono rientrato nella sala riunioni e ho detto a tutti di mettere via le cartellette con le scelte, perché oltre a quello che avevamo già fatto dovevamo pensare a qualcosa di ancora più grande e stupefacente nei due o tre giorni di tempo rimanenti. La dismisura è un allenamento meraviglioso!

Dopo l’esperienza russa sono tornato a fare Icaro, un ritorno all’intimità, alla semplicità: due letti, 18 punti luce, un armadio e una sedia.

are multiple stages: debut first, then, some ten days later, some inevitable tweaking due to how the audience reacts. We may want to tweak something here and there. Lastly, after say three months, the show takes a life of its own. There’s a show of ours we have been doing for thirty-three years, and we keep changing a little something every time, hoping to get it perfectly right at least once.

Music and costumes.

Doing theatre means to be daring. I have been working with our costume designer, Giovanna Buzzi, since 2006, and we are going strong ever since. With Giovanna, we found a costume language, a style that allows us to give live to an undefined time, a time that is never quite recognizable in the present. With Hugo Gargiulo and Matteo Verlicchi, our scenographers, we try to find ways for amazement, and for creative solutions for changes of scenery. Naturally, it all grows to the large scale in large productions and in the world of opera, while in a theatre such as the Goldoni in Venice, there are constraints to compromise with to get the effect you want. Lighting is absolutely essential. I always start with lighting when I design my shows. I am a child of photographers, and our grandfather and great-grandfather were photographers, too, so you may say light is part of our heritage. In Titizé, we worked with a kind of projections and technologies that allow for truly amazing geometries. It is no chance that I left music last. Maria and I have been working together for forty years. There’s a kind of osmosis between us, we influence each other. Her music affects our shows deeply. For this show, she composed a score that is almost filmlike, and she mixed live performances with studio music.

A role for the audience.

We want some empathy with our audience. One of our most significant pieces, Icaro, which we still produce, is a show for an audience of one. At the time, the show left Guy Laliberté quite surprised. He then asked me to direct the Cirque du Soleil. There’s a kind of strange magic going on with Icaro: one actor meets one spectator every night and tells him a story while holding his hand. Arguably, before Parisian theatres were rebuild Italian-style, before the introduction of the curtains, there must have been some sort of black box that looked like what goes on when we dream, when we close our eyes. Inside it, inside that black box we have in our heads, or in our hearts, there’s enough light that lets you imagine things. Now suddenly, you switch the lights off, and from darkness come images that look for you. The forestage is the clowns’ turf, actors that interact with the audience. We love the forestage, that middle earth, that jetty you walk on to observe. You can’t act while you’re on it. There’s such a difference between an actor and a clown, for an actor plays a character, though nobody in the audience needs to know that’s for real. When you look at an actor, you know he’s not actually Hamlet, he’s just playing a part. With clowns, you can’t think they’re acting. Chaplin is an actor, Charlot is Charlot himself. When you step on the forestage, the audience believes you, but if just for a moment they think you’re acting, the magic is gone.

Your Olympic Games in Turin and Sochi.

Working in Turin felt like being home. It was a real party. I found myself working on something new altogether, a show tailor-made for a sports arena that was also going to be televised. Sochi was different. In Sochi, the goal was to create a monumental show. If it’s Austrians, Italians, Greeks hosting an Olympiad, what we want to convey is the human traits and the charm of a country. If it’s China, America, or Russia hosting, the physical dimension of the show is now essential. After our Russian experience, we went back to Icaro, a return to intimacy and simplicity: two beds, eighteen lamps, a sofa, and a chair.

Daniele Finzi Pasca © Viviana Cangialosi - Compagnia Finzi Pasca
Olimpiadi Sochi © Luca Parisse

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La parola Olimpiadi

Intervista Federico Buffa

di Massimo Bran

Qualche volta ritornano. Ebbene sì, Federico Buffa l’avevamo già intervistato in occasione dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020, poi svoltisi nel 2021 causa pandemia. Ma a parlare col Nostro di sport non ci si stancherebbe mai e quindi…perché non dialogare in campo aperto con lui anche sull’imminente Parigi 2024? In realtà Parigi è solo un pretesto per compiere un viaggio più profondo alle radici dello sport moderno, di cui le Olimpiadi sono naturalmente la somma espressione. E accompagnati da chi se non dal massimo narratore di gesta sportive del nostro tempo? In tv e sulle scene Buffa è impegnato da anni in un percorso di riattualizzazione delle modalità narrative del racconto sportivo, un tempo prevalentemente letterario e comunque su carta, creando un impasto di puro crossover linguistico, in una dialettica avvolgente e di peculiare ritmo in divenire che incrocia sport, musica, cinema, letteratura, arti sceniche. Gli esiti, le piéces teatrali, i talks televisivi che ne derivano, sono immancabilmente emozionanti, coinvolgenti, di rara resa narrativa. Insomma, it’s only sport but we like it, yes, anche se “solo” non è davvero la parola…

La parola “Olimpiadi”: cosa ti evoca, cosa ti suscita a pelle, in un nanosecondo, il suono, il colore di questo magico lemma e come, invece, respirando un attimo ti viene da definire un po’ più distesamente questa parola-mondo, navigando al confine tra cuore e testa?

Quando mio padre mi portò ad Olimpia confesso di non aver colto in pieno l’importanza di andare in quel luogo. Da quel momento in poi, indubbiamente, le Olimpiadi avrebbero avuto un impatto incredibile sulla mia vita, come mai avrei potuto immaginare. In particolare quella del 1936 a Berlino, che considero un autentico spartiacque per la storia dello sport come dell’uomo; non a caso ho deciso di dedicare a questo evento uno spettacolo teatrale a cui sono molto legato. Senza ombra di dubbio esiste un ‘prima’ e un ‘dopo’ Berlino ’36, a livello sportivo, politico, antropologico. Si tratta di un’autentica svolta: lo sport contemporaneo, più che moderno, nasce lì.

Credo di aver visto almeno un centinaio di volte Olympia di Leni Riefenstahl, la cui copia originale tra l’altro non si trova nemmeno in Germania, ma addirittura a Pordenone, dove ho avuto la fortuna di poterla vedere: la regista tedesca la prestò a Pasolini in occasione di un festival sul rapporto tra sport e dittature e non venne poi mai restituita.

Credo che ad oggi sia l’esempio massimo e insuperabile di documentario dedicato non solo alle Olimpiadi, ma allo sport in generale.

Cosa sono le Olimpiadi? Le considero un viaggio nella storia dell’umanità che dura ormai da più di 2500 anni. Una volta le Olimpiadi erano ideate e realizzate nell’ottica di fermare le guerre e onorare gli dei. Adesso gli dei sono in campo e le guerre non si fermano.

Centoventotto anni di vita a dir poco epica, che hanno accompagnato attraverso emozioni sportive il secolo della definitiva consacrazione della modernità, dell’evo tecnologico. Quali sono stati secondo te i momenti, o più largamente le edizioni dei Giochi Olimpici che hanno prodotto degli scarti decisivi nella trasformazione del linguaggio, della cultura e dell’industria sportiva?

Come dicevo prima, quella del ’36 è fondamentale perché momento in cui per la prima volta si assiste ad un intreccio inestricabile tra sport e politica, elementi che fino ad allora in linea di massima vivevano di vita propria a compartimenti stagni. Avery Brundage, che all’epoca era Presidente del Comitato Olimpico Americano e che poi lo diventerà del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) all’inizio degli anni ’50, arrivò al vertice dell’istituzione statunitense vincendo nel dicembre del ’35 per pochi voti, sconfiggendo un candidato che aveva fatto del boicottaggio delle Olimpiadi uno dei capisaldi del proprio programma. Gli Stati Uniti partecipano quindi alle Olimpiadi di Berlino e Brundage si confermerà molto legato al destino del Partito Nazionalsocialista: era infatti un imprenditore attivo nel campo dell’edilizia e Goebbels gli promise, ovviamente su disegno di Albert Speer, la realizzazione della nuova ambasciata tedesca a Washington, con una connessione tra sport e politica che si riverbererà fortemente sulle gare. Il legame tra sport e politica diventerà da quel momento costante, con picchi raggiunti in epoche storiche in cui questo connubio si dimostrerà particolarmente fitto e teso, vedi le due edizioni consecutive di Messico ’68 e Monaco ’72. Prima con un evento assordantemente silente a Città del Messico (il pugno guantato di Tommie Smith e John Carlos, ndr ), poi con un altro fin troppo platealmente rumoroso a Monaco (assalto terroristico del gruppo filopalestinese Settembre Nero alla palazzina degli atleti israeliani, con conseguente sequestro e drammatica strage finale, ndr ), da questo quadriennio in poi non sarà davvero più possibile tenere la politica fuori dallo sport.

Quali invece le cinque gesta olimpiche che hanno travolto il tuo personalissimo immaginario, al netto della loro valenza assoluta?

Dick Fosbury nel 1968, con la rivoluzione dello stile del salto in alto. Sara Simeoni ai Giochi Olimpici di Mosca nel 1980, dove non solo vinse la medaglia d’oro, ma dove probabilmente non sarebbe

nemmeno andata se Fosbury non avesse inventato questo modo di saltare che porta ancora il suo nome, stravolgendo per sempre la percezione del salto.

Sarebbe poi facile riferirsi ai 16 minuti più belli della storia dell’atletica italiana, quando nel 2021 a Tokyo Tamberi e Jacobs vinsero due ori a distanza per l’appunto di pochi minuti, ma io mi commuovo maggiormente se penso all’impresa nel canottaggio di Federica Cesarini e Valentina Rodini sempre a Tokyo, capaci di portare a casa la prima medaglia olimpica (un oro poi!) di una barca femminile italiana nel corso dei 45 anni in cui le donne hanno gareggiato alle Olimpiadi nello sport del remo, da Montreal ‘76. Conosco personalmente Federica e la considero una donna spettacolare, atleta che ti fa davvero capire il suono della fatica, in uno sport in cui ci si allena ore su ore e in cui capita regolarmente che ci si rompa le costole ma non per eventi traumatici, ma proprio perché è il lavoro del muscolo a spaccare le ossa. Altro che l’ora e mezza di allenamento di un calciatore, con rispetto parlando. Ci sono poi tutte le vittorie conseguite da atleti del Circolo Scherma di Jesi. Il fondatore Ezio Triccoli è stato prigioniero di guerra, esattamente come mio nonno (Triccoli venne portato in Sudafrica, mio nonno in India), si appassiona alla scherma in prigionia e tornato a Jesi apre il Circolo, istituzione che va a medaglie per l’Italia dall’oramai lontano 1988. Spettacolo puro e storia di sport che non ha eguali al mondo.

Come quinto momento, penso spesso a come possa essere stata la maratona della prima Olimpiade. Oggi la gara per eccellenza sono i 100 metri, perché la mistica “dell’uomo più veloce del mondo” ha prevalso, ma resto convinto che per almeno quarant’anni la maratona sia stata “la” corsa di riferimento dell’Olimpiade. Noi, poi, abbiamo avuto la fortuna di vederne una che credo non si potrà mai più ripetere, quella del 1960 vinta a Roma dalla leggenda etiope Abebe Bikila, a piedi nudi. Il suo allenatore, lo svedese Onni Niskanen, gli indica il punto del percorso in cui secondo lui dovrà fare lo scatto decisivo, proprio all’altezza della Stele di Axum. Bikila non ha il coraggio di confessare all’allenatore quanto bene conosca quella Stele, bottino del regime fascista durante la Guerra d’Etiopia che tuttavia l’Italia ha pensato bene di restituire in tempi recenti ai legittimi proprietari, cosa che inglesi e francesi non fanno poi tanto spesso, anzi. Non credo davvero ci potrà mai essere una maratona tanto carica di significati: troppi gli elementi da allineare, troppa bellezza perché una storia

simile possa essere replicabile in qualche altra occasione. Pensiamo poi alla straordinaria storia stessa di Bikila, che vincerà successivamente anche a Tokyo nel 1964, primo nella storia ad aver vinto due maratone olimpiche, arrivandoci in condizioni tutt’altro che perfette e che, dopo essere rimasto paralizzato dalla vita in giù in conseguenza di un drammatico incidente automobilistico, troverà in seguito la forza di gareggiare e addirittura di vincere anche le Paralimpiadi!

Le geografie in movimento della storia del medagliere olimpico. Dalla lunga ‘dittatura’ franco-anglosassone, quindi europea e americana, all’affiancarsi prima e al sorpasso poi dello sport di stato dei paesi del Patto di Varsavia, espressione di una grande organizzazione di ‘scuola’ drammaticamente alterata dal doping, fino all’irrompere nell’atletica leggera, disciplina regina dei Giochi, del grande Continente Nero e negli sport tutti, o quasi, della Cina. Per oggi rimanere a dir poco basiti dalla crescente marginalità a riguardo di una super potenza storica come la Germania. Cosa ti ha sorpreso di più in positivo e in negativo di questi globali sommovimenti e quali novità prevedi su questo terreno a breve e a medio termine? Come spieghi il declino della Germania?

Le Olimpiadi del 1968 rappresentano una svolta epocale anche perché è la prima edizione a tenersi in un Paese in via di sviluppo, la prima in uno Stato del contesto centroamericano, la prima in cui compaiono i tedeschi dell’Est e i fondisti degli altipiani kenioti, la prima con una tedofora donna, la mezzofondista messicana Enriqueta Basilio, appena ventenne all’epoca. Ogni nazione ha il proprio periodo storico di massimo fulgore. In quella edizione messicana noi vincemmo tre medaglie d’oro, mentre nella prossima credo ci potremmo assestare sulle 12-13. Gli atleti italiani sono migliorati come pochi altri al mondo negli ultimi cinquant’anni; in termini di medaglie siamo la nazione che forse ha fatto più progressi assieme alla Corea del Sud. Atleti che sono ancora più da apprezzare per essere riusciti ad arrivare lì, a quel livello, nonostante lo Stato italiano abbia fatto di tutto perché ciò non accadesse! Viviamo di miracoli individuali. È vero che il CONI è una grande organizzazione, ma sono evidentemente gli allenatori a fare la differenza in Italia, altrimenti queste dinamiche non si spiegherebbero in un Paese il cui sistema scolastico considera ancora oggi lo sport come una materia del tutto residuale.

Jesse Owens, Olimpiadi Berlino 1936

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Per quanto riguarda la verticale flessione della Germania nella graduatoria del medagliere olimpico, beh, certo, fa una certa impressione se andiamo con la memoria solo a qualche decennio fa, quando le Germanie erano due e insieme valevano come e più degli Stati Uniti. Si tratta di un Paese che dal punto di vista sportivo sicuramente sta soffrendo nelle discipline olimpiche individuali classiche, il che naturalmente si spiega anche, e però non del tutto, con la fine dello sport di Stato drogato dal doping della fu Germania Est. Un bisogno di pulizia che forse ha determinato, conseguentemente, una sorta di impeto libero da parte di molti giovani nel sottrarsi alla disciplina ferrea di un certo modo di intendere lo sport. Non credo sia un caso a riguardo il dato oggettivo, e in decisa controtendenza rispetto al declino degli sport individuali, della crescita degli sport di squadra in una Germania in cui, salvo naturalmente il calcio, i team nazionali delle varie discipline dei giochi di squadra non avevano mai raggiunto chissà quali traguardi, anzi. Quasi ci fosse lì una più forte urgenza oggi di condividere la pratica sportiva piuttosto che di consumarla e di consumarsi in solitudine. Su tutti oggi basti ricordare qui il recentissimo e primo titolo mondiale di basket ottenuto nel settembre del 2023, superando in finale la pluridecorata Serbia grazie in particolare alle prestazioni convincenti di un giocatore simbolo della nuova Germania, quel Dennis Schröder che a dispetto del germanicissimo nome di tradizionalmente germanico ha davvero ben poco. Germania che in passato aveva avuto diversi ottimi giocatori, Dirk Nowitzki naturalmente una spanna sopra tutti, ma che mai aveva prodotto un vero movimento in grado di competere ai massimi livelli internazionali.

Al di là dei tuoi sport, quelli che da sempre ti catturano anima e mente, se dovessi redarre un tuo personale baedeker dei Giochi ad uso dei più giovani quali specialità indicheresti loro come un must irrinunciabile per vivere al meglio questi quindici giorni di pura emozione? Beh, di sicuro il canottaggio, disciplina che non ha cambiato praticamente nulla nel corso della sua lunga e gloriosa storia. Certo, le barche sono di materiali più leggeri, ma il gesto del remare mantiene una nobiltà assoluta che si fa immutabile e non perde mai di fascino. Per immergersi nell’epica di questa disciplina consiglio vivamente di vedere il film The Boys On The Boat, incentrato sull’incredibile vicenda dell’equipaggio “8 con” americano sempre nelle nodali Olimpiadi di Berlino del 1936, dove alla fine vinse l’oro di fronte a Hitler. Quella storia mi ha emozionato a tal punto da farmi andare di persona a vedere dove fosse stata fisicamente costruita la barca “a otto” al centro dell’impresa, ossia a Seattle, precisamente all’Università di Washington. Mi colpisce sempre moltissimo vedere i luoghi che hanno segnato la storia dello sport, dove un’impresa nasce ancora di più rispetto al luogo in cui tutti gli sforzi arrivano a compimento. Come must irrinunciabili per me, quindi, alle Olimpiadi vanno sicuramente indicati gli sport di fatica, quelli che “non mentono”. Impossibile non provare ammirazione per Gregorio Paltrinieri, che ha deciso di non nuotare più, o meglio, non più solo in una comoda vasca, ma di lanciarsi in mare aperto contro avversari grassi e grossi il doppio di lui, che lo vogliono affondare ad ogni boa. Sarei proprio felice di vederlo vincere la medaglia d’oro, perché davvero non ho memoria di sportivi che nel bel mezzo della carriera abbiano avuto il coraggio di portare avanti un cambiamento così radicale.

Quale disciplina, o quale sportivo, secondo te ci sorprenderà per novità, per originalità in questa Parigi 2024?

Penso più che altro ad una disciplina che credo nessuno, o quasi, sappia far parte quest’anno per la prima volta del carnet olimpico: la break dance. Moltissimi italiani scopriranno la presenza di questa disciplina il giorno prima della gara, sport tra l’altro in cui abbiamo una fuoriclasse che potrebbe essere considerata la favorita addirittura per la medaglia d’oro, Antilai Sandrini in arte Bgirl Anti.

In questa maionese impazzita che è il nostro mondo in questo secondo decennio del secolo, con umanità sempre più connesse e globalizzate tecnologicamente e per usi e costumi eppure manipolate nelle loro più arcaiche paure da sovranismi e populismi di crescente e rara pericolosità, cosa ci dicono e come potranno incidere soprattutto nella cultura, nella mentalità delle nuove generazioni queste nazionali ormai davvero ovunque “united colours”? Quale impatto emozionale e anche proprio politico queste squadre meravigliosamente iridescenti potranno avere, insomma, su queste generazioni malissimo rappresentate lì dove si decidono le sorti del mondo?

Sono d’accordissimo con le tue premesse. Se non ci rendiamo conto di dover entrare in sintonia con un concetto di italianità sempre più ampio siamo destinati a rimanere indietro e non solo in ambito sportivo, condannati provincialmente ed ottusamente a non apprezzare e valorizzare tutti gli aspetti più positivi di questo magnifico, giovane melting pot. Gli ultimi Europei di atletica del giugno scorso sono stati emblematici da questo punto di vista, un manifesto pazzesco!

Quando nel 1936 i tedeschi gareggiano contro gli americani sono furibondi proprio per la presenza di atleti afroamericani, considerati degli intrusi dall’opinione pubblica tedesca. «Cosa c’entrano?», si chiedevano increduli. C’entravano eccome, altroché! C’entrano ancora adesso e c’entreranno in futuro. È la storia dello sport americano a dirlo, mica noi o loro…

Letteratura, musica, cinema, arti sceniche, figurative, performative… Quali opere, quali artisti ti vengono alla mente quando pensi alle Olimpiadi?

Oltre alla Riefenstahl, mi vengono in mente i manifesti e le locandine che vennero creati a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 a presentazione delle Olimpiadi, prima che venissero fuori i pupazzi tuttora imperanti, il più delle volte devo dire stucchevoli. Affiche che considero veri e propri capolavori capaci, tra design e arte, di catturare lo spirito della manifestazione e dell’epoca in cui si collocava come poche altre cose al mondo. Una capacità mai sinora eguagliata di cogliere il gesto, il momento, connettendo mirabilmente segno artistico e passione popolare. Linee di disegno legate a quella particolare fase storica del Novecento e dell’arte moderna; allargando il campo direi più estesamente tra gli anni ’20 e gli anni ’60.

Chissà che prima o poi, magari proprio a Venezia, non si riesca ad organizzare una mostra che ne raccolga un bel po’…

Come costruisci il nucleo primario, la chiave affabulatoria madre di tutti i tuoi racconti di cultura sportiva?

Deve essere una storia che mi piacerebbe ascoltare, questo di sicuro. Una storia collocata in un periodo storico in cui mi sento a mio agio, dove poter aggiungere qualcosa di mio, un personale contributo.

Abebe Bikila, Olimpiadi Roma 1960
Sara Simeoni, Olimpiadi Mosca 1980
Federica Cesarini e Valentina Rodini, Olimpiadi Tokyo 2021
GianmarcoTamberi e Marcell Jacobs, Olimpiadi Tokyo 2021
Elisa Di Francisca, Arianna Errigo e Valentina Vezzali, Olimpiadi Londra 2012
Dick Fosbury, Olimpiadi Mexico 1968

GIOCHI OLIMPICI DI PARIGI GUIDA SEMI-SPORTIVA

OLYMPIC SUMMER IN PARIS

Sono dieci anni che Parigi si prepara! Quest’anno nel cuore della Capitale francese si svolgeranno i Giochi Olimpici e Paralimpici: un evento atteso da molti e temuto da altri. Per chi ha previsto di trascorrere parte dell’estate nella Ville Lumière, ecco una lista di attrazioni imperdibili, visite insolite e luoghi dove sfuggire, anche solo per un istante, al vortice della vita olimpica parigina per sopravvivere al suo ritmo frenetico e adrenalinico!

Hotel Amour Se non sapete dove alloggiare, l’Hôtel Amour è il luogo ideale per un breve soggiorno nella Capitale a prezzi imbattibili. Ce ne sono due: il primo nel 9° arrondissement, tra Pigalle e Montmartre, il secondo vicino alla Gare du Nord, nel 10° arrondissement, il Grand Amour, rue de la Fidélité... Più che hotel, sono veri e propri luoghi di vita e incontri, che uniscono arte e moda, design e semplicità. www.hotelamourparis.fr

Le bar Zzzen Dopo tutte queste attività fisiche non c’è niente di meglio di un buon sonnellino! Creato nel 2011, Zen Bar è il primo bar a sonnellino di Francia! La sua missione è semplice: favorire il relax mettendo a disposizione una bolla unica di benessere a Parigi. Vera oasi di relax, nel cuore del quartiere dell’Opéra, questo bar unico nel suo genere offre diverse tipologie di sonnellini, massaggi e momenti di relax! 29 passage Choiseul –75002 Paris zenbar.fr

L’olimpismo al Louvre Situato nel pieno centro di Parigi, nei pressi di Place de la Concorde –che ospita le gare di BMX freestyle, breaking, skateboard e basket 3x3 –, il Museo del Louvre

La REcyclerie Situata in una vecchia stazione della Petite Ceinture riabilitata come luogo di vita, la REcyclerie ha l’ambizione di sensibilizzare il pubblico ai valori eco-responsabili in modo ludico e positivo. La REcyclerie è un vero e proprio spazio polifunzionale dove si mangia, si incontra, si condivide, si lavora in modo intelligente e responsabile. Direttamente sul sito troverete il ricco programma di questo luogo atipico. 83 boulevard Ornano –75018 Paris www.larecyclerie.com

La Grande Mosquée de Paris Per rigenerarsi e prendere del tempo per sé in un angolo di dolcezza l’hammam della Grande Mosquée de Paris è il luogo ideale. Diverse formule che includono anche massaggi sono proposte ai visitatori, che possono proseguire il loro momento di benessere con un tè alla menta e “un cornetto di gazella” nel Giardino della Moschea.

sarà quest’estate al centro dell’attenzione delle Olimpiadi: dopo il passaggio della fiamma olimpica nelle sue sale il 14 luglio, ospiterà poi, nel suo dominio, le prove di ciclismo il 3 e 4 agosto e la maratona il 10 e 11 agosto. Il Louvre ha anche scelto di far dialogare sport e arti nelle sue sale, con una programmazione specifica e ospiti sportivi quali il coreografo e ballerino Mehdi Kerkouche, l’artista Yan Peralta, il coach sportivo Mehdi Dergaoui. Scopri sul sito del Museo tutto il suo programma “musculturale”. Pyramide du Louvre –75001 Paris louvre.fr

La boutique sans argent Poiché è molto probabile che Parigi vi abbia svuotato le tasche, questa lista si conclude con la Boutique sans argent: un luogo di dono collaborativo. Nella Boutique sans argent potrete recuperare gratuitamente oggetti per dar loro una seconda vita, donare cose di cui non avete più bisogno ma che potrebbero ancora servire ad altri, partecipare a laboratori creativi ed eco-responsabili di upcycling, riuso e cucito, o anche bere un caffè o un tè (a prezzo libero...). Non c’è scambio: potete donare qualcosa senza necessariamente prenderne un’altra; potete anche semplicemente prendere ciò di cui avete bisogno senza aver portato nulla.

2 rue Edouard Robert –75012 Paris laboutiquesansargent.org

Les Arènes de Lutèce

39 rue Geoffroy-Saint-Hilaire –75005 Paris www.la-mosquee.com

La piscine Joséphine Baker

La sindaca di Parigi aveva promesso che in occasione delle Olimpiadi 2024 sarebbe stato possibile nuotare nella Senna... Per chi non desidera provare l’esperienza, è possibile fare un tuffo nella piscina Olimpica Joséphine Baker, sulle rive della stessa Senna nel 13° arrondissement. A due passi dalla Biblioteca Nazionale di Francia, questa piscina sportiva di 25 metri con vista impareggiabile sul fiume offre anche un solarium di 500 metri quadri. Quai François Mauriac –75013 Paris piscine-baker.fr

Le Arene di Lutezia (antico nome di Parigi) sono classificate come Monumento Storico e si possono visitare gratuitamente tutti i giorni. Queste arene, situate nel Quartiere Latino e costruite tra il I e la fine del II secolo, potevano contenere circa 15 mila persone. In origine le loro dimensioni erano di 132 metri di lunghezza e 100 metri di larghezza. Il visitatore può ancora vedere il sito della loggia degli attori, la piattaforma della scena e gli elementi lapidari. Le Arene di Lutezia e le Terme di Cluny (Musée de Cluny) sono le uniche testimonianze del periodo gallo-romana ancora visibili a Parigi. 4 rue des Arènes –75005 Paris

Le Gainsbarre

Caffè e piano-bar della Maison Gainsbourg, aperto al pubblico dalla fine del 2023, il Gainsbarre è ispirato ai primi anni della carriera musicale di Serge Gainsbourg, quando lavorava come pianista nei bar e nei cabaret della capitale. Il Gainsbarre è un’evocazione degli anni di pianobar che hanno formato l’orecchio dell’artista. La sua decorazione riproduce l’atmosfera creata da Serge Gainsbourg al 5 bis rue de Verneuil. Ne riprende l’estetica e i materiali: pareti rivestite di feltro nero, moquette con motivi di papaveri e ninfee, infissi bianchi, bow window in stile inglese e paraventi di moucharabieh laccati in nero. 14 rue de Verneuil –75007 Paris www.maisongainsbourg.fr/le-gainsbarre

Le Musée de Poche I viaggiatori accompagnati da bambini sappiano che quest’estate il Musée de Poche, un piccolo luogo culturale dedicato al risveglio artistico dei bambini, partecipa alle Olimpiadi proponendo di seguire le performance di valorosi animali dalle capacità fisiche e artistiche fenomenali! I felini sono veloci, gli orsi sono forti, ma avete mai misurato l’eleganza di un ippopotamo nella ginnastica ritmica o l’abilità di una tartaruga nel golf? Il libro JO des animaux di Virginie Morgand presentato al Musée de Poche evoca con umorismo il mondo sportivo in uno stile deliziosamente vintage. 41 rue de la Fontaine au Roi –75011 Paris

ACCADDE UNA NOTTE

I foghi pareva ghirlande de fiori, el rosso col verde faseva un bel sogo iluminando Venesia de mie colori
el Canal dea Giudecca pareva de fogo

Renato Pergola, Redentore del 1954

di Fabio Marzari (Venews 265/266, luglio/agosto, 2022)

La notte di mezza estate, torrida, afosa, affollata, chiassosa, ma pur sempre bellissima, in cui tradizione vuole che gli occhi guardino necessariamente all’insù per ammirare una lunga teoria di fuochi d’artificio, che si librano nel cielo sopra Venezia, è un appuntamento fisso, che riscuote sempre un successo incondizionato.

La tradizione sancisce il perpetrarsi di gesti sempre uguali negli anni, come l’attraversamento del ponte di barche da Zattere al Redentore in una sorta di pellegrinaggio tra il sacro e il profano, la visita nella chiesa omonima, che per un fine settimana diventa protagonista assoluta della città, scoprendone le forme austere ed eleganti, volute da Andrea Palladio, le numerose imbarcazioni che accolgono un popolo di marinai della domenica, pronti ad affrontare le ore di attesa dei foghi tra bevute cospicue e cibi preparati in anticipo, e non solo bigoi in salsa o anatra in tecia, come dovrebbe essere da filologia alimentare serenissima, con l’immancabile anguria, ma con ogni varietà di cibo, in un’anarchia alimentare divertente e volutamente trasgressiva nel suo scavalcare le regole.

La festa del Redentore, più di ogni alta, sancisce una sorta di patto legato all’unicità che suscita deferenza tra Venezia e il resto del mondo. Venezia diventa un oggetto da ammirare incondizionatamente, almeno per un’ora, e tutto

diventa un’iperbole del sublime, quasi ci fosse bisogno di dare al già unico la patente ulteriore di ancor più bello. Un cielo dipinto di infiniti colori, ogni balcone, terrazza, anfratto utile alla vista dello spettacolo viene occupato da un esercito su prenotazione di bipedi pazienti, che sottostanno a regole assurde, che ricordano da vicino quel proverbio che parla di chiudere la porta della stalla, dopo che i buoi sono scappati!

La forza di Venezia, quella vera, prodotta da individui che ne sono rapiti dal fascino e con rispetto cercano di comprenderla, sin dalla sua storia, è in grado di stupire ancora un disilluso come me, quando apprende che amici stranieri ritornano nella loro Venezia solo per il Redentore, interrompendo la vacanza, per poi riprenderla, per non mancare all’appuntamento con la notte in cui i colori affollano di luci sempre diverse le architetture di un micro universo, in cui la geometria dei palazzi convive con il corso delle acque che silenziose segnano confini tra muri e storie di famiglie che nei secoli hanno saputo nutrire il loro entusiasmo nella vita collettiva a favore della città. Questo filo spezzato non può ritornare teso solo in occasione di una festa, il legame deve riprendere vigore e riportare segni di vita reale, i fuochi sono artificiali, le nostre storie che si dovrebbero fondere in un afflato collettivo ora sono solo fiammelle debolissime, diafane e traballanti.

N.B.: Nelle pagine a seguire offriamo al lettore i fondamentali della Festa del Redentore tra tradizione e gusto.

Midsummer nights: hot, crowded, loud –though always beautiful. Traditionally, we spend that particular night looking way up to majestic fireworks show that float in the sky above Venice. Say what you will, but you cannot call yourself a friend of Venice if you don’t partake in this annual ritual. Traditions are like that: many of the thigs we do are the same year after year, but our heart does find solace as we participate in them, like crossing the temporary barge bridge from the Zattere quay to the Redentore Church. A walk from the profane to the sacred. We will take a moment to visit the church – for a weekend, it will be the most important church in town – and appreciate its elegant and lofty classical shapes designed by Andrea Palladio. A very Venetian thing to do would be preparing yourself and your dear ones for a lengthy picnic on a small boat while waiting for the fireworks. Typical preparations are sardine spaghetti and duck stew, as is the generous serving of watermelon at the end of your meal. There’s more leeway in deviating from tradition, though, as few would be compelled to peer into your icebox, from the next boat over, to comment on your culinary choices. The fete in question, Redentore or Christ the Redeemer, sanctions

a sort of pact between Venice and the rest of the world. For an hour, this city is pure admiration of the sublime – every colour is in the sky, and every terrace, patio, open square foot one can stand on will be occupied by our patient selves. A note must be made about the enforcement of rules of dubious sanity as the mind goes to the proverbial horse that bolted long before you thought about closing the stable door.

The strength of the real Venice comes from those of us who are enthralled by its fascination and, with respect, try to understand it deeper and deeper every day. I have friends from abroad who, no matter where they happen to be as the Redentore draws closer, pause whatever they’re doing and fly to Venice, heaven forbid they miss the appointment that, more than any other, turns the city into a microcosm of amazing architecture, tranquil waters, and the lives and passions of thousands of families who have been nourishing Venice since time immemorial. This thread cannot exist only on the occasion of a festival: it needs to always be safe and strong wherever and whenever real life is to be found, in the common embrace of our individual, tiny little flames.

t radition

FESTA DEL REDENTORE I FONDAMENTALI

LA TRADIZIONE

Storia

Nella seconda metà del Cinquecento, in soli due anni, la peste nera si portò via più di un terzo della popolazione. Il Senato veneziano diede così ordine di costruire la Chiesa del Redentore come ex voto per liberare la città da questo flagello. Nel luglio del 1577 la peste fu debellata e vennero proclamati tre giorni di grande festa, che da allora ha il suo fulcro alla Giudecca, le cui rive, occupate da decine di tavole imbandite, risplendono di lampioncini gialli.

ENG In the late 1500s, the black plague wiped out more than a third of the population of Venice in two years. The Venetian Senate ordered the construction of the Redentore Church as a vow to set the city free from the disease. In July 1577, the plague was over. Since that day, the Redentore feast is centred in the Giudecca Island.

Chiesa

Commissionata ad Andrea Palladio dal Senato veneziano, la Chiesa del Redentore rappresenta uno dei massimi capolavori architettonici del Rinascimento e fu terminata dopo la morte del celebre architetto (1580) da Antonio da Ponte, che ne rispettò fedelmente il progetto. La facciata, che a distanza emana il fascino di un bassorilievo, ha il tipico impianto palladiano con i timpani spezzati dalle semicolonne e l’elemento orizzontale che la contiene e la geometrizza. L’interno, intonacato di bianco, ha la grandiosa semplicità del tempio classico. La chiesa e la sagrestia sono ricche di opere d’arte di grande importanza fra cui spiccano i lavori di Tintoretto, Francesco Bassano, Paolo Piazza, Palma il Giovane e Alvise Vivarini.

ENG Commissioned to Andrea Palladio by the Government of Venice, the Redentore Church is a masterpiece of Renaissance architecture and was completed after the death of Palladio himself (1580) by Antonio da Ponte, who kept true to the original design. The façade is as fascinating as a bas-relief and shows the typical Palladian style of split tympanum, half-columns, and a horizontal elements encircling the two. The whitewashed interior is as majestic as a classical temple. The church and the sacristy are decorated with beautiful masterpieces by Tintoretto, Francesco Bass- ano, Paolo Piazza, Palma il Giovane, and Alvise Vivarini.

Ponte Votivo

Costruito temporaneamente solo per la Festa, quest’opera ingegneristica lunga 330 metri, in legno e acciaio, è composta da 16 moduli galleggianti ancorati da pali e sorretti da 34 barche. Collega la Fondamenta delle Zattere alla Giudecca a ricordo di quello costruito, in soli quattro giorni, su ottanta galee e ricoperto da un ricco drappo, che collegava San Marco all’opposta riva della Giudecca nel primo solenne corteo del 1577.

ENG The votive bridge is a 330 meters long work of engineering in wood and steel, composed of 16 floating modules anchored by poles and sustained by 34 boats. It links Fondamenta delle Zattere with Giudecca, in memory of the one built in only 4 days on eighty galleys and covered by rich drapery for the solemn procession of 1577.

Regata

La domenica, il canale della Giudecca viene restituito per poche ore a sua maestà il Remo. La prima sfida è quella dei giovanissimi su pupparini a due remi, tipica imbarcazione dal profilo sottile e slanciato, si prosegue con la gara tra uomini sempre su pupparini a due remi, per poi completare con la sfida su gondole a due remi, una vera prova di forza fisica e intelligenza per governare al meglio l’imbarcazione, prendendo la giusta corrente lungo il percorso che dal Redentore segue il canale della Giudecca, il canale di Fusina e ritorno con arrivo nei pressi della Chiesa del Redentore.

ENG The first challenge is for youths on two-oared pupparini, typical boats with a slender profile. Then there will be a men’s competition, once again for two-oared pupparini, followed by the two-oared gondola challenge, a true test of physical strength and intelligence: it is necessary to control the boat with great care, finding just the right current along the route from the Redentore church along the Giudecca Canal, the Fusina Canal and back to the Redentore Church.

LA TAVOLA

Sarde in saor

Sardine fritte e cipolla passata in padella con dell’aceto bianco con aggiunte anche l’uva passa e i pinoli. Il piatto viene assemblato in una pirofila, uno strato di sardine, uno di cipolla e così via, e lasciato riposare in frigo per alcuni giorni. La ricetta pare risalga ai primi anni del 1300 e che sia nata dalla necessità dei marinai di conservare più a lungo il pesce. Il mix di cipolle e aceto permetteva al pesce di durare molto a lungo.

ENG The word saor is none other than the Venetian rendering of savour, or seasoning, while the sarde are the humble sardines, which are fried and then set in layers with blanched onion, raisins, and pine nuts. The saor turns into a preserve after a few days of resting in the fridge. We know of recipes as old as the year 1300, minus the fridge. Apparently, the preserve allowed the fish to last longer, a feature treasured by Venetian seamen.

Bigoi in salsa

La ricetta ha radici molto antiche, alcuni la fanno risalire addirittura all’epoca di Marco Polo e rappresenta un piatto povero, ma molto ricco di sapore, un classico della cucina veneziana e veneta. Un tipo di pasta fatta in casa, la tradizione vorrebbe i bigoi di Bassano – in extremis si possono usare anche gli spaghetti –, condita con una salsa di acciughe e cipolla. Da servire rigorosamente senza parmigiano e, se avanzano, sono ancor più buoni freddi il giorno dopo.

ENG A very ancient recipe, back from the times of Marco Polo, they say. It is a poor dish, though rich in taste, and a classic of Venetian cuisine. The bigoi are a kind of thick spaghetti – and spaghetti will do, if bigoi should play hard to get – seasoned with a sauce (salsa) of onion and anchovy. No grated cheese on top! It just doesn’t pair well. Any leftover (who am I kidding) will taste even better, cold, the day after.

Pasta e fasioi

Si possono utilizzare varie tipologie di pasta, anche se tradizione vorrebbe la “tiracca trevigiana”, i ditalini o il riso; i fagioli possono essere interi, macinati o mezzi e mezzi, dipende se si preferisce un piatto più o meno asciutto. Ottimi se serviti tiepidi, ma anche freddi sempre con un giro d’olio versato a filo. La tradizione prescrive una regola fondamentale: la provenienza dei fagioli, rigorosamente di Lamon, nel feltrino, a 600 metri di quota.

ENG Pasta, you know what that is. Any kind will do (yes, I said that). Fasioi are beans: you boil them first, then you make up your mind, do you like them whole, mashed, or half and half? Let them rest for a bit, lukewarm is best for this dish, and it will go down better with a dash of olive oil stirred in. Tradition says that the best beans come from Lamon, in the Alps, just under 2000 feet above sea level.

Ànara col pien

L’ànara col pien è una ricetta veneta dei tempi lontani, una pietanza delle grandi occasioni, quando la carne arrivava a imbandire anche le tavole più umili prendendo il posto del pesce che in laguna era più comune e alla portata di tutti. L’uso di cucinare l’anatra col pien, cioè con un saporito ripieno a base di fegatini, soppressa – un particolare insaccato veneto – e talvolta anche pinoli e amaretti, è tipico della notte del Redentore, quando le trattorie ancora fedeli alla tradizione la servono in tavola insieme ad altre pietanze rituali come i sfogi in saor, i bigoli in salsa o i bovoleti e, a seguire, l’immancabile anguria!

ENG The Venetian dialect name of this recipe translates to stuffed duck and is quite an old one, back to the times when the occasion was so important that meat made it even to the humblest of homes and replaced the common Venetian meal – fish. The tradition of stuffing duck with a tasty filling of fowl liver, cured ground pork, and, according to taste, pine nuts and almonds, is typical of the Redentore feast.

Bovoleti consi

Le lumachine degli orti sono un tipico piatto da osteria, immancabile nelle allegre tavolate del Redentore. Si mangiano con le mani senza tanti fronzoli, togliendo dal guscio con uno stuzzicadenti il minuscolo gustoso animaletto. Facili da preparare: si stufa la cipolla con olio e molto aglio e si versano i bovoleti assieme ad abbondante prezzemolo, pepe e sale. Vanno consumati freddi accompagnati da una fetta di polenta bianca (da Venezia in cucina di Carla Coco, Editori Laterza). ENG Escargots are associated, and rightly so, with gourmet French cuisine, but I will have you know that in Venice and the Venetia, they are common in every tavern and a staple of the Redentore Feast.The Feast is the most loved by Venetians and partying begins in the kitchen. Stew onion and garlic with olive oil, then add the escargots and season with parsley – lots of it – pepper, and salt. Once cold, use a toothpick to drive the meat out of the shell.

di Fabio Marzari

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ARE WE HUMANS OR…

Esiste un mondo in cui possiamo lavorare con la tecnologia per creare un fenomeno essenzialmente umano. Non parlo di generare musica o generare danza, non è questo il punto.

È un’altra cosa e ha a che fare con l’essere speciali

di Loris Casadei

Lo spettacolo dal vivo si fonde con le tecnologie emergenti più innovative e la danza non fa eccezione. Fenomeno non nuovo, ricordiamo Merce Cunningham con il suo Biped (1999), realizzato con la tecnologia della motion capture, ove fece interagire danzatori e ologrammi.

Ultimamente ha fatto molto parlare Rothko del regista Twarkowski. Proiezioni multimediali che dialogano con i personaggi in scena in un labirintico gioco ad incastri.

A Venezia nessuno meglio di Wayne McGregor, alla guida di Biennale Danza, poteva governare la sfida di questo incontro tra linguaggi. Con Random Dance (oggi Wayne McGregor Company), la sua compagnia fondata nel 1992, è senza dubbio alcuno tra i più acclamati coreografi di tutto il mondo. Random Dance è anche il titolo di un suo libro uscito nel 2014 sottotitolato La grammatica del corpo: un incontro tra danza, tecnologia e architettura. Professore di coreografia al Trinity Laban Conservatoire a Londra, è pure noto per aver creato i movimenti dei film di Harry Potter e de La Leggenda di Tarzan

Da Nam June Paik in poi di strada ne è stata fatta, ma i suoi principi mi pare permangano: la ricerca per fornire nuovi modelli per le arti che riducano la distanza con lo spettatore, o lo rendano partecipe in prima persona, e l’utilizzo della tecnologia anche nella comunicazione artistica e interpersonale. Wayne McGregor, con questa edizione intitolata We Humans, fa un passo avanti, studiando come corpo e mente sappiano interagire e influenzarsi reciprocamente e come si possa uscire da questa relazione, creando quindi movimenti non abitudinari. Siamo ora in fremente attesa del suo prossimo libro, Thinking with the Body

18. Festival Internazionale di Danza – We Humans 18 luglio-3 agosto www.labiennale.org

Questo è il suo ultimo anno del mandato quadriennale come direttore di Biennale Danza. Quali obiettivi può considerare raggiunti con successo e, se ve ne sono, quali ancora da raggiungere?

Dunque, volendo cominciare dai successi, direi l’aver portato la Biennale Danza a rivestire un ruolo attivo nella commissione di nuove creazioni: oggi, attraverso bandi nazionali e internazionali, non ci limitiamo più a portare ‘semplicemente’ gli artisti a Venezia, ma finanziamo concretamente il loro lavoro. Cerchiamo di investire a tutti i livelli di questa professione, che si tratti di avere a che fare con giovani emergenti o piuttosto con artisti di grande esperienza internazionale. In questo senso la Biennale è co-commissaria. Così facendo abbiamo veramente cambiato il modo in cui gli artisti si rapportano con la Biennale Danza; ho avuto modo di confrontarmi e di scoprire idee molto interessanti tra le persone che vogliono parteciparvi. Allo stesso tempo, per noi è di fondamentale importanza riuscire a produrre spettacoli che altrimenti non si potrebbero in alcun modo realizzare. Anche questo è un obiettivo raggiunto, così come lo è Biennale College. Una delle cose più belle del College è vedere cosa succede a questi giovani artisti dopo che hanno concluso l’esperienza qui con noi. Li possiamo guardare partire equipaggiati di una nuova sicurezza nelle loro capacità di fare grandi cose guardando alla vita futura. Ci teniamo in contatto con tutti gli ex allievi e parliamo di cosa stanno facendo, andiamo a vedere i loro spettacoli, alla fine diventano parte della tua comunità che continua ad estendersi ed espandersi: c’è uno scambio continuo, ciascuno segue e partecipa al lavoro dell’altro. Due degli ex allievi del College sono ora parte della mia Compagnia e sono convinto che questa ‘palestra’, questo metodo così intenso di coltivare talenti, che solo la Biennale ha saputo individuare e realizzare, sia davvero straordinario. Parlando di obiettivi non proprio raggiunti, invece, penso a come possiamo

Intervista

ampliare il modello College per coltivare e aver cura dei talenti su un orizzonte temporale più lungo, coinvolgendo artisti professionisti. Cosa si potrebbe fare con più risorse? Magari un laboratorio di coreografia in funzione tutto l’anno? E come possiamo lavorare con gli artisti in modo che non restino qui da noi solo tre settimane in estate per il Festival, rimanendo invece in residenza più a lungo per lavorare ad un progetto più complesso ed articolato, capace di produrre un’influenza critica, essenziale e positiva non solo nel mondo della danza italiano? Molti giovani produttori hanno bisogno di concreto sostegno, dal momento che oggi come oggi non ricevono risorse e aiuto necessari per creare e sostenere una compagnia di proiezione internazionale, in modo da avere trazione nel lungo periodo. Come espandere questa bolla? Come avere più portata? Questa nostra aspirazione, più che un insuccesso, la ritengo una cosa che sarebbe semplicemente bellissimo poter realizzare.

Forse è vero in parte, forse no, ma sto scrivendo un libro sugli ultimi dieci anni della Biennale Danza. Un capitolo comincerà con «Wayne McGregor Direttore della Biennale Danza di Venezia». Come potrei continuare? È sempre una sfida quando si chiede a un artista di ricoprire il ruolo di direttore di un festival, perché subito ci si immagina che la persona coinvolta includa nei vari programmi annualmente elaborati solo lavori che in qualche modo hanno a che fare col proprio mondo, con il proprio circuito. Una cosa che ho provato nel mio specifico a fare è di considerare il mio lavoro personale al minimo nella mia esperienza qui in Biennale. Ho cercato al contrario di mantenere una visione aperta a 360 gradi e di pensare ai miei valori in relazione a una comprensione filosofica della danza, o a un’estensione della nozione di ciò che la danza può essere o dell’impatto che la danza ha sul mondo. Tutto ciò, però, visto attraverso la lente del lavoro artistico di qualcun altro. Ho continuato a lavorare per portare a Venezia persone che non ci si sarebbe mai

Live shows blend with the most innovative technology, always, and dance is no exception. This is not new: we remember Merce Cunningham with his Biped (1999), a show that used motion capture to make dancers and holograms interact. Here in Venice, nobody but Wayne McGregor, the director of the Venice Dance Biennale, could manage the challenge of this clash of languages. With his company Random Dance (today the Wayne McGregor Company), McGregor is undoubtedly one of the most acclaimed choreographers in the world. With this edition of the Dance Biennale, he will show how body and mind can influence one another and how this relationship can be severed, thus generating non-habitual motion. We are looking forward to his upcoming book, Thinking with the Body

You have been running the Biennale for three years now. I would like to ask you what your best achievements are and, if any, what you would consider your failures.

Well, if we want to start with successes, that would be turning Biennale Danza into a commissioning machine, so that what the Biennale will be able to do is investing in artists’ work, and not just bringing it to Venice. What we are doing is trying to invest at all levels of work, so both on young artists and on artists who have more experience, and become a co-commissioning partner. I think that will change, and has changed already, the way artists see the Dance Biennale. I get into a lot of really interesting conversations with people who tell me they would love to come, and at the same time, how they are finally able to arm and produce work that wouldn’t be made otherwise. That’s one of the achievements. The other great achievement for me is about the Biennale College. What happens to those young artists after they leave? Well, they obviously feel very armed with a new sense of confidence to do lots of extraordinary things in their new lives. We keep in

Festival Guide

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

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aspettati di vedere qui. Stiamo facendo crescere la Biennale a partire dal cuore. Un altro aspetto forse meno visibile ma altrettanto importante è il rapporto che si viene a creare con gli artisti, avere l’opportunità di conoscerli e di farsi conoscere da loro. Il mio punto di partenza era un po’ diverso: non era espressione, derivazione di un incarico meramente professionale, ma piuttosto della curiosità assoluta per le creazioni degli altri un po’ in tutto il mondo, di un modo di infondere coraggio ad altri artisti. Non dobbiamo sentirci in competizione gli uni con gli altri; anzi, ognuno può sostenere l’altro. Ognuno ha un modo diverso di lavorare e possiamo sempre rispettare le ragioni altrui. Il valore e l’importanza di ciascun lavoro si rifrange se messo accanto ad altre opere interessanti. Per concludere, spero che il dialogo tra le diverse opere che ho scelto aiuti il pubblico a ridefinire cosa sia possibile fare con la danza e far loro capire che la danza si evolve e si espande sempre. Questo è quanto spero. Ma sarai tu a scriverlo, quindi la visione sarà la tua.

Cristina Caprioli, Leone d’Oro alla carriera di questa edizione, nel 2012 organizzò il simposio

Weaving Politics sul rapporto tra coreografia, diritti umani e violenza, che ebbe una risonanza internazionale e scosse il mondo della danza. È un’attività questa praticabile e percorribile ordinariamente per la Biennale Danza a Venezia?

Sì, certo. Cristina ha tenuto in piedi la sua compagnia qualunque cosa accadesse e si è interfacciata con la politica sia ad alti che a bassi livelli. Il suo è un lavoro molto riflessivo e non sempre di intrattenimento. Non le interessa questo secondo aspetto e io rispetto la sua scelta. Penso che la dimensione politica e l’incisività e la capacità di riunire, di connettere che ha saputo esprimere con così peculiare forza sia davvero un risultato meraviglioso. Ne parleremo, parleremo di cosa possiamo fare per lei qui a Venezia, di cosa succederà in quel mondo. È una grande intellettuale e una grande provocatrice Cristina Caprioli, sì.

Mi ha sorpreso un commento di Cristina Caprioli stessa: diceva che i coreografi ormai devono produrre i loro spettacoli in base a quanto il pubblico vuole vedere. Bisogna stare sul mercato, certo, ma non l’avevo mai inteso in questo modo. È pericoloso?

La situazione sta peggiorando per gli artisti, perché le risorse sono poche e molti committenti chiedono alle compagnie di restare su spettacoli di provato successo, oppure inevitabilmente si interrogano su cosa piacerà alla gente. Non si possono proporre creazioni troppo intellettuali o troppo rigorose. In qualche modo, insomma, una certa censura culturale esiste già a livello di commissione e questo rappresenta oggi decisamente un problema. Penso che Cristina intenda dire che il nostro lavoro non è quello di intrattenere il pubblico, quindi

contact with all alumni of the College, we hear what they’re doing, we see the shows they’re doing. It’s really amazing. They become your community –your extended community – and they go see each other’s shows. I have two dancers from the College in my company now, and I think that intense nurturing that only a place like the Biennale can do is really extraordinary. Now, about failures, I would say that perhaps it’s not really a failure, but how can we use a model like that, which is about nursing, nurturing artistic practice over a long time? I mean with professional artists as well, what will we be able to do with more resources? Maybe a kind of choreographic laboratory that is open year-round? How can we work with artists that are not just here for three weeks for the summer, for the Festival, but extend the scope of that work so it has much more of a critical, elemental, positive impact? A lot of those young Italian makers are not getting resources and they are not getting helped to create and sustain a practice and get traction, even internationally. That’s an aspiration, more than a failure, but it’s something that I think would be really amazing.

This might be true or not – I am writing a book on these last 10 years of the Dance Biennale. A chapter will start with “Wayne McGregor, the Director of the Venice Dance Biennale”. How would I go about explaining who you are?

It’s always a challenge when you ask an artist to be a director of a festival, because one imagines that you will only programme or think about work that is related to your own, though one of the things I tried to do is I’ve kept my personal work to the minimum in the context of the festival. I tried to look wide and to… perhaps think about some of my values in relation to a philosophical understanding of dance or an extension of understanding about what dance can be or dance’s impact on the world, and do all of this through the lens of other artists’ practice. I worked to bring to Venice people whom we would never expect to see here. We are making the Biennale grow from within, from its heart.

Another aspect that is perhaps a little less visible is about the relationships between the artists themselves, making opportunities to get to know them and get them to know us. My starting point was a bit different: I didn’t approach this merely as a professional duty, I found myself genuinely curious about other artists’ creations, which I see as a way to encourage them to keep at it. We don’t have to be in competition with others. In fact, we can support one another. Each of us has their own way of working, but we can respect each other’s reasons, too. The value and the importance of each work reflects when confronted with other interesting art. The final thing I'd say is that hopefully dialogue between the works that I have brought will help audiences reframe what's possible in dance, and for them to understand that dance is forever evolving and extended. That would be the hope. But you'll be writing it, so it will be your version.

Cristina Caprioli, the Golden Lion for Lifetime Achievement award at the 2024 Venice Dance Biennale, produced in 2012 a symposium, Weaving Politics, on the relationship between choreography, human rights, and violence. The meeting had international outreach and shocked the world of dance. Is it still possible to do such a thing at the Dance Biennale?

Absolutely. Cristina carried on with her practice whatever happened, and she always interfaced the political and the Political, as it were. She's done that through very reflective work, which is not always entertaining. She's not interested in the entertainment aspect of the world, and I really respect that. I think that the political dimension and incisiveness and the convening that

“Non

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non dobbiamo pensare al pubblico in questo perimetrale senso. Quando dietro a un lavoro vi sono un rigore e uno scopo che vanno ben oltre il dato del puro intrattenimento la sfida è molto più grande e penso che a lei sia capitato nella sua carriera che quella tenacia e quel rigore siano stati trascurati a favore di qualche progetto più ‘sicuro’. Quindi sì, credo anch’io che esista il pericolo che tutto ciò che si va producendo corra il rischio di rimanere ingabbiato nella logica artisticamente asfittica di un mero e luccicante intrattenimento e che il rigore della danza, il processo di profondo scavo elaborativo che dovrebbe informare le sue produzioni, vengano messi in secondo piano da progettualità che è più facile far piacere. Vale per tutti. È anche responsabilità dei critici assicurarsi di valorizzare con il giusto e congruo peso progetti talvolta veramente belli di puro intrattenimento e di grande successo – va benissimo e piacciono anche a me – in rapporto allo spazio di ampio e profondo respiro che richiederebbe la lettura e l’interpretazione dei lavori di quegli artisti che cambiano sul serio i paradigmi di questo linguaggio espressivo, perché è solo cambiando i paradigmi che l’arte evolve. Il nostro lavoro con la danza deve evolvere, così come il nostro modo di pensare. Se non saremo in grado di farlo rimarremo bloccati in una comfort zone che non farà il bene di nessuno, perché intrattenere attraverso la rassicurazione del già fatto, prodotto e visto equivale a rimanere fermi volgendo le spalle al futuro…

Per una mia personale curiosità sto contando quanti spettacoli su Maria Callas sono stati prodotti quest’anno. Sono almeno undici soltanto in Italia. Con la continua riproduzione di opere d’arte l’aura, l’immaginazione si perdono. Penso che con la danza ciò non possa avvenire perché ogni rappresentazione è diversa e che è per questo, quindi, che forse questo linguaggio espressivo può piacere più di altre forme d’arte. Qual è il suo parere a riguardo?

Penso sia molto difficile fingere nella danza. Può capitarti di leggere o sentire fake news, ma quando sei in un teatro e hai qualcuno davanti a te che deve eseguire un pezzo in tempo reale la trasmissione è qualcosa di assolutamente diretto. Mi piace l’idea che nella danza questo non si possa sostituire. L’altra cosa che mi ha colpito è la tua domanda sulla diversità di ogni rappresentazione grazie alla spontaneità dei danzatori nel decidere come esprimersi in tempo reale: ma come riusciamo a percepire, a decifrare ciò? Questa sarà la domanda identificativa per il futuro. Come percepiamo Cristina Caprioli oggi? Come una creatrice che prende decisioni in tempo reale, non è un video quello che stiamo guardando. Ma come fa? Credo che la tecnologia giochi un ruolo molto interessante nel riuscire a catturare l’essenza di una persona. Potrebbe farlo attraverso un sistema di intelligenza artificiale che va oltre la forma, ma cos’altro succede nel momento in cui qualcuno danza o recita e questo qualcosa li rende te? Quel loro essere te, il tuo stesso essere te: cos’è mai tutto questo? Penso sia una domanda molto interessante. Quando andiamo a vedere dei danzatori bravissimi, e anche quando li conosciamo bene, stiamo sempre guardando una versione rifratta di loro. Non vediamo mai la stessa versione; proprio come nella vita, anche col nostro compagno o i nostri migliori amici non vediamo mai la stessa versione di loro. Certo, alcune abitudini e altre disposizioni rimangono simili, ma la trasmissione tra individui non è mai la stessa e a un qualche livello lo percepiamo, vi

reagiamo, e lo facciamo perché è così che la verità arriva. È molto difficile da nascondere. Ma non è un dato che interessa però solo la danza; penso, per fare un esempio su tutti che tutti ci coinvolge mediaticamente ogni giorno, che anche nella dimensione politica ci sia una grande differenza tra essere nella stessa stanza con un’altra persona o parlare in videoconferenza o, ancora, mandarsi una mail. La presenza dal vivo, che sia in forma mediata o che sia teatro dal vivo, ma potrebbe essere anche nella sanità, per dire, è davvero fondamentale perché vi è così tanta alterità attorno a te che solo rapportandovisi tangibilmente puoi trasmettere una tua verità, la tua essenza in sostanza. La presenza è l’unico modo per generare empatia con qualcuno. Quando si genera empatia si riesce a raggiungere un livello mentale superiore. È questo il potere della danza, che è poi il potere di ogni forma di comunicazione corporale.

Stiamo assistendo a nuove modalità di cultura visuale: Berger, Freedberg, Perconte e Pierre Huyghe ora a Punta della Dogana. Come hanno influenzato questi studi il mondo della danza e dove ritroviamo queste riflessioni nel programma 2024? L’interazione tra danza e tecnologia può generare nuove forme di espressione?

Sì, anche qui ci sono diversi insiemi di conoscenza che si intersecano. E in queste intersezioni nascono nuove idee. Cloud Gate, come anche Nicole Seiler, quest’anno mettono in scena intelligenza artificiale e performance dal vivo. Per fare un altro esempio, grazie a Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor con l’epico documentario De Humani Corporis Fabrica ci ritroviamo seduti all’interno di un’installazione video con sette schermi che ci permettono di guardare l’interno di altre persone: non possiamo non commuoverci davanti alla materialità del nostro corpo, alla sua fragilità, vedendo gli organi che abbiamo dentro; un corpo che appartiene a tutti noi.

La condivisione è un valore assoluto. Un altro aspetto da considerare della tecnologia, in questo senso, è che può mettere in luce parti del corpo che altrimenti non avremmo mai visto, spostando così la nostra immaginazione su un nuovo piano. La creatività in realtà è molto tecnologica. Mi stimola e mi incuriosisce interfacciarmi con la tecnologia in quanto strumento a servizio della creatività; non quindi in quanto elemento che vada a sostituire il tocco umano nelle nostre creazioni, ma piuttosto in quanto agente dinamico in grado di amplificarlo o di accrescerlo, forse anche di sfidarlo. Ho scelto determinati artisti e spettacoli per questa Biennale che mi auguro siano in grado di condurci verso una qualche verità, combattendo con ogni arma appropriata il falso, anche se riconoscere il falso è sempre impresa improba. Anni fa ho prodotto uno spettacolo a Londra con gli ABBA in forma di avatar. Non erano reali, non erano veramente gli ABBA, il pubblico ballava con una creazione puramente digitale, però si comportava come se stesse ballando con loro. Sentivano una connessione empatica con la tecnologia, quella stessa tecnologia che in tanti dicevano non poter essere capace di generare empatia. Esiste un mondo in cui possiamo lavorare con la tecnologia per creare un fenomeno essenzialmente umano. Non parlo di generare musica o generare danza, non è questo il punto. È un’altra cosa e ha a che fare con l’essere speciali.

she's able to do with her interventions is something that is really wonderful. We're going to talk. We'll talk about what we can do here in Venice, about what there's going to be within that world. But yes, she's an incredible intellectual and provocateur.

I was surprised when I read a comment by Christina saying choreographers were more and more used to organise their performances on their shows to go on with what the public wants. We do have to stay in the market, but I’d never thought about it. What do you think, is this dangerous?

I think it's getting worse for artists because resources are tight and many commissioning partners ask artists to make the hits that they made last year or alternatively, they'll wonder, well, what will our audience like? It can't be too intellectual. It can't be too rigorous. It's got to look a certain way. There's a kind of a cultural censorship around commissioning already, which is problematic. I think what Cristina is saying is that our work is not about entertaining the public. When you work with rigour and a kind of a purpose which is beyond pleasing, that’s actually much more challenging to make. I think Cristina had that in her own career: occasionally, that kind of tenacity and rigour in the work has often been overlooked for some of the bigger commissions that one would have thought she would have been doing just in case the risk is higher, right? I think there is a danger that everything becomes too much of an entertainment piece or too shiny, and that actually the rigour of dancemaking and the intellectualism of dancemaking is subsumed by things that are much easier to like. And I think that's on all of us. It's a critic’s responsibility, an artist’s responsibility, a commissioner’s responsibility to make sure that we're balancing these really beautiful things that are shiny and that are entertaining—they are a quick and open hit, and that’s great, I love those. But balance that on a continuum where there's something you've got to really work hard to understand, where you really have to dive into that artist’s work to understand how they are changing the paradigm, because it's only in the changing of the paradigms that the work is going to evolve. Our work in dance is going to evolve and then our evolution of thinking generally is going to evolve and that's really important.

Just out of curiosity, I counted how many companies staged shows on Maria Callas this year. I counted eleven so far, and that’s only Italian companies. If artworks are reproduced infinitely, are we going to lose the aura, the imagination?

I think dance can avoid this, because you don't are never looking at the very same piece one evening and the next, it changes every time. Is this why the public tends to like dance more than other forms of art?

I think it’s very hard to fake dance. You can get fake news or fake theatre, but fake dance? It's very hard, because you are sitting in the theatre with somebody right in front of you who has to deliver the essence of them in real time, it’s a very direct transmission. I like the idea that dance can't be replaced like that. The other thing that strikes me is the spontaneity of performers, their ability to decide in real time. How do we capture that? This is a pivotal question for the future. How do you capture Cristina Caprioli now? We see her as a maker who is making decisions in real time. We are not looking at a video. How does she do that? There's a really interesting role for

new technology to play in capturing the essence of someone. And that might be an AI system that goes beyond just the shape of the performer, but what else is going on when somebody is dancing or performing or choreographing that makes them you? their youness, your youness ? What is that? When you go watch incredible dancers, even if we know the dancer very well, we always see a refracted version of them. We never see the same version of them, just like in life, even with your partner or your best friends, you never see the same version of them. Sure, there are habits and things that are similar, but the actual transmission is never the same, and I think on a deep level we respond to that. I think we really do because again, truthfulness comes that way. It's very hard to hide and it happens in a similar fashion in the political dimension: being in a room with someone is very different than talking over zoom or convening through e-mail or doing it remotely. Live presence, whether that is in mediation or in live, watch-in theatre, or even in healthcare, for example, is really, really important because there's so much of the otherness of you that you can't transmit in any of these other forms, and it's those things that allow us to build empathy with someone. If you're building empathy, it helps shift your mindset, and that's the power of dance, though really, the power of any form of bodily communication.

We see newer and newer forms of visual culture: Berger, Freedberg, Perconte, Pierre Huyghe are now on exhibition at Punta della Dogana. How did these studies influence dance, and where do we get to see it in the 2024 Venice Dance Biennale? Can the interaction between dance and technology generate new forms of expression?

Well, again, there are different knowledge sets that cross over. This year, Cloud Gate as well as Nicole Seiler will stage artificial intelligence-enhanced live performances. Another example, thanks to Véréna Paravel and Lucien Castaing-Tayolr and their epic documentary De Humani Corporis Fabrica, we shall find ourselves sitting before a seven-screen video installation. While looking at the inside of others, you can't help but be moved by the materiality of your own body, the fragility of your own body, those organs moving the spaces inside this body that we all share, this matter that we all share. What's interesting about technology is that it shines a light on parts of the body that we could never see otherwise, and it moves our imagination into a new dimension. You know, creativity is very technological. I'm curious about where technology interfaces as a tool with creativity, not to replace the human touch or the human hand of the human creation, but to amplify it or augment it, or to challenge it in a different way. I chose things in this festival that I hope will take us towards truth, not towards fake, but I do wonder: do we recognise fake at all? I once built this show in London with ABBA – with avatars, they're not real. They’re not the real ABBA. When people go there, it’s just like dancing around zeros and ones. People, though, believe that is ABBA. They believe that there's an empathetic connection with the technology, the same technology that many said cannot do empathetic connection at all. There's a world where we can work in an interesting way with technology to create essential human phenomena, and that's not generative music or generative dancing. It's about something else. It's about that specialness again.

biennaledanza

WE HUMANS LEONI

Action painter

Trajal Harrell, un Leone d’Argento davvero unico

«Lavoro come un action painter» afferma Trajal Harrell, danzatore e coreografo statunitense, tra i più rinomati della sua generazione, che Wayne McGregor ha scelto come Leone d’Argento della Biennale Danza 2024, dichiarando la sua assoluta unicità. Unicità che si traduce in immediatezza e senso di unione. «Avevo un insegnante di recitazione –racconta Harrell – che ci diceva sempre: “Se non avete niente da dire a teatro oggi, non venite”. Questo mi ha fatto una grande impressione, ciò che cerco di esprimere nel mio lavoro oggi deve essere immediato, condiviso, un momento che esiste solo qui e ora». L’artista, nato a Douglas (Arizona, USA) nel 1973 e residente ad Atene, si è laureato alla Yale University, al Centre National de la Danse (Yvonne Rainer) e alla Martha Graham School of Contemporary Dance. «La sua ricerca fondamentale – recita la motivazione della Biennale – si basa su una ricca conversazione tra la danza postmoderna, la scena del voguing newyorkese e la danza giapponese Buto¯. Il suo lavoro re-immagina il nostro passato incurante della distanza cronologica, geografica e culturale, portando le sue performance in luoghi dedicati tanto alle arti visive quanto allo spettacolo dal vivo». Harrell crea un tipo di danza che parte dalla ridefinizione delle barriere stabilite tra le discipline della danza, del teatro e dell’arte performativa, arricchendole di un pensiero critico basato sulla ricerca sul genere, il femminismo e il post-colonialismo. Frutto di una vasta ricerca, dunque, le sue performance sono come tanti oggetti sensibili, ibridi e gioiosi che attingono in egual misura alla moda, alla cultura pop e agli artisti d’avanguardia. È in questo mix unico di generi, nella sorprendente giustapposizione di forme e nella vastissima gamma di emozioni che il lavoro di Harrell coinvolge e appassiona. Ora torna a Venezia con due opere: Sister or He buried the Body e Tambourines Nella performance-installazione Sister or He Buried the Body Harrell indaga uno dei padri fondatori della danza Buto¯, Tatsumi Hijikata, alla ricerca di un legame con Kathrine Dunham, antropologa e coreografa afroamericana che pare condivise lo studio di Hijikata a Tokyo. Attingendo al vogueing e mescolandolo al Buto¯, Harrell danza su una passerella improvvisata di stuoie d’erba intrecciata, in un viaggio nella storia della danza contemporanea. Ispirato al romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, Tambourines è la dedica che Trajal Harrell fa a tutte quelle donne che in passato non hanno potuto decidere del proprio corpo. In tre atti – fornicazione, educazione, celebrazione –Harrell riscrive la storia di Hester Prynne, condannata nel romanzo a indossare la lettera scarlatta (la A di adulterio), per aver avuto una bambina fuori dal vincolo matrimoniale, immaginando un finale alternativo, ottimista e femminista. M.M.

Unlike ENG any other

American dancer and choreographer Trajal Harrell works – in his own words – “like an action painter”. The director of the Venice Dance Biennale, Wayne McGregor, awarded him the Silver Lion for his uniqueness. Born in Arizona in 1973, Harrell graduated at Yale, at the Centre National de la Danse, and at the Martha Graham School of Contemporary Dance. “His foundational research is based on a rich conversation between post-modern dance, the New York voguing scene and Japanese dance Buto¯. His work reimagines our pasts and laughs at chronological, geographical and cultural distance, leading to performances in venues dedicated as much to visual arts as to live theatre.” Harrell will present two pieces in Venice: Sister or He Buried the Body and Tambourine. The former is a performance-installation on one of the fathers of Buto¯ dance, Tatsumi Hijikata, mixed with vogueing-inspired contemporary dance. The latter, inspired by The Scarlet Letter, is an homage to all women who, in the past, were barred from making decisions for their own body.

TRAJAL HARRELL

Cerimonia di consegna

21 luglio Ca’ Giustinian

Sister Or He Buried The Body 18, 19 luglio, Sale d’Armi E, Arsenale Tambourines 2, 3 agosto

Tese dei Soppalchi, Arsenale

Tambourines - Photo Orpheas Emirzas

Perpetuo movimento A Cristina Caprioli il premio alla Carriera

La coreografia come “discorso critico in continuo movimento” in cui l’atto creativo non è mai disgiunto dalla riflessione ed è, anzi, un pensiero che si interroga sul fare danza nel momento stesso in cui la danza si genera. Questo il dogma di Cristina Caprioli, icona della danza contemporanea a cui la 18. Biennale Danza assegna il Leone d’Oro alla carriera il 21 luglio a Ca’ Giustinian. Danzatrice, coreografa, teorica sperimentale, accademica e curatrice, Cristina Caprioli «ha silenziosamente e sostanzialmente influenzato più generazioni di coreografi durante i suoi tre decenni di ricerca critica sul corpo», si legge nella motivazione di Wayne McGregor, che prosegue: «A metà degli anni Novanta Caprioli ha fondato l’organizzazione indipendente ccap, con la quale ha prodotto un’ampia gamma di performance, installazioni, film, oggetti, pubblicazioni e altre “coreografie”, oltre a progetti di ricerca interdisciplinari a lungo termine. La coreografia di Caprioli è caratterizzata da precisione, complessità e forme nuove di virtuosismo fisico. Tutte le sue produzioni sfidano le regole e le economie di scambio del settore; le basi filosofiche del suo canone hanno bilanciato ricerca concettuale rigorosa ed esperienza concreta coinvolgente e altamente praticabile. L’impegno di Caprioli per l’avanzamento e lo sviluppo della nostra forma d’arte è stato fonte di ispirazione per il settore e il suo approccio sotto traccia a tutto ciò che intraprende non fa che evidenziare la qualità eccezionale e l’integrità di un processo creativo a 360 gradi». Grande protagonista del Festival, a cui aveva già partecipato nel 2010, Caprioli presenta ben tre delle sue ultime opere e una prima assoluta. Al Teatro alle Tese, dal 18 luglio al 3 agosto, sarà visibile Deadlock, produzione del 2023 in prima nazionale, che la coreografa definisce un “saggio sulla ripetizione in serie”. Sospesa tra il mondo reale e quello immaginato la performer, Louise Dahl, si muove liberamente, mentre il suo corpo viene moltiplicato sullo schermo, viaggiando attraverso le due dimensioni come se profondità, peso e confini non esistessero. Dal 24 luglio al 3 agosto in Sala d’Armi sarà la volta di flat haze, spettacolo e installazione al contempo, che invita gli spettatori a scoprire il processo creativo della coreografa italo-svedese in quello che è il suo spazio ideale per «pensare e creare, per sperimentare un nuovo modo di stare insieme in cui scrivere, leggere, riflettere, riposare e danzare». Ogni ora verrà eseguita una coreografia diversa che si somma a una serie di nove immagini e il pubblico sarà libero di rimanere lì qualche minuto o fermarsi invece tutto il giorno. A Forte Marghera, durante i fine settimana del Festival, andrà poi ‘in scena’ Silver, eccezionale performance/installazione che si appropria dell’ambiente e costruisce una danza “di corpi senza corpi”. Sul pavimento, lungo le pareti, appesi al muro centinaia di cappotti argentati invadono lo spazio, alcuni per essere “abitati” da corpi in movimento. Nelle parole di Caprioli lo spettacolo svela come «la coreografia possa nascondersi anche dove non ce l’aspettiamo. Al contempo ordinaria e astratta, ovvia e intrinsecamente ripiegata su sé stessa, Silver è un invito a tornare a una ri-flessione visiva». Infine, concedendosi come mentore d’eccezione con i danzatori di Biennale College, Caprioli presenta in prima assoluta una creazione ideata ad hoc per il Festival: The Bench, che trova la sua collocazione ideale in Via Garibaldi.

Perpetual ENG motion

Choreography as “a critical discourse in continuous motion”– this is Cristina Caprioli’s dogma. Caprioli is an icon of contemporary dance whom the Biennale honoured with the Golden Lion for Lifetime Achievement. A dancer, choreographer, experimenter, scholar, and curator, the awardee “has quietly and substantially influenced multiple generations of choreographers during her three decades of provocative physical research”. A veteran of the Venice Dance Biennale (she participated in 2010), Caprioli will present three of her latest pieces and a world premiere. At Teatro alle Tese, from July 18 to August 3, her Deadlock is an “essay on series repetition”. Performer Louise Dahl moves freely as her body multiplies on screen, and travels through her two dimensions as if depth, weight, and borders didn’t exist. From July 24 to August 3, at Sala d’Armi, flat haze is a show-installation that invites the audience to rediscover Caprioli’s creative process in her ideal space. At Forte Marghera, every weekend, Silver is an extraordinary performance-installation that appropriates the environment and build a kind of bodiless body dance.

CRISTINA CAPRIOLI

Cerimonia di consegna

21 luglio

Ca’ Giustinian

Deadlock

18, 25, 26, 27, 28 luglio-3 agosto

Teatro alle Tese, Arsenale

flat haze

24 luglio-3 agosto

Sala d’Armi E, Arsenale

Silver

27, 28 luglio, 2, 3 agosto

Forte Marghera-Mestre

Cristina Caprioli - Photo Jens Wazel
Deadlock - Photo Thomas Zamolo

Propagazioni

Sul palco vedremo dodici danzatori e i loro avatar in una performance creata dal coreografo Cheng Tsung-lung e dall’artista digitale Daito Manabe per i 50 anni di Cloud Gate, una “fusion company” taiwanese rinomata in tutto il mondo per unire pratiche orientali e danza occidentale. La fusione operata nel nuovo spettacolo di Cheng, che dal 2020 è anche direttore artistico di Cloud Gate, non riguarda questa volta solo Oriente e Occidente, ma anche danza e tecnologia. In WAVES i movimenti dei corpi incontrano le onde generate dai suoni di Manabe, mentre l’attività muscolare e respiratoria dei danzatori si trasforma in dati processati da un programma di intelligenza artificiale. La tecnologia cambierà la danza? «Ogni forma di linguaggio – dice Cheng Tsung-lung – ha una sua necessità». Ma avverte: mai dimenticare il grande e insostituibile potere della danza, «una delle forme creative più pure e connesse col nostro intimo, un movimento che coinvolge corpo e mente».

WAVES è una performance creata per celebrare i 50 anni di Cloud Gate. Ci parli della sua esperienza come direttore artistico di una delle più prestigiose compagnie di danza al mondo.

Dal 2020, il mondo ha combattuto la pandemia, affrontando grandi difficoltà e la perdita di molte vite, il che è deprimente e triste. La vecchia generazione in Oriente crede nel destino e nel Feng Shui. Ci sono stati momenti in cui mi chiedevo se la fortuna mi avesse voltato le spalle: avevo appena cominciato a lavorare come direttore artistico e il mondo si era fermato. Eppure in seguito ho capito che era un dono per me. Negli ultimi tre anni i ballerini di Cloud Gate ed io abbiamo continuato a lavorare nella produzione di tre nuovi lavori: Sounding Light, Send in a Cloud e WAVES. Senza interrompere mai la nostra ricerca, abbiamo mantenuto la nostra energia e il nostro spirito attraverso sessioni online e molte conversazioni a due, esplorando il mondo interiore l’uno dell’altro, dato che la possibilità di incontrarci era in quel momento limitata. Il mondo è cambiato immensamente, ma Cloud Gate, che ha cinquant’anni, ci ha dato qualcosa di stabile nel mezzo della tempesta. Questo mi ha guidato nella creazione di WAVES

Come descriverebbe il linguaggio attraverso il quale WAVES si esprime? E come il lavoro di Daito Manabe, artista digitale, compositore, dj e programmatore, si intreccia con la sua coreografia? Questa coreografia è molto diversa da quanto ho rea-

lizzato in precedenza. Daito Manabe e la sua squadra hanno usato diversi strumenti, come sensori per l’elettromiografia e telecamere, per registrare l’attività muscolare e respiratoria dei danzatori. L’intelligenza artificiale ha poi processato questi dati trasformandoli in colori, suoni ed altre energie percepibili. In WAVES, “l’intuizione e l’intenzione” dei danzatori ha creato nuovi paesaggi sul palco. Io vedo i loro corpi come elettrificati, una rivoluzione simile a quella che ebbe, in pittura, l’introduzione dei colori a olio. Gli schermi LED sono come tele, e i dati sono la pittura in mano ai danzatori. Abbiamo condotto diversi esperimenti assieme a Daito Manabe. Era come essere attraversati da una corrente elettrica, da più correnti, una turbolenza tra Manabe, i danzatori e me. Invece di rifiutare del tutto o adottare acriticamente la tecnologia, io scelgo di avvicinarmi in modo aperto e imparare una lingua nuova. I movimenti dei danzatori possono avere origine dalla danza contemporanea e derivare da rituali tradizionali o dal Tai Chi Dao Yin, una forma di Qi Gong; tuttavia, è davvero possibile ottenere qualcosa di nuovo dalle immagini e dalla musica generate dall’intelligenza artificiale? Questo è ciò che WAVES vuole esplorare: attraverso forme distinte di energia vedremo diversi potenziali dinamici e cinetici in cui tutto sembra entrare in comunicazione e connessione.

Nei suoi lavori, Oriente e Occidente non solo trovano un punto di incontro ma anche una fusione. In Dorian Gray (2014), ad esempio, l’opera di una delle più grandi figure letterarie occidentali viene messa in dialogo con movimenti del corpo ispirati ad antichi rituali taiwanesi. In quali elementi di WAVES troviamo riflessi questi due mondi, entrambi così presenti nella sua produzione?

I confini tra Oriente e Occidente non sono così definiti nella mia vita di tutti i giorni. Taiwan è un crogiolo di culture diverse, dove si può vedere un tempio orientale accanto a una chiesa occidentale nella stessa strada, oppure un negozio di bubble tea fianco a fianco ad un bar che serve caffè espresso all’italiana. Quando creo non penso al fatto di creare qualcosa di orientale o di occidentale. Du Lian Kui è la versione taiwanese del

© Lee Chia-yeh

Propagations ENG

On stage, we will see twelve dancers and their avatars in a performance created by choreographer Cheng Tsung-lung and digital artist Daito Manabe for the 50th anniversary of Cloud Gate, a Taiwanese ‘fusion company’ renowned for combining Eastern practices and Western dance. The fusion in Cheng’s new show, who is also Cloud Gate’s artistic director, also involves dance and technology. In WAVES, the movements of the bodies interfere with the waves generated by Manabe’s sounds, while the dancers’ muscular and respiratory activity is transformed into data processed by AI. Will technology change dance? “Every form of language has its necessity,” says Cheng Tsung-lung. But he warns: never forget that dance has the power to deeply connect with one’s inner self.

This performance was created to celebrate the 50th anniversary of Cloud Gate. Please, tell us about your experience as the artistic director of one of the most prestigious dance companies in the world.

Since 2020, the world has faced the pandemic, its inconveniences, and the loss of many lives, which is depressing and sad. The old generation in the East believes in fate and Feng Shui. There was a moment when I worried whether I was out of luck, having just taken over the responsibility as artistic director only to see the world come to a halt. However, I later realized that it was a gift to me. Over the past three years, the Cloud Gate’s dancers and I continued to create, producing three new works: Sounding Light, Send in a Cloud, and WAVES. We didn’t stop exploring due to the pandemic. We continued our daily practices, a mixture of Eastern and Western training. At the height of the pandemic, we kept our energy and spirit up through online sessions, engaged in in-depth one-on-one video conversations, and visited each other’s inner worlds when the actual travel was restricted.

The world has changed tremendously, but the 50-year-old Cloud Gate has given us a sense of stability amid the storm. This feeling helped me find the direction in creating WAVES

How would you describe the language through which WAVES expresses itself, and how does the work of Daito Manabe, a digital artist, composer, DJ, and programmer, intertwine with your choreography?

This choreography is very different from my previous works. Daito Manabe and his team brought various tools like electromyography sensors and cameras, using technological devices to capture the dancers’ muscle and breathing data. Then these data are processed by AI to produce perceivable colours, sounds, and other energies.

In WAVES, the dancers’“intuition and intention” create fresh landscapes on stage. To me, the dancers’ bodies are electrified, much like how the invention of oil paint changed the style of painting of its time. The LED screens in WAVES are like canvases, and the data serves as the dancers’ paint.

By collaborating with Daito Manabe, we conducted various experiments. It felt like being electrified, with many currents and even turbulence among Manabe, the dancers, and me. Instead of completely rejecting or fully embracing technology, I choose to extend an olive branch, learning a new language. The dancers’ movements might originate from contemporary dance and derive from traditional rituals or Tai Chi Dao Yin, a form of Qi Gong; however, using AI-generated imagery and music, is there a chance to spark new possibilities? This is what WAVES aims to convey: Through distinct forms of energy, we can see different dynamics and kinetic potentials, and it seems like everything can communicate and be connected.

In your works, East and West not only find a meeting point but also a fusion. In Dorian Gray (2014), e.g., the work of one of the greatest Western literary figures is put in dialogue with body movements inspired by ancient Taiwanese rituals. In what elements of your new work do we find these two worlds reflected, both so present in your production?

WAVES | Cloud Gate - Photo Lee Chia-yeh

biennaledanza

WE HUMANS CHENG TSUNG-LUNG

Language is a skin: I rub my language against the other. It is as if I had words instead of fingers, or fingers at the tip of my words. My language trembles with desire
From

A Lover’s Discourse: Fragments (1977) by Roland Barthes

Ritratto di Dorian Gray. L’autore, Wang Da-hong, sostiene che la natura umana non si divide in antica o moderna, orientale o occidentale, e che l’essenza dell’opera di Wilde proviene dalla natura umana. Wang ha cambiato l’ambientazione – dalla Londra ottocentesca agli anni ‘70 di Taipei –, i luoghi e i personaggi, ma nonostante queste differenze la storia è del tutto accettabile.

Questo tipo di intrecci mi affascina molto. Ad esempio, la mia opera 13 Tongues ritrae vari aspetti della mia città natale, il distretto di Banga, comprese scene di strada, lingue, colori, negozi, templi, e nonostante questo, quando porto lo spettacolo in giro, molti spettatori mi trasmettono la loro commozione nello scorgere in essa dei valori umani e universali. Come dico spesso, spero di essere, attraverso il mio lavoro, una specie di cartina di tornasole, capace di restituire l’immagine dell’epoca e della società. L’arte deve evocare valori universali e non limitarsi ad essere un riflesso di due mondi o una fusione di tecnologia, ma piuttosto dialogo spirituale.

In 13 Tongues (2016) lei ha esplorato le possibilità di comprendere ed esprimere la realtà attraverso diversi linguaggi. Ora, con l’intelligenza artificiale, questa ricerca sembra tendere all’infinito, verso un linguaggio tanto universale ed elegante quanto può esserlo il sistema binario dei computer, uno e zero, “essere o non essere”… Come pensa che la tecnologia influenzerà il mondo della danza nei prossimi anni?

Credo che l’IA e i futuri progressi tecnologici siano forme di linguaggio. Anche il corpo stesso è un linguaggio. L’addestramento fisico che facciamo a Cloud Gate io e gli altri danzatori e il nostro modo di muoverci sono ben impressi in noi. Tuttavia, nel creare WAVES, mi sono chiesto se ci fosse un modo di liberarsi di quegli schemi. In fisica, quando due onde di diverse frequenze interferiscono, nascono nuove forme, un po’ come i vari linguaggi che usiamo. Ogni forma di linguaggio ha una sua necessità, inclusi il linguaggio del corpo e quello della tecnologia. Ciò che mi preoccupa è che l’accelerazione caotica del mondo della tecnologia possa farci gradatamente perdere l’uso della danza e del corpo. Eppure, la danza rimane una delle forme creative più pure e connesse col nostro intimo, un movimento che coinvolge corpo e mente. Spero proprio che non dimenticheremo di avere questo potere.

The boundaries between the East and the West are not obvious in my daily life. Taiwan is a salad bowl of diverse cultures, where you can spot an Eastern temple next to a Western church on the same street, and a bubble tea shop right next to a café serving Italian expresso. Therefore, when I create, I don’t particularly think of something to be Eastern or Western. Du Lian Kui is the Taiwanese version of The Picture of Dorian Gray. The author, Wang Da-Hong, noted upon its publication that “human nature is not divided by ancient or modern, nor by the East or the West.” The essence of the work comes from human nature. He transformed Oscar Wilde’s depiction of late nineteenth-century London into the 1970s in Taipei, changing the time, places, and characters. Despite these differences, the story remains fully presentable. I am fascinated by this kind of juxtaposition. For instance, my work 13 Tongues portrays various aspects of my hometown, Banga district, including its street scenes, languages, colours of the shops, and temple culture. However, when performing this dance piece around the world, many audiences told me that they were deeply moved and could see a common source of human values and consensus.

I often say that I hope to be like a litmus test, keenly gauging the impression of the era and reflecting the state of society through my work. Therefore, I believe that art should evoke universal values. It shouldn’t be just a reflection of two worlds or a fusion of technology, but rather a spiritual dialogue.

In 13 Tongues (2016), your exploration delved into the possibilities of understanding and expressing reality through different languages. Now, with artificial intelligence, this research may extend towards infinity, towards a language as universal and elegant as the binary system of computers, one and zero, “to be or not to be”… How do you think technology will influence the world of dance in the coming years?

I believe that AI and future advancements in technology are forms of language. The body itself is also a language. Before WAVES, Cloud Gate’s physical training – the way we “move” – was already ingrained in me and the dancers. However, when I began creating WAVES, I wondered if there was a way to break free from these habitual patterns. In physics, when two waves of different frequencies interfere with each other, new forms emerge, much like the various languages we use. Every form of language has its necessity, including body language and technological language. My concern is that in our accelerating and chaotic technological world, we might gradually lose the use of “dance” or the “body.” Yet, dance is such a pure form of creation, deeply connected with one’s inner self – a movement involving the entire body and mind. I hope we don’t ever forget this power.

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WE HUMANS

Paesaggi interiori Viaggio nel corpo umano con Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor

Registi, antropologi e artisti, membri del Sensory Ethnography Laboratory dell’Università di Harvard, Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor manipolano suono e immagini con tecniche sperimentali per realizzare alcuni dei più audaci e affascinanti documentari degli ultimi decenni, tra cui i pluripremiati Leviathan (2012), Somniloquies (2016) e Caniba (2017), premio speciale della Giuria alla 74. Mostra del Cinema di Venezia. Alla 18. Biennale Danza portano il loro ultimo lavoro, De Humani Corporis Fabrica, quarto film realizzato dalla coppia di cineasti selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2022. In un’edizione dedicata all’essere umano – We Humans – e al corpo umano, il documentario di Paravel e Castaing-Taylor, presentato come un’epica installazione cinematografica visibile tutti i giorni in Arsenale, diventa la “spina dorsale emotiva e riflessiva” del Festival, come l’ha definita lo stesso Wayne McGregor. Se cinque secoli fa il medico fiammingo Andrea Vesalio, considerato il padre della moderna anatomia, mostrava per la prima volta nella storia il corpo umano alla scienza, con De Humani Corporis Fabrica Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor svelano il corpo umano al cinema con un’opera incredibile, frutto di ben sette anni di lavorazione e di oltre 350 ore di girato.

La camera dei due cineasti viaggia con piglio quasi “wisemaniano”, muovendosi tra i corridoi di cinque diversi ospedali parigini, passando dagli ambulatori alle sale operatorie fino all’obitorio. Inarrestabile accompagna le sonde, i bisturi, entra direttamente nella carne, costringe l’occhio a partecipare in maniera attiva ed estrema alle operazioni chirurgiche e a superare i limiti del visibile e del sondabile.

De Humani Corporis Fabrica coglie profondamente l’essenza di un luogo che vive quotidianamente il confronto con il dolore, la malattia, la morte, ma anche con la nascita, la cura, la speranza, un laboratorio che collega tutti i corpi del mondo. Con il rigore compositivo e ritmico che sempre contraddistingue i loro lavori Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor danno vita a un inimmaginabile viaggio nel mistero del corpo umano immortalandolo come un paesaggio straordinario, familiare quanto alieno, che esiste solo attraverso lo sguardo e l’attenzione dell’altro. C.S.

An inner ENG landscape

Filmmakers, anthropologists, artists, and members of the Sensory Ethnography Laboratory at Harvard Véréna Paravel and Lucien Castaing-Taylor manipulate sound and images with experimental techniques to produce some of the most fascinating documentaries of the last several years, including award-winning Leviathan (2012), Somniloquies (2016), and Caniba (2017).

The latter was awarded the Special Orizzonti Jury Prize at the 74th Venice Film Festival.

Paravel’s and Castaing-Taylor’s upcoming documentary, We Humans, is an epic film installation that is visible every day at Arsenale. The film takes us to five hospitals in Paris. In each, we will visit exam rooms, operating theatres, and morgues. The camera follows sounds and scalpels into the flesh, and forces our eyes to actively participate to surgeries and push the limits of the visible and the measurable.

De Humani Corporis Fabrica is the essence of a place that lives and breathes pain, disease, death as well as birth, cure, hope. A laboratory that connects all bodies in the world. Compositional rigour and rhythm give life to an unimaginable journey into the mystery of the human body, memorializing an amazing landscape that is as familiar to us as it is utterly alien.

VÉRÉNA PARAVEL / LUCIEN CASTAING-TAYLOR

De Humani Corporis Fabrica 20 luglio-3 agosto Sala d’Armi A, Arsenale

biennaledanza

WE HUMANS

La

Il coreografo libanese Guy Nader e la danzatrice e coreografa spagnola María Campos hanno fondato nel 2006 la compagnia indipendente GN|MC con sede a Barcellona, sviluppando il proprio linguaggio artistico attraverso il movimento, ridefinendosi e ricercando costantemente nuovi contesti e territori. «Il nostro approccio alla danza – scrivono i coreografi – si riconfigura da un progetto all’altro, ogni opera realizzata diventa un processo di apprendimento in cui scopriamo nuovi luoghi da esplorare, che in seguito si delineano in un linguaggio e in un percorso definiti».

La pratica che Guy Nader e María Campos hanno approfondito in modo esponenziale negli ultimi dieci anni indaga aspetti dei principi della fisica e continua ad ampliarsi, evolvendo verso la ricerca di una composizione spazio-temporale estremamente dettagliata. Di conseguenza, il loro lavoro si basa su un rigoroso studio del movimento, progettando compiti fisici specifici in relazione al peso, alla geometria, allo spazio, al tempo e alle dinamiche di gruppo, dove il corpo è allo stesso tempo il soggetto, l’oggetto e lo strumento della propria conoscenza. Co-commissionata dalla Biennale Danza 2024, la nuova creazione, Natural Order of Things, si ispira alla nozione di ordine e disordine, esaminando la complessità dei sistemi auto-organizzati in natura visti come microcosmi composti da una moltitudine di organismi auto-propaganti. Come un’ode alla vita e alla sua fragile atmosfera, Natural Order of Things è un tentativo di resistenza alla tendenza al caos attraverso la bellezza e l’armonia, unica via per riconnettersi alla natura e ristabilire l’equilibrio. C.S.

ENG Lebanese choreographer Guy Nader and Spanish dancer and choreographer María Campos founded their independent GN|MC company in Barcelona in 2006. “Our approach to dance – stated the two – reconfigures from one project to the next, every one of our pieces becomes a learning process that shows new places to explore.” Nader and Campos investigated the principles of physics to created extremely detailed spatial-temporal compositions. Their work is based on rigorous study of motion, and details specific physical tasks according to weight, geometry, space, time, group dynamics. Natural Order of Things is an attempt to resist the chaos by virtue of beauty and harmony.

Circolo infinito

Vincitrice del bando internazionale per nuovi progetti d’eccezione, la regista, artista visiva, specializzata nell’installazione e danzatrice contemporanea argentina Melisa Zulberti sfida le convenzioni attraverso il suo lavoro multimodale e socialmente consapevole. Classe 1989, originaria di Tandil, in Argentina, Melisa Zulberti è celebre per le sue installazioni performative site-specific dal forte impatto visivo ed emotivo in cui mixa arti sceniche, arti visuali, disegno industriale e tecnologia, per costruire delle vere e proprie strutture abitate dal movimento in grado di fornire innovative peculiarità drammaturgiche e cinetiche all’opera. Posguerra, una riflessione sul tempo, ideato ad hoc per la Biennale Danza 2024, vede protagonisti nove danzatori sospesi a mezz’aria che, circondati da un set di telecamere a circuito chiuso, generano un audace e sorprendente ecosistema audiovisivo. Partendo dal concetto di tempo circolare, Zulberti immerge lo spettatore in un continuum immateriale in cui il confine tra la vita e la sua rappresentazione si dissolve irrimediabilmente. Nelle parole della sua creatrice Posguerra è «un luogo senza giorno né notte, senza passato né futuro. Un effimero permanente che si inscrive nel corpo, un nuovo campo di battaglia che resiste all’esterno e al proprio io. Questo è il senso del dopoguerra. L’utopia di un promettente dopo e le rovine di una battaglia persa da tutti. Un circolo permanente che deve, a un certo punto, offrire un’altra risposta alla vita in società, superando un orizzonte di incertezza, disorientamento, alienazione e frustrazione». Temi di bruciante attualità in un momento storico come il presente, in cui poter contare l’uno sull’altro e fare comunità è una questione vitale e della massima urgenza.

ENG Argentinian filmmaker, visual artist, and dancer Melisa Zulberti challenges stereotypes with her multi-modal, socially aware work. Born in 1989, Zulberti is known for her site-specific performative installations, a mix of scenic arts, visual arts, industrial design, and technology. These installations are a dwelling for motion, and add to the dramatic and kinetic capabilities of the art. Posguerra is a reflection on time created specifically for the 2024 Venice Dance Biennale. Its protagonists are nine dancers who float mid-air and are surrounded by a set of CCTV cameras: a daring, surprising audio-visual ecosystem. Posguerra is, in the words of its creator, “a place with no day, night, past, or future.”

fisica della danza
Photo Joe Ekonen
Photo Domolky Daniel

La natura morta dell’uomo

Viviamo in un’era digitale. «Quando diciamo di aver perso il legame con la Natura, stiamo dicendo di aver perso il legame con noi stessi». La frase del fotografo paesaggista Andy Goldsworthy risuona come un leitmotiv in Still Life, nuova opera del coreografo e regista norvegese Alan Lucien Øyen, dominata dal teatro, dalla danza, dalla poesia e dalla bellezza. Il 23 e il 24 luglio al Teatro elle Tese davanti a un paesaggio dipinto, i danzatori Daniel Proietto e Mirai Moriyama, interpretano armonicamente danza contemporanea occidentale e butoh, un particolare movimento di danza contemporanea giapponese. Attraverso un’intensa meditazione sulla distanza sempre crescente tra il mondo e le persone che lo abitano, Still Life scava nella mente umana alla ricerca di immagini capaci di raccontare il rapporto che l’uomo ha con sé stesso, con gli altri e con la natura che lo circonda. Alan Lucien Øyen fa da sempre della fusione tra il corpo e la parola il proprio tratto distintivo, lavorando con le forme di danza e teatro senza soluzioni di stile, una fusione che segna anche questo spettacolo. Daniel Proietto, collaboratore di lunga data, è affiancato da Mirai Moriyama, ballerino e attore meno conosciuto in Europa ma di alto profilo in Giappone.

Vestiti semplicemente con pantaloni neri, top nudo e capelli legati indietro, si muovono in modi stimolanti ed eloquenti, sostenendo il messaggio che essere umani significa essere tutt’uno con la natura. Il rapporto tra i due si manifesta in modo più forte nei duetti a stretto contatto in cui i corpi si muovono seguendo lo stesso ritmo. Il titolo, Still Life, è meglio inteso come “natura morta” e si riferisce all’atteggiamento umano sprezzante nei confronti del mondo naturale che viene sconvolto e gradatamente distrutto dai disastri causati dall’uomo.

Katia Amoroso

ENG “When we say we lost contact with Nature, we are saying we lost contact with ourselves.” A quote of landscape photographer Andy Goldsworthy sounds like the leitmotiv of Still Life, the latest installation by Norwegian choreographer and filmmaker Alan Lucien Øyen. On July 23 and 24, dancers Daniel Proietto and Mirai Moriyama will perform in front of a painted landscape in a blend of modern western style and butoh, a contemporary Japanese dance. Still Life digs into the human mind to look for images that can visualize man’s relationship with himself, with other, and with nature. The stillness in the title acknowledges the cavalier attitude humans have towards the natural world, perturbed and destroyed by man-made catastrophes.

The perfect loop

Cosa accadrebbe se l’intelligenza artificiale partecipasse alla creazione di una coreografia? Nel solco di una delle tematiche più attuali di questa ultima edizione firmata Wayne McGregor, Nicole Seiler risponde a questa domanda, fugando ogni dubbio con il suo Human in the Loop, in prima nazionale. Figura apicale della danza svizzera contemporanea, coreografa, fondatrice nel 2002 dell’omonima compagnia a Losanna, Nicole Seiler attraverso la propria ricerca ha realizzato progetti innovativi e originali in una moltitudine di forme: coreografie, video e film, performance e installazioni coreografiche, spesso site-specific, che coinvolgono attivamente lo spettatore nell’interpretazione. Artista affascinata dall’interfaccia tra corpo, nuove tecnologie, robotica e apprendimento artificiale, con la sua ultima creazione varca il confine tra umano e artificiale per esplorare il corpo tecnologico e quello biologico. In Human in the Loop l’IA viene sottoposta ad uno “stress test” per essere introdotta nel processo creativo: ogni mattina, dei computer posizionati a lato del palcoscenico scrivono, sulla base di input precedentemente inseriti, una nuova coreografia, per dettarla quella stessa sera attraverso cuffie bluetooth ai danzatori in scena che ne eseguono le istruzioni, creando uno spettacolo sempre diverso. Un vero laboratorio visuale in cui il processo artistico si svela agli occhi del pubblico, testimone delle potenziali connessioni tra esseri umani e IA. Tra macchine e corpi, Nicole Seiler getta uno sguardo ironico e anticonformista sulle relazioni di potere e mette in discussione la nostra libertà di individui all’interno di una struttura oppressiva, subdola e spesso assurdamente governata da algoritmi. C.S.

ENG What would happen if A.I. contributed to choreography? Nicole Seiler replies to this question with her work Human in the Loop. A prominent figure of modern dance in Switzerland, Seiler founded her company in Lausanne in 2002. Her research resulted in innovative, original projects in the form of dance, video, film, performance, installation – all actively involving the audience in their interpretation. The artist is fascinated by the interfaces between bodies, new technologies, robotics, and machine learning. Human in the Loop submits AI to a stress test: every morning, computers generate a new piece of choreography, which is then fed to performers via Bluetooth earphones.

Photo Julie Masson
Photo Mats Bäcker

La lucha continúa

Guidata dalla carismatica figura di Rafael Palacio, allievo di Germaine Acogny e Irene Tassembedo, la compagnia afro-colombiana Sankofa Danzafro, per la prima volta in Italia, fa il suo debutto alla 18. Biennale Danza con Behind the South: Dances for Manuel, una creazione-omaggio allo scrittore colombiano Manuel Zapata Olivella (1920 – 2004) che si rifà alla sua opera più straordinaria, Changó, el gran putas, epico romanzo del 1983. Lo spettacolo riprende la struttura in cinque atti del romanzo e racconta in un susseguirsi di nascite miracolose, ribellioni e presagi; un tentativo di mantenere vivo il legame con la propria terra durante la dolorosa diaspora africana nelle Americhe.

Pensando a Medellín, non è la danza la prima cosa che viene alla mente. Proprio il difficile contesto sociale e politico della città e più in generale dell’intera Colombia ha spinto il maestro Rafael Palacio a forgiare una compagnia di danza contemporanea in grado di portare sotto i riflettori la discriminazione subita dagli afro-colombiani nel Paese, offrendo creazioni pubbliche che invitano, anzi richiedono, una profonda riflessione su equità e giustizia. La compagnia è impegnata su tutto il territorio nazionale con una serie di progetti a beneficio delle popolazioni afro-colombiane, tra laboratori di danza urbana giovanile ed altre iniziative ancora che mirano a fare della danza un mezzo di mobilitazione collettiva per perseguire il cambiamento sociale.

Sankofa giustappone dunque un’estetica potentissima ad un deciso approccio politico in una nuova forma di lotta artistica contro il razzismo e la disuguaglianza. Una danza carica di ritmo, trascinante, variopinta, ma soprattutto grondante di senso e di vita.

Nel sito della Compagnia si legge che Sankofa significa “tornare alla radice” e riflette una filosofia africana che invita a conoscere il passato per comprendere il presente e immaginare il futuro. Come si traduce questo nelle vostre coreografie e nei vostri progetti? Perché il vostro motto è “Bailamos, más que para ser vistos, ¡para ser escuchados!”?

Significa fare affidamento sulle conoscenze che le generazioni passate ci hanno tramandato per poter accedere alla nostra storia, a quei contesti politici e spirituali in cui si sono consumate tutte quelle lotte per l’esistenza e la resistenza che i nostri avi hanno dovuto affrontare. Questo ci permette di capire le vere ragioni che sottendono alle condizioni in cui ci troviamo a vivere, che ben restituiscono al contempo quali oppressioni ancora ci limitano e quali battaglie abbiamo vinto per poter progettare un futuro migliore per le nostre comunità, ma anche più estesamente per il mondo tutto che ci circonda. “Bailar para ser escuchados” significa avere il diritto di esprimere una voce autonoma che può, usando la danza, pretendere giustizia cognitiva ed equità sociale. Pretendiamo un ascolto che vada al di là delle forme e che possa superare gli stereotipi di esotismo ed erotismo imposti ai corpi di persone nere feticizzati come tali quando danzano. In questo modo la narrazione del corpo, il corpo che scrive quella danza, è letta ed ascoltata senza traduzione ma con un proprio discorso politico che pretende giustizia e compensazione.

Behind the South: Dances for Manuel rende omaggio a Manuel Zapata Olivella e alla sua opera più celebre, Changó, el gran putas, per la cui definizione l’autore coniò il termine “Realismo Mitico”. Come si inserisce quest’opera nel vostro percorso, e quale la genesi e lo sviluppo dello spettacolo? Per noi trarre ispirazione dalla cultura afrocentrica è

SANKOFA DANZAFRO Behind the South: Dances for Manuel 24, 25 luglio Teatro Piccolo Arsenale
Intervista Rafael Palacio | Sankofa Danzafro
Behind the South - Photo Marcela Gomez

essenziale, ci permette di celebrare e onorare le nostre radici e la nostra identità. Per festeggiare la nascita di Manuel Zapata Olivella abbiamo deciso di creare uno spettacolo di danza ispirato dai suoi scritti, che svelano l’origine della diaspora africana nelle Americhe e il processo di emancipazione aiutato dagli Orisha. Questo spettacolo incarna il coraggio del Muntu e ci ricorda che perseguire l’unità e il benessere collettivo sono la vera strada da percorrere per evolvere in positivo le nostre esistenze.

L’ispirazione per il nostro lavoro nasce principalmente dallo studio approfondito del libro di Zapata Olivella, ma anche dalla vita personale di ciascuno degli artisti della nostra compagnia. Abbiamo esplorato come l’epica delle storie di Manuel risuonasse nelle esperienze nostre personali, familiari, comunitarie, e abbiamo cercato modi individuali e collettivi per interpretare queste storie sul palco.

Cos’è la traccia vitale del “Muntu” su cui Behind the South ci invita a riflettere? Può spiegare meglio questo concetto al pubblico italiano?

Stando alla maledizione di Changó, il Muntu arriverà all’emancipazione e alla libertà solo tramite uno sforzo collettivo e a strategie comuni per combattere l’oppressione. Sottolinea l’importanza per un individuo di considerare di vitale importanza non solo il proprio benessere, ma anche quello degli altri; una giusta incarnazione dello spirito del Muntu. Questa filosofia dal Sud del mondo offre un messaggio cruciale a tutti noi, chiedendoci di fare nostro un senso di umanità che sembra svanire sempre più repentinamente di giorno in giorno. Un principio profondo che merita attenzione e comprensione globali: ci esorta a unirci e a nutrire un mondo dove il benessere e la liberazione comuni siano al primo posto.

Pretendiamo un ascolto che vada al di là delle forme e che possa superare gli stereotipi di esotismo ed erotismo imposti ai corpi di persone nere feticizzati come tali quando danzano

Struggle ENG continues

Guided by charismatic Rafael Palacio, Afro-Colombian dance company Sankofa Danzafro will be in Italy for the first time to participate in the 2024 Venice Dance Biennale with Behind the South: Dances for Manuel, an homage to Colombian author Manuel Zapata Olivella (1920 –2004) that took inspiration from Zapata Olivella’s Changó, el gran putas, an epic novel published in 1983. The show follows the five acts of the novel in trying to keep alive any existing bond with native countries during the painful African diaspora in the Americas.

Sankofa Danzafro works all around Colombia with charity projects in favour of Afro-Colombian people, from urban dance workshops for youths to educational initiatives that promote cultural change. Their powerful aesthetics blends with a strongly political approach in a new form of art struggle against racism and inequality. Their dance is full of rhythm, irresistible, diverse, and especially, it is meaningful.

In your company’s website, there’s a note on the name Sankofa meaning ‘back to one’s roots’, a nod to an African philosophy that invites us to get to know the past to understand the present and imagine the future. How can this philosophy translate into your choreography and your projects? And why is your slogan “Bailamos, más que para ser vistos, ¡para ser escuchados!”?

It means to rely on previous knowledge inherited by past generations to be able to know one’s own history, those political and spiritual contexts, and the struggles of existence and resistance that those who are now our ancestors had to face. This allows us to understand the reason for the current situation in which we live, what oppressions still limit us and what battles we have won to be able to plan better futures for our community, including the world around us.

Dancing to be heard refers to having the right to express a self-referential voice that is capable, through dance, of demand -

biennaledanza

WE HUMANS SANKOFA DANZAFRO

Lei è stato allievo di Germaine Acogny, grande artista che abbiamo avuto il piacere di intervistare quando le venne assegnato il Leone d’Oro alla Carriera dalla Biennale Danza nel 2021. Quanto hanno influito i suoi insegnamenti nel suo percorso artistico?

Mama Germaine è stata la figura centrale che mi ha fatto avvicinare alla danza afrocontemporanea. L’ho conosciuta a Bogotá e mi ha ispirato così tanto che l’ho seguita fino a Tolosa per seguire il suo laboratorio estivo. Da lì, lei mi ha mandato da Irene Tassembedo, che è diventata la mia principale maestra. Queste due straordinarie donne mi hanno insegnato non solo la danza in sé, ma anche la profonda filosofia che soggiace alla danza africana, sia tradizionale che moderna. Questa formazione mi ha permesso di tornare in Colombia e di sviluppare la mia interpretazione personale di danza ispirata dall’Africa.

Con Mama Germaine come fonte primaria di ispirazione spero di mostrare al pubblico la varietà e la dignità insite nella danza della diaspora africana. Questa è solo una delle ricche epistemologie originarie dell’Africa che arricchiscono la nostra comprensione globale offrendo un punto di vista unico e profondo sulla danza e sull’identità culturale.

La ciudad de los otros, La mentira complaciente, Fecha límite, fino a quest’ultima vostra opera ora presentata alla Biennale. I vostri lavori sono connotati e attraversati da tematiche di bruciante attualità, tra cui discriminazioni etniche, diseguaglianze sociali, razzismo, decolonialismo, diaspora, resi -

stenza della cultura afrodiscendente… Con quale contesto sociale vi confrontate a Medellín e quali sono gli obiettivi che la Compagnia persegue, anche attraverso processi comunitari come SankofaMiUniversidad ?

Per noi la danza – forma d’arte cui dedichiamo tutti noi stessi –riflette inevitabilmente le sfide specifiche che affrontiamo in quanto individui ascritti a una razza qui a Medellín e più estesamente in tutta la Colombia. In questi luoghi essere parte di una minoranza implica una continua lotta per accedere a spazi che spesso ci sono negati, patendo le conseguenze derivanti da una scarsa rappresentazione politica a livello statale e legale. Da qui l’importanza di essere sentiti e vissuti attraverso le forme di danza che abbiamo ereditato e che dinamicamente conserviamo. Tramite la danza ci facciamo agente di trasformazione sociale, pretendendo i cambiamenti necessari che ci permetteranno di avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di tutti al fine di perseguire uno sviluppo culturale e sociale che coincida con la nostra prospettiva.

SankofaMiUniversidad è un’iniziativa di istruzione nata dalla necessità di onorare ed elevare la nostra conoscenza dandole la collocazione che merita nella società e nel mondo accademico. Serve a ricordare che non siamo solo oggetti di studio, ma soggetti attivi di conoscenza e di diritto. Il nostro continuo impegnarci nei territori con le comunità che rappresentiamo assicura che l’idea e l’essenza di Sankofa non siano solo conservati, ma anche quotidianamente arricchiti di significato e di influenza attraverso le nostre attività artistiche, il che ci aiuta a mantenere vivo e ad ampliare incessantemente il nostro bagaglio culturale.

Behind the South - Photo Marcela Gomez

ing cognitive justice and social equity. We demand a listening that goes beyond form and that can break the stereotypes of exoticism and eroticism that are inflicted on racialized black bodies when dancing, so that the narrative of the body, the body writing those dances, is read and heard without translation but with our own political discourse that demands justice and reparation.

Behind the South: Dances for Manuel is an homage to Manuel Zapata Olivella and his most famous work, Changó, el gran putas, for whom the author coined the expression ‘mythological realism’. Where does this piece fit into your journey, and how was the show developed?

For us, drawing inspiration from Afro-centered knowledge is crucial – it allows us to cherish and honor our roots and identity. In celebration of Zapata Olivella’s birth, we chose to dance in his honor, creating a performance inspired by his writings that unveil the genesis of the African diaspora in the Americas and the emancipatory processes aided by the Orishas. This performance also embodies the courage of the Muntu, reminding us that unity and collective well-being are the paths to resolution. The inspiration for our work stemmed primarily from engaging deeply with Olivella’s book, but it was also influenced by the personal lives of each artist in our company. We explored how the epic narratives of Manuel’s story resonated with our own personal, family, and community experiences, seeking personal and collective ways to interpret these stories on stage.

What is the Muntu vital trace that Behind the South wants us to reflect on? Can you better explain this concept to your Italian audience?

According to the curse of Changó, the Muntu will achieve emancipation and freedom only through collective effort and communal strategies to combat oppression. It emphasizes the importance of an individual who considers not just their own well-being, but also that of others –a true embodiment of the Muntu spirit. This philosophy from the Global South offers a crucial message for the world: it calls us to work towards reclaiming a sense of humanity that increasingly appears to be fading. This is a profound principle that deserves global attention and understanding, urging us to unite and foster a world where communal welfare and liberation are at the forefront.

You studied with Germaine Acogny, a great artist whom we interviewed when she was awarded the Golden Lion for Lifetime Achievement at the Venice Dance Biennale. What will we see of Acogny’s teachings in what you do?

Mama Germaine was the pivotal figure who introduced me to Afro-contemporary dance. I first met her in Bogotá and was so inspired that I followed her to Toulouse to participate in her summer workshop. From there, she directed me to Irene Tassembedo, who became my primary instructor. Both of these mentors imparted not just their dance techniques but also the deep philosophy underlying traditional and contemporary African dance. This education has empowered me to return to Colombia and develop my own interpretation of African-based dance that honors our historical and cultural context without severing the vital connection to our African roots.

Having Mama Germaine as the root of my inspiration, I hope to showcase to the audience the diversity and dignity inherent in Afrodiasporic dance. This is just one of the many rich black epistemologies that enrich our global understanding, offering a unique and profound perspective on dance and cultural identity.

La ciudad de los otros, La mentira complaciente, Fecha límite, and now your current work. Your production seems to display and feature current issues and events: ethnic-based discrimination, social inequalities, racism, de-colonialism, diaspora, resistance of Afro-descended culture… What social context do you confront with in Medellín, and what are your goals you pursue as a Company in such community projects as SankofaMiUniversidad?

For us, dance – an art form we dedicate ourselves to – inevitably reflects life and the specific challenges we face as racialized individuals in Medellín and Colombia. Here, being part of a minority involves a constant struggle to access spaces that are often denied to us and dealing with scant political representation within the legal and state organizations. This reality underscores the importance of being heard through the dance forms we inherit and preserve. Through our dance, we enact social agency, demanding the necessary changes and transformations that will afford us equal rights and opportunities for social and cultural development based on our own perspectives.

SankofaMiUniversidad is an educational initiative born from the need to honor and elevate our knowledge, asserting its rightful place in society and academia. It serves as a reminder that we are not mere objects of study but active subjects of knowledge and rights. Our ongoing engagement with the communities we represent ensures that the concept and essence of Sankofa are not only preserved but also imbued with meaning and influence in our artistic endeavors, helping us to maintain and extend our cultural heritage.

Behind the South - Photo Marcela Gomez

Oltre il visibile

Nel 1984 un gruppo di studenti della Università delle Arti del Comune di Kyoto decise di scendere in campo per sperimentare nuove forme artistiche: video, pittura, scultura, musica, architettura, danza e recitazione, ma in assenza di parlato. Scrisse uno dei fondatori Teiji Furuhashi: «Avevamo molti dubbi sulla parola come principale forma di comunicazione umana, volevamo esplorare livelli di comunicazione più profondi». Negli anni ‘80 il Giappone stava diventando una delle maggiori potenze mondiali: secondo Paese per reddito pro capite, implementazione di alta tecnologia che ha portato a invenzioni come i treni ‘proiettili’ Shinkansen o gli studi sul treno a levitazione magnetica Maglev, il primato nel settore automobilistico, il tutto però in un contesto a forte rischio di totale apatia politica. Il gruppo adottò così il nome Dumb Type, proprio per rimarcare la superficialità della società giapponese nei confronti dei fattori umani e sociali.

Tra i fondatori anche Shiro Takatani, che presenta per Biennale Danza Tangent al Teatro Malibran il 25 e 26 luglio. «Spettacolo sulle zone liminari che sfida i limiti del percettibile», dove l’accento è posto non sull’immediatamente visibile, ma sull’intero paesaggio/spettro di stimoli visivi e sonori che riempie spesso in modo inconsapevole la nostra percezione.

Una raffinata studiosa della luce in scena, Cristina Grazioli, richiama Kandinskij e il suo Lo spirituale nell’arte, che contiene la riflessione sulla distinzione nell’esperienza del colore tra l’associazione visiva e l’effetto spirituale, dove la percezione cromatica risuona nell’anima. Il messaggio di Takatani è: non solo ciò che è visibile è presente. Ma con l’onesta consapevolezza di non sapere se «la performance è un vero e proprio sostituto della comunicazione reciproca». Di estremo interesse il film del regista Giulio Boato Shiro Takatani. Between nature and technology (2019) che ne immortala l’intero percorso artistico. Tra le sue recenti presenze a Venezia, ricordiamo quella alla 59. Biennale Arte nel 2022, dove Dumb Type ha rappresentato il Giappone con un’omonima installazione multimediale immersiva.

Il suo lavoro Time mi ha subito richiamato alla mente in modo netto il waka di Do¯gen intitolato Il rumore delle gocce di pioggia di Jingping, anche se lei in diverse interviste continua a prendere delle decise distanze dalla cultura tradizionale giapponese. Che ruolo ha giocato tutto questo nella sua formazione?

Da bambino mi piacevano le scienze. La poesia del monaco buddista Do¯gen, Kyo¯sei utekisei (“la voce delle gocce di pioggia”) che ha citato, mi sembra una spiegazione della meccanica quantistica.

Insegna il pensiero Zen in questo modo: il me che ascolta e le gocce di pioggia che vengono ascoltate non sono due cose separate. Poiché io ascolto, le gocce di pioggia emettono un suono, e poiché le gocce di pioggia emettono un suono, io ascolto. Possiamo udire solo ciò che vogliamo udire. Allo stesso modo, vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Da ragazzo non capivo il vero significato della cultura e della filosofia giapponese…

Walter Benjamin sosteneva che con la produzione iconica illimitata e il consumo di massa, il concetto di aura, la sensazione mistico-religiosa di un’opera d’arte, si perdeva irrimediabilmente. Eppure i suoi lavori sembrano volerla ricreare. Quale è il suo punto di vista su questo tema?

Non sto cercando di ricreare un “concetto di aura” o una “sensazione mistico-religiosa di un’opera d’arte”, ma qualcosa che vada oltre. Invero noi consumiamo molte più immagini di quanto Benjamin immaginava, e ognuno

Tangent - Photo Yoshikazu Inoue

di noi ne porta con sé tante nel proprio smartphone che non riusciamo nemmeno a vederle tutte.

Le sue performance sembrano nascere da esplorazioni installative per poi divenire rappresentazioni teatrali attraverso l’uso di media diversi, barre luminose, luci stroboscopiche, colori, testo, suono, immagini in movimento, l’architettura in scena… In che modo nasce una sua creazione? Com’è nata l’idea di Tangent ?

All’inizio ho cominciato a lavorare con la mia squadra di creativi a partire da un’idea del nostro produttore, una visione molto aperta e comprensiva. Ci disse che potevamo anche non creare un vero e proprio spettacolo, purché il risultato derivasse in qualche modo dal fare teatro. Nonostante all’epoca non avessi ben chiaro come si creasse una “performance”, ho accettato la sua offerta. Da allora per me il teatro è sempre uno studio sperimentale per il processo di creazione. Sul palcoscenico di Tangent le luci si muovono come se cercassero di copiare i movimenti del sole e gli altoparlanti sferici ruotano automaticamente. Quest’idea l’ho avuta fin dall’inizio: sia le luci che gli altoparlanti dovevano muoversi. Non deve essere un’esperienza virtuale bensì reale, questo è un principio fondamentale nel mio lavoro.

Oggi si parla molto, anche nell’arte, di intelligenza artificiale. Ne immagina un futuro utilizzo?

Per me l’intelligenza artificiale è ancora solo uno strumento per organizzare le informazioni. L’uso degli strumenti è importantissimo nel mio lavoro: sedie, scale, specchi... A differenza di questi, però, l’intelligenza artificiale è una scatola nera, almeno per me. Permette di digerire grandi quantità di dati e ottenere risultati, ma io ancora non la so usare.

Non deve essere un’esperienza virtuale bensì reale, questo

è un principio fondamentale nel mio lavoro

Beyond ENG the visible

In 1984 Kyoto, a group of students at the City University of Arts committed to experimenting with new forms of art: video, painting, sculpture, music, architecture, dance, and theatre, but with no use of spoken word. One of the founders, Teiji Furuhashi, remarked how they “doubted word as the main conveyor of human communication” and how they wanted to “explore deeper levels of communication.” In the 1980s, Japan was growing as a global powerhouse: ranking second in GDP per capita, high-tech industry everywhere, primacy in the automotive industry, though all within the context of political apathy risk. The group adopted the name Dumb Type to highlight the shallowness of Japanese society viz. human and social factors.

Another co-founder, Shiro Takatani, will present Tangent as part of the Venice Dance Biennale programme at Malibran Theatre on July 25 and 26. A “Show on liminal zones that challenges the limits of the perceivable” where the accent is not on the immediately visible, but on the whole landscape/spectrum of visual and sound stimuli.

Time reminded me immediately of Do¯gen waka Kyo¯sei utekisei, though in several interviews you distance yourself from traditional Japanese culture. What role did you play in your growth as an artist?

I was interested in science when I was a child. The Do¯gen waka (poem) Kyo¯sei utekisei that you gave as an example also sounds like an explanation of quantum mechanics to me now.

“Utekisei” means “voice of raindrops.”

It teaches Zen thought in this way: “The me who is listening and the raindrops being listened are not two separate items. Because I listen, the raindrops make a sound, and because the raindrops make a sound, I listen.”

We can only hear what we want to hear. Similarly, we can only see what we want to see. I didn’t understand the true meaning of Japanese culture and philosophy when I was young.

Extending along the waterfront on one of the most beautiful stretches of the Grand Canal, the splendid Gritti Terrace continues to be the social hub of Venice. Drop in from 12:30pm until 5:30pm for an informal lunch, an afternoon snack, or a glass of perfectly chilled bubbles immersed in a living canvas of the city’s extraordinary architectural wonders.

biennaledanza

WE HUMANS

SHIRO TAKATANI

Walter Benjamin maintained that unlimited iconographic production and mass consumption, the concept of aura, the mystical-religious feeling of art, would be lost forever. Yet, your art seems to try to recreate it. What is your point of view on this topic?

I am not trying to recreate such a ‘concept of aura’ or ‘mystical-religious feeling of art,’ but I’d rather want to see something beyond that.

In reality, we consume far more images than Benjamin imagined, and each of us carries so many images on our smartphones that we cannot see them all.

Your performances seem to grow on installation-like explorations, then turn into theatre shows. In your production, is there any ‘technical’ difference in design? The use of different media, light bars, strobe lights, colour, text, sound, motion pictures, on-stage architecture… How does your art come into being? Let’s take Tangent as an example: how was it born? What did the creative process behind it look like?

At first, I started making the work with my creative team based on the producer’s open-minded and understanding idea, who said

that even if it wasn’t in the form of a performance, it would be fine as long as it was created using theater. Although I had no clear idea about creating a ‘performance’ at that time, I accepted the producer’s proposal.

‘Theatre’ is always an experimental studio for me for the production process. On the stage of Tangent, the lights move like trying to copy the movement of the sun, and the spherical speakers rotate automatically. Moving the lighting equipment itself and moving the speaker itself was something I wanted to experiment with from the beginning, because it’s not a virtual experience, it’s a real experience. For me, creating a real experience in my work is most important.

There’s a lot of talk about AI, today, even in the art world. If your art was fed into a computer to create something similar, what elements, in your opinion, would surely be missing? Do you see a possible use of AI?

For me, I still only see AI as a tool for organizing information. Using tools is very important in my work. For example, chairs, ladders, mirrors, etc. are all nice tools. However, unlike those tools, AI is a black box for me. It allows you to input a large amount of various information and get the results. I still don’t know how to use it.

Tangent - Photo Yoshikazu Inoue

biennaledanza

WE HUMANS

La camera delle meraviglie Stereoptik, una storia d’amore tra arte, pittura e cinema

La compagnia francese Stereoptik presenta il 27 e il 28 luglio al Teatro del Parco di Mestre in una prima performance italiana uno spettacolo che è una fusione di cinema, pittura e musica e che prevede anche la partecipazione del pubblico. Antechamber di Stereoptik, formato nel 2008 dai musicisti e artisti visivi Romain Bermond e Jean-Baptiste Millet, mescola linguaggio animato, musicale e teatrale. Soggetto della storia è un uomo che in una foto della sua infanzia apparsa per caso nel caos del suo studio, ritrova la capacità di fantasticare. Eccolo così volare sopra l’Amazzonia, tuffarsi negli oceani più profondi, incontrare creature leggendarie e persino innamorarsi. Un viaggio nelle emozioni e nei pensieri tra proiezione sullo schermo, musica e disegno dal vivo. Un foglio, un carboncino, una chitarra: dalle mani degli artisti allo schermo, Antechamber immerge il pubblico nell’atto, spesso privato e solitario, della creazione. Questa produzione multiforme, che riunisce diversi attori culturali è un ulteriore passo nel lavoro della compagnia, che unisce le discipline e si rivolge al pubblico di tutte le culture ed età, oltre le parole, lasciando spazio all’immaginazione e alla poesia. I due artisti di Stereoptik, Romain Bermond e Jean-Baptiste Maillet, ampliano la loro ricerca artistica con la produzione di un cortometraggio che unisce animazione, stop-motion, pittura, teatro d’oggetti e musica. Lo spettacolo, oltre ad essere il making-of del film, permette al pubblico di scoprire il processo creativo della compagnia. Il pubblico viene infatti accompagnato dietro le quinte alla scoperta delle fasi di ricerca, dei bozzetti preparatori, dello storyboard e perfino delle installazioni realizzate con sovrapposizioni che svelano i principi dell’animazione, fotogramma per fotogramma o come creare un movimento usando sei o sette disegni. Un cinema in diretta, in cui la creazione stessa è già rappresentazione. Katia Amoroso

The chamber ENG of wonders

French company Stereoptik’s show is a fusion of cinema, painting, music, and audience participation. Antechamber’s subject is the story of a man who looks at a childhood picture of him, and because of that, he learns to play with fantasy again. We see him flying over the Amazon, diving into the deepest oceans, meeting legendary creatures, and even falling in love. The show is a journey into feelings and mind accompanied by projection art, music, and live drawing. A piece of paper, a charcoal pencil, a guitar: this might be all it takes to immerse ourselves into the act of creation, so often private and solitary. This multiform production is a step forward for Stereoptik. The company, founded in 2008 by Romain Bermond and Jean-Baptiste Maillet, widened the scope of their artistic research by adding short film to their portfolio, produced using animation, stop-motion animation, painting, still life theatre, and music. Antechamber is the making-of of the movie and will allow us to step right into their creative process.

STEREOPTIK Antechamber 27, 28 luglio Teatro del Parco-Mestre

Antechamber © STEREOPTIK

Il tempo dell’attesa

There Was Still Time è il titolo dello spettacolo che Chiara de’ Nobili e Alexander Miller presentano a Venezia il 30 e 31 luglio. Preciso il richiamo ad Aspettando Godot per uno sguardo a futuri possibili o alla loro assenza. Racconto danzato, così come annunciato dalla precisa scelta di campo della Compagnia, che unisce elementi di danza (urbana, contemporanea e breakdance) alla recitazione. «Le mie creazioni le immagino come dipinti che cambiano costantemente, come elementi di un puzzle» ebbe a dichiarare Chiara de’ Nobili. Inizia a ballare a quattro anni a Napoli, prima danza classica, poi danza contemporanea alla DanceHaus di Milano. Ma l’Italia le sta stretta e decide allora di trasferirsi in Israele, dove inizia a sperimentare nella coreografia. Va poi a Madrid, Montpellier, Baden e alla Palucca Hochschule di Dresda, fondata da Gret Palucca, compagna di avventura della grande Mary Wigman. Chiara l’abbiamo incontrata e ammirata a Venezia nel 2020 con Wrad, madrina Marie Chouinard, ma già l’anno prima aveva completato il suo percorso di coreografa con Biennale College. Non rinuncia a ballare, ma il suo amore è la coreografia. Sogna una barca in mezzo all’oceano. Nelle sue pièce è notevole l’attenzione alle mani e ai piedi, anche se noi abbiamo amato il suo sorriso e la sua naturale empatia. Durante la pandemia ha stretto un sodalizio con Alexander Miller, coreografo, tra i fondatori del gruppo The Saxonz nel 2013, forse il collettivo più importante di breakdance, invitato alle imminenti Olimpiadi 2024. Dalla sua fondazione Miller De Nobili ha già dato vita a molte opere: Momento, Pack, Don’t you dare, Labyrinth. Mi piace che in ogni loro presentazione indichino sempre “in collaboration with the dancers…”. Sentiamoli.

Lo spettacolo che presentate a Venezia, There Was Still Time, viene collegato ad Aspettando Godot di Beckett. Nella pièce del grande autore irlandese i gesti degli attori si susseguono essenziali e ripetitivi. Non così nella vostra produzione. Quale dunque il collegamento? Cosa si deve aspettare il pubblico?

Beckett ci ispira per i tratti, le modalità con cui affronta i temi dell’esistenzialismo combinati al dark humour Questi aspetti esistenziali alterano le nostre credenze: le persone non si aggrappano più all’idea di un salvatore o si considerano invincibili. Sono acutamente consci dei propri limiti nel vivere in un mondo che ricorda costantemente quanto siano costitutive queste restrizioni nel nostro abitare il tempo che ci è dato.

Il pubblico può attendersi emozioni di tutti i generi. I nostri personaggi colgono ogni occasione per giocare, battersi, amare e stuzzicarsi; tutto ciò per intrattenersi, ammazzare il tempo e combattere la solitudine data da un mondo troppo complicato. Queste idee riflettono anche le battaglie moderne contro la depressione, l’alienazione, la frammentazione – tutti temi che hanno grande risonanza in una società ossessionata dall’automiglioramento iper-accelerato e da un eccesso di individualismo. Noi uniamo questi temi con influenze delle moderne discipline di danza-teatro e tecniche di recitazione, creando quindi un linguaggio del movimento che combina accoppiamenti dinamici tra i gesti di ogni giorno e i movimenti astratti e virtuosistici della cultura hip-hop. La nostra produzione rispecchia allo stesso modo la bellezza e la difficoltà della vita moderna, che oscilla tra momenti di frenetica attività e altri di quiete, occasioni, quest’ultimi, per prendersi una salutare pausa in cui poter meglio riflettere.

Miller de' Nobili - Photo Carsten Beier

Ricordo un incontro ai Giardini della Biennale nel 2019 dove Chiara parlava di portare in scena le azioni di ogni giorno ma esplorando i limiti tra logico e illogico, tra realtà e irrealtà. Permane questa ricerca nella produzione attuale?

La tradizione del Teatro dell’Assurdo mi ha sempre ispirato dal momento in cui co-dirigo ogni spettacolo col mio socio Alexander Miller. Il prodotto su cui lavoriamo evolve costantemente e assume forme sempre nuove, quindi la nostra esplorazione di questi temi si è nel tempo approfondita. Oggi, così come peraltro in passato, continuiamo a giocare con personaggi che esistono al limite tra reale e surreale. Questi personaggi abitano realtà inventate e le loro emozioni sono molto più intense delle nostre, eppure sono veramente umani e vulnerabili. Lasciare più spazio a questa vulnerabilità è forse l’evoluzione più importante del nostro lavoro.

Il nostro obiettivo, oggi, è creare arte che rifletta la vita stessa. A entrambi piace l’assurdo e l’illogico e usare l’esagerazione come strumento per esplorare questi temi. L’azione in scena spesso sembra irrazionale, i dialoghi sono volutamente insensati e l’ordine degli eventi può sembrare arbitrario, con il nostro dark humour ad amplificare questi effetti. Però, benché il nostro interesse per l’assurdo non cambi, col tempo abbiamo capito meglio come collegare assurdità e umanità al fine di creare un’esperienza in cui il nostro pubblico possa effettivamente rispecchiarsi, riconoscersi, anziché rimanere in

Vogliamo collegare il collettivo e l’individuale, a volte passando per la durezza del mondo, altre volte offrendo un punto di vista di speranza, in modo da provare un po’ di conforto

The time ENG of expectation

Chiara de’ Nobili’s and Alexander Miller’s show, There Was Still Time, is scheduled for the coming 30 and 31 of July. A direct reference to Waiting for Godot and a look out to possible futures, or the absence thereof. A danced story, the way the Company sees it, that blends elements of dance (urban, modern, breakdance) and acting. We met Chiara once before, in 2020, when she participated in the Biennale with Wrad, the year after she completed her choreography residence at the Biennale College. In her work, her focus on hands and feet is apparent, though we loved her smile and her natural empathy, too. She met choreographer Alexander Miller during the pandemic. Miller is a co-founder of The Saxonz, arguably the most important breakdance collective. In a few short years, the two authored Momento, Pack, Don’t you dare, Labyrinth. I like how in each of their presentations, they spell out “in collaboration with the dancers…”

The show you will present in Venice, There Was Still Time, is linked to Beckett's work Waiting for Godot. In his play, the actors’ gestures are essential and repetitive. This is not the case in your production. So, what is the connection? What should the audience expect?

For us, Beckett is an inspiration as he emphasises aspects of existentialism that we find fascinating, often combined with a sense of dark humour. Those existential aspects mediate a shift of beliefs: people no longer hold onto the idea of a savior or think of themselves as invincible. They are acutely aware of their own limitations while living in a world that constantly reminds them of these restrictions. The audience can expect a rollercoaster of emotions. Our characters seize every opportunity to play, fight, love, and tease each other – all in an effort to entertain themselves, fight boredom, and escape the feeling of loneliness nurtured by an overwhelmingly complicated world. This also reflects contemporary struggles with depression, alienation, and fragmentation, themes that resonate deeply in a society obsessed with hyper-accelerated self-empowerment and excessive individualism. We blend the above-mentioned topics with influences from breaking, urban, and contemporary dance theatre while also incorporating acting techniques; thus creating a movement language that combines dynamic partnering with everyday gestures and the abstract, virtuosic movements of hip-hop culture. Our production equally mirrors the beauty and difficulties of contemporary life, oscillating between moments of frenetic activity and stillness, offering a chance to pause and reflect.

I remember a meeting at the Giardini della Biennale in 2019, where Chiara talked about bringing everyday actions to the stage, but exploring the limits between logical and illogical, between reality and unreality. Does this exploration continue in the current production?

The tradition of the Theatre of the Absurd has always been a significant inspiration for me, both back then and now, as I co-direct each choreographic work with my partner Alexander Miller. While the content we work on constantly

There was still time - Photo Patrick Schwarz

biennaledanza

WE HUMANS

MILLER DE NOBILI

una posizione di puro ascolto e di pura visione per quanto aperti, ironici, ma senza un concreto coinvolgimento.

Negli ultimi tre anni è impressionante la quantità di coreografie da voi realizzate. Trovano tutte una adeguata collocazione sul mercato? Quali sono le difficoltà per una compagnia di danza oggi e quali le differenze, se vi sono, di attenzione che avete avuto modo di riscontrare nei diversi Paesi europei in cui vi siete esibiti? La campagna di crowdfunding per la nuova produzione, Labyrinth, lanciata a febbraio scorso ha dato i risultati sperati? Il mercato della danza è saturato dal fatto che la domanda da parte del pubblico è molto inferiore alla gran quantità di lavori prodotti. Va da sé, quindi, che solo una parte di quanto viene creato ha modo poi di essere adeguatamente presentato. Come giovane compagnia è molto difficile andare in tour coi nostri lavori dopo il debutto. È anche sempre più difficile entrare in strutture e reti già esistenti. Di conseguenza, cerchiamo occasioni e format diversi per creare nuovi lavori. Concentrarci sui concorsi di coreografia ci ha aiutato a guadagnare riconoscimento a livello internazionale, soprattutto agli inizi. Andando avanti abbiamo capito meglio quali sono le vere sfide da affrontare nel lavorare in festival e teatri e abbiamo cercato di adattare a tal fine il nostro processo creativo. Il nostro ultimo lavoro There Was Still Time, ad esempio, ha una scenografia semplice, così che sia più facile portarlo in tournée. I finanziamenti sono un altro grosso problema. Ci sono pochi finanziamenti pubblici, e il fatto che nella nostra regione e altrove in Europa i governi virino verso il centrodestra rende difficile produrre i nostri lavori nelle dimensioni che desideriamo. Questa tendenza determina anche tagli a finanziamenti già esistenti e più controlli sui teatri. La danza, come tutte le arti, è vista come un lusso invece che una necessità, il che la rende particolarmente vulnerabile a queste mutazioni di visione delle politiche culturali. Nonostante tutti questi problemi siamo stati capaci di produrre molte cose negli ultimi tre anni grazie alla nostra ambizione, al tempo speso e alla nostra rete di finanziatori qui in Sassonia. Vorremmo fare tournée più ampie, ma intanto affiniamo i nostri metodi di distribuzione. Gestire la compagnia è un lavoro a tempo pieno. Lavorare con varie istituzioni in diversi paesi è stata un’esperienza unica. Ogni paese ci fa sentire a casa, ciascuno a suo modo, e la differenza più notevole la fa senz’altro il pubblico. È bellissimo confrontarsi con pubblici diversi, che arricchiscono il nostro lavoro con punti di vista che vengono da culture, tradizioni e strati sociali i più vari.

Il finanziamento collettivo per Labyrinth è nato in risposta alla diminuzione di finanziamenti da altre fonti. Nonostante fosse la prima volta che ci cimentavamo in un’esperienza di questo tipo, la campagna è stata un successo e abbiamo raggiunto gli obiettivi finanziari che ci eravamo posti. È stato molto stancante condurre questa attività di ricerca fondi tra una prova e l’altra, ma il tutto è stato ampiamente ripagato da una risposta a dir poco sorprendente. E rinfrancante aggiungerei. Tra i vari finanziatori vi erano sia nostri fan che persone completamente al di fuori del mondo della danza, che hanno visto il nostro lavoro e che si sono sentite così ispirate da decidere di offrirci un proprio concreto contributo. Siamo davvero molto grati di tutto questo speciale supporto.

Per Pack Maria Chiara ha lavorato con un gruppo di performer maschili in una struttura molto chiusa, unica donna a dirigere o coordinare sei uomini. Nel mondo della danza esistono ancora differenze di ruoli che interessano il genere?

Prima di tutto vorrei precisare che Pack non è ciò che sembra a prima vista. L’idea di Pack è nata ancora prima che io e Alexander cominciassimo a lavorare insieme. All’inizio, ancora quando stavamo cercando finanziamenti, Alexander voleva mettere in discussione gli stereotipi esistenti sugli uomini nel mondo della breakdance. Quando mi sono unita al progetto ci siamo concentrati sulla sensibilità, vulnerabilità, amore, giocosità, violenza, il tutto assieme ai danzatori con cui abbiamo lavorato. In definitiva intendevamo decostruire l’immagine, ancora preminente, dell’uomo come “sesso forte” per colmare almeno un po’ del divario che esiste tra i due sessi.

Nel mondo della danza, così come in molti altri ambienti, c’è ancora molto da fare per ottenere una vera, piena equità tra tutti i generi, binari e non-binari. In Germania, ad esempio, moltissimi teatri statali sono ancora prevalentemente diretti da uomini. Nel mondo indipendente tutto questo sta cambiando in modo assai più rapido. Nella struttura della nostra piccola compagnia io e Alexander condividiamo le stesse responsabilità e facciamo fronte comune sempre. All’inizio della nostra collaborazione era difficile, da fuori, riconoscere che le nostre posizioni erano effettivamente paritarie; ancora si fatica ad accettare che possano esistere collaborazioni alla pari e non gerarchiche. Tuttavia più andiamo avanti col nostro lavoro più le persone capiscono e rispettano il nostro modo di operare e i problemi in questa direzione vanno quindi progressivamente a diminuire.

Le guerre ci circondano, le violenze sono perlomeno sempre più visibili. Teatro e cinema restituiscono questa realtà drammatica senza mezzi termini. La danza segue la stessa direzione o c’è una tendenza a preservarsi quale “isola felice”? Una vostra riflessione in proposito.

Difficile ignorare il mondo anche nel circoscritto ambiente della danza. Tutte le nostre esperienze si riflettono in ciò che facciamo, a volte sottilmente, a volte in modo più audace. Non ogni creazione mostra un chiaro messaggio politico, ma tutte dovrebbero trasmettere qualcosa di significativo.

La nostra ultima produzione Labyrinth, ad esempio, è un lavoro sull’idea che i nostri sogni siano corrotti dalla realtà in cui viviamo, che li trasforma in incubi. In questo contesto affrontiamo problemi come la repressione politica, la devastazione della guerra e l’incapacità dei governi di difendere i diritti umani. Ma vogliamo anche mostrare sentimenti più intimi: amicizia, amore, dolore, paura. Vogliamo collegare il collettivo e l’individuale, a volte passando per la durezza del mondo, altre volte offrendo un punto di vista di speranza, in modo da provare un po’ di conforto.

Consideriamo un grande privilegio poter fare dell’arte una carriera e con questo privilegio viene la responsabilità di condividere dei contenuti importanti. Il nostro obiettivo è presentare opere che siano sia belle che interessanti, coinvolgenti, che rispecchino la complessità del mondo e incoraggino il pubblico a riflettere sulle proprie esperienze e su un contesto sociale più ampio.

evolves and takes on new forms, our exploration of these themes has only deepened. Today, much like in the past, we play with characters who exist on the edge of the real and the surreal. These characters inhabit fictional realities and experience emotions with an intensity far greater than ours, yet they remain profoundly human and vulnerable. Giving more space to this human vulnerability is perhaps the most significant evolution in our work. Nowadays, our focus is much more on creating pieces that reflect life itself. We are both fascinated by the absurd and the illogical, using exaggeration as a tool to explore these themes. The actions on stage often appear irrational; dialogues are deliberately nonsensical, and the sequence of events can seem arbitrary. We frequently incorporate dark humour to enhance this effect. While our interest in the absurd remains unchanged, we have gained a deeper understanding of how to connect absurdity with humanity to create an emotionally resonant experience for our audience, instead of remaining in the purely ironic position of uninvolved bystanders.

In the last three years, the amount of choreography you have created is impressive. Do all of them find an appropriate place in the market? What are the challenges for a dance company today, and what are the differences, if any, in attention across different European countries? Did the crowdfunding campaign for your new production, Labyrinth, launched last February, achieve the desired results?

The dance market is oversaturated with public demand being much smaller than the incredible number of works produced. Consequently, only a fraction of the works created gets the opportunity to be presented adequately. As a young company, it is extremely challenging to tour our work after the premiere. It has become increasingly harder to enter existing structures and networks. Therefore, we seek different opportunities and formats to create new works. Focusing on choreography competitions has helped us gain recognition on an international level, especially in the beginning of our career. As we progress, we better understand the challenges that festivals and theaters face and try to adapt our creation process accordingly. For example, our new creation, There Was Still Time, is designed without a big scenography to make it easier to tour.

Funding is another significant challenge. The shortage of public funding, together with the political shift toward right-wing governments in our region and across many European countries, makes it difficult to produce our work at our desired scale. This trend also leads to funding cuts and increased scrutiny of theater structures. Dance, like all arts, is often seen as a luxury rather than a necessity, making it vulnerable to such political changes.

Despite these challenges, we have been able to produce so much work in the last three years thanks to our ambition, the time invested in our company, and our network of regional financial supporters from Saxony. While we aspire to tour more extensively, we are still optimising our distribution methods. Managing and distributing our work as a small company is a full-time job in itself.

Collaborating with various institutions across different countries has been a unique experience. Each country makes us feel at home in different ways, and the most noticeable difference is the audience. It’s beautiful to engage with diverse audiences, enriching our work with perspectives from various cultures, traditions, and social backgrounds.

The crowdfunding campaign for Labyrinth was a direct response to the sudden decrease in expected funding. Despite it being our first time, the campaign was a success, and we managed to reach our

financial goals. Running the campaign in the middle of rehearsals was challenging and exhausting, but we were pleasantly surprised by the number of people who donated. Among the contributors were members of our small fan base and individuals outside the dance community who had seen our work and were inspired to support it. This abundance of support was incredibly gratifying.

For Pack, Maria Chiara worked with a group of male performers in a very closed structure, being the only woman directing or coordinating six men. Do role differences related to gender still exist in the world of dance?

Firstly, I would like to express that Pack is not what it might seem at first glance. The concept for Pack was developed before Alexander and I started working together. His original goal, when applying for funding, was to question and break the stereotypes connected to men in the breaking environment. Once I joined the project, together we increasingly focused on sensitivity, vulnerability, and love, as well as playfulness and violence, in collaboration with the dancers we worked with. Ultimately, we aimed to deconstruct the still prominent image of men as the stronger sex to help bridge the gap between genders a little more.

In the dance environment, as in many others, there is still a long way to go in order to achieve total equality among all genders, both binary and non-binary. For instance, in Germany, many state theatres are still predominantly directed by men. However, I believe that in the freelance world, this is changing more rapidly. Within our small company structure, Alexander and I share equal responsibilities, and we are both very eager to maintain a united front. At the beginning of our collaboration, it was harder for outsiders to recognise and acknowledge our equal positions; it still seems to be difficult for many people to accept equal partnerships and non-hierarchical collaborations. However, as we continue to work together, more people have come to understand and respect the way we operate, and such issues have decreased over time.

Wars surround us, and violence is increasingly visible. Theater and cinema portray the situation without mincing words. Does dance follow the same direction, or is there a tendency to preserve itself as a ‘happy island’? What are your thoughts on this?

It is hard to ignore the world we live in, even in the dance environment. All our experiences are reflected in our work, sometimes subtly, sometimes more boldly. Not every piece needs to convey a clear political message, but all works should transmit something meaningful.

For example, in our latest creation, Labyrinth, we explored the idea that dreams are poisoned by the reality we live in, transforming them into nightmares. In this context, we addressed issues like political repression, the devastation of wars and the failure of governments to defend human rights. But we also wanted to show their relation to intimate feelings of friendship, love, pain and fear. We aim to connect the collective and the individual, sometimes depicting the harshness of the world, and other times offering a more hopeful perspective on finding solace within it.

We consider it a great privilege to pursue a career in the arts, and with this privilege comes the responsibility to share relevant content. Our goal is to present work that is both beautiful and engaging, reflecting the complexity of the world and encouraging viewers to reflect on their own experiences and their broader societal context.

biennaledanza

WE HUMANS

La

lingua danzata

Nato nel 2019 dall’incontro dei coreografi e danzatori freelance Noemi Dalla Vecchia e Matteo Vignali, VIDAVÈ è il team coreografico che si aggiudica ex aequo con Miller De Nobili il bando nazionale per le nuove coreografie della 18. Biennale Danza. Folklore Dynamics, presentato al Festival in prima assoluta, si inserisce nel solco del progetto di ricerca di Dalla Vecchia e Vignali sulla Spoken Dance, un contenitore di sperimentazioni coreografiche che indagano possibili ibridazioni tra voce e corpo, tra linguaggio parlato e linguaggio di movimento, con drammaturgie ed estetiche originali. Di questa serie, avviata nel 2023, fanno già parte Stimmung, indagine del contenuto emotivo dell’essere umano attraverso l’utilizzo dello strumento corpo-voce, e Figure Coreografiche, che paragona alcune figure retoriche del linguaggio parlato a delle modalità di composizione coreografica nella danza, con l’intento di costruire un sistema personale per interpretare immagini, sensazioni ed emozioni, a partire da testi scritti. Con Folklore Dynamics VIDAVÈ scava nel passato pescando tra storie, proverbi, giochi, superstizioni e gesti provenienti da tradizioni diverse, per poi tradurli in forma di movimento. I cinque performer sul palco si ribellano a una voce omologante difendendo le proprie radici, costumi e valori, mettendo in scena un inno alla memoria e all’identità.

ENG Founded in 2019 by freelance choreographers and dancers Noemi Della Vecchia and Matteo Vignali, VIDAVÈ won, ex-aequo with Miller De Nobili, a national competition for new dance project at the 18th Dance Biennale. Folklore Dynamics, in world preview, is part of Della Vecchia’s and Vignali’s research project on spoken dance, a container of choreographic experimentations that investigate hybridization of voice and body, spoken and motion language. The series started in 2023 and includes Stimmung, an investigation on the emotional content of human beings using body/voice as a tool and instrument, and Figure Coreografiche, a comparison between spoken language figures of speech and compositional modalities of dance.

VIDAVÈ Folklore Dynamics

30, 31 luglio Teatro Piccolo Arsenale

Scatti di esistenza

Le confessioni di Benji Reid tra danza e fotografia

“Choreo-photolist”. È così che Benji Reid – classe 1966, inglese di Manchester – si definisce, con un termine che egli stesso ha coniato per riferirsi alla coesistenza di fotografia, coreografia, teatro e narrazione nella propria espressione artistica. Attivo sulla scena contemporanea fin dalla metà degli anni Ottanta come b-boy, Reid è stato pioniere del teatro hip-hop prima di diventare pluripremiato fotografo. Il suo lavoro, in tutte le sue declinazioni, esplora spesso quegli spazi in cui si intersecano razza, nazionalità e genere, con particolare attenzione alla blackness, alla salute mentale e alla paternità, intese come esperienze che riguardano, ma non definiscono univocamente, gli individui. Find Your Eyes è un lavoro del 2023 presentato al Manchester International Festival che arriva a Venezia in prima nazionale, in cui Reid mescola immagini afro-futuristiche con racconti di vita personale, esplorando vulnerabilità, tragedia e successo attraverso l’obiettivo del fotografo. C’è lui, in uno studio dove tre ballerini – Slate Hemedi, Salomé Pressac, Yvonne Smink – posano per la macchina fotografica, e due grandi schermi ai lati dove le sue foto appaiono nel momento in cui le scatta, estraendo “momenti fermi” dalla scena in movimento. «Quando scatto ritratti – dice la voce di Reid fuori campo – non mi interessa fotografare l’aspetto di qualcuno, ma quello che ha passato». Uno spettacolo «potente – come l’ha definito il Guardian – intriso di devastante onestà e meraviglia». E in effetti non si risparmia nulla, Reid, nella costruzione di questo lavoro che esplora il “dove sono stato in tutti questi anni”: dalla lotta con l’alcol al dolore per l’ictus della madre, dai problemi di salute mentale alla vergogna, al senso di colpa. Ma Find Your Eyes è anche una celebrazione dell’evoluzione, un viaggio per andare avanti, trovare respiro, abbracciare l’imperfezione della vita. Un lavoro sfidante, sotto molti punti di vista. Quello emotivo, innanzitutto, per la quantità di storia personale messa in campo: anche se Reid nei

Find Your Eyes - Photo Oluwatosin Daniju

propri lavori affronta spesso temi che lo riguardano da vicino, qui entra proprio nel personale, trasformando le proprie debolezze in una forma d’arte. Di metodo, perché in Find Your Eyes il palcoscenico diventa lo studio fotografico di Reid, mentre crea davanti al pubblico in tempo reale scatti in movimento di ascendenza hip hop: «volevo prendere la mia pratica artistica privata e renderla pubblica, aprendomi a un regno di vulnerabilità che non avevo mai attraversato prima», racconta. E temporale, infine, perché ci sono voluti più di due anni per elaborare la cornice concettuale esatta dove inscrivere Find Your Eyes, che è il culmine di una ricerca durata quasi sei anni. Find Your Eyes – uno spettacolo dove è lo stesso processo creativo a diventare performance – è un invito a vedere e un augurio di essere visti veramente.

Livia Sartori di Borgoricco

ENG In his own words, Benji Reid is a choreo-photolist, a blend of different arts: photography, choreography, theatre, and narration. On the modern art scene since the mid-1980s, Reid pioneered hip-hop theatre before he became an award-winning photographer. His work, whatever the discipline, explores those places where race, nationality, and gender intersect, with particular attention to blackness, mental health, and paternity. Find Your Eyes is a piece from 2023 that premiered at the Manchester International Festival in 2023 and is a mix of Afro-futuristic images and personal stories, an exploration of vulnerability, tragedy, and success through a camera lens. Find Your Eyes is also a celebration of evolution, a journey forward. It means finding one’s breath and embracing the imperfections of life. A challenging work, too: emotional, for the sheer amount of personal history that is poured into the art, and for its production: Reid creates in real time before an audience. “I wanted to take my private artmaking and make it public, opening myself to a kind of vulnerability I never experienced before.”

Processo a Medea

Ben Duke è direttore artistico e co-fondatore della compagnia Lost Dog. Forte di un background di studi letterari e teatrali all’Università di Newcastle e alla Guildford School of Acting, prima di approdare alla London Contemporary Dance School, Duke concilia questi tre aspetti della propria formazione sviluppando uno stile inimitabile di teatro-danza, aggiungendo ai classici “a touch of british” e unendo poesia e umorismo senza soluzione di continuità. È anche per questo che i Lost Dog occupano uno spazio originale nel panorama culturale, mescolando il pubblico e attingendo idee dal teatro, dalla danza, dalla commedia, dal circo e dalla narrazione in modo unico e meticcio. Ruination, spettacolo vincitore del National Dance Award come miglior nuova coreografia, racconta la storia di Medea – quella vera, non quella che pensate di conoscere: Medea è sotto processo negli Inferi per presunti crimini contro la sua famiglia. Le accuse contro di lei sono state avanzate dal suo ex marito ed ex eroe, Giasone, che arriva nel regno di Ade e Persefone chiedendo la custodia esclusiva dei figli. Subito si convoca una corte di giustizia: ci sono prove, testimoni e due versioni molto differenti della storia da ascoltare, quella di Giasone e quella di Medea. Coprodotto dal Royal Ballet di Londra, Ruination ha debuttato nel 2022 durante il periodo natalizio alla Royal Opera House, mentre sul palcoscenico principale la scena era tutta del classicismo Schiaccianoci. Nel Sottosopra, direbbero i fan di Stranger Things. «Qual è la cosa più lontana dal Natale alla quale posso pensare? – si è chiesto Duke – ho pensato a Medea, spinto da una sorta di spirito di contrarietà infantile. Poi ho ragionato sul fatto che Medea parla della morte di un bambino, mentre il Natale ne celebra la nascita, e allora tutto questo contrario ha iniziato ad avere un senso». Unendo danza, commedia, teatro e musica dal vivo, i Lost Dog portano sul palco la rivisitazione in chiave dark comedy di una delle più antiche storie di disfunzione familiare. Livia Sartori di Borgoricco

ENG Ben Duke is the art director and co-founder of Lost Dog Company, and the mind behind an inimitable style of dance-theatre with a touch of poetry and humour. This must be why Lost Dog have a place of their own in the cultural world, with a diverse audience who love the way they tap from theatre, dance, comedy, circus, and narration in their unique, original way. Ruination won the National Dance Award for original choreography, and it tells the story of Medea, but not the one you think you know – the real one. Medea is under trial in the underworld for crimes against her family…

BEN DUKE | LOST DOG

Ruination: The True Story of Medea 31 luglio, 1 agosto Teatro Malibran

BENJI REID Find Your Eyes
31 luglio, 1 agosto Teatro alle Tese, Arsenale
Ruination - Photo Camilla Greenwell

biennaledanza

WE HUMANS COLLEGE

Sulle orme dei giganti Carlson, Caprioli e McGregor i maestri del College

Punto di forza delle ultime tre edizioni guidate da Wayne McGregor, Biennale College Danza non smette di evolversi e affinarsi perseguendo l’obiettivo primario di mettere in contatto giovani talenti in erba con opportunità uniche di apprendimento, formazione, tutoraggio e progettazione a fianco di artisti di fama internazionale come Pite, Forsythe, Xie Xin, Teshigawara, Forti, lo stesso McGregor e altri. Anche quest’anno, sedici giovani danzatori provenienti da tutto il mondo e due giovani coreografi – selezionati tra le oltre 400 domande pervenute – hanno partecipato ad una residenza di tre mesi alla Biennale Danza, frequentando corsi, laboratori, repliche e, soprattutto, dando vita a nuovi progetti. Sofia Baglietto, Daniele Bracciale, Ekaterina Cheporova, Simone Cristofori, Somer February, Piera Gentile, Kannen Glanz, Elena Grimaldi, Ming Chin Hsieh, Rosanna Lindsey, Victoria Martino Troncoso, Francesco Polese, Zac Priestley, Iker Rodriguez Sainz, Alberto Serrano, Xavier Williams sono i danzatori che, insieme al Leone d’Oro Cristina Caprioli e al direttore Wayne McGregor, porteranno in scena due nuove creazioni. Gli allievi potranno immergersi nel lavoro di Caprioli e approfondire il processo di un’artista polimaterica attraverso la ricostruzione, la sperimentazione, la connessione sociale e, criticamente, attraverso la creazione di The Bench, progetto in divenire presentato con un’anteprima “informale” il 19 e il 21 luglio in Via Garibaldi. Per la sua nuova creazione, McGregor torna invece al fulcro del suo festival con We Humans are Movement. Eseguita dagli allievi

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del College a fianco dei danzatori dell’esclusiva Wayne McGregor Company, questa speciale commissione su larga scala debutta in chiusura di Festival il 2 e 3 agosto nella Sala Grande del Palazzo del Cinema, storico edificio modernista del Lido e sede della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Guidata dallo stesso Wayne McGregor, questa collaborazione ad alto impatto e ad alta tecnologia celebra il movimento che si trova nel cuore stesso del cinema, dell’architettura e dell’esperienza umana. Ma il College vanta quest’anno un’altra partecipazione straordinaria, con la masterclass di Carolyn Carlson, icona vivente della danza, artista visionaria intrinsecamente legata a Venezia e alla Biennale Danza fin dalla sua nascita, primo Leone d’Oro nel 2006.

Sul fronte della coreografia, infine, Recuerdo Número 7 e Dorotea Saykaly, sempre sotto la guida di Wayne McGregor e con i danzatori del College, presentano in anteprima mondiale due nuove creazioni, rispettivamente This Was Meant to Find You, che svela la bellezza dello scoprirsi perduti, e Lethe – A Search for the Waters of Oblivion, progetto artistico immersivo tra performance, danza e installazione che esplora il tema della crisi climatica attraverso l’oblio. C.S. ENG

The strong suit of the last three editions of the Venice Dance Biennale, directed by Wayne McGregor, is the Biennale College, a programme that allows young talents to come together and access learning tools, education, mentorship, and project support from established international artists such as Pite, Forsythe, Xie Xin, Teshigawara, Forti, McGregor himself, and others. This year, sixteen young fencers from all over the world and two choreographers – chosen from over 400 applicants – were admitted to a three-month residency in Venice. The two new shows produced at the College, The Bench and We Humans are Movement, will be staged on July 19 and 21 and on August 2 and 3, respectively.

BIENNALE COLLEGE DANZA
The Bench
21 luglio Via Garibaldi, Castello
Was Meant to Find You | Lethe 26, 28 luglio Arsenale
Humans are Movement
3 agosto Palazzo del Cinema, Lido
Photo Andrea Avezzù

EVERYWHERE ELSE YOU CAN JUST MEET PEOPLE.

THE COLOUR

Photo Christian Gaul
La mia grande ambizione è sempre stata aggiungere nuove domande al modo in cui pensiamo all’arte astratta. Unire arte e vita. Rio de Janeiro, il mio studio al giardino botanico, la natura esuberante, il Carnevale, i contrasti sociali e la bellezza eterna di questa città... Tutto ciò mi fa pensare in modo altro

Beatriz Milhazes (n. 1960), artista brasiliana nota per il suo lavoro che sovrappone l’immaginario culturale brasiliano e i riferimenti alla pittura modernista occidentale, presenta sette dipinti e altrettanti collage di grandi dimensioni all’interno del Padiglione delle Arti Applicate. Cresciuta sotto la dittatura militare brasiliana del 1964-‘85, Milhazes è salita alla ribalta negli anni ‘80 come parte di una nuova generazione di artisti che hanno preferito la pittura alle pratiche concettuali prevalenti nel decennio precedente. Molti di loro furono inclusi nella storica mostra del 1984 Como vai você, Geração 80? ( Come stai, generazione ‘80? ), che segnò un ritorno al colore e all’espressione pittorica. «Volevamo la libertà di poterci esprimere e di sviluppare il nostro linguaggio», dice l’artista. Questo non significa che fossero apolitici o privi di coscienza sociale: «Siamo stati criticati da persone che dicevano che il nostro lavoro era l’espressione di una “mente vuota”, ma in realtà era esattamente il contrario. Sono stata politica per tutta la vita, ma non sempre in modo evidente». Geração Oitenta (Generazione Ottanta), il termine generico spesso accostato a Milhazes e ai suoi coetanei, non era tanto un movimento quanto “un momento” che rifletteva l’ottimismo dell’epoca, mentre il regime militare iniziava a crollare e la democrazia brasiliana emergeva. L’artista era già stata a Venezia nel 2003, quando rappresentò il Brasile alla 50. Biennale Arte.

Il progetto del Padiglione delle Arti Applicate, quest’anno a cura di Adriano Pedrosa, è arrivato alla sua ottava edizione ed è frutto della collaborazione tra La Biennale e il Victoria and Albert Museum (V&A) di Londra.

The Brazilian artist Beatriz Milhazes (b. 1960), known for her work that overlays Brazilian cultural imagery with references to Western modernist painting, presents seven large paintings and seven collages at the Pavilion of Applied Arts. Raised under the Brazilian military dictatorship of 1964-‘85, Milhazes rose to prominence in the 1980s as part of a new generation of artists who preferred painting to the prevailing conceptual practices of the previous decade. Many of them were included in the historic 1984 exhibition Como vai você, Geração 80? (How Are You, 80s Generation? ), which marked a return to color and painterly expression. “We wanted the freedom to express ourselves and develop our own language,” says the artist. This does not mean they were apolitical or lacking in social consciousness: “We were criticized by people who said our work was the expression of an ‘empty mind,’ but in fact it was exactly the opposite. I have been political all my life, but not always in an apparent way.” Geração Oitenta (80s Generation), the generic term often associated with Milhazes and other artists of the same age, was not so much a movement as a moment that reflected the optimism of the time, as the military regime began to collapse and Brazilian democracy emerged. The artist had already been to Venice in 2003, when she represented Brazil at the 50th Biennale Arte. The project of the Pavilion of Applied Arts, curated this year by Adriano Pedrosa, is now at its eighth edition and is the result of collaboration between La Biennale and the Victoria and Albert Museum (V&A) in London.

Beatriz Milhazes

Padiglione Arti Applicate, Arsenale www.vam.ac.uk

di Mariachiara Marzari

arte

BEATRIZ MILHAZES PADIGLIONE ARTI APPLICATE

Generazione Ottanta: cosa ha significato per lei essere parte di quel ‘momento’ storico del Brasile e quanto ha influito nella sua arte?

Penso che la mia generazione abbia lasciato un’eredità importante al mondo dell’arte brasiliana. Io ho studiato comunicazione e giornalismo, poi nel 1980 mi sono iscritta alla Scuola di Arti Visive di Parque Lage per un corso estivo. Ho studiato lì fino al 1983, quando assieme ad altri giovani artisti ho aperto il mio primo studio. Questa nostra generazione è maturata negli anni della dittatura militare. Ai tempi la Scuola era un luogo quasi di resistenza. Insegnanti come Luiz Áquila, Charles Watson, Ronaldo Macedo, John Nicholson, Celeida Tostes erano tutti artisti e avevano fatto della scuola il loro studio, un punto d’incontro che dava a noi studenti la possibilità di scambiare idee e fare amicizia. Siamo amici ancora adesso. Charles Watson è stato il mio insegnante principale e nonostante fosse straniero, appena arrivato dalla Scozia, lui capì cosa volevo portare avanti, quale linguaggio volessi usare nella pittura. Come ricerca di materiale raccoglievo stoffe da costumi di carnevale e Watson mi ha aiutato a capire la possibilità plastica di quanto avevo davanti fin dagli inizi della costruzione del mio linguaggio artistico. Il programma, alla Scuola, era stato sviluppato da insegnanti artisti. Era un programma vivo e basato sulla pratica. Era molto importante, durante questo periodo buio e difficile della storia del Brasile, che l’arte e la cultura mantenessero viva la loro tensione. Non era una piattaforma organizzata la nostra, ma un modo di lasciare un segno: siamo qui e non ci fermiamo, continuiamo a credere nella cultura e nell’educazione artistica. Nel 1984, un anno prima che finisse la dittatura, una mostra dal titolo Como vai você, Geração 80 (lett. Come va, Generazione Ottanta?), con opere di 123 artisti da tutto il Brasile, venne prodotta a Parque Lage e quest’anno ne celebreremo il quarantesimo anniversario. Che evento! Una grande istanza di libertà: finalmente potevamo pensare, esprimerci e tornare alla normalità!

Le sue opere sono il frutto di un processo lento ma costante. Quale il ruolo e il significato che lei attribuisce al tempo? La pittura è sempre stata al centro della mia crescita come artista. Questo mio processo è frutto di un’evoluzione continua. Mi sento di essere una scienziata che introduce nuovi elementi e nuove domande, oltre a quelle che già ci sono e che ci interrogano tutti ogni giorno, per provocare una reazione a catena in grado di creare una nuova plasticità, in un incessante moto di rinnovamento vitale, proprio come accade in natura. Il tempo è elemento cruciale della mia pratica. Sono un artista che fa accadere tutto nello studio. Bisogna ascoltare ciò che si crea, c’è sempre un dialogo tra artista e opera. Durante la pandemia ho cominciato a usare un nuovo metodo in studio, con bozze preparatorie per i dipinti. Questo mi ha permesso di pensare visivamente a tutte le possibilità compositive prima di lavorare su tela. È un processo che apre delle porte: disegnare è un po’ come scrivere, si sperimenta con diverse composizioni – composizioni di forme e colori. L’opera, non importa in quale tecnica venga realizzata, matura secondo tempi suoi e un buon risultato viene solo dopo una relazione rispettosa.

Quali sono secondo lei i fondamentali del Modernismo? Libertà di espressione e soggettività sono gli elementi che più mi attraggono del Modernismo. Il fatto che lasci porte aperte al pensiero

e alla visione. Il Modernismo brasiliano e europeo hanno influenzato molto il mio lavoro, in particolare le figure di Tarsila do Amoral e Henri Matisse, ma anche di Piet Mondrian più tardi. Il concetto fondamentale del Modernismo brasiliano, parliamo degli anni ‘30, vale a dire di lasciarsi permeare dal proprio contesto e di pensare alla pittura, nonché la storia stessa dell’arte mi hanno motivato fin dall’inizio nel mio lavoro. Mia madre è stata insegnante di storia dell’arte alla Statale di Rio, quindi la storia è sempre stata parte della mia istruzione. La mia grande ambizione è sempre stata aggiungere nuove domande al modo in cui pensiamo all’arte astratta. Unire arte e vita. Rio de Janeiro, il mio studio al giardino botanico, la natura esuberante e sempre in trasformazione, gli eventi culturali come il Carnevale, i contrasti sociali e la bellezza eterna di questa città… Tutto ciò mi fa pensare in modo altro.

L’America Latina e l’Europa. Origini e mescolanza culturale sono un elemento fondamentale del Brasile e di conseguenza del suo linguaggio artistico. Come questo tratto è divenuto l’elemento fondante della sua arte e come al contempo la sua arte è stata capace di tradurlo in linguaggio estetico personale e unico, grazie anche ad uno sguardo allargato verso le arti applicate, il lavoro femminile e la cosiddetta “arte popolare”?

Sono un’artista e vengo dai tropici. Il contesto in cui sono cresciuta, in cui vivo e in cui lavoro, mi fanno pensare in modo diverso. Le mie fonti vanno dal Modernismo al barocco, dalla arte popular alla cultura pop, alla moda, alla gioielleria, alla storia dell’arte propriamente detta, e poi ancora natura, architettura, astrazione... Sono un’artista che rispetta il lavoro fatto a mano. Tutti i tipi diversi di arte che richiedono una lavorazione a mano mi motivano. Penso di aver introdotto qualcosa di nuovo nell’arte astratta internazionale sperimentando con la libertà di mescolare le cose in un ordine diverso. Ho usato strumenti geometrici per organizzare la mia immaginazione e ho creato un sistema di idee improntato al rigore, alla bellezza e al piacere. Un sogno matematico. Il mondo dell’arte mi ha sostenuto, ma ci è voluto tempo prima di essere riconosciuta come artista. Ho toccato argomenti molto scomodi; e poi sono una donna, per di più del Sudamerica. Ma non bisogna avere paura delle sfide e io credo fermamente nel potere dell’arte e nelle capacità umane.

Per bilanciare i suoi colori non utilizza la teoria del colore o formule speciali, ma si affida all’intuizione. Lei ha affermato: «Non temo il colore». Quale la sua ricerca in questo senso? Le combinazioni di colori sono l’essenza del mio lavoro. Se non sento che la costruzione del colore è pronta per me il dipinto semplicemente non è finito. Le mie opere, poi, offrono uno spirito vivo, ritmico, un’armonia di movimento che dà una sensazione di vertigine. La combinazione di colori ne è responsabile: dipende da come si scelgono, da come si proporzionano tra di loro. Hai un colore, ne aggiungi un altro: c’è un conflitto. Mi interessa questo conflitto, è un conflitto sano. Non c’è un vincitore e un perdente, c’è un contrasto. In ciò che faccio le combinazioni di colori si sono evolute di pari passo con la mia lingua e a seconda della tecnica usata. Nei dipinti sono passata dalla melanconia degli anni ‘90 a forti contrasti pulsanti negli anni Duemila, con quel vibrante incrocio tra arte ottica e geometrie vive e con quel dialogo poetico tra pop art e storia dell’arte. Nell’ultimo de-

cennio i colori hanno rivisitato passate configurazioni e aggiunto una presenza cosmica, spirituale. La pittura è una tecnica, ma il colore è potenza naturale, potenza infinita, potenza di vita.

Nel 2003 è stata selezionata per rappresentare il Brasile alla 50. Biennale Arte di Venezia. Cosa ha rappresentato per lei quell’esperienza e che significato assume oggi la sua presenza qui a distanza di più di vent’anni da quella partecipazione? Rappresentare il Brasile è stato un punto di svolta nella mia carriera e direi anche nella mia pratica. C’erano opere di Rosángela Rennó nella prima galleria del Padiglione e le mie erano nella galleria principale. La stanza era dipinta di giallo per i miei otto dipinti. Il curatore era Alfons Hug. È tutto andato meglio di quanto potessi sperare: gente da tutto il mondo, insieme, nello stesso momento. Una cosa intensa e un bel riscontro per il mio lavoro. Mi ha dato una prospettiva nuova. Quest’anno direi che la mia partecipazione è un dono. La prima cosa è festeggiare Adriano Pedrosa come curatore della Biennale. È un momento storico, dal momento che Pedrosa è il primo curatore a non venire dall’Europa o dal Nordamerica. Essere stata scelta da lui mi rende ancora più entusiasta di partecipare. E poi l’aver sviluppato con lui un progetto speciale per il Padiglione delle Arti Applicate, una collaborazione tra La Biennale e il Victoria & Albert Museum, uno dei miei musei preferiti; le arti applicate sono state un’importante fonte di ispirazione e di ricerca per il mio lavoro.

Geração Oitenta (1980s Generation): what did it mean for you to be part of that historical ‘moment’ in Brazil and how did it influence your art?

I believe that my generation built an important legacy for Brazilian art. I have a degree in Social Communication and Journalism, and in 1980 I entered the Escola de Artes Visuais do Parque Lage, for a summer course. I continued my studies there until 1983, when I started, together with other young artists, my first studio. This generation came of age during the Military Dictatorship. At that time, the School functioned almost as an act of resistance. Teachers such as Luiz Áquila, Charles Watson, Ronaldo Macedo, John Nicholson, Celeida Tostes were all artists and made their studios out of the art school space. It was a meeting point that provided us students with a very rich exchange as well as a space to build strong friendships that last to these days. Charles Watson was my main teacher and despite being a newly arrived foreigner from Scotland, he understood what I wanted to bring to my language development in painting. I selected fabrics from Carnival and popular festivals costumes as fine arts materials research, and his conceptual provocations were essential in this process. He helped me understand the plastic possibilities at the beginning of my language formation. The program of the art school was developed by the teachers/ artists. It was quite vivid and based on practice. It was very important during this dry and dark period of Brazilian time that

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

arte

BEATRIZ MILHAZES PADIGLIONE ARTI APPLICATE

art and cultural life would keep their existence alive. It was not an organized platform but a way to make a statement, we are here, we are not going to stop, we continue to believe in culture and art education. In 1984, one year before the end of the Dictatorship, an exhibition called Como vai você, Geração 80 (lit. How are you, Generation 80 ), with works by 123 young artists from all over the country, took place at Escola de Artes Visuais do Parque Lage (EAV - Parque Lage). It will be its 40th anniversary this year. It was a kind of happening, a great call for freedom! We were finally able to think, express ourselves, and had our life routine normalized!

Your works are the result of a slow but steady process; what role and significance do you attribute to time?

Painting has been the center of my development as an artist. My process is about evolution. I feel like a scientist, introducing new elements and questions to the existing ones that provoke a chain reaction, which will evolve to a new plasticity, renewing its existence. That’s what nature does. Time is crucial for my studio practice. For the kind of artist I am, whatever is going to happen will happen in the studio. You need to listen to the art you make, there is always a dialogue between the artist and the work. During the pandemic, I introduced a new method to my studio practice and started to work with preparatory drawings for my compositions. That allowed me to think visually about all the possibilities for the composition before going to the canvas itself. It opens an interesting door for the process. To draw is a kind of writing, you can experiment with the composition, forms, and colors. The work, no matter the chosen medium, has its own time, its own understanding, and a good result will come after a respectful relationship.

What are the fundamentals of modernism according to you?

Freedom of expression and subjectivity are the fundamentals I admire in modernism. It opens doors to thoughts and visuality. Brazilian and European modernism were strong references for my work in the figures of Tarsila do Amaral and Henri Matisse, and later Piet Mondrian. The main concept of Brazilian modernism, which came about in the thirties, of letting oneself be permeated by context, to think about painting and the history of art, motivated me to be an artist since very early. My mother is a former art history teacher at Rio de Janeiro State University, so history was part of my education at home. My great ambition has always been to add new questions to the thinking of abstract art. Unite painting and life. Rio de Janeiro, my studio in Jardim Botânico, the exuberant and always renewed nature, cultural events such as Carnival, the social contrasts, and the eternal beauty of this city, make me think differently.

Latin America and Europe. Origins and cultural blending are fundamental elements of Brazil and consequently of its artistic language. How has this trait become the founding element of your art, and how, at the same time, has your art translated it into a personal and unique aesthetic language, also through a broadened perspective towards applied arts, women’s work, and the so-called ‘folk art’?

I’m an artist from the Tropics and the context I grew up, live, and work in makes me think differently. Sources range from modernism to the baroque, from the so called arte popular to pop culture, from fashion to jewelry, from the very history of art to nature, from

architecture to abstraction. I’m an artist engaged with handmade practice. All different kinds of art that require the hands of a human motivate me. That spirit, that structure. I think I introduced something new into abstract art, experimenting with the freedom of mixing things in a different order. Using geometry tools, I was able to organize my imagination (Iwona Blaswick). I created a conceptual system that is also about rigor, beauty, and pleasure. A mathematical dream. I’ve been receiving good support from the art world, but it has been long and challenging to be recognized as a serious artist. I have touched ‘dangerous’ subjects as a painter, and on top of it, I am a woman, and from South America. I have no fear, though, and I believe in the power of art and the power of human beings.

To balance your colors, you don’t rely on color theory or special formulas but rather on intuition. You have stated: ‘I don’t fear color.’ What is your exploration in this regard?

Color combinations are the essence of my work. If I don’t feel that the color construction is ready, I cannot say that a painting is finished. My work also proposes a spirit of lively rhythm and harmony of movement creating something of a vertigo. The colour combination will make it happen, depending on the way you mix and select the proportion for each of them. If you have one color picked and add another one to it, you will start a conflict, and I’m interested in this conflict, it’s a healthy one, without losers or winners, they are just contrasting. Colour combinations in my compositions evolved according to the evolution of my language and also depending on the medium I’m working with. In my paintings, from a more melancholic feeling during the 1990s to strong pulsive contrasts in the 2000s, when it meets optical and hard geometry, passing through poetic dialogue with popular art and art history. For the last decade, colours have revisited some earlier configuration and added a more cosmic and spiritual presence. Painting is a medium, but color is a natural power, an infinite one. It’s about life.

In 2003, you were selected to represent Brazil at the 50th Venice Biennale. What did this opportunity mean to you, and what significance does your participation assume today, more than twenty years later?

To represent Brazil in the 50th Venice Biennale was a sort of turning point in my career and I would say my studio practice. Rosángela Rennó was the artist at the first gallery of the Brazilian Pavilion and I was in the main one. The room was painted in yellow, and I hung eight large paintings. The curator was Alfons Hug. Everything went beyond my expectations: people from all over the world, at the same time, same place… It was very intense and I had strong feedback about my work, which gave a different perspective to it. This year, I see my participation as a gift. First of all, it is an occasion to celebrate Adriano Pedrosa as the curator of the Biennale. It’s a historical moment, the first time that a non-European or American curator is nominated as the Biennale curator. To be chosen by him gives me one more reason to be excited about my participation. On top of it, we developed a Special Project for the Applied Arts Pavilion together, which is a collaboration between the Biennale and the Victoria and Albert Museum. The V&A is one of my favorite museums in the world, and my passion for applied art has been a strong source of research for my work. I hope the visitors will enjoy the exhibition!

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

arte

STRANIERI OVUNQUE ARTISTS

Urla del silenzio

Gabrielle Goliath, mormorii di protesta contro le disuguaglianze di genere

Giovane artista sudafricana, che vive a Johannesburg, Gabrielle Goliath è una delle rare artiste ad avere alla Biennale Arte 2024 una stanza tutta per sé nel Padiglione Centrale dei Giardini, protagonista della mostra Stranieri Ovunque curata da Adriano Pedrosa. Nella stanza tutto è blu, i video a sfondo blu sono appoggiati a terra, il visitatore è direttamente a contatto con i volti delle persone che mormorano, balbettano, si torcono le mani, tentano di leggere, ma la voce non esce, è solo un balbettio che fatica a prendere corpo e resta così, sospeso. Il progetto si intitola Personal Accounts, nato nel 2014 per parlare di disuguaglianze, violenza e oppressione. Sono testimonianze di persone di colore, trans, queer, non binarie, che nel drammatico mormorio non trovano nemmeno le parole per raccontare l’orrore delle violenze e dei traumi subiti. Viene sottolineata la politica della violenza di genere, sessuale e domestica, come atto di censura le parole sono cancellate, resta un infinito vuoto, un dialogo di assenze e cesure, dove praticamente si evidenzia chi può parlare e chi deve essere silenziato. Si può deglutire, schiarirsi la voce, sospirare, abbassare gli occhi. Resta, presente e possente, il corpo di queste persone a riempire lo schermo, in questo sfondo blu che enfatizza la bellezza delle immagini nella tragicità delle storie, che possiamo solo immaginare, poiché la cancellazione delle parole impedisce un vero racconto “vocale”. Una delle opere che compongono il progetto è un video del 2024 a quattro canali, There’s a river of birds in migration, tratto da una poesia scritta, composta ed eseguita per l’occasione dall’artista, attivista e madre della Casa dei Diamanti, Treyvone Moo. «C’è un fiume di uccelli in migrazione/ Una nazione di donne con le ali/ Un fiume di uccelli in migrazione/ Una nazione di madri che cantano». Assieme a Treyvone, vediamo Maneo, Sapphire e Hopewell, tutti condividono racconti personali sulla precarietà e la sopravvivenza dei trans a Johannesburg e in Sudafrica, dove la violenza anti-nero, anti-femmina, omofobica e transfobica è quotidiana e ovunque. Tuttavia, questi racconti personali superano le condizioni di negazione da cui vengono pronunciati, letti e cantati. Accanto al dolore, alla delusione, alle paure e alle perdite si affermano speranza, creatività, bellezza, comunità, poesia, desiderio, generosità, fede, transizione, amore e, forse in modo più enfatico, presenza. In un altro video, Deinde Falase, il giornalista televisivo nigeriano racconta la sua fuga in Sudafrica dal paese natale a seguito della legge del 2014 che proibiva i matrimoni e le relazioni tra persone dello stesso sesso, trovandosi poi nella stessa situazione dopo dieci anni come rifugiato senza alcun diritto.

Lago di Como è stato girato nella ricca e bella città italiana, un idillio di ricchezza, ville e bella vita, ma al contempo luogo di arrivo e partenza di migranti dal lavoro precario e dall’assenza di diritti, a cui le donne sono sempre maggiormente esposte, colpite soprattutto da violenze familiari. Ogni anno il Telefono Donna di Como registra più di 250 casi di violenza di genere e sessuale tra immigrate dall’Africa, Ucraina, Bangladesh, Albania. La violenza contrasta fortemente con la bellezza del luogo, il volto di Zohra e i libri di foto parlano con gli occhi della disperazione di queste donne. Irene Machetti

Silent ENG cries

Young South African artist Gabrielle Goliath is one of the few artists that has a room all of her own at the 2024 Venice Art Biennale. Her room is blue, and so is the background of her videos. Personal Accounts is the project she started working on in 2014, a collection of videos of people whispering, stuttering, wringing their hands, trying to read something but no voice comes out… they are testimonies of people of colour, trans, queer, non-binary, who cannot find the words to recount the horror of the violence and trauma they were subjected to. Lago di Como, another installation by Goliath, has been shot in the beautiful, wealthy Italian city –an idyll of villas and high life, though at the same time, a place where working migrants, especially women, suffer from domestic violence. Every year, local charities record over 250 cases of gendered violence and sexual assaults against immigrant women from Africa, Ukraine, Bangladesh, Albania.

STRANIERI OVUNQUE

FOREIGNERS EVERYWHERE

Gabrielle Goliath Personal Accounts

Padiglione Centrale, Giardini www.labiennale.org

Gabrielle Goliath, Personal Accounts, 2024
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

Spirito libero

Madge Gill e Giulia Andreani, un sorprendente omaggio

La Biennale Arte 2024 è costruita principalmente sulle diversità e sugli artisti outsider e il curatore Adriano Pedrosa nello scegliere le opere ha avuto il grande intuito di mettere in relazione due-tre artisti in ogni sala, così da creare un dialogo costruttivo e spesso intenso tra arte e vita dei vari autori.

Una delle stanze più coinvolgenti e meglio presentate è l’ultima del Padiglione Centrale ai Giardini, in cui le stupende tele di Giulia Andreani dialogano con il maestoso lavoro Crucifixion of the Soul del 1936 di Madge Gill, dieci metri di disegno intensissimo, eseguito su una tela sottile in sequenze di quattro colori a penna, rosso, blu, verde, nero, un intreccio quasi tessuto e ricamato su cui prevale il disegno di faccine femminili bianche, affilate, evanescenti e fantasmiche, forse lo spirito guida dell’artista inglese da lei chiamato Myrninerest. Vita complicata e drammatica la sua, una gotica sfilza di tragedie che hanno segnato l’artista: figlia illegittima in epoca vittoriana, messa all’età di nove anni in orfanotrofio dalla madre, spedita adolescente in Canada a lavorare come domestica, maltrattata al punto da voler tornare in Inghilterra, accolta dalla zia e obbligata a sposare il cugino, da cui ha tre figli, dei quali uno vittima dell’epidemia di Spagnola e una nata morta dopo un parto terribile che l’ha quasi uccisa e resa cieca da un occhio. La zia, medium, la inizia allo spiritismo e alle pratiche medianiche che le hanno poi permesso di sostenersi economicamente, molto più della sua pratica artistica, nonostante avesse esposto in importanti musei e gallerie. Nel 1920 Madge inizia a dipingere senza sosta le sue celebri tele infinite, ispirata da Myrninerest e dal proprio dolore da lenire, riempiendo di tratti e pattern labirintici e intriganti ogni millimetro quadrato a disposizione. Pittura allucinante, liberatoria, forse pazza, ma decisamente salvifica. Ed ecco l’incontro tra questa vita travagliata e questa arte aggrovigliata con la pittura raffinata e monocroma di Giulia Andreani, che tributa un omaggio meraviglioso a Madge Gill nel dipinto Pour elles toutes (Myrninerest) a lei dedicato, in cui la ritrae intenta a riempire di segni e colori un foglio arrotolato. L’immagine è presa, come Giulia Andreani fa di solito, da una foto dell’artista inglese. Dietro di lei lavorano donne intente a cucire, a ricamare, a creare calzature. Qui si vedono riuniti i temi del lavoro di Andreani, l’unica artista italiana vivente invitata a questa Biennale. Andreani è affascinata dal lavoro di Gill, la vede come una grande rappresentante dell’Art Brut, che raccoglieva artisti rifiutati, emarginati e incompresi (e non a caso esattamente dal lato opposto del Padiglione sono esposte le opere di Aloïse, l’altra artista che ha passato gran parte della sua vita in manicomio ed era riconosciuta da Dubuffet come l’unica donna che potesse rappresentare l’Art Brut), e anche come un’antesignana del femminismo. La pittura raffinatissima di Andreani racconta la vita del lavoro femminile del passato rapportandolo al presente, usando lo stesso colore, il grigio azzurro Payne, gelido e freddo, per trasformare i dipinti in foto d’epoca, proprio come quelle cui l’artista veneziana s’ispira. Ecco allora Le fanciulle laboriose intente a cucire e ricamare, nato da una foto di epoca fascista, o il grande acquarello La scuola di taglio e cucito in cui seduta in primo piano si vede Giulia Maramotti, la madre del fondatore di Max Mara, come in una foto di scuola che sbiadisce ai lati. Irene Machetti

Free ENG spirit

The 2024 Venice Art Biennale is all about diversity and outsider artists. Curator Adriano Pedrosa grouped artists in twos and threes in each room, so that their art could build some constructive, intense conversation. One of the most beautiful rooms, and one of the better presented, too, is the last one at Padiglione Centrale.

Giulia Andreani’s gorgeous canvases speak with Madge Gill’s majestic 1936 piece, Crucifixion of the Soul, a ten-metre-wide intense drawing on thin canvas made with four coloured pens: red, blue, green, and black. A cloth-like web giving life to white thin female faces, evanescent and tenuous, maybe a depiction of the artist’s guide spirit, which she calls Myrninerest. Madge Gill had quite the troubled life: an illegitimate child, her mother placed her in an orphanage at age nine. Troubled life and tangled art facing off the refined, monochrome creations by Giulia Andreani, who homages Gill with a painting, Pour elles toutes (Myrninerest), portraying her pouring signs and colours into a rolled-up piece of paper. The subject, as is usual for Andreani, comes from a photograph depicting Gill and several women behind her sewing e making shoes. Giulia Andreani is the only Italian artist participating in the 2024 Venice Art Biennale, and sees Madge Gill as a standard-bearer of art brut. It is no coincidence that the opposite side of the Pavilion houses art by Aloïse, an artist who spent most of her life in a psychiatric hospital and was recognized by Dubuffet as the only woman representing Art Brut.

STRANIERI OVUNQUE – FOREIGNERS EVERYWHERE Madge Gill | Giulia Andreani Padiglione Centrale, Giardini www.labiennale.org

Madge Gill, Crucifixion of the Soul, 1934 (part.) - London Borough of Newham Heritage and Archives
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda
Giulia Andreani, Pour elles toutes (Myrninerest), 2024 (part.)
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

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L CI PR IAN I

p re se nt s M ITICO, an ar ti sti c imm e r si o n w it h B E LM O N D, c ur at e d b y

GALLE R IA CO NTI N UA an d H E RVÉ M I K AE LO FF

DA N I E L B U R E N , S O S TA CO LO R ATA P E R H OT E L C I P R I A N I , L AVO R O i n s i t u , 2 02 3 F r om 4 A pr i l t o 3 0 S e pt e m b e

Fol low T he A r t Pat h

arte

STRANIERI OVUNQUE ARTISTS

La rivoluzione degli outsider

Louis Fratino, una ventata di colore e vita

Una delle sale più riuscite della mostra Stranieri Ovunque di Adriano Pedrosa nel Padiglione Centrale ai Giardini è quella dedicata a Filippo de Pisis e a Louis Fratino, tra i più giovani invitati a Venezia per la prima volta e nella lista della top ten degli artisti contemporanei più promettenti al mondo. Nato nel 1993 nel Maryland, inizia a dipingere fin da bambino, consumando risme di carta comprate dai genitori, ritaglia, colora, sperimenta. Si iscrive alla College of Art di Baltimora, studia design tessile e illustrazioni di libri per bambini, vince una borsa di studio che lo porta a Berlino per un anno, un periodo significativo per la sua formazione. Torna a New York, dove tuttora abita e lavora, inizia a pubblicare le sue opere su Instagram, viene notato da un gallerista che lo invita a esporre nel Lower East Side ed è subito fama. Un colpo di fortuna, certo, ma il suo modo unico di dipingere non è certo solo frutto della fortuna. Sono molte le sue fonti di ispirazione, dal Picasso monumentale e statuario alle stilizzazioni di Matisse, dalla scelta dei vivacissimi colori quasi fauve alla sfrontatezza delle immagini gay grandi, esplicite, che riempiono tutta la tela con corpi nudi intrecciati nel momento gioioso del sesso. All’inizio realizza opere piccole, tutte riempite dalle figure e da uno sfondo riconoscibile e delicato. In questo caso piccolo non vuol dire marginale o di poco valore, ma il piccolo formato è molto più intimo e privato ed invita ad avvicinarsi per osservare da vicino la scena. Fratino non dipinge dal vivo, ma attraverso foto, ricordi, altre mediazioni come i suoi taccuini su cui disegna incessantemente. Partendo dai suoi disegni, dalle foto prese col cellulare, dalle riviste, tutto quello che dipinge ha un sapore di immediatezza, di vitalità, di intimità. Dice di amare Picasso, e si vede, dice che gli piace la Scuola Romana, la tragicità di Lucian Freud e la potenza di Nicole Eisenman. Bisnonno molisano e fidanzato milanese, Fratino adora l’Italia il modo di vivere italiano, suoi motivi di grande ispirazione. Ama il sesso, che rappresenta con naturalezza e afferma che si pensa al sesso più spesso di quanto si dica e che gli risulta facile rappresentarlo nei suoi lavori, poiché dà un gran piacere in entrambi i casi! Vedere esposte le piccole tele di De Pisis accanto a quelle di Fratino ha un effetto dirompente. De Pisis ha dovuto andare a Parigi per trovare il coraggio di esprimere la sua omosessualità e la libertà di dipingere i giovani modelli nudi, con vicissitudini spesso drammatiche. In Fratino prevale una estrema libertà e la sua esplicita voglia di vivere è esplosiva! Irene Machetti

An outsider’s ENG revolution

One of the most amazing halls at Foreigners Everywhere, the main exhibition at the 2024 Venice Art Biennale, is dedicated to Filippo De Pisis and Louis Fratino, among the youngest artists exhibiting at the Biennale. Born in Maryland in 1993, Louis Fratino has been experimenting with art since childhood and got his formal education in Baltimore and Berlin. Now based in New York, an exhibition in the Lower East Side propelled him to international fame. His sources of inspiration range from the monumental Picasso to Matisse’s stylized figures, and explicate into the brightest, almost fauve-like colours and in the brazenness of large-scale gay-themed, explicit pictures, filling up the canvas with naked bodies in joyful sexual encounter. Fratino doesn’t paint live subjects, but uses photographs, memory, meditation, and sketches. Nevertheless, anything he paints has the character of immediacy, vitality, intimacy. He maintains he loves Picasso, and you can tell, as well as Lucian Freud’s tragic aesthetics and the power of Nicole Eisenman. To see De Pisis’ small pictures opposite Fratino’s large paintings is bewildering. De Pisis had to travel to Paris to be able to live freely as a gay man. In Fratino, we see freedom to the extreme, and explosive will to live.

STRANIERI OVUNQUE – FOREIGNERS EVERYWHERE

Louis Fratino

Padiglione Centrale, Giardini www.labiennale.org

Louis Fratino, installation view - Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

arte

STRANIERI OVUNQUE REVIEW

Foreigners Everywhere_Part 1

Difetto d’Identità

di Lucio Salvatore

Nel 2011 il Padiglione Italia della 54. Biennale Arte di Venezia, intitolato L’Arte non è Cosa Nostra, metteva in discussione la gerarchia di valori del sistema ‘mafioso’ dell’arte e la stessa figura del curatore della Biennale, che con le sue personali decisioni influenzerebbe la percezione globale sullo stato dell’arte contemporanea e le sue tendenze. In polemica con questo accentramento di potere, la scelta curatoriale fu di polverizzare i centri decisionali e coinvolgere 275 ‘intellettuali’ chiamati a selezionare altrettanti artisti.

Il mio personale ricordo della visita fu quello di un padiglione simile ad un magazzino di opere destinate alla televendita e sconfortante fu vedere i lavori presentati soffocare sotto l’ombra di un progetto politico di vertiginosa mappatura del territorio che, per far contenti molti, svalorizzava tutti.

Il tentativo di quel padiglione di correggere un difetto di identità, l’appartenenza o meno ad una determinata cricca, di presentare una produzione culturale più aperta e pluralista, una sorta di decolonialismo interno alla cultura italiana, a posteriori ed alla luce degli eventi degli ultimi dieci anni sembra essere stato precursore a livello nazionale dell’importante movimento di respiro internazionale che ha spinto i musei ad integrare le proprie collezioni con opere di artisti discendenti da culture e contesti non rappresentati al fine di correggere una realtà storica percepita come risultato di pregiudizi e strutturalmente ingiusta.

La mia sensazione è che Adriano Pedrosa abbia fatto sua questa tendenza rinunciando ad offrire una sua visione sullo stato dell’arte contemporanea, come è atteso da un curatore della Biennale di Venezia, concentrando gli sforzi narrativi per inscrivere il suo nome nella storia della Biennale come colui che l’ha corretta denunciandone l’eurocentrismo colpevole di aver snobbato artisti di valore, soprattutto modernisti, ignorati perché non occidentali. Per ricordare questo dato storico, in ogni biografia degli artisti in mostra viene puntualmente ricordato, quando è il caso, il fatto che l’opera è “esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia”. Rispetto all’esperienza italiana la mostra di Pedrosa non si definisce per un’equivalente e caotica pluralità di voci, distinguendosi per l’eleganza dell’allestimento che magistralmente ha reso godibile una pinacoteca così ricca di opere raccolte sotto il titolo Stranieri Ovunque, sicuramente la scelta più riuscita e il messaggio più potente di questa 60. Biennale Arte.

L’efficacia di questa combinazione di parole apre a cammini inter-

pretativi e significati diversi, a un luogo di incontri, punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo. La forza del titolo risalta tuttavia la corrispondente debolezza della narrativa costruitale intorno, vuota di contenuti che corrispondano ai propositi dichiarati. Emblematico è il gesto della doppia appropriazione che gli artisti Claire Fontaine ed il curatore Pedrosa celebrano e che manca fino ad oggi del coinvolgimento del collettivo anarchico torinese stesso, autore del titolo. La doppia appropriazione risulta essere un’operazione che prende dai subalterni, gli autori sconosciuti al pubblico che rimangono tali, senza un tentativo di restituire loro visibilità e rilevanza.

Mentre Claire Fontaine non va oltre la forza delle parole appropriate, svuotandole anzi di potenza nel linguaggio ormai alienato del neon colorato, lo sguardo rivolto al passato di Pedrosa crea un’assenza ingombrante, il compromesso con il presente in cui viviamo, dove i 127 milioni di rifugiati, raddoppiati negli ultimi dieci anni, vengono radicalmente ignorati nella mostra nonostante siano al centro della sua retorica.

Queste imperdonabili assenze, tuttavia, non diminuiscono l’importanza di questa mostra, necessaria a mio avviso più per la possibilità offerta al pubblico europeo di emanciparsi dalle proprie aspettative che per l’opportunità offerta agli artisti presentati di essere celebrati nel tempio dell’arte occidentale.

Identity ENG Defect

In 2011 the Italian Pavilion of the 54th Venice Biennale entitled Art is not Cosa Nostra questioned the hierarchy of values of the ‘mafia’ art system and the very figure of the curator of the Biennial who with his personal decisions would influence the global perception on the state of contemporary art and its trends. In controversy with this centralization of power, the curatorial choice was to pulverize the decision-making centers and involve 275 ‘intellectuals’ called to select as many artists.

My personal memory of the visit was that of a pavilion similar to a warehouse of works intended for teleshopping and it was disheartening to see the artworks presented suffocated under the shadow of a political project of dizzying mapping of the territory which, to keep many happy, devalued everyone.

The attempt of that pavilion to correct a ‘defect of identity’, the belonging or not to a certain clan, and present a more open and pluralistic cultural production, a sort of decolonialism internal to Italian culture, in retrospect and in light of the events of the years 10, seems to have been the precursor at a national level of the important international movement that pushed museums to integrate their collections with works by artists descending from unrepresented cultures and contexts, to correct a historical reality perceived as the result of prejudices and structurally unjust. My feeling, already from the short interview on February 2nd, is that Pedrosa has made this trend his own by renouncing to offer his vision on the state of contemporary art, as is expected from a curator of the Venice Biennale, concentrating his narrative efforts to inscribe his name in the own history of the Biennale as the one who corrected it by denouncing its Eurocentrism, guilty of having snubbed valuable artists, especially modernists, ignored because not Western. To remember this historical fact, in each biography of the artists on display it is promptly mentioned, when is the case, the fact that the work is ‘exhibited for the first time at the Venice Biennale’.

Compared to the Italian experience, Pedrosa’s exhibition does not have the plurality of voices, but it certainly stands out for the elegance of the setup which masterfully made so enjoyable a pinacoteca so rich in works collected under the title Foreigners Everywhere, certainly the most successful choice and the most powerful message of this 60th Biennial.

The effectiveness of this combination of words opens up different interpretative paths and meanings, to a place of encounters, a point of arrival and departure at the same time. The strength of the title, however, highlights the corresponding weakness of the narrative built around it, empty of contents that correspond to the declared purposes.

Emblematic is the gesture of double appropriation that the artists Claire Fontaine and the curator Pedrosa celebrate, and which to date lacks the involvement of the Turin based anarchist collective, author of the title. The double appropriation turns out to be an operation that takes from the subalterns, the authors unknown to the public who remain so, without an attempt to restore their visibility and relevance.

Rosa Elena Curruchich, Padiglione Centrale, Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

arte

La ridiscussione dei valori di un’arte contemporanea più inclusiva e la sua apertura a culture diverse è stato uno sforzo costante del ciclo di Biennali dell’era Baratta. In Palazzo Enciclopedico, per esempio, il fascino delle opere di Hilma af Klint oltre all’incanto in sé esercitato sul pubblico, hanno riscritto la storia dell’origine della pittura astratta occidentale precedentemente attribuita, per un pregiudizio di genere, a Kandinsky. La struggente ossessione visionaria di Arthur Bispo do Rosario, artista immenso rinchiuso per anni nella doppia prigione dello stigma della malattia mentale, mostrava come l’intenzionalità nel processo creativo fosse stata storicamente definita in maniera riduttivistica e miope da curatori, teorici e giudici dell’arte occidentale. Questi esempi significativi del cambiamento in corso in una prospettiva aperta sono emersi e si sono espressi sempre nel perimetro di un centro che ha concesso sì spazio alle proposte provenienti dalle periferie, ma immancabilmente valorizzandone i linguaggi in quanto compatibili con la piattaforma dell’arte contemporanea, il cui controllo è rimasto centralizzato nella fase di espansione geopolitica e finanziaria. Diverso il caso di questa Biennale curata da Adriano Pedrosa, la quale sfida direttamente sul piano ideologico l’egemonia culturale dell’arte contemporanea così com’è stata definita in Occidente, mettendo in discussione i suoi pregiudizi storici, i canoni universalisti che ne sono derivati, che in Stranieri Ovunque sono stati destituiti con grande decisione senza complessi, con l’arroganza necessaria per portare avanti una simile operazione. La rete di fondazioni, istituzioni, gallerie e collezionisti coinvolti a supporto del progetto del curatore brasiliano ha raggiunto un peso economico ed ideologico tale che non ha avuto bisogno del consenso e la benedizione del centro. Il sistema culturale eurocentrico, minacciato da un’emancipazione del Sud conquistata e non concessagli dall’alto, reagisce con la critica e la schiera dei suoi opinionisti, ancora legati alle gerarchie del loro piccolo mondo antico, che tentano di stigmatizzare la mostra definendola “folklorica”. Eppure, al di là della sua specifica cifra curatoriale, l’esistenza in sé e per sé della mostra Stranieri Ovunque restituisce in maniera eclatante con un repertorio alternativo un orizzonte indubitabilmente nuovo costituito da canoni e sistemi di valori altri. Attraversare l’Arsenale ed essere catturati dalle miniature di Rosa Elena Curruchich è un’esperienza che non ha bisogno di essere giudicata secondo i gusti dei membri di un club privato esclusivo e a numero chiuso; ha una dimensione propria che ha la stessa rilevanza dell’incontro con l’opera di Robert Rauschenberg, che a partire da un privilegio geopolitico è fiorita. Necessaria è la denuncia del sistema di attribuzione di valore nelle narrative della storia dell’arte contemporanea così come finora è stata raccontata, legato al potere di chi le ha raccontate, creato da pochi per pochi, oligarchie con conflitti di interesse enormi.

La speranza oggi è che questo riequilibrio in senso orizzontale non si riveli solamente una nuova breve avventura antropofagica di un mercato che ha sempre bisogno di novità e cambiamento, di rinnovate ideologie che giustifichino nuove sacche di speculazione.

And while Claire Fontaine does not go beyond the strength of the appropriate words, actually emptying them of power in the now alienated language of colored neon, Pedrosa’s gaze turned to the past creates a cumbersome absence, the compromise with the present in which we live, where the 127 millions of refugees, doubled in the last ten years, are radically ignored in the exhibition despite being at the center of its rhetoric. These unforgivable absences, however, do not diminish the importance of this exhibition, which in my opinion is necessary more for the possibility offered to the European public to emancipate themselves from their own expectations, than for the opportunity offered to the artists presented to be celebrated in the temple of Western art.

The rediscussion of the values of a more inclusive contemporary art and its openness to different cultures has been a constant effort of the cycle of Bienniali directed by Baratta.

In Palazzo Enciclopedico for example, the charm of Hilma af Klint’s works, in addition to the enchantment offered to the public, have rewritten the history of the origins of Western abstract painting previously attributed, due to gender prejudice, to Kandinsky.

The poignant visionary obsession of Arthur Bispo do Rosario, an immense artist locked up for years in the double prison of the stigma of mental illness, showed how intentionality in the creative process had historically been defined in a reductivist and short-sighted way by curators, theorists and judges of western art. These significant examples of ongoing change and openness have always emerged within the logic of a center that has conceded space to proposals coming from the periphery, ‘discovering’ and valorizing new languages compatible with the contemporary art platform, the control of which has remained centralized in the phase of geopolitical and financial expansion.

The case of Pedrosa’s biennial is different, as it directly challenges on an ideological level the cultural hegemony of contemporary art as it was invented in the West, questioning its historical prejudices, the universalist canons which in Foreigners Everywhere were dismissed without complexes and with the arrogance necessary for such an operation. The network of foundations, institutions, galleries and collectors involved in supporting the Brazilian curator’s project has reached such an economic and ideological weight that it did not need the consent and blessing of the centre. The Eurocentric cultural system, threatened by the emancipation of the South, conquered and not conceded, reacts with critic and commentators, still tied to the hierarchies of their small ancient world, who attempt to stigmatize the exhibition calling it folkloric. Beyond its particular aspects, the very existence of the Foreigners Everywhere exhibition presents in a striking way with an alternative repertoire, a possibility of diversity of canons and value systems. Crossing the Arsenal and being captured by Rosa Elena Curruchich’s miniatures is an experience that does not need to be judged according to the tastes of the members of an exclusive private club, it has its own dimension that has the same relevance as the encounter with the work of Robert Rauschenberg, which from a geopolitical privilege flourished. Necessary is denouncing the system of value attribution in the narratives of the history of contemporary art as it has been told so far, linked to the power of those who told them, created by the few for the few, oligarchies with enormous conflicts of interest. The hope is that this horizontal rebalancing does not turn out to be just a new short anthropophagic adventure of a market that is always in need of novelty and change, of renewed ideologies that justify new pockets of speculation.

arte

NATIONAL PARTICIPATIONS

GIARDINI

L’arte dell’estinzione

La “pinacoteca” al contrario di Gamarra Heshiki

La peruviana Sandra Gamarra Heshiki (Lima, 1972), prima artista straniera a rappresentare la Spagna alla Biennale, utilizza la pittura figurativa per sovvertire i meccanismi di rappresentazione, esposizione e commercializzazione dell’arte, riflettendo l’eredità del suo paese d’origine, in cui la cultura precolombiana, coloniale e occidentale si incontrano e si scontrano. Il progetto trasforma il Padiglione in una pinacoteca storica d’arte occidentale che mette al centro la nozione di “migrazione” nelle sue molteplici sfaccettature. Il concetto occidentale di pinacoteca, esportato nelle ex colonie, viene qui invertito, rendendo visibile una serie di narrazioni storicamente alterate o silenziate. Suddivise in cinque sale interne che conducono a un giardino esterno, le opere di Gamarra Heshiki combinando diversi elementi che richiamano la ferita coloniale aperta. La prima sala, Terra Vergine, ospita riproduzioni di paesaggi appartenenti a musei spagnoli, riferiti all’attuale territorio spagnolo e alle ex colonie dell’America Latina, delle Filippine e del Nord Africa. Su ogni dipinto sono sovrapposte citazioni di scrittori e pensatori ecofemministi. La successiva sala, Il Gabinetto dell’Estinzione, collega il colonialismo all’estrattivismo mostrando facsimili di tavole botaniche europee del XVIII e XIX secolo. Nel Gabinetto del Razzismo Illustrato Heshiki si spinge fino ad accostare il concetto di classificazione scientifica alla volontà dell’Occidente di imporre la propria superiorità a scapito del Sud Globale, mentre la sala intitolata Maschere Meticce approfondisce le pratiche coloniali della ritrattistica, concepite come capsule del tempo che cercano di immortalare norme politiche e sociali. Nella galleria centrale, Pala della Natura Moribonda, l’artista utilizza la natura morta come genere che sintetizza i temi delle sale precedenti, raffigurata in un grande polittico che rivela le nozioni di accumulo e ostentazione. Le cinque sale conducono infine al Giardino Migrante, abitato da rappresentazioni di piante aliene o invasive che alludono all’impatto dei colonizzatori sulle popolazioni indigene. Ma lo spazio esterno, ultima tappa di un viaggio simbolico che sembra preludere all’estinzione della civiltà, offre uno spiraglio di speranza: le piante alloctone hanno trovato un terreno in cui stare e l’alterazione degli ecosistemi può essere valutata e misurata in una prospettiva in cui tutte le specie coesistono in un’armonia priva di gerarchie. Marisa Santin

Art of ENG extinction

The Peruvian Sandra Gamarra Heshiki is the first foreign artist to represent Spain at the Biennale, with a project that addresses the consequences of Spanish colonization in Latin America, questioning its historical narrative methods. The project transforms the Pavilion into a historic gallery of Western art that centers on the notion of “migration” in its many facets. The Western concept of an art gallery, exported to the former colonies, is inverted here, showing a series of historically altered or silenced narratives. Divided into five rooms that lead to an outdoor garden, Gamarra Heshiki’s works combine various elements that evoke the open colonial wound. The exhibition combines figurative art with elements such as quotes from ecofeminist writers and thinkers, facsimiles of illustrations, and variations on classical paintings of still lifes. The five rooms finally lead to the Migrant Garden, inhabited by representations of alien or invasive plants that allude to the impact of colonizers on indigenous populations. But the final stage of this symbolic journey, that seems to foreshadow the extinction of civilization, offers a glimmer of hope: the non-native plants have found a place to thrive, and the alteration of ecosystems can be evaluated and measured from a perspective in which all species coexist in harmony without hierarchies.

SPAGNA Migrant Art Gallery Giardini

IG @spanish.pavillion.venice2024

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

arte

NATIONAL PARTICIPATIONS GIARDINI

Nel limbo del lavoro

Lo stile realistico e documentaristico di S ‚ erban Savu (1978) permea un impressionante polittico di oltre quaranta dipinti realizzati nell’arco di quindici anni, affiancato da modelli architettonici ornati di mosaici. La riflessione di Savu si concentra sulla alienante alternanza tra lavoro e riposo e sui ritmi imposti dagli obblighi imperanti di una produttività sempre più sconnessa rispetto alle necessità primarie, fisiche e mentali delle persone. Il senso di disorientamento dovuto ad una situazione di stallo politico o economico, che è la firma di molte opere di S ‚ erban Savu, si riflette sullo spaesamento e sul sentimento di nostalgia di casa associato al lavoro migratorio. L’artista mette dunque insieme una complessa iconografia del lavoro e del tempo libero, supportata da un’approfondita indagine sul realismo storico e le sue ideologie, nonché sull’arte di propaganda del blocco orientale. Invece di contestare o smantellare tali concetti, Savu li riorganizza evidenziando il carattere rivoluzionario dei lavoratori, uniti sia nelle aspirazioni politiche che nelle azioni di costruzione del futuro. Il progetto rumeno prosegue in città, nella New Gallery dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica, trasformata per l’occasione in un laboratorio per la manifattura di mosaici. Marisa Santin

ENG The realistic and documentary style of S ‚ erban Savu permeates a polyptych of more than forty paintings surrounded by an architectural structure decorated with mosaics. Savu’s reflection focuses on an alienating alternation between work and rest and on the rhythms imposed by the prevailing requirements of a productivity increasingly disconnected from the primary physical and mental needs of people. The sense of disorientation caused by a political or economic stalemate, which is the hallmark of many of S ‚ erban Savu’s works, reflects the displacement and homesickness associated with migratory labor. Instead of contesting the discourse, Savu highlights the revolutionary character of workers, united both in their political aspirations and in their actions of building the future. The project continues at the New Gallery of Romanian Institute for Culture and Humanistic Research, transformed for the occasion into a workshop for mosaic craftsmanship.

Il suono della memoria

Il regista, sceneggiatore e artista britannico John Akomfrah (1957, Londra) realizza una mostra dalla struttura aperta che, attraverso otto diverse opere multischermo, articolate in movimenti ispirati ai Cantos di Ezra Pound, esplora temi di vasto respiro come la memoria, la migrazione, l’ingiustizia razziale e il cambiamento climatico. Le installazioni di Akomfrah incarnano l’idea di “acustemologia” (unione di acustica ed epistemologia), con l’obiettivo di esaminare l’ascolto come attivismo e il suono come modalità di conoscenza. Lo spazio avvolge il visitatore in un’atmosfera surreale e onirica, innescata da un’installazione monumentale che intreccia nuovo materiale a immagini fisse, filmati, audio clip e testi provenienti da collezioni d’archivio e biblioteche internazionali. Nel mondo così creato la dimensione sonica diventa lo spazio/tempo in cui ‘ascoltare’ e interrogare le reliquie e i monumenti della storia coloniale, mentre l’acqua diviene un elemento centrale, un tessuto di connessione che tiene insieme le numerose e stratificate narrazioni. Akomfrah approfondisce così il ruolo dell’arte nella sua capacità di scrivere la storia in modi inaspettati, formando connessioni critiche e poetiche tra diverse geografie e periodi storici, a partire dalla suggestione del titolo, Listening All Night to the Rain, tratto da una riflessione sul carattere transitorio della vita del poeta cinese dell’XI secolo Su Dongpo. M.S.

ENG

The British director, screenwriter, and artist John Akomfrah creates an exhibition with an open structure that, through eight different multi-screen works, explores broad themes such as memory, migration, racial injustice, and climate change. His installations embody the idea of “acoustemology” (acoustics merged with epistemology), with the aim of examining sound as a mode of knowledge. The space immerses the visitor in a surreal and dreamlike atmosphere, triggered by a monumental installation that weaves together new material with still images, footage, audio clips, and texts from archive collections and international libraries. In Akomfrah’s world, the sonic dimension allows us to ‘listen to’ and interrogate the relics and monuments of colonial history, thus delving into the role of art in its ability to write history in unexpected ways and forming critical and poetic connections between different geographies and historical periods.

Listening All Night to the Rain venicebiennale.britishcouncil.org

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

In caso di attacco Il ‘karaoke’ sui generis del Padiglione polacco

Le regole di comportamento da adottare in caso di guerra variano a seconda del tipo di attacco e imparare la spietata lingua delle armi può fare la differenza tra la vita e la morte. L’installazione audiovisiva della Polonia prende la forma di un ‘karaoke’ fatto con i suoni della guerra in corso nella confinante Ucraina. I protagonisti di questa narrazione sui generis, creata dal collettivo Open Group, già curatore dello spazio ucraino alla Biennale del 2019 e quest’anno impegnato nel progetto polacco, sono dei rifugiati civili che raccontano l’esperienza della guerra attraverso i ricordi uditivi rimasti fissati nella loro mente come una tragica colonna sonora del trauma vissuto. Mentre scorrono i testi con le descrizioni di modelli di armi da fuoco, il pubblico è invitato a riprodurre rumori di spari, missili ed esplosioni. Inizialmente, il Padiglione avrebbe dovuto ospitare il progetto dell’artista Ignacy Czwartos (1966), in cui si ripercorrevano i tragici eventi del XX secolo e la posizione della Polonia stretta tra i due totalitarismi della Germania nazista e della Russia sovietica. Il cambio di Governo avvenuto alla fine dell’anno scorso ha portato ad una variazione di programma. Repeat After Me II arriva dunque a Venezia con già alle spalle una storia che parla da sé, ma, lungi dall’essere un mero ripiego, si rivela come uno dei progetti più interessanti di questa Biennale. L’attenzione si sposta sulla guerra in corso a pochi chilometri dal confine nazionale, raccontata come un’esperienza collettiva che prescinde dalle differenze di età, provenienza, status sociale e professionale, dando la voce a chi la guerra l’ha vissuta e concentrandosi sul modo personale di vivere la tragedia. L’installazione, che prosegue e amplia il lavoro originariamente completato nel 2022 dai tre membri attuali di Open Group, Yuriy Biley (1988), Pavlo Kovach (1987) e Anton Varga (1989), si ispira agli opuscoli del Ministero della Cultura e della Politica dell’Informazione ucraino, che suggeriscono ai cittadini come reagire a seconda della specifica arma usata negli attacchi. I tre artisti hanno dunque immaginato lo spazio come un luogo d’incontro in cui, pur in un ambiente sicuro, gli spettatori possono vivere l’esperienza della guerra e «acquisire conoscenze che un giorno potrebbero tornare utili». L’eco apocalittica di questo monito è amplificata sovrapponendo testimonianze riprese nel 2022 e nel 2024, che evidenziano il drammatico perseverare della memoria anche a distanza di tempo, e accostandole ad immagini che mostrano l’evolversi della tecnologia bellica. M.S.

Blast ENG waves

The rules of war vary depending on the type of attack, and learning the ruthless language of weapons can make the difference between life and death. The audiovisual installation from Poland takes the form of a ‘karaoke’ made with the sounds of the ongoing war in neighboring Ukraine. The protagonists of this unique narrative, created by the Ukrainian collective Open Group, are civilian refugees who recount their experience through the auditory memories etched in their minds as a tragic soundtrack of the trauma they have endured. As the lyrics describing firearm models scroll by, the audience is invited to reproduce the sounds of gunfire, missiles, and explosions. A few kilometers from the national border, a war is unfolding, narrated as a collective experience that transcends differences in age, origin, social status, and profession. The Pavilion transforms thus in a meeting place where, in a safe environment, spectators can nevertheless experience the reality of war and “acquire knowledge that may prove useful one day.” The apocalyptic echo of this warning is amplified by overlaying testimonies filmed in 2022 and 2024, highlighting the dramatic persistence of memory even over time, and juxtaposing them with images that depict the evolution of military technology.

POLONIA Reapeat After Me II IG @polishpavilionvenice

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Matteo de Mayda

arte

NATIONAL PARTICIPATIONS

ARSENALE

Io ballo da sola L’omaggio di Mounira Al Solh all’eredità culturale dei Fenici

Pur avendo inventato l’alfabeto, i Fenici, antenati degli odierni libanesi, hanno lasciato pochissime tracce scritte. Tuttavia, città come Biblo, Beirut, Sidone e Tiro testimoniano con le loro vestigia un passato glorioso. Da lì in poi la storia della Fenicia viene assorbita da quella delle civiltà che l’hanno dominata, dalla Grecia di Alessandro Magno all’Impero Romano, ma i miti di questo popolo dalla storia millenaria sopravvivono, in diverse varianti, nei racconti e nelle leggende arrivate fino a noi principalmente attraverso la mitologia greco-romana. Come il mito di Zeus, che su una spiaggia di Tiro prende la forma di un toro bianco per sedurre la bella principessa Europa e portarla con l’inganno fino alle coste di Creta, dove si unisce con lei. Rivisitando questo episodio, che affonda le radici nell’antica mitologia fenicia, Mounira Al Solh (1978, Beirut) accosta il presente e la leggenda in modo inaspettato, proponendo una lettura alternativa, o addirittura invertita, che richiede una sana distanza critica e una buona dose di umorismo. L’installazione si sviluppa attorno ad una barca che simboleggia il viaggio verso l’uguaglianza di genere e l’empowerment: la sua struttura incompiuta indica che il viaggio non è ancora del tutto ultimato. I visitatori si muovono fra dipinti e opere grafiche che promuovono il superamento di norme sociali limitanti per le donne, mentre le maschere incarnano le forze conservatrici che frenano il raggiungimento di una vera emancipazione femminile. Attraverso l’esempio della principessa fenicia Europa, che l’artista salva infine dalla sua condizione, Mounira Al Solh utilizza il mito per esprimersi sul destino imposto alle donne e sulla loro capacità di resilienza, rendendo al contempo omaggio alla ricchezza di questo patrimonio culturale plurimillenario e sempre vivo. La ricerca di Europa, alla quale l’artista ci invita a partecipare, contribuisce al compimento di un destino femminile liberato dagli dei, che si traduce, ai giorni nostri, in un percorso per il raggiungimento di una condizione di equilibrio tra ruoli nella direzione di una compiuta parità di genere. Marisa Santin LIBANO

I dance ENG alone

On a beach in Tyre, Zeus takes the form of a white bull to seduce the beautiful princess Europa and deceitfully carry her to Crete shores, where he unites with her. Revisiting the mythology of the ancient Phoenicians, Mounira Al Solh (Beirut, 1978) connects the present to the legend in an unexpected way, proposing an alternative or even inverted interpretation that allows for critical distance and humour. The installation unfolds within an immersive environment, built around a boat representing gender equality, an unfinished structure embodying the ongoing journey towards empowerment. Visitors move among paintings and graphic works that mark social norms still limiting women’s freedom today, and masks symbolizing the conservative forces hindering the achievement of true female emancipation. Through the example of the Phoenician princess Europa, whom the artist ultimately rescues from her plight, Mounira Al Solh uses myth to comment on the fate imposed on women and their capacity for resilience, while also paying tribute to the richness of this millennia-old and ever-living cultural heritage. The exploration of Europa’s myth, which the artist invites us to take part in, contributes to the fulfillment of a female destiny freed from gods’ interference, which in modern times translates into a journey towards gender balance and equality. Utilizing mythology to comment on the fate imposed on women and their capacity for resilience, Mounira Al Solh also pays tribute to the richness of Lebanese millennia-old and ever-living cultural heritage.

A Dance with Her Myth www.lebanesepavilionvenice.com

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

Utopia possibile

Quasi completamente privi di contatti con l’esterno, gli abitanti di Pala, l’isola immaginata da Aldous Huxley nel suo celebre romanzo, hanno tentato di realizzare un progetto di società ideale, basata sull’ampliamento della consapevolezza e sulla fusione armonica con la natura. Partendo dalla riflessione filosofica di Huxley e dalla sua lucida descrizione di una realtà utopica ma comunque possibile, lo spazio delle Seychelles alle Sale d’Armi presenta le opere di quattro artisti locali che attraverso differenti media intrecciano narrazioni attorno a temi di identità nazionale, culturale e sociale. Nelle sue opere a tecnica mista su tela, Jude Ally sviluppa il concetto di alienazione, evidenziando il modo in cui gli individui rimangono spesso bloccati in uno stato di sospensione a causa delle numerose e rapide transizioni della società. I video su pannelli multistrato di Ryan Chetty celebrano la ricchezza multietnica e multiculturale delle Seychelles trasmettendo un messaggio di gratitudine verso la nazione e il suo popolo. Danielle Freakley invita i visitatori a partecipare ad una performance vocale, registrando su nastro conversazioni attorno alla parte sommersa dell’arcipelago. Infine, l’installazione video-scultorea di Juliette Zelime (alias JADEZ), con le sue surreali amache, esplora l’ideologia associata al viaggio e alla migrazione. M.S. ENG Almost completely devoid of external contact, the inhabitants of Pala, the island imagined by Aldous Huxley in his famous novel, have attempted to create a project for an ideal society, based on the expansion of awareness and harmonious fusion with nature. Starting from Huxley’s philosophical reflection and his clear depiction of a utopian yet still possible reality, the Seychelles space at the Sale d’Armi presents the works of four local artists who intertwine narratives through different media around themes of national, cultural, and social identity. From reflections on individual alienation in society (Jude Ally) to a homage to the country’s rich multi-ethnic and multicultural diversity (Ryan Chetty), from new modes of communication engaging the audience firsthand (Danielle Freakley) to exploring the ideology of travel and migration (Juliette Zelime, aka JADEZ), Pala offers a multifaceted and forward-thinking vision of contemporary Seychelles.

Natura umana

Ogni foresta è liminale, persino una foresta che cresce nel centro di una città. Come una lente che mette in evidenza la resilienza della natura, l’installazione dell’artista singaporiano Robert Zhao Renhui (1983) offre una suggestiva esplorazione delle foreste secondarie, rigenerate da terreni precedentemente deforestati per far spazio allo sviluppo urbano o a coltivazioni intensive. Nella sua pratica, Zhao esplora le complesse relazioni tra natura e cultura, lavorando con installazioni, fotografia, video e scultura e adottando un approccio interdisciplinare per costruire narrazioni stratificate del mondo naturale, con l’obiettivo di svelare le molteplici entità che costituiscono il mondo vivente e arricchiscono la nostra esistenza collettiva. In particolare, l’artista ha introdotto negli ultimi anni il tema globale dell’Antropocene applicato all’ambiente singaporiano, rappresentando le foreste secondarie e il loro potenziale come luoghi chiave di rigenerazione e rinascita. Spesso invasi da specie vegetali e animali introdotte a Singapore nel XIX secolo, queste aree di confine tra la foresta primaria e le zone urbanizzate forniscono spunti per riflettere sulla complessa coesistenza tra esseri umani e non umani. Superando la convenzionale idea di foresta, i visitatori sono incoraggiati ad esplorare come il design urbano possa plasmare la natura, creando un nuovo ecosistema di specie migranti che riflettono le traiettorie e la composizione della popolazione umana della città. M.S.

ENG Every forest is liminal, even one that grows in the center of a city. Like a lens that highlights the resilience of nature, Robert Zhao Renhui’s installation offers a captivating exploration of secondary forests, regenerated from land that was deforested to make way for urban development or intensive cultivation. In recent years Zhao Renhui has introduced the global theme of the Anthropocene applied to the Singaporean environment through the exploration of secondary forests and their potential as key places of regeneration and renewal. Often invaded by plant and animal species introduced to Singapore in the 19th century, these boundaries between primary forest and urbanized areas provide insights to reflect upon human and non-human coexistence. Beyond the conventional notion of a forest, visitors are encouraged to explore how urban design can shape nature, creating a new ecosystem of migrating species that reflect the trajectories and composition of the city’s human population.

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

arte

NATIONAL PARTICIPATIONS ARSENALE

Materia prima

Le sculture partecipative e monumentali di Luciana Lamothe

Quattro sculture compongono un’unica installazione che occupa lo spazio del Padiglione alle Sale d’Armi in Arsenale: siamo in Argentina, l’artista è Luciana Lamothe (Buenos Aires, 1975), l’opera porta il titolo di Ojalá se derrumben las puertas/ Hope the Doors Collapse, a cura di Sofia Dourron. Attraverso diversi media – scultura, performance, disegno, fotografia e video – il suo lavoro indaga la morbidezza dei materiali considerati duri, esplorando le relazioni e tensioni dinamiche tra corpo e materia. Il Padiglione si compone di strutture di ferro contorte, nastri fenolici curvati, sculture realizzate con scarti di legno bruciati, perforati e tagliati, collegati da rami, tronchi, frammenti di tubi e nodi metallici, che creano spazio dentro spazi. L’installazione concepita da Luciana Lamothe invita il visitatore a sperimentare forme alternative dell’abitare, queer, solidali e simbiotiche. L’opera sollecita a riflettere sull’impatto che l’umanità ha prodotto sul Pianeta, determinando un presente afflitto da crisi climatiche, migratorie, economiche e sociali. Ogni scultura funge da spazio avvolgente e vivibile, proponendo un modo diverso di concepire la nostra connessione con il mondo materiale. Forme di cura quanto di aggressione si mostrano nei tagli, negli assemblaggi e nelle torsioni necessarie per mantenere la forma dell’opera: una serie di ferite e suture generate da secoli di condizionamento sociale, spaziale e materiale. Il groviglio dell’opera enuncia un’ecologia in cui i corpi, gli oggetti e le strutture infrangono i confini separando cultura e natura, umano e non umano. L’artista si rivolge agli oggetti, alle loro potenzialità latenti e al campo spaziale in cui esistono per testare alternative alle loro forme familiari di interazione e per immaginare alleanze materiali per altri possibili modi di vivere insieme. Le sue sculture sono così partecipative e monumentali da creare una relazione tra oggetto e spettatore. Lamothe crea opere che sfidano preconcetti e chiede agli spettatori di stabilire una relazione con il proprio corpo, lo spazio espositivo e i materiali delle opere. Le sculture spesso provocano instabilità e vertigini come metafora della fragilità delle strutture socialmente stabilite. L’estetica brutalista e minimale delle sue sculture, delle sue installazioni e disegni contrasta spesso con le forme estremamente fini e delicate delle opere. La presenza di Luciana Lamothe a Venezia raddoppia, protagonista del Padiglione Argentina alla Biennale e della mostra personale Folding Roads alla Galleria Alberta Pane.

Raw ENG matter

Four sculptures make up the art exhibit at Arsenale. We are at the Argentinian Pavilion at the Venice Art Biennale, where artist Luciana Lamothe installed Ojalá se derrumben las puertas/ Hope the Doors Collapse

A mixed media installation – sculpture, performance, drawing, photography, and video – her work investigates the softness of what are usually considered ‘hard’ materials, and explores the dynamic tension between body and matter. The Pavilion includes wringed iron constructs, curved phenol tape, scrap lumber sculptures, segments of pipe… everything creates space within other spaces. Lamothe invites us to experiment with different kinds of dwelling: queer, fair, symbiotic. The art will make us reflect on the human impact on the planet, with every sculpture acting as enveloping, livable space, a new and different way to visualize our connection with the material world. The tangled mass announces a kind of ecology where bodies, objects, and structures break the borders that usually tell culture and nature apart. These sculptures are participative and monumental, they challenge prejudices and force us to establish a connection between our bodies, the exhibition area, and the art itself. Luciana Lamothe is also in Venice with a personal exhibition: Folding Roads at Galleria Alberta Pane.

ARGENTINA

Luciana Lamothe

Ojala se derrumben las puertas [Hope the Doors Collapse] Sale d’Armi, Arsenale lucianalamothe.com | albertapane.com

Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

arte

EDITH KARLSON

La sfida di Edith

Intervista Edith Karlson

di Mariachiara Marzari

Edith Karlson (Tallinn, 1983) è stata scelta come artista rappresentante della partecipazione nazionale dell’Estonia alla Biennale Arte 2024 con il progetto Hora Lupi e da quel momento per lei è iniziato un viaggio, o meglio, come afferma l’artista stessa, “una sfida”. La sua attitudine creativa alla realizzazione di narrazioni complesse in forma di installazioni, dove protagoniste sono le sue sculture di diverse dimensioni e scala, l’ha portata a scegliere per il Padiglione uno spazio molto caratterizzato, la Chiesa di Santa Maria della Penitenti, lungo la Fondamenta di Cannaregio, che risale al XVIII secolo e che contribuisce a costruire l’atmosfera emotiva della mostra. Qui tutto è rimasto immutato, persino la polvere dei secoli passati. Karlson utilizza lo spazio come metafora dell’essere umano, altrettanto triste e incompleto, pieno di crepe e fessure, attraverso le quali alla fine, forse, brillerà una luce redentrice. Gli spazi espositivi sono letteralmente occupati dalle sculture in argilla e in cemento che evocano l’inevitabile limite e caducità degli esseri umani nei confronti della natura. Hora Lupi è un’esplorazione delle pulsioni primitive dell’uomo nella loro banalità e solennità, un interrogarsi sulla possibilità di redenzione in un mondo che non ne è mai degno. Karlson mette in scena una narrazione esistenziale della natura animalesca degli esseri umani, raffigurando come la sincerità e la schiettezza dell’istinto possono a volte assumere una forma brutale e violenta, ma anche poetica e a volte un po’ assurda, gentile e malinconica, specchio allargato del “nostro mondo di oggi”.

Entrare nella Chiesa delle Penitenti oggi è un po’ come varcare la soglia di un altro mondo, un mondo dominato da strane creature, giganti, sirene, animali… Tutti disposti in un caos apparente che trova armonia e significato nell’installazione nel suo complesso e al contempo anche nell’unicità di ogni singola figura. Qual è il concetto di fondo che informa il progetto Hora Lupi ? Da dove viene e che storia ci racconta? Hora Lupi è iniziato proprio lì, alla Chiesa delle Penitenti. Dal momento in cui vi sono entrata per la prima volta ho avuto una chiara visione di cosa volevo mostrare e come. Questi spazi mi hanno affascinano al punto che le idee di cosa volevo fare mi sono subito apparse chiare in mente. La loro bellezza mi ha dato la certezza che il mio contributo sarebbe comunque stato minimo: la Chiesa è già bellissima così com’è! Volevo che le mie opere si integrassero in questo spazio come se fossero lì da molto tempo e che ciascuno

ESTONIA

Edith Karlson: Hora Lupi

Chiesa di Santa Maria delle Penitenti, Cannaregio, 893-894

di questi spazi raccontasse una diversa storia. Le varie storie poi si sarebbero collegate sotto l’idea di Hora Lupi, cioè “l’Ora del lupo”. Quest’espressione venne resa famosa da Ingmar Bergman e si riferisce a quell’ora che scorre tra le tre e le quattro di notte. Pare che questa sia l’ora in cui più persone nascono e muoiono e che sia l’ora migliore per attaccare il nemico perché non siamo del tutto presenti nei nostri corpi in questa fase della giornata. È un’ora – e un sentimento – che è difficile descrivere a parole.

La sua storia è piena di riferimenti e significati complessi per come e quanto è permeata di storia, filosofia, religione, leggenda. Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? E in che modo la sua visione può contribuire a restituire i tratti dell’identità nazionale che il Padiglione è chiamato a mostrare in occasione della Biennale? Penso che guardare alla storia sia un ottimo modo per analizzare i propri errori, o almeno ci permette di farlo col senno di poi. Tuttavia, per quanto possiamo conoscere la storia, ripetere gli errori e dimenticarsene sembra che sia parte intrinseca della natura umana. Il mio obiettivo con Hora Lupi non è mai stato quello di costruire qualcosa a favore dell’identità nazionale, perché temo che se

Edith Karlson - Photo Alana Proosa © Estonian Centre for Contemporary Art
The title Hora Lupi means “the hour of the wolf”. The expression was popularised by Ingmar Bergman and it refers to a time between three and four in the morning

Edith’s ENG challenge

Edith Karlson (b. 1983 in Tallinn) is Estonia’s pick for their National Pavilion at the 2024 Venice Art Biennale. Her project Hora Lupi is the start of her journey or, in her words, the start of her challenge. Her creative attitude builds complex narratives in form of art installations, whose protagonists are sculptures of different sizes. Karlson picked the eighteenth-century Penitenti Church to install her Estonian Pavilion, a place so full of character that contributes immensely to the atmosphere of the exhibition. Everything, here, lay untouched for decades, even dust. The artist used the space as a metaphor of the human condition, which is as wistful and incomplete, as full of cracks and dents as the church is. However, through the cracks may come light, a redemptive beam of light. The whole area is occupied by clay and concrete sculptures that evoke the inevitable limit and transience of human beings when compared to the great cycle of nature. Hora Lupi is an exploration of man’s primitive instincts in their triviality and solemnity, a way to question redemption in an undeserving world. Edith Karlson stages an existential narrative of the animalistic nature of human beings, showing how sincerity and candour may often look brutal and violent, though also poetic and a bit absurd, gentle and melancholic, a mirror of ‘our world of today’.

Entering the Penitenti Church feels like plunging into another world dominated by strange creatures, giants, mermaids, and animal creatures, all composed in an apparent chaos that finds its harmony and meaning in the installation as a whole and at the same time in each figure’s uniqueness. Where does the idea of Hora Lupi come from and how did it come to life? What story does it represent?

Hora Lupi began with the Penitenti Church. From the first moment I stepped into the church, I had a clear vision for each space – what I want to show and how. I was so enchanted with these spaces that images just immediately started appearing in my mind. Since the space itself is so amazing, it made me confident as well, because I understood that my contribution in this fading splendour will be minimal, the spaces are perfectly fine without it. I wanted my art to blend into the space as if they’d been there for a long time, each space telling a different story, and all of these stories are connected by the title Hora Lupi, which means “the hour of the wolf”. The expression “the hour of the wolf” was popularised by Ingmar Bergman and it refers to a time between three and four in the morning. Supposedly, this is also a time when most people are born and die, it is strategically the best time to attack your enemy, because people are not quite present in their bodies. It is a time and a feeling that is hard to articulate.

Your narrative is full of complex references and meanings, it is permeated with history, philosophy, religion, legend. How important is the past for imagining and building the future? And how does the vision you propose restore a national identity that the Pavilion is called upon to offer in the context of the Biennale?

I feel looking at history is a great way to analyse mistakes. At least, it provides the opportunity to do so in hindsight. However, despite knowing our history, repeating the same mistakes and forgetting seems to be a part of human nature. My goal with Hora Lupi has

arte

l’avessi fatto consciamente il tutto avrebbe perso in sentimento. Di nuovo, non è una cosa facile da esprimere. Penso che l’identità nazionale e la sua conservazione siano in realtà collegate a sentimenti complessi quali paura, ignoranza, dolore, crudeltà, confusione, tristezza, sottomissione, speranza. E tutto ciò si ritrova diffusamente nelle mie opere.

Stranieri Ovunque è il titolo della Biennale

Arte 2024. La sua mostra sembra avvicinarsi al tema da un punto di vista esistenziale, concentrandosi sulla natura umana, i suoi limiti, la sua inadeguatezza nell’affrontare il mondo moderno. Qual è la sua idea di “straniero”, “diverso”, “strano”? Chi è l’“altro” e come possiamo ritrovarlo e seguirlo nelle sue opere?

Probabilmente non c’è nessuno che non abbia mai incontrato qualcosa che gli facesse paura. È umano, si dice. È un normale istinto e in natura è necessario per sopravvivere. Mi sono sentita strana quando un’emozione mi ha spinto a comportarmi in modo indegno, ma anche quando mi sono ritrovata a fare qualcosa di cui non credevo essere capace… Ero davvero io in quel momento? Non sempre sono le cose cattive ad apparirci strane. Anche le cose buone possono apparire tali. Ciò che voglio dire è che gli stranieri e la stranezza sono davvero ovunque, a tutti i livelli. La domanda più importante da porci è: che cosa facciamo con questa nozione e questa sensazione, come ci comportiamo per non ferire l’altro? Personalmente penso che possiamo superare la paura dello strano e dello straniero con la curiosità, con un acceso desiderio di capire e conoscere le persone più da vicino, perché di solito ciò genera empatia. Con Hora Lupi ho lavorato proprio in questa direzione.

Che ruolo effettivo riveste il pubblico nei suoi progetti espositivi?

Le mie opere si basano su un approccio molto personale verso svariati soggetti e temi su cui mi cimento, ma alla fine, fondamentalmente, sono cose che esistono, che stanno lì per mostrarsi al pubblico. C’è qualcosa che fa del nostro lavoro, del mio perlomeno, una sfida e che lo rende straordinariamente interessante: come mostrare al pubblico le proprie idee mantenendo una sostanziale riservatezza, ma al contempo esprimendosi in maniera onesta e aperta, con il prioritario fine di essere capiti? È una grande e complessa sfida questa, sì, e a me le sfide piacciono molto.

Edith Karlson, Hora lupi - Photo Anu Vahtra © Estonian Centre for Contemporary Art

never been to explicitly work towards restoring the national identity, because I’m afraid that had I taken a very conscious approach, I would have missed out on a feeling – again, something that is not easy to express in words. And I think national identity and its preservation actually is connected to complex feelings like fear, ignorance, grief, cruelty, bewilderment, sadness, submissiveness, and hope. And all of that is represented in my work quite densely.

Foreigners Everywhere is the title of the 2024 Art Biennial. Your exhibition seems to approach the theme from an existential point of view, focusing on human nature, its limitations and inadequacy in facing the contemporary world. What is your idea of ‘foreigner’, ‘different’, ‘strange’? Who is ‘the other’ and how could we trace and recognize the other in your work?

There is probably nobody that has not found someone or something strange a little frightening. It is human, they say. It is a normal instinct and in nature, it is necessary to survive. I have found

myself utterly strange when an emotion has pushed me to behave shamefully. But also, when I did something, I had though I never could... Was that really me? It is not always the case that only bad things feel strange. Good things, too, may feel strange. What I want to say is that strangers and strangeness are truly everywhere, on every level. The more important question is what we do with this knowledge and feeling, how do we behave so that we do not hurt others. I personally think we can overcome the fear of the strange with curiosity, a desire to understand and by getting to know people or things more closely, as that usually evokes empathy. With Hora Lupi I really work through these feelings.

Lastly, what role does the public play in your work?

My work is based on my very personal approach to a variety of subjects but it is, in the end, meant for the public. That is also something that makes my work challenging and interesting for myself. How to show people my ideas while keeping my privacy but being honest and open and understood at the same time? That is a challenge and I think I like challenges.

Edith Karlson, Hora lupi - Photo Anu Vahtra © Estonian Centre for Contemporary Art
Edith Karlson, Hora lupi - Photo Anu Vahtra © Estonian Centre for Contemporary Art

Gioielli Nascosti di Venezia aperti per il Contemporaneo

COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO NATIONAL PARTICIPATION

at 60th International Venice Biennale MONTENEGRO

Bajagić Darja. It Takes an Island to Feel This Good 20 April – 24 November

Barbaria de le Tole, Castello 6691

COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO NEBULA

Giorgio Andreotta Calò, Basel Abbas and Ruanne Abou-Rahme, Saodat Ismailova, Cinthia Marcelle and Tiago Mata Machado, Diego Marcon, Basir Mahmood, Ari Benjamin Meyers, Christian Nyampeta produced by Fondazione In Between Art Film 17 April - 24 November

Barbaria de le Tole, Castello 6691

SCALA DEL BOVOLO SHANE GUFFOGG

At the Still Point of the Turning World. Strangers of Time produced by Patrick Carpentier Gallery 20 April - 24 November

San Marco 4303

CHIESA DELLE PENITENTI NATIONAL PARTICIPATION at 60th International Venice Biennale ESTONIA

Edith Karlson. Hora Lupi 20 April - 24 November

Fondamenta Cannaregio 890

ORATORIO DEI CROCIFERI TINCUTA MARIN

Where the Sun Sleeps produced by Triade Foundation, Jecza Gallery and Stephenson Art in partnership with Ellen De Bruijne Projects 15 April - 12 May

Campo dei Gesuiti, Cannaregio 4904

arte

NATIONAL PARTICIPATIONS

IN THE CITY

Lost and found Zimbabwe, l’Africa che è dentro di noi

Venezia è attraversata da storie di viaggiatori che per secoli l’hanno navigata, echi sovrapposti di generazioni sempre in transito tra est, sud est, ovest.

Ogni calle, a seconda dell’ora del giorno e della stagione, ha un potenziale nascosto, un richiamo per il passante forestiero che viene dal canale adiacente. La fortuna è essere intercettati da queste interferenze e seguirle fin dove si riesce a sentirle.

È così, per caso, che sono finito nel cortile di Santa Maria della Pietà, dove ha attirato la mia attenzione una costruzione di spesse mura di paglia che circondano una palma naturalizzata veneziana.

A lato di questa installazione, un nuovo viaggio inaspettato è cominciato. Dopo aver visitato la bella mostra del fotografo Peter Hujar, Portraits in life and Death – meravigliosa la foto di Susan Sontag –, ho proseguito verso il Padiglione dello Zimbabwe, al secondo piano del palazzo in un ambiente completamente diverso.

La Biennale è sempre ricca di tesori arrivati da tutto il mondo, artisti che portano con sé i talismani della loro cultura, trovando in Laguna un piano nobile, un prezioso giardino ai più sconosciuto, dove sentirsi a casa per la stagione.

L’accoglienza dello Zimbabwe mi ricorda come essa sia un tratto culturale importante e spesso trascurato in molti padiglioni.

All’entrata mi dà il benvenuto un giovane Zimbabwese molto preparato, energico, sempre presente nella conversazione, la sensazione è che la stessa onestà e vitalità sia una caratteristica importante di tutti gli artisti in mostra.

Nonostante legga su un comunicato stampa che la mostra collettiva, dal titolo Undone, sia incentrata sul «concetto di kududunuka :

un’esplorazione delle idee che indicano il disfacimento del mondo», le opere presenti mostrano un’attitudine positiva, pratica ed efficace, che prevale sulle letture curatoriali e i testi che inquadrano opere d’arte dentro categorie ideologiche eurocentriche.

L’allestimento è essenziale, fa un grand caldo, all’entrata ci sono lavori di Gillian Rosselli, interessanti le opere realizzate in silicone da Troy Makaza, a seguire ecco Kombo Chapfika, Sekai Machache, Victor Nyakauru, però il vero incontro è con le complesse creazioni di Moffat Takadiwa, che a mio avviso riassumono lo spirito ecologico della mostra e della comunità di riferimento. Opere che affrontano le questioni globali ambientali e di disuguaglianza dal lato opposto della bilancia, con atteggiamento di chi è sempre in grado di trovare soluzioni dove altri rinuncerebbero, un caso riuscito di upcycling, capaci di restituire valore allo scarto, una nobile ed esemplare risposta alle tonnellate di spazzatura scaricate in territorio africano. L’artista utilizza tessuti, cinte, cerniere bottoni raccolti in una fabbrica che processa rifiuti tessili inviati da paesi ricchi, riordinati e affiancati a flessibili armature fatte di spazzolini e soprattutto tasti di computer. Takadiwa si adatta ai gusti e alle aspettative che il pubblico dell’arte ha maturato nei confronti dell’Africa, a partire da artisti di successo come El Anatsui e più recentemente Serge Clottey e, nel contesto sociale dei nostri giorni, il suo gesto creativo mi rimanda a quello di tanti italoafricani, giovani che l’immondizia non la selezionano nelle discariche africane, ma la raccolgono nelle discariche delle nostre città, che vivono, quando sono fortunati, in maniera integratamene subalterna. Condividono il lato povero di una vita italiana, lavorano e raccolgono dappertutto tutto ciò che possano valorizzare, rinunciando ad ogni conforto che avrebbero guadagnato con la fatica, per pagare containers pieni degli scarti che qualche conforto possono darlo ai loro cari, in quella lontana Africa, che è dentro di noi. Lucio Salvatore

ZIMBABWE (Repubblica dello) Undone
Santa Maria della Pietà, Castello 3701
Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù

arte

COLLATERAL EVENTS

IN THE CITY

Nel 2022, per Il latte dei sogni di Cecilia Alemani, l’artista etiope Elias Sime aveva presentato due opere che sembravano delle campiture di colore nelle tonalità del rosa, verde e viola, o dei paesaggi segnati dal lavoro umano sorvolati da un velivolo. Osservate da vicino le composizioni rivelavano invece oggetti tecnologici obsoleti e materiali di scarto assemblati in modo da evocare antichi rituali etiopi di intaglio e tessitura. L’uso di colori, modelli e griglie ritorna in questo suo nuovo corpo di opere, presentato come Evento Collaterale presso gli spazi di Tanarte a Castello. Con Dichotomy jerba l’artista di Adis Abeba prosegue il suo lavoro di stratificazione di oggetti comuni – perlopiù componenti di apparecchiature per la comunicazione digitale – trasformandoli in composizioni liriche astratte che riflettono sull’impatto della globalizzazione e della tecnologia sulla psiche umana. La mostra si concentra in particolare sulla centralità del telefono cellulare nella vita quotidiana. Sime considera il dispositivo uno status symbol, ma la sua onnipresenza lo rende una metafora carica di implicazioni etiche, ecologiche e geopolitiche che richiedono una meditazione profonda sulla tenuità di un mondo sempre più interconnesso. Marisa Santin

ENG Facing the impact of globalization and technology on the human psyche, Elias Sime presents a new body of work in which technological components are intertwined into lyrical and intricate sculptural assemblages. With a multidisciplinary and material-focused practice, the artist from Adis Abeba, who was also present in 2022 in Cecilia Almani’s The Milk of Dreams, continues his work of layering common objects transforming them into abstract compositions that reflect on the impact of globalization and technology on the human psyche. Sime’s use of colors, patterns, and grids often hints at natural landscapes, evoking both the environment and man’s footprint on Earth. This exhibition particularly focuses on the centrality of the mobile phone in daily life. Sime considers the device a status symbol, but its omnipresence makes it a metaphor laden with ethical, ecological, and geopolitical implications that demand deep contemplation on the fragility of an increasingly interconnected world.

Testimoni d’accusa

Il lavoro del regista e artista Carlos Casas (Barcellona, 1974) esposto ai cantieri Cucchini prende spunto dai Bestiari, gli antichi compendi di storia naturale in cui venivano descritte le varie specie animali, spesso accompagnate da lezioni di vita e di comportamento. In un ambiente ipnotico, popolato da suoni e immagini di creature che emergono da paesaggi reali e immaginari, l’artista mette in scena la Disputa de l’ase (Disputa dell’asino), testo scritto nel 1417 da Anselm Turmeda, considerato, insieme a Ramon Llull, uno dei fondatori della letteratura catalana. La Disputa narra la storia di un uomo che, addormentatosi in un bosco idilliaco, si sveglia con la capacità di comprendere il linguaggio degli animali. I quali, a quel punto, lo sottopongono a processo, interrogandolo sulla presunta superiorità dell’uomo. Il processo si svolge in diciannove argomentazioni, in cui il portavoce degli animali, un asino dalla lunga coda, demolisce l’antropocentrismo punto per punto, mentre suoni e immagini di pipistrelli, api, delfini, elefanti, scoiattoli e altre creature riempiono lo spazio sfumando i confini tra sogno e realtà. La proiezione di un film legato allo spettro visivo di diverse specie animali e la diffusione sonica di frequenze estranee al sistema sensoriale umano amplificano l’impatto immersivo dell’installazione, coinvolgendo il visitatore in un’esperienza poetica e suggestiva. M.S. ENG Carlos Casas’ (Barcelona, 1974) immersive and hypnotic exhibition is inspired by bestiaries, the ancient natural history compendiums that described various animal species, often accompanied by life and behavior lessons. In a mesmerizing environment, populated by sounds and images of creatures emerging from real and imaginary Catalan landscapes, the artist stages the Disputa de l’ase (Dispute of the Donkey), a text written in 1417 by Anselm Turmeda, considered one of the founders of Catalan literature. The Dispute tells the story of a man who, having fallen asleep in an idyllic forest, wakes up with the ability to understand the language of animals. They then put him on trial, questioning him about the presumed superiority of humans. A film related to the visual spectrum of various animal species and the sonic diffusion of frequencies beyond the human sensory system amplify the immersive impact of the installation, engaging the visitor in a poetic and evocative experience.

Elias Sime. Dichotomy jerba Tanarte, Ramo de la Tana, Castello 2125 www.simevenice.org
Catalonia in Venice. Carlos Casas | Bestiari _docks_cantieri cucchini, San Pietro di Castello 40/A www.bestiari.llull.cat
Parti del tutto
© gerdastudio

Intimità pubblica Robert Indiana dal Midwest a Chicago, da New York a Venezia

Nell’infilata di nove sale al secondo piano delle Procuratie Vecchie, quasi un’illusionistica manica lunga aperta sulla Piazza San Marco, ben si inserisce The Sweet Mistery di Robert Indiana, artista simbolo della Pop Art americana che irrompe in Laguna con una mostra, Evento Collaterale alla Biennale Arte 2024, che presenta una mirata quanto azzeccata selezione di una trentina di opere a cura di Matthew Lyons esplicative della sua lunghissima carriera artistica, incentrate sui temi della spiritualità, dell’identità e della condizione umana. Spesso intersecantisi, le sue opere sembrano viaggiare parallele, in un dialogo visivo, laddove i colori accesi sono dominanti, intimistico, con le parole essenziali e lapidarie come sentenze, fisico, grazie ai materiali utilizzati come il legno, metallo, alberi di navi o cime recuperate, pezzi di scarto che rappresentano in questo senso momenti del suo vissuto.

«La tecnica – affermava l’artista – se è riuscita, è quella felice trasmutazione di ciò che è perduto in ciò che è ritrovato, di spazzatura in arte, di ciò che è trascurato in ciò che è ricercato, di ciò che non è amato in amato, delle scorie in oro».

Originario del Midwest, da quello stato, l’Indiana, da cui prese il nome, all’anagrafe Robert Clark (1928-2018) dopo la formazione artistica a Chicago e in Europa nel 1954 si trasferì a New York e la sagoma di quanto vedeva dalla finestra del suo loft a Coenties Slip nella Lower Manhattan diviene, trasferita su tela, The Silver Bridge, scheletro argenteo del ponte di Brooklyn, essenziale in una linearità quasi lontano ricordo Art Déco.

Scorrono alle pareti in mostra citazioni dei padri della letteratura

americana, Melville e Whitman tra tutti, che Indiana percepisce come vicini a lui in una relazione di sensibilità poetiche e artistiche e con uno squarcio sull’identità queer degli anni ‘50 e ‘60 che l’artista vive con Ellsworth Kelly per un breve fuggente attimo. Non solo dunque oggetti trovati e riutilizzati, ma anche parole che diventano messaggi. Amore, il famosissimo LOVE, iconica immagine legata al suo nome, dipinto o divenuto scultura e declinato in più lingue, EAT, DIE, HUG, concetti astratti in apparenza intangibili legati in realtà alla concretezza del quotidiano.

Ben lontano dal consumismo più estremo della Pop Art, al movimento di Warhol e Jim Dine, Lichtenstein ed Oldenburg lo legano l’essenzialità del messaggio, la forza della parola, laddove lo distinguono la spiritualità introspettiva, l’attenzione ai temi sociali e politici, i riferimenti letterari e biografici. Non mancano infatti incursioni nella sua biografia personale come il ritratto della madre con cui visse dopo la separazione dal padre e che, con una precisione lenticolare, immortala in My Mother, quasi fosse un cartellone pubblicitario, o il riferimento alle perdite di amici negli anni dell’epidemia HIV/AIDS. Sintesi e summa della mostra è l’opera che le dà il titolo: Sweet Mistery racchiude e condensa l’universo di simbologie imprescindibili per Indiana. Le foglie di ginkgo stilizzate in una forma divenuta quasi astratta, simmetriche, di un giallo ocra che le fissa nelle tonalità autunnali quando le vede cadute dall’albero, asessuate, originarie del lontano Oriente, capaci di sopravvivere anche ai climi umidi e freddi, all’inquinamento della Grande Mela come in Giappone sono sopravvissute all’esplosione atomica, simbolo di immunità, di longevità, resistenza e resilienza, sembra quasi volerle seguire nel loro intero ciclo vitale. Dalla vita alla morte, in un continuo viaggio di rinascita. Michela Luce

Robert Indiana: The Sweet Mystery Procuratie Vecchie (secondo piano), Piazza San Marco www.robertindiana.com
The Sweet Mystery, 1960-62 Love is God, 1964

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COLLATERAL EVENTS

IN THE CITY

Fare filò
Karine N’Guyen Van Tham e Parul Thacker tra tradizione antica e contemporaneità

Una calle che si insinua tortuosa tra i palazzi da Campo San Polo al Canal Grande porta a Palazzo Vendramin Grimani, sede della Fondazione dell’Albero d’Oro, dove è in corso una mostra, Evento Collaterale alla Biennale Arte 2024, tutta al femminile, originale e unica nel panorama espositivo veneziano. Stiamo parlando di Per non perdere il filo, curata da Daniela Ferretti, che offre un percorso insieme intimo e universale, personale e collettivo dove si incontrano due artiste: Karine N’Guyen Van Tham e Parul Thacker. Ciò che unisce le due artiste è la passione con cui tessono, ricamano e realizzano a mano opere affascinanti con un potere narrativo straordinario. Questo gesto artigianale che permette di unire fili, fabbricare pezzi di tessuto, inventare forme ricamate e attribuirvi un forte significato si iscrive in una tradizione veneta ancestrale: quella di “far filò”. Il termine “filò” deriva presumibilmente da “filare”, il lavoro che le donne facevano assieme nelle stalle, in montagna o in pianura, durante la stagione fredda. Questi raduni permettevano di restare al caldo, passare del tempo assieme, recitare il Rosario, fare piccoli lavori manuali, discutere di tutto e di niente tra vicini, “contraenti”, parenti e persone di passaggio. Così “far filò” significa chiacchierare, raccontare, conservare, ma anche trasmettere saperi, tradizioni, storie.

Karine N’Guyen Van Tham e Parul Thacker, due artiste con metodi di lavoro opposti, una franco-vietnamita, l’altra indiana, si incontrano per la prima volta a Palazzo Vendramin Grimani e si legano personalmente e artisticamente grazie a questa tradizione, a questo filo, lo stesso che intende unire tutti i visitatori della mostra, ovunque essi provengano. Thacker è stata a lungo affascinata dal potenziale scientifico e

creativo della materia. Le sue opere, quasi algoritmiche, sono fatte di metalli preziosi, minerali e oggetti in legno. A metà strada tra pitture e sculture, i suoi lavori, inclassificabili, evocano la preghiera, la pazienza e il raccoglimento. L’installazione presentata al piano terra del Palazzo è eloquente: 21 grandi tele in organza di seta, i cui ricami evocano la topografia della regione artica dove l’artista è stata in residenza, sono presentate in stretta sequenza e accompagnate da un sottofondo musicale prodotto dalle note di un rudra veena (strumento a corda indiano) e dai suoni delle acque di Spitsbergen, in Norvegia.

Karine N’Guyen Van Tham parte da racconti, pezzi di vita o storie inventate o vissute. Ne trae testi di una estrema poesia che scrive a mano su carta invecchiata e inserisce vicino alle sue installazioni, piegati a metà in modo che il visitatore possa decifrarne solo una minima parte. Le sue opere sono abiti, vettori di memoria poiché contengono ancora l’impronta del corpo di chi li ha indossati, anche se non è più presente. Interamente prodotte a mano con un piccolo telaio a partire da filo di lino, l’artista realizza le fasce di tessuto e le colorazioni blu indaco, rosso e ocra.

Al momento dell’uscita ogni visitatore è invitato a lasciare un pezzo di filo che gli appartiene. Tutti i fili, avvolti in un’unica matassa, saranno impiegati da Karine N’Guyen Van Tham per creare un’opera unica che tesserà a conclusione della mostra, unendo idealmente tutti i visitatori.

Per non perdere il filo. Karine N’Guyen Van Tham – Parul Thacker Fondazione dell’Albero d’Oro, Palazzo Vendramin Grimani www.fondazionealberodoro.org

Il futuro nelle mani Il ricamo come emancipazione nel Cosmic Garden sostenuto da

Dior

Le opere degli artisti indiani Madhvi Parekh e Manu Parekh dialogano con i ricami creati dalla Chanakya School of Craft di Mumbai, un’istituzione no-profit dedicata alla promozione dell’emancipazione sociale delle donne attraverso l’artigianato, che dalla sua fondazione nel 2016 ad oggi ha insegnato a più di mille donne, di tutte le età e di tutti i contesti socio-economici, formando una forte comunità di esperte. Le opere dei due artisti celebrano i miti tradizionali indiani, in cui la dimensione spirituale è un potente catalizzatore di immaginazione e creatività. Allo stesso modo i lavori realizzati dall’istituto artigianale, sotto la guida artistica della sua fondatrice, Karishma Swali, vanno oltre i confini convenzionali delle arti applicate per creare un linguaggio artistico originale che affonda le sue radici nella ricca storia culturale indiana. A cura di Maria Alicata e Paola Ugolini, e realizzata con il supporto di Dior, la mostra nasce da uno scambio tra gli artisti e gli artigiani avviato in occasione della presentazione della collezione Spring/Summer 2022 Haute Couture di Dior al Musée Rodin di Parigi. Con il sostegno di Maria Grazia Chiuri, direttore creativo delle collezioni donna Dior, la Chanakya School of Craft è infatti diventata negli anni un partner fondamentale nella concezione e produzione di opere d’arte e installazioni che hanno accompagnato alcune delle più recenti passerelle Dior. Per questa mostra a Venezia, alcuni dei lavori di Manu e Madhvi Parekh sono stati reinterpretati e ricreati da Karishma e dalle artigiane utilizzando più di 300 diverse, antiche tecniche di ricamo proprie dell’India. Più che una mera traslazione dalla pittura e dalla scultura al ricamo, professione che in India fino a poco tempo fa era riservata ai soli uomini, queste opere monumentali nascono da un’autentica collaborazione tra generazioni, generi e ruoli: una pratica dialogica che porta a riflettere sul valore universale della creatività, e delle pratiche manuali in particolare. Invitando ad affrontare criticamente il rapporto reciproco tra le donne e il ricamo, nonché l’enorme potenziale creativo che il ricamo a mano può avere quando oltrepassa i confini domestici e viene portato nella sfera pubblica, le opere della Chanakya School trascendono i termini convenzionali dell’artigianato, per modellare un nuovo linguaggio artistico a partire dalle storie culturali collettive.

Future ENG in your hands

The works of Indian artists Madhvi Parekh and Manu Parekh engage in dialogue with the lacework from Mumbai’s Chanakya School of Craft, a non-profit institution committed to promoting the social empowerment of women through handicraft. The pieces created by the Chanakya School of Craft under the artistic direction of Karishma Swali go beyond the conventional boundaries of applied arts in order to create an original artistic language firmly rooted in Indian cultural history. For this exhibition in Venice, some of Manu and Madhvi Parekh’s works have been reinterpreted and recreated by Karishma and the artisans using more than 300 different, ancient Indian embroidery techniques. Inviting a critical examination of the reciprocal relationship between women and embroidery, as well as the immense creative potential that hand embroidery can achieve when it transcends the confines of domesticity and enters the public sphere, the works of the Chanakya School transcend the conventional boundaries of craftsmanship.

Cosmic Garden
Salone Verde – Art & Social Club Calle Regina 2258
IG @chanakya.school

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Entrando nella Chiesetta sconsacrata della Misericordia, in stile romanico-bizantino del X secolo, si viene trasportati in una distopia estetico-narrativo-temporale. L’opera di Yu Hong – nata a Xi’an, Cina, nel 1966 –, al di fuori dei limiti delle convenzioni storicoartistiche, appare come una gigantesca pala d’altare a fondo oro con soggetti ritratti in un magnifico realismo soprannaturale che pone l’artista in una posizione radicalmente anacronistica, e tuttavia ferocemente contemporanea, che destabilizza le nozioni comuni. In Another One Bites the Dust, Yu Hong prende in prestito da internet e dai social media immagini di persone, perlopiù donne e bambini, in pose contorte che esprimono angoscia mentale o pericolo fisico imminente, sia reale che fantastico. Su un fondo dorato e a forma di grandi tondi o pannelli ad arco, le figure presentate affrontano e stravolgono i temi epici dell’arte sacra, senza rinunciare al ruolo della pittura nel rappresentare i dolori della condizione umana. La mostra è promossa da Asian Art Initiative del Guggenheim Museum di New York in collaborazione con Lisson Gallery e curata da Alexandra Munroe, Senior Curator at Large, Global Arts, Museo e Fondazione Solomon R. Guggenheim.

ENG The Misericordia Church, since 1973 deconsecrated and currently used for art exhibitions, is a portal to an aesthetic-narrative-temporal dystopia. Art by Yu Hong (b. 1966 in Xi’an, China) crashes the confines of historical and artistic conventions as it appears as a large gilded altarpiece depicting subjects in majestic, supernatural realism that is also radically anachronistic and fiercely modern. It truly destabilizes any common notion we may have.

Yu Hong’s Another One Bites the Dust loans imagery from internet and social media: people, mostly women and children, twisted and bent in poses of mental anguish of imminent peril, whether real or fantastic. The figures distort the epic themes of sacred art while maintaining the role of painting in the depiction of the suffering inherent to the human condition. The exhibition is sponsored by the Asian Art Initiative of Guggenheim New York and Lisson Gallery.

La realtà non ha padrone

Per chi, come l’artista francese Pierre Huyghe, si è sempre interrogato sul rapporto tra umano e non umano i tempi che ci troviamo ad attraversare sono una miniera praticamente inesauribile di spunti di riflessione. La sua arte sembra voler rispondere a ipotesi di mondi possibili, interrogandosi su cosa potrebbe essere o non potrebbe essere, chiamando il visitatore a un impegno costante nell’adottare continui cambi di prospettiva, spingendosi spesso proprio oltre le umane possibilità.

Liminal trasforma Punta della Dogana in uno spazio dinamico e sensibile in costante evoluzione. La mostra è una condizione transitoria popolata da creature umane e non umane, e diventa il luogo in cui si formano soggettività in perenne processo di apprendimento, trasformazione e ibridazione.

I suoi lavori mettono insieme materiali e suoni, sensori ambientali combinati con telecamere e microfoni, intelligenza artificiale e led, rocce galleggianti in un acquario e videoinstallazioni, animali vivi la cui salvaguardia è ovviamente costantemente monitorata dallo staff della Collezione Pinault e da esperti in materia, esterni al museo. La ‘vita’ pura e semplice si conferma quindi parte integrante dell’esposizione, rendendo ogni momento fruibile dal pubblico unico, regolato da variabili imprevedibili e per questo motivo finito sotto la lente indagatrice dell’artista. Una lente sotto la quale Pierre Huyghe si mette volentieri, osservando sé stesso. ENG Some, like French artist Pierre Huyghe, often wonder about the relationship between the human and the non-human. In our times, there seems to be a nigh-inexhaustible source of things to reflect on. Huyghe’s art looks like a comment on hypothesized, possible worlds, questioning what can and cannot be, forcing visitors to constantly change their point of view and pushing them beyond human capabilities. Liminal turned Punta della Dogana into a dynamic, sensible space that revolutionizes continuously. The exhibition is a transient condition populated by human and non-human figures, and becomes the place where subjects grow, learn, transform, and hybridize. The art pairs materials and sound, environmental sensors, cameras, microphones, artificial intelligence, LEDs, floating rocks, video installations, and live animals (whose welfare is monitor by the Museum’s staff and independent experts.) Life – pure and simple – is an integral part of the exhibition, gifting us unpredictable variables. Yu Hong. Another One Bites the Dust

Pierre Huyghe. Liminal Fino 24 novembre Punta della Dogana www.pinaultcollection.com
Mondi sacri abitati da umani
Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask), 2014 Pinault Collection Courtesy of the artist Hauser & Wirth, London; Anna Lena Films, Paris © Pierre Huyghe, by SIAE 2023
La vita degli altri Christoph Büchel

o della libertà secondo Fondazione Prada

Fondazione Prada a Venezia ha dato carta bianca all’artista svizzero Christoph Büchel. Il risultato? Una mostra immersiva e sovversiva che propone una vasta riflessione sul nostro rapporto con gli oggetti, il denaro e, più in generale, sull’umanità intera. Infatti, nell’ambito di questa esposizione, Büchel ha trasformato Ca’ Corner della Regina in un Monte di Pietà, ricordo dei secoli passati quando dal 1834 al 1969 questo antico palazzo di proprietà di papa Pio VII era realmente un vasto banco dei pegni. Büchel si diverte a scavare in tutti gli strati della storia del Palazzo, che vide nascere Caterina Corner, futura regina di Cipro, il cui ritratto realizzato da Tiziano è esposto nel mezzo della confusione di oggetti di ogni genere, accumulati nella sala al primo piano. Infatti, in questa installazione brulicante, dove si trovano migliaia di oggetti di ogni tipo, elettrodomestici, mobili per la maggior parte in cattive condizioni, vestiti, quadri, giocattoli, libri, sci, protesi, sedie a rotelle, armi fuori uso o documenti di ogni genere legati a operazioni di credito, debito o finanza, Büchel nasconde veri e propri capolavori realizzati da artisti come Klein, Manzoni, Paolini, Duchamp, Beuys, come se anche loro fossero stati messi in pegno.

Che cosa ha valore? E su cosa si basa? Trasformandosi in un banco dei pegni, l’istituzione culturale, il cui ruolo è anche quello di conservare il patrimonio e attribuire un valore simbolico ed economico agli oggetti e alle opere, crea un vero e proprio cortocircuito che raggiunge il suo apice con la presentazione dell’opera The Diamond Maker, una valigia contenente diamanti artificiali nati da un processo di distruzione e trasformazione di opere in possesso dell’artista, comprese quelle create durante la sua infanzia e giovinezza.

Il Monte di Pietà è dunque un’analisi approfondita del concetto di debito, presentato qui come il principale mezzo attraverso cui si esercita il potere politico e culturale. Immergendo il visitatore di volta in volta in un modesto appartamento, in una sala di gaming dove vengono create anche criptovalute, o nella guardiola del custode di questo banco dei pegni, Büchel ci invita a scoprire la quotidianità di popolazioni ai margini del sistema finanziario: allo stesso tempo creatrici, consumatrici (principalmente di debiti) e al di fuori del sistema. Più in generale, è l’intero principio del debito a essere qui interrogato e, in particolare, il ruolo essenziale e complesso che gioca sugli equilibri sociali e politici delle nostre civiltà. Questa nozione di debito è particolarmente eloquente a Venezia, città mercantile per eccellenza, che ha contribuito nella storia alla nascita dei mercati finanziari moderni basati non solo sul debito, ma anche sul riconoscimento legale della proprietà. Delphine Trouillard

The lives ENG of others

Fondazione Prada gave carte blanche to Swiss artist Christoph Büchel for an immersive, subversive reflection on our relationship with objects, money, and, more generally, on the human condition. Büchel transformed Ca’ Corner della Regina, the palazzo Fondazione Prada calls home in Venice, into a pawn shop. The palazzo used to be, in fact, a pawn shop in the years 1834 to 1969. The artist enjoyed digging deep into the several layers of history of Ca’ Corner, and a myriad of memorable objects make up the exhibition: appliances, furniture, clothes, paintings, toys, books, documents… and among them, masterpieces by artists such as Klein, Manzoni, Paolini, Duchamp, Beuys, looking like they’ve been pawned themselves. How do we value things? On what basis? The Monte di pietà (pawn shop) is an analysis of the concept of debt, presented as the main vehicle for political and cultural power. Christoph Büchel questions debt and its essential, complex role it plays in the social and political balance of our societies. This notion of debt is all the more relevant in Venice, a city that contributed immensely to trade and to the birth of modern financial markets.

Fino

Monte di Pietà. Un progetto di Christoph Büchel
24 novembre Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina www.fondazioneprada.org

arte

LA DESINENZA ESTINTA

Le desinenze

Intervista Lucia Veronesi

L’opera di Lucia Veronesi La desinenza estinta entrerà a far parte della collezione permanente della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, «andando ad arricchire il patrimonio figurativo, linguistico, tematico e le riflessioni sul mondo contemporaneo del Museo», come ribadito all’inaugurazione da Mariacristina Gribaudi, Presidente della Fondazione Musei Civici di Venezia . Fino al 13 ottobre l’opera sarà visibile nel Portico al piano terra di Ca’ Pesaro nel contesto complessivo di un progetto espositivo, curato da Paolo Mele e Claudio Zecchi, in cui il grande arazzo jacquard di cinque per tre metri, tra il figurativo e l’astratto, dove emergono immagini di piante medicinali, nomi di popolazioni indigene e lingue a rischio di estinzione accanto a nomi di donne botaniche, scienziate e illustratrici, viene accompagnato da un video in stop-motion (che verrà presentato il 24 settembre nella Project Room) e da un apparato documentale visivo che descrive il processo di creazione e di definizione dell’opera stessa.

Lucia Veronesi è un’artista multimediale da sempre interessata al tema del paesaggio e dello spazio. Si esprime con mezzi diversi: dal collage al video, dal disegno all’assemblaggio di tessuti. Nata a Mantova, ha studiato a Milano, dove si è diplomata in Pittura all’Accademia di Brera. Dal 2003 vive e lavora a Venezia. Cofondatrice di Spazio Punch alla Giudecca, dove ha il suo studio, fa parte del direttivo artistico di Yellow. Ha esposto in molte gallerie, fondazioni e musei in Italia e all’estero.

Con il progetto La desinenza estinta Lucia Veronesi ha vinto la dodicesima edizione di Italian Council (2023), programma del Ministero della Cultura che promuove l’Arte Contemporanea italiana nel mondo. Il progetto è curato e prodotto da Ramdom in collaborazione con il Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum MiST di Trondheim, Norvegia, sostenuto dall’Università di Zurigo – Dipartimento di botanica sistematica ed evoluzionistica e Dipartimento di biologia evoluzionistica e studi ambientali, dalla Goldsmiths University di Londra, da Ca’ Pesaro e dall’Istituto Italiano di Cultura di Oslo e realizzato con il supporto di Collezione Luca Bombassei. Il bellissimo catalogo, una mostra nella mostra, è edito da Marsilio Arte. L’opera parte dall’idea di cancellazione culturale ed è il frutto di una lunga e accurata ricerca in cui sono coinvolti ambiti e discipline diverse, dalla botanica all’antropologia, dall’ecologia all’arte tessile. Un lavoro articolato che si sviluppa su tre livelli. Il primo livello si basa sulla relazione tra l’estinzione delle lingue indigene – il trenta

per cento di esse si estinguerà entro la fine del XXI secolo – e la conseguente scomparsa della conoscenza delle piante medicinali. Molte piante e i corrispettivi usi farmaceutici sono noti solo in certe lingue, gli indigeni di queste zone infatti si tramandano gli usi delle piante medicinali soltanto oralmente. Se le loro lingue e loro stessi si estinguessero, anche il sapere che custodiscono sparirebbe e così le piante continuerebbero a esistere sulla Terra, ma nessuno sarebbe più in grado di riconoscerle, nominarle e usarle. Il sapere medicinale delle culture indigene è quindi fortemente minacciato. Questa preoccupante possibilità si intreccia con un altro processo di rimozione (secondo livello) che riguarda le donne che si sono occupate di botanica dal Settecento al Novecento: scienziate, botaniche, esploratrici e illustratrici che hanno raccolto esemplari di piante ignote, contribuendo con i propri studi e ricerche alla loro classificazione e catalogazione e di cui non si sa molto, dal momento che i loro nomi e i relativi apporti scientifici sono stati non di rado rimossi o non riconosciuti. Le lingue stanno alle piante come i nomi delle botaniche stanno alla storia delle scienze: parole inghiottite dalle foreste o estirpate dalle enciclopedie. Il terzo livello, infine, è legato metaforicamente alla figura di una grande artista del Novecento, Hannah Ryggen, svedese ma naturalizzata norvegese, autodidatta, che nei suoi arazzi seppe far convergere istanze politiche e soluzioni formali realizzando monumentali opere manifesto che raccontavano il suo tempo.

Abbiamo incontrato l’artista per approfondire questo intrigante, vitale progetto espositivo.

Lucia Veronesi - Photo Andrea Sgambelluri

Il progetto e la sua messa in mostra. Come si presenta al pubblico di Ca’ Pesaro La desinenza estinta?

Il grande arazzo installato nel Portico del Museo combina immagini e parole, in una composizione che oscilla tra il figurativo e l’astratto. Dalla foresta emergono piante curative provenienti dall’Amazzonia, parti di corpi femminili, silhouette di botaniche dimenticate, nomi di piante in lingue indigene, nomi degli apparati del corpo umano collegate all’uso delle piante, nomi delle popolazioni e di lingue a rischio di estinzione e nomi delle botaniche. A tratti la parola si fa illeggibile scomparendo sullo sfondo, dietro le figure; a tratti, invece, riemerge con il suo pieno significato. L’arazzo diventa così una sorta di manifesto in cui si rende evidente il rischio di un’enorme perdita, di cui l’umanità è la causa e, forse, un possibile antidoto. La Corte interna del Museo, invece, si trasforma per l’occasione in un luogo di ricerca in cui i materiali che ho raccolto nei mesi di residenza tra Londra, Trondheim e Zurigo, e che successivamente ho rielaborato per la pubblicazione del catalogo, esplodono nello spazio fisico lasciando che lo spettatore entri in una dimensione allo stesso tempo discorsiva e visiva. La stanza accoglie anche un piccolo archivio con le biografie delle donne che si sono occupate di botanica dal Settecento al Novecento e la lista completa delle piante, e del loro uso medicinale, prese in considerazione per il progetto. A settembre invece nella Project Room verrà presentato il video che unisce immagini di archivio, riprese ad hoc dei giardini botanici di Londra e Zurigo e la tecnica di animazione dello stop-motion unita al collage. Il video è un viaggio visionario che pone l’accento su alcune botaniche del passato e le loro scoperte scientifiche.

Da dove nasce l’esigenza di esplorare il tema della cancellazione culturale?

Nei miei progetti più recenti ho iniziato a lavorare con la parola, considerandola elemento presente dell’opera. Parole, lettere, frasi che entrano a far parte del lavoro non solo con il loro significato, ma anche come elementi formali e decorativi della composizione. Durante alcune ricerche in rete ho letto di uno studio condotto da

Left ENG behind

A multimedia artist who has extensively explored themes of space and landscape, Lucia Veronesi employs collage, video, drawing, and textile art across various disciplines ranging from anthropology to botany. Based in Venice since 2003, she has exhibited her work in galleries both locally and internationally. Her new project, La desinenza estinta, is now set to become part of the permanent collection at the Venice International Gallery of Modern Art at Ca’ Pesaro, situated on the ground floor portico as part of a larger exhibition curated by Paolo Mele and Claudio Zecchi. La desinenza estinta draws inspiration from the disappearance of Amazonian languages, the loss of knowledge concerning medicinal plants, and the historical oversight of prominent female botanists.

Design and staging.

The large tapestry installed in the portico is a combination of images and words, a composition that touches both the figurative and the abstract. Amazonian medicinal plants emerge from the woods, as do parts of female bodies, long-forgotten plant silhouettes, indigenous plant names, names of human organs related to the functions of plants, name of extinction-threatened indigenous peoples, and name of female botanists. In places, the words grow unintelligible and merges with the background, though behind the figures, it may show up again in its full meaning. The tapestry is a sort of manifesto that shows the risk of a catastrophic loss, with humanity being the cause of it and, possibly, a cure.

The Museum’s inner court, instead, has been turned into a place for research on materials I collected in London, Trondheim, and Zurich and then elaborated. They explode in physical space and allow visitors to enter a dimension that is narrational and visual at once. The room houses a small archive of eighteenth-to-twentieth-century female botanists’ biographies and the complete list of plants, and the medicinal use thereof, that we used in our project.

La desinenza estinta, vista dell’installazione, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venezia - Photo Francesco Allegretto

arte

Jordi Bascompte e Rodrigo Cámara Leret che ho trovato molto inquietante ma anche affascinante e che, soprattutto, mi permetteva di coniugare nel lavoro le lingue e la botanica, tema che avevo già affrontato in un progetto precedente e che volevo ancora esplorare. Da qui ho costruito il progetto su più livelli, collegandomi alle biografie delle botaniche del passato e alla vita e al lavoro di Hannah Ryggen, che studiavo già da qualche tempo.

Che sensazione prova a far parte della collezione permanente di Ca’ Pesaro?

Pensare che La desinenza estinta entrerà nella collezione permanente del Museo ufficialmente a partire da luglio mi rende molto orgogliosa. Ca’ Pesaro è stato da sempre il mio museo preferito, dove ogni tanto mi rifugio per ammirare nelle sale Casorati, Rodin, Arturo Martini. Non avrei mai pensato di poterci entrare anche come artista. Ma quando ho deciso di fare domanda per l’Italian Council insieme a Ramdom, ho pensato che fosse il museo perfetto e ho mandato, piuttosto titubante, lo confesso, una mail alla direttrice, Elisabetta Barisoni. Il suo entusiasmo nell’accettare la sfida insieme a noi è stato un elemento fondamentale per lo sviluppo e la riuscita del progetto.

Con questo lavoro ha vinto l’Italian Council 2023, che l’ha portata a collaborazioni con altri paesi. In passato ha partecipato anche a numerose residenze artistiche in giro per l’Europa. Alla luce di tutte queste sue esperienze trova sia più facile oggi per un’artista o un artista italiani lavorare all’estero?

L’esperienza dell’Italian Council mi ha insegnato innanzitutto a osare e a chiedere. La ricerca dei partner culturali all’estero è stata intensa, ma quello che mi ha stupito è stata la rapidità con la quale ricevevo risposte, sia positive che negative, da parte di istituzioni, università, spazi no profit.

Sicuramente l’attenzione verso gli artisti in alcuni paesi è più forte, con una maggiore attitudine a considerare l’artista come un qualsiasi altro professionista. In alcuni paesi poi esistono sindacati a difesa dei diritti degli artisti, fondi per promuovere progetti e sostenere nuove produzioni nell’ambito dell’arte contemporanea, del teatro, della performance. In Norvegia, ad esempio, ogni volta che un artista fa una mostra riceve uno stipendio e così anche lo spazio che lo ospita. Credo ad ogni modo però, confrontandomi anche con colleghi stranieri, che il mestiere dell’artista sia difficile un po’ ovunque.

L’Italian Council rappresenta sicuramente una, o forse l’unica, delle possibilità per molti artisti italiani di poter realizzare concretamente nuove produzioni, di pubblicare cataloghi, di passare periodi di ricerca all’estero partecipando a residenze con un supporto economico.

Quali sono i suoi maestri, gli artisti da cui ha tratto massima ispirazione nel corso della sua formazione?

Mi sono diplomata in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. I pittori sono stati i primi artisti di riferimento per me. Potrei farne un lungo elenco: Philip Guston, Sigmar Polke, Peter Doig, Marlene Dumas, Dana Schutz, ma anche Pipilotti Rist, Ilya Kabakov, Gordon Matta Clark, fino a Otobong Nkanga, Ibrahim Mahama… Per non citare poi molti italiani, compresi i miei coetanei, che sono ottimi artisti che stimo e che seguo con assiduità. Vivere a Venezia

Ca’ Pesaro è stato da sempre il mio museo preferito, dove ogni tanto mi rifugio per ammirare nelle sale Casorati, Rodin, Arturo Martini...

mi offre la straordinaria possibilità di conoscere nuovi artisti grazie in particolare alle molteplici attività, mostre, festival che la Biennale annualmente organizza. Sono in continua formazione e molto curiosa, l’elenco è in continua evoluzione.

Le donne sono state il soggetto principale di alcuni suoi lavori più recenti. Anche ne La desinenza estinta viene esaltato l’importantissimo lavoro di catalogazione, studio e illustrazione da parte di botaniche, esploratrici e illustratrici, scienziate rimaste in larga parte sconosciute. Un oblio tutto al femminile. Per le donne oggi la strada è ancora in salita, come vede il futuro a riguardo? Al tempo stesso non crede che il #MeToo, il politicamente corretto, possano portare gravi limitazioni espressive nel mondo dell’arte, della libera creatività?

Il movimento #MeToo è corale e questa è la sua forza. Fa sentire le donne meno sole, le fa sentire parte di un gruppo, le protegge. Per troppo tempo certi comportamenti erano considerati normali. Averli scardinati ha scatenato una ribellione incredibile, al di là delle aspettative. Mi ha colpito che ci siano state reazioni completamente opposte. Da una parte una specie di movimento femminista d’élite, guidato da star e attrici famose. Dall’altro lato donne altrettanto celebri che denunciavano il pericolo di una caccia all’orco. Per me ci sono delle valide ragioni da tutte e due le parti. In più è stata un’occasione per ripensare alle proprie esperienze considerandole non solo come episodi isolati, ma leggendole all’interno di un vero e proprio sistema. Le statistiche parlano ancora chiaro: poche donne curatrici di musei o con ruoli dirigenziali con salari non adeguati e quotazioni di opere di artiste più basse alle aste. È vero che nelle ultime Biennali non poche artiste donne hanno ricevuto il Leone d’Oro, ma la percentuale di quelle rappresentate anche a livello nazionale è sempre molto inferiore rispetto ad artisti uomini. E non credo proprio che la causa sia la qualità del lavoro… Forse sposterei la questione. Mi piacerebbe parlare prima di tutto del rispetto in assoluto: il rispetto della persona e della professione. I tempi però sono cambiati. Artiste che erano attive negli anni Settanta mi hanno raccontato che si sentivano parecchio isolate in un mondo di artisti uomini. Oggi si vive in una condizione diversa, anche grazie a critiche militanti (ad esempio Lea Vergine, scomparsa qualche anno fa) che si sono battute per noi tutte. Parlare di “artiste donne” e “artisti uomini” porta a una separazione che etichetta il nostro lavoro come “femminile”, “di genere”, identificandolo con stili prestabiliti, pre-giudicati, di fatto mortificandolo. Parliamo invece di opera d’arte e basta, del lavoro dell’artista e della sua sensibilità, della professione di artista, senza specificazioni di genere maschile o femminile. Cerchiamo di rispettare questo e considerarlo un lavoro

come tanti. Sarebbe bello che non ci fosse più bisogno di fare statistiche per contare quante artiste donne sono presenti in Biennale, nei musei, nelle mostre, ecc. Forse solo a quel punto avremo vinto tutti.

Ha scelto di vivere a Venezia dove tutto è arte. Cosa non sopporta di questa città e di cosa non potrebbe fare a meno?

Sono arrivata a Venezia nel 2003 per un tirocinio che sarebbe dovuto durare un mese e mezzo; ho finito per lavorare alla Biennale fino al 2007. È stata una bellissima esperienza tra ufficio stampa e coordinamento catalogo, ma altrettanto impegnativa. Per parecchi anni ho interrotto i miei progetti artistici e quando ho ricominciato è stato come iniziare da zero.

A Venezia ho trovato una qualità di vita alta: in termini di relazioni umane, di facilità nello stabilire rapporti. Sono entrata in contatto diretto con una bella comunità di artisti, vivace e molto aperta. Ho iniziato a frequentare i mercoledì degli artisti nello studio di Maria Morganti e lì ho conosciuto bravissimi artisti che sono diventati anche grandi amici. Ho sempre considerato la città lagunare come un luogo per me provvisorio, ma sono più di vent’anni che sono qui e ora sento che mi appartiene. Non posso fare a meno della bellezza che stordisce, della presenza dell’acqua e della sensazione di vivere in un unico “interno”. Non sopporto certe logiche di potere che ne decidono i destini. A fine giornata posso avvertire che ogni singolo mattone di questa città è stanco e stravolto per quanto è stato calpestato da masse mordi e fuggi di turisti.

Dopo La desinenza estinta, quali sono i suoi prossimi progetti? I prossimi progetti proseguiranno la tematica botanica e la conoscenza medicinale e avranno a che fare con il tessile e il collage. Per ora sto sviluppando un progetto per una bi-personale insieme a Laura Pugno nel 2025 a Torino, nella galleria di Francesca Simondi. Sto anche lavorando a un video per il nuovo progetto di restauro dei giardini e dell’orto del Redentore promosso da Venice Gardens Foundation. Avevo già collaborato con la Fondazione e la presidente Adele Re Rebaudengo realizzando un video in stop-motion per i Giardini Reali, restaurati qualche anno fa. Sto anche aspettando delle risposte per alcune residenze all’estero; se sarò selezionata potrò di nuovo partire…

In September, a video will be screened in the project room: archive footage, images of the botanical gardens in London and Zurich, and stop-motion and collage videos. This will be a visionary journey into the scientific discoveries made by these botanists.

Working with words.

In my most recent projects, I started working more and more with words, using them as building block of the artwork. Words, letters, sentences enter the art not only with their meaning, but as formal and decorative elements of the composition. I once read of a study by Jordi Bascompte and Rodrigo Cámara Leret that shocked and intrigued me, though above all, allowed me to add to my art language and botany, a theme that I had used once before and was eager to work on again. From this point, I worked on my project on several levels, references botanists and the life and work of Hannah Ryggen, which I had been studying for a while.

Forgotten women.

#MeToo is something that allows women to feel less alone. It makes them feel part of a group, it protects them. For too long, certain behaviours were considered normal. Challenging this was faced with unbelievable revolt, much beyond expectations. What shocked me is that there have been completely opposing reactions. On one side, an élite feminist movement headed by stars and famous actresses, one the other, women that were just as famous who denounced the risk of unjustified manhunt. I think there are reasons to be heard on both sides. Also, this has been a chance to think about our experiences not only as isolated incidents, but within a system. Statistics paint a very clear picture: few women are museum curators, few are well-paid managers, and female artists’ art sells for less at auctions. It is true that in the last several Venice Art Biennale shows, many women have been awarded the Golden Lion, but as a percentage, female representation pales viz. male artists. And I don’t really think this is because of the quality of their work…

I think the issue lies somewhere else. I want to talk about respect first: respect for the person, and for profession. Times changed. Female artists who were active in the 1970s told me how isolated they felt in a man’s world. It’s different today, also thanks to militant critics (I’m thinking of Lea Vergine, who passed only a few years ago) who fought for us all. To talk about ‘female artists’ and ‘male artists’ might encourage to label our work as ‘female’, ‘gendered’ art, and identify it with pre-established styles, pre-judge it, eventually mortify it. Let’s talk about art, about an artist’s work, about their sensitiveness, and avoid attaching gender to it. Let’s respect art. I am looking forward to the day we won’t need statistics anymore.

The future.

My future art will follow the track of botany and medicinal knowledge. It will mostly be textile and collage art. I am currently developing an exhibition with fellow artist Laura Pugno, to open in Turin in 2025. I am also working on a video for the upcoming restoration of the Redentore garden promoted by Venice Gardens Foundation. I worked with the Foundation before and with its president, Adele Re Rebaudengo, and once produced a stop-motion video for the Giardini Reali. I am also applying for fellowships abroad, so I might just decide to leave for a while…

La desinenza estinta, installation view at Hannah Ryggen Center, Norvegia

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

La persistenza della memoria De Kooning, un tuffo nell’Espressionismo Astratto

Di fronte alle grandi tele di Willem de Kooning (1904–1997) si viene totalmente travolti dalle sue pennellate cariche di una forza che unisce gesto e colore, emozione e rigore, astrazione e figurazione; a fatica racchiuse all’interno del quadro, sembra quasi ne vogliano prepotentemente uscire, senza riuscirci. Indiscusso e geniale protagonista dell’arte americana del secolo scorso, con l’Espressionismo astratto, di cui fu uno dei più rappresentativi esponenti, ha portato oltreoceano un approccio alla pittura intriso in quelle sue radici che affondavano nel Rinascimento del Vecchio Continente.

Trasferitosi a New York dall’Olanda nel 1926, come scrive Gary Garrels curatore insieme a Mario Codognato dell’interessante, qualitativamente preziosa mostra, la più ricca mai presentata in Italia, allestita al pianterreno delle Gallerie dell’Accademia e corredata da un ricco catalogo Marsilio, «sebbene nutrito dalla cultura americana, non ha mai voltato le spalle alle tradizioni secolari dell’arte europea in cui era profondamente radicato».

Una selezione mirata di 75 opere – provenienti dal Guggenheim di Bilbao, dal Moma e Whitney di New York, dall’Hirshorn di Washington, dal Thyssen di Madrid, dal Pompidou di Parigi, dallo Stedelijk di Amsterdam, oltre ai generosi prestiti di collezionisti privati e della stessa Fondazione de Kooning – consente di ripercorrere i due periodi fondamentali trascorsi dall’artista in Italia, che lasciarono un’impronta decisiva nell’evoluzione del suo linguaggio. Incuriosito già negli anni ‘40 dagli affreschi pompeiani scoperti al Metropolitan insieme all’amico Arshile Gorky, con la sua prima visita in Italia nel 1959, prima a Venezia e poi a Roma, e di nuovo nel 1969 quando vi si fermò per quattro mesi, fu inevitabilmente attratto dalle atmosfere lagunari, dai riflessi del sole nei canali o in bacino di San Marco, dal verde del parco di Villa Borghese; si innamorò della carnalità del colore visitando la Cappella Sistina, frequentò gli studi di Afro e Scialoja, che stavano facendo conoscere l’arte italiana nella Grande Mela creando un ponte tra i due continenti. E proprio nella penombra dell’atelier di Afro in via Margutta de Kooning realizzò su fogli Fabriano una cinquantina di bianchi e neri, alcuni dipinti su entrambi i lati, altri a collages, che in apertura del percorso espositivo svelano come, attraverso l’uso delle larghe campiture ottenute con smalti neri mescolati a pomice macinata per smorzarne la lucentezza, l’artista riusciva a ricreare la stessa profondità raggiunta con le masse cromatiche stese a pennello.

A confronto A Tree in Naples in una esplosione di turchesi, Door to the River dai delicati impasti nelle tinte pastello, Villa Borghese in un intersecarsi di pennellate blu e verdi, gialle e rosa, che pur nell’astrazione espressionistica lasciano intuire tracce formali appena accennate, frutto delle memorie visive che il pittore sfogò sulle tele dopo il soggiorno romano al suo rientro a New York.

Willem de Kooning e l’Italia

Fino 15 settembre Gallerie dell’Accademia www.gallerieaccademia.it

Al tripudio di colore delle grandi opere si alternano in mostra, inattesi, una serie di bronzetti nati dall’incontro casuale a Roma con Herzl Emanuel un suo compagno del New York Federal Art Project degli anni ‘30, che a Trastevere aveva avviato una fonderia. De Kooning, circondato dall’opulenza romana delle statue barocche, attratto dalla tridimensionalità, ma soprattutto dalla possibilità di sperimentarla con la creta, trasferì grazie alla duttilità del materiale emozioni intime laddove la mano si sostituiva quale medium al pennello. Una sorta di trasposizione tattile che lo riportava all’insegnamento di Tiziano che nell’ultima fase della sua vita aveva fatto sgorgare le emozioni su tela direttamente dal proprio corpo senza l’uso del pennello; così come nella Pietà del cadorino al piano superiore delle Gallerie i contorni si sfaldano in un magma materico, nelle sculturine di de Kooning la corporeità antropomorfa sembra sciogliersi nello spazio. Ne realizzò tredici dai 18 ai 40 centimetri, poi fuse in bronzo da Emanuel. Rispetto al dripping pollockiano, alla rottura che i suoi contemporanei espressionisti astratti fecero con la tradizione in una sorta di tabula rasa col passato, il legame che de Kooning sentiva con gli antichi maestri era apertamente ammesso: «Rinascimento, Rubens, i veneziani e le loro pennellate, nessuno poteva farne di migliori». In questo lo considerarono un “traditore”, un punto di vista per gli altri inconcepibile. «Sono diverso da loro, affermò lui stesso, perché sono interessato a tutta l’arte. Mi sento più vicino alla tradizione». La sua prima partecipazione alla 25. Biennale di Venezia risale al 1950 col grande dipinto Excavation costruito su linee spezzate per piani paralleli alla maniera cubista, ma vagamente biomorfiche nello stemperarsi arrotondandosi nello spazio del quadro. Acquistato due anni dopo, è oggi uno dei capolavori dello straordinario Art Institute di Chicago. Nella serie delle Women esposte nel Padiglione USA alla 27. Biennale

Willem de Kooning, Untitled (Rome), 1959 Collezione privata - © 2023 The Willem de Kooning Foundation, SIAE

del 1954 sembra attuare un omaggio alla carnalità del ritratto muliebre veneziano che riesce a reinterpretare secondo la sua sensibilità, grandiosa, del tutto “americana”, spaziando da Tiziano e Tintoretto, per arrivare a Picasso, Cezanne, Giacometti fino a quei Cobra vicino alle sue origini olandesi. Come seduto nella carrozza di un treno, percorre un binario della storia dell’arte, la osserva dal di dentro, ne fa parte, arricchendola col proprio contributo. Fu presente di nuovo alla 28. Biennale del 1956 in una collettiva nel Padiglione USA.

Finché terzo e ultimo viaggio in Italia nel 1972; vacanza prolungata con tappa obbligata e visita di persona alla 36. Biennale, all’epoca improntata su corpo, performance, video e fotografia.

Quella fisicità fu essenziale per de Kooning: la mano che spaziava sulla tela, il nudo e la carne non descritti ma allusi dalla forme opulente e barocche gli derivarono da quel suo amore per il passato attualizzato nel presente. Specchio di quello che lo storico dell’arte David Rosand definì “l’eloquenza del pennello”.

Ulteriore, indiretto e non cercato omaggio a Venezia sembrerebbe l’Untitled del 1982 in chiusura, dove una danza di linee e di colori, quasi fossero stemperati nell’acqua e galleggianti nel vuoto bianco della tela, danno vita a forme in movimento, riportandoci inconsapevoli con la memoria alle rarefatte e minimali figure nello spazio di Virgilio Guidi, romano di nascita, veneziano dadozione, maestro di figurazione e astrazione in una combinazione perfetta di atmosfere di luce. Michela Luce

The persistence ENG of memory

Before Willem de Kooning’s paintings, we cannot help but feel overwhelmed by the power of his gestural colours, his emotion, his rigour, his abstraction and figuration barely contained within the picture. Widely acclaimed protagonist of twentieth-century American art and a genius of abstract expressionism, de Kooning, who was born in the Netherlands and moved to New York in 1926, brought to America an attitude for art that grew on the roots of European Renaissance.

The exhibition is a selection of 75 pieces that allow us to visualize the two sojourns the artist took in Italy, which deeply affected the evolution of his language. He visited Venice, where he loved the atmosphere of the lagoon and the reflections of the sun in the canals, and Rome, with the greenery of Villa Borghese leaving an indelible impression in his mind. At the Afro workshop in Rome, de Kooning created the series of paintings and collages that open today’s exhibition and show his use of black enamel and pumice dust to render depth. Further on, we shall see the explosion of turquoise in A Tree in Naples, delicate pastels in Door to the River, and diluted formal traces in abstract expressionist masterpieces such as Villa Borghese

Opposite the triumph of colour are a series of bronze maquettes inspired by de Kooning’s encounter with Herzl Emanuel, a former fellow of his at the New York Federal Art Project in the 1930s who later ran a bronze foundry in Rome. De Kooning was surrounded by opulent Roman baroque sculpture and attracted by the third dimension, and especially, by the possibility of experimenting with clay in a sort of tactile transposition of emotion in lieu of the brushstroke. See Renaissance-era Pieta by Titian on the upper level of the museum and how the colours flake apart into pure matter: in de Kooning’s sculptures, corporality seems to blend with surrounding space. The artist sculpted thirteen pieces, which Emanuel later fused in bronze.

Willem de Kooning, Villa Borghese, 1960 Guggenheim Bilbao, Bilbao© 2023 The Willem de Kooning - Foundation, SIAE
Willem de Kooning, Clamdigger, 1972 MNAM, Centre National George Pompidou, Parigi - © 2023 The Willem de Kooning Foundation, SIAE

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Al limite del reale

Le anime ribelli di Jean Cocteau

Jean Cocteau ha un animo da giocoliere, illustrato perfettamente nella foto scattata da Philippe Halsman per la rivista Life nel 1949. Questo termine, utilizzato nel titolo della mostra in corso alla Collezione Peggy Guggenheim Jean Cocteau. La rivincita del giocoliere, meglio descrive l’attitudine poliedrica dell’artista.

Nato in Francia nel 1889, è poeta, romanziere, costumista, drammaturgo e artista visivo. Per quanto gli venisse rimproverato di “saltare di palo in frasca”, nel suo destreggiarsi nelle varie tecniche espressive Cocteau in realtà incarna pienamente l’attitudine del Novecento nei confronti dell’arte, fornendo un incredibile scorcio nella molteplicità di stili e forme, in cui ogni espressione è un ramo appartenente allo stesso albero, senza gerarchie o rigide distinzioni.

Tutte le sue modalità espressive sono definite “poesia”, dal suo primo film Le Sang d’un poète ( Il sangue di un poeta ) del 1930 ai suoi dipinti e disegni, considerati immagini parlanti e spesso accompagnati da testi scritti a matita.

Il suo stile è unico e personale, una commistione di influenze diverse che esternano l’io profondo dell’artista giocoliere: nella sua produzione artistica coesistono riferimenti al passato e al presente, al classico e al circense.

In Les Eugènes de la guerre ( Gli Eugène della guerra ) del 1914-15, è evidente l’influenza del Futurismo nella frammentazione delle forme che evocano i bombardamenti della Prima Guerra mondiale, così come quella del Cubismo Sintetico nell’utilizzo dei ritagli di giornale sullo sfondo disegnato a matita. Attorno agli anni ‘20 aderisce al Classicismo, con una vasta produzione di disegni di nudi maschili dal sapore classico e dai tratti sintetici, specchio della sua vita privata e orientamento sessuale, spesso motivo di scandalo e polemiche. Il suo rapporto con l’omosessualità, mai dichiarata pubblicamente, ma tutto fuorché nascosta, è segnata dal tomo pubblicato per la prima volta nel 1928, Le livre blanc ( Il libro bianco ), in cui scrive della sua attrazione sessuale verso gli uomini. Inoltre, dedica il saggio breve con illustrazioni di Man Ray, Le Grand Ecart, a Barbette, stella parigina transgender del trapezio. La sfida delle norme sociali sull’orientamento sessuale era un tema caro ad un avanguardista a cui Cocteau era particolarmente legato, Marcel Duchamp, o meglio, Rrose Sélavy. Infine, nell’automatismo e nella ripetizione delle forme in alcune opere grafiche e nella creazione di collage, quali Orphée aux bêtes ( Orfeo e le belve ) del 1926, Cocteau mostra una chiara influenza surrealista. Matilde Corda

The limits ENG of art

Jean Cocteau has the soul of a juggler, look how beautifully it shows in the picture Philippe Halsman took for Life magazine in 1949, with the exhibition’s title, The Juggler’s Revenge, following suit. Born in France in 1889, Cocteau was a novelist, costume designer, playwright, and visual artist, though poetry is what defines him best – both in verses and in general attitude for the arts. His style is unique and personal: in Les Eugènes de la guerre (lit. ‘The Eugenes of War’) of 1914–15, Cocteau clearly shows the influence of Futurism in the fragmentation of shapes, a reference to WWI bombings, as well as that of Synthetic Cubism in the use of newspapers clippings. In the 1920s, he adhered to Classicism, conducive to a large production of classical male nudes and an outlet of his homosexuality, never quite concealed, and addressed in his 1928 essay The White Paper. The challenge to societal norms on sexual orientation was a dear topic to an Avant-gardist Cocteau was friends with, Marcel Duchamp a.k.a. Rrose Sélavy. Lastly, his 1926 graphic art project Orphée aux bêtes shows apparent surrealist influence.

Jean Cocteau. La rivincita del giocoliere Fino 16 settembre Collezione Peggy Guggenheim www.guggenheim-venice.it

Jean Cocteau, Oedipus, or, the Crossing of Three Roads (Œdipe ou le carrefour des trois routes), 1951
Private Collection © Jean Clement Eugene Mar Cocteau, by SIAE 2024
Jean Cocteau (Artcurial), Orpheus’s Mirror (Miroir d’Orphée), 1960
Collection Kontaxopoulos Prokopchuk, Brussels © Jean Clement Eugene Mar Cocteau, by SIAE 2024

arte

A TRIBUTE TO ILYA KABAKOV

Uno sguardo dal cielo

Intervista Emilia Kabakov

di Mariachiara Marzari

Chiara Bertola e Fondazione Querini Stampalia rendono omaggio a Ilya Kabakov a un anno dalla sua scomparsa, maestro dell’arte concettuale, geniale sperimentatore della poesia e delle potenzialità espressive dei materiali nello spazio espositivo, celebrato come il più importante artista nato in URSS, in seguito naturalizzato statunitense, del XX secolo. E lo fanno con l’aiuto di Emilia Kabakov, l’altra metà del mondo d’arte e di vita di Ilya, unione indissolubile che ha caratterizzato l’intero loro percorso artistico. «In tutto questo tempo – raccontano Ilya ed Emilia Kabakov – abbiamo lavorato con le idee, intorno all’immaginazione e all’utopia. Crediamo davvero che l’arte, che ha un posto importante nella nostra cultura, possa cambiare il modo in cui pensiamo, sogniamo, agiamo e riflettiamo. Può trasformare il nostro modo di vivere».

La mostra Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov offre un viaggio poetico tra alcune installazioni storiche dei due artisti in dialogo con gli ambienti antichi e le collezioni d’arte del Museo della Fondazione Querini Stampalia, diventando opere site-specific che svelano agli spettatori mondi inaspettati. Da traghettatori, Ilya e Emilia svelano fratture, inventano connessioni, mostrano qualcosa che rischiava di andare perduto o di non essere più visto. La mostra chiude il 14 luglio, ma la forza dell’arte di Ilya e delle parole di Emilia rimangono indelebili, sospese in un tempo dove la bellezza rende immortali. Grazie Emilia per averci concesso il privilegio di questa bellissima chiacchierata.

Un omaggio che vuole essere una rinnovata scoperta di un artista fondamentale per l’arte contemporanea e di un sodalizio creativo – Ilya + Emilia – senza eguali. «Il nostro lavoro è la nostra vita» affermate. Quale significato assume per lei la memoria e come questo progetto espositivo rende universale il concetto di sintesi artistica?

Io e Ilya avevamo un rapporto unico, eravamo compagni in tutto: arte, scrittura, decisioni da prendere ogni giorno… Quando Ilya arrivò ad Ovest affermò che il mondo dell’arte occidentale era “un paradiso” e fu per questo pesantemente criticato dai giornalisti. Non avevano considerato un dettaglio importante della sua vita: veniva da una società totalitaria in cui il cittadino comune era trattato come se fosse nulla, in cui le persone non avevano alcun diritto. Lì ogni persona era proprietà dello stato e non c’era diritto individuale di pensiero, scrittura, parola. Non ebbe mai la possibilità di esporre,

non poteva mostrare le opere che creava nel suo studio se non a pochi amici fidati. Naturalmente, quando gli venne data questa incredibile opportunità di creare e mostrare arte e di dire quello che voleva per lui è stato come entrare in un sogno.

All’epoca io vivevo già in Occidente da quattordici anni e sapevo che molti artisti non avevano qui vita facile, ma la differenza stava tutta nel fatto che in questa parte di mondo era concessa loro la libertà di fare, dipingere e dire ciò che liberamente desideravano. Quando si è nati nel mondo libero, ci vorrebbe un’esperienza personale di vita sotto un regime totalitario per riuscire a comprendere lo stato d’animo di una persona che improvvisamente riceve qualcosa che gli è stato negato per tutta la vita. La nostra vita è stata magica per trentacinque anni ed era quanto desideravamo entrambi. Non era questione di soldi, bei vestiti, auto o case, ma il semplice ed enorme fatto di poter sognare e poter trasformare i sogni in realtà. Siamo stati fortunati nel realizzare molti dei nostri progetti, soprattutto perché l’abbiamo fatto insieme. D’un tratto Ilya se n’è andato. Mi ha fatto paura la sua scomparsa improvvisa. È stato per me difficile da credere e impossibile da accettare. Ho provato a tenerlo con me attraverso queste mostre, accompagnando il passato dentro il presente e la sua anima con me per mezzo della sua arte.

In dialogo con il Museo della Fondazione Querini Stampalia la mostra Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov traccia le linee fondamentali della vostra arte. Perché queste installazioni rendono emblematico il vostro DNA comune di artista?

È molto difficile creare un dialogo tra i vecchi maestri e l’arte moderna. Non puoi semplicemente “intervenire”. Questo spazio ap-

Ilya e Emilia Kabakov, The fallen chandelier, 1997 - Photo Michele Sereni

A glimpse ENG from heaven

Curator Chiara Bertola and Fondazione Querini Stampalia celebrate Ilya Kabakov, one year after his death. A maestro of conceptual art and a genius experimenter of the poetry and expressive potential of materials. Kabakov is known as the most important Soviet-born, naturalized American artist of the twentieth century. Ilya’s other half, in life and in art, Emilia gave her all both in the indissoluble union of her joint artistic journey and in making it possible to celebrate her late husband. “All this time – once said the Kabakovs – we have been working with ideas, imagination, and utopia. We do believe that art, which enjoys such a special place in our culture, may change the way we think, dream, act, and reflect. It can change the way we live.”

Exhibition Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov offers a poetic journey to some historical installations by the Kabakovs, shown in an ideal conversation with the ancient halls and the art collection at the Museum of Fondazione Querini Stampalia. Ilya and Emilia reveal fractures, invent connections, show something that we were almost losing, or risked never being seen. The exhibition will close on July 14, but the strength of Ilya and Emilia Kabakov’s art is indelible in the realm where beauty makes things immortal. Thank you, Emilia, for the privilege of talking with you.

An homage that is also a newly found discovery of an essential modern artist and a creative partnership – Ilya + Emilia – that has no equals. “Our work is our life”, you stated. What meaning does memory have for you, and how does this exhibition make the concept of artistic synthesis universal? Ilya and I created a unique partnership. We were partners in everything: art creation, writing, everyday decisions, and both artistic and common issues. When Ilya came to the West, he said that the western art world is ‘a paradise’ and was immediately berated by many journalists for saying that. They forgot a few very important details of his life: he came from a totalitarian society, where the common citizens were treated like nothing, where people had no basic rights for anything. There, every person was a property of the State and had no rights for any individual thinking, writing, saying anything. He never had an exhibition, he couldn’t exhibit the art he was making in his studio and could only show to a few trusted friends. Of course, when he suddenly was given this enormous possibility to create, to show, to say what he wanted, he felt that he entered dreamland. I had been living in the West for fourteen years by then, and I knew how difficult life was for many artists. The difference was: they had a freedom to do, to write, to paint, and to say whatever they wanted. When you are born in a free world, it takes personal experience of life in one which is a totalitarian dictatorship, to understand the person, who suddenly is given something he was deprived of all his life. Ilya and I had this magic life for 35 years. And that was the life both of us wanted to live. It was not about money, or better clothes, cars, or homes. It was about being able to dream and then going out and make our dreams to become a reality. We were lucky to see many of our projects realized, and we were together. Suddenly he is not here. It’s scary. It’s hard to believe and impossible to accept. And I was trying to keep him with me by creating exhibitions. Bringing the past into the present. Bringing his soul with me through our work.

© Luis Sevillano
Ilya e Emilia Kabakov, Concert for a fly, 1986 - Photo Michele Sereni

arte

A

partiene a loro, è il loro territorio, la loro arte vive qui. Quello che possiamo fare è creare un interesse specifico, un rapporto di curiosità in cui dimostrare rispetto per lo spazio stesso, per la sua atmosfera, la sua anima. E funziona, o almeno spero abbia funzionato con questa mostra. Io e Chiara Bertola abbiamo disposto le opere in modo che non stridessero con l’ambiente, di modo che lo spettatore avesse l’opportunità di apprezzare l’armonia, la pacifica coesistenza tra passato e presente. Dopotutto il DNA dell’arte moderna trova le sue radici nel passato, non è nato dal nulla cosmico. Si è sviluppato, è cresciuto, è maturato in un ambiente culturale fantastico creato da artisti, architetti, artigiani e mecenati del passato.

Molte installazioni rendono evidente un filo diretto con il divino, con l’Altro. Qual è il suo rapporto con la religione, il sacro, la spiritualità?

È una domanda difficile. Quante persone, oggi, dichiarano di credere in Dio e negli angeli? Non molte. Siamo troppo pratici, troppo orientati sulle situazioni quotidiane, problemi, piaceri… Io e Ilya, però, crediamo fortemente nell’importanza della cultura. In un certo modo la cultura e i musei hanno assunto su di sé il ruolo che la chiesa ha avuto per secoli: elevare le persone ad un piano superiore di esistenza e dar loro la possibilità di capire che ci sono cose e obiettivi più importanti nella nostra vita terrena. La religione ci dà delle regole morali per vivere e sopravvivere come società. Alimenta le nostre anime. L’arte e la cultura, la musica e la poesia ci mostrano il bello della vita e ci permettono di esprimere i nostri sentimenti, di usare la creatività, di usare i sei sensi. Questo è quanto ci rende e ci mantiene umani. Io credo anche nelle fate… e nelle loro fiabe.

La Complessità contemporanea è dominata da parametri che hanno modificato e condizionato il concetto di tempo. Concetto che emerge in modo evidente in molte installazioni in mostra: tempo vissuto, tempo percepito, tempo rappresentato. Quale misura del tempo assume ora la vostra arte? Quale per lei il concetto di immortalità nell’arte? Ottima domanda a cui penso non sia affatto facile rispondere. Cos’è davvero l’immortalità? Guardiamo al passato: l’arte, i libri e la musica che hanno superato la prova del tempo sono immortali, così come lo sono, ovviamente, i loro autori. Penso che il criterio principale sia stato e sarà sempre questo: la complessità può sembrare ingannevolmente semplice, ma quando lasciamo il museo o la sala concerto o il teatro ci rendiamo conto che abbiamo mille domande cui rispondere. L’arte rimane con te, ti altera in senso buono, ti stimola a pensare. E questo io definirei immortalità. Dio ha creato il mondo, la prima installazione totale. Poi gli uomini hanno creato le chiese, un’altra installazione totale.

La gente viene qui per riflettere sul bene e sul male, sulle proprie vite, per chiedere aiuto, chiedere perdono, chiedere un miracolo. Penso che ci siano posti speciali sulla Terra in cui un qualche canale può collegarci a un potere superiore e gli architetti che hanno scelto questi posti per costruire chiese e monasteri di qualunque religione in qualche modo li conoscevano o li riconoscevano. Installazione totale significa elevare un luogo dell’arte al massimo livello di coscienza umana. Ma questo è un discorso molto più grande…

Che rapporto sussiste tra Ilya/Emilia e Venezia? Quanto è stata importante questa città per le vostre creazioni?

Venezia è una città magica a tutti i livelli. C’è qualcosa qui che stimola la creatività sempre; la tua connessione col passato e il presente è più fragile, ma è forse uno dei pochi luoghi della Terra in cui l’aria è piena di mistero, un posto dove camminare la notte e aspettarsi di incrociare qualche figura del passato. Il passato qui non è morto, vive ancora.

Pensiamo forse che così tanti artisti, musicisti, poeti e scrittori siano venuti per puro caso a Venezia per vivere e infine morirci?

Tornando alla sua domanda sull’immortalità, è forse Venezia il posto in cui le anime continuano a vivere e continuano a creare? È il luogo in cui le persone di talento sentono questo richiamo di eternità?

Io e Ilya abbiamo vissuto e lavorato a Venezia per mesi sui nostri progetti alla Querini Stampalia e alla Biennale, non di rado quando c’erano pochissimi turisti in città. Io la magia di questa città l’ho vista. Alcuni dei nostri più bei progetti, come Where Is Our Place? (domanda eterna per ciascuno di noi…), li abbiamo realizzati qui, in questa magica città.

Ilya and Emilia Kabakov Art Foundation nel custodire il vostro lavoro si pone come promotore e finanziatore di artisti, eventi educativi e mostre per la comprensione e lo scambio culturali. Quale secondo lei il ruolo e la forza dell’arte per un presente più consapevole e per un futuro più alto e vivibile della nostra società?

Un’altra domanda cui è davvero difficile rispondere. Penso che la cultura sia ciò che ci rende diversi, ciò che ci rende umani, che ci dà il diritto di chiamarci umani. Se distruggiamo il nostro passato distruggiamo noi stessi. Penso che qualsiasi distruzione, anche una apparentemente inoffensiva dissacrazione di una qualche opera, che siano sculture, quadri, oggetti storici, debba essere punita per legge come distruzione di patrimonio culturale, che è per definizione una proprietà comune. Non ci sono “giuste cause” che rendano legittimi questi atti. Il dialogo culturale può, in molti casi, aiutare a mantenere intatti i rapporti umani, consolidandoli.

L’arte cambia il mondo? Non credo, ma certamente può cambiare le persone, i loro atteggiamenti. E queste stesse persone possono a loro volta cambiare il mondo e creare un futuro migliore per la prossima generazione di artisti.

Ilya e Emilia Kabakov, I will return on April 12..., 1990 - Photo Michele Sereni

Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov converses with the Fondazione Querini Stampalia Museum as it traces the guidelines for your art. How do these installations make your common art DNA emblematic?

It is very difficult to create a dialogue between old masters and contemporary art. You cannot just ‘intervene.’ They own the space. It’s their territory, their art lives there. But you can create a very specific ‘interest’ a kind of ‘curious relationship,’ where you show respect for the space itself, its beauty, its atmosphere, the Soul of the Place. And this works. Or I hope it did work in this show. Chiara Bertola and I were trying to place the works so they wouldn’t clash with surrounding, that the viewer would see the harmony, the peaceful coexistence between the past and the present.

After all, the DNA of contemporary art has its roots in the art of the past. It didn’t grow in the Cosmic Emptiness. It developed, grew, and matured among the fantastic cultural field, created by the artists, architects, furniture makers, and art patrons of the past.

Many installations make the relationship with the divine, with Otherness, apparent. What is your relationship with religion, the sacred, and spirituality?

It’s a difficult question. How many people today will admit that they do believe in God and in angels? Not many. We are too practical, too much oriented on everyday situations, problems, pleasures.

But Ilya and I strongly believe in the importance of culture. In a way, Culture, the museums of today, took upon themselves the role which the Church was playing for many centuries: to elevate people to higher level of existence. To give them this possibility to understand that there are more important things and goals in our lives. Religion gives us the moral rules how to live and survive as a society. It feeds our souls.

Culture, art, music, and poetry show us the beauty of life, give us the possibility to express our feelings and to use our creativity, to use our six senses. This is what makes us and keeps us human. And I do also believe in fairies. And all those beautiful fairytales.

Modern Complexity is dominated by parameters that influenced and conditioned our concept of time, which obviously emerges from many of the installations: lived time, perceived time, represented time. What measure of time does your art have? What is your idea of immortality in art?

This is a very good question. I don’t think it can be answered so easily. What actually is immortality? Let’s look at the past: the art,

books, and music which survived the test of time are immortal. And so, obviously, are the authors of all those things. I think the main criterion always was and always will be: the complexity of the good art, books, and music. It could look or sound deceptively simple, but only when you leave the museum or concert hall or theatre do you realize that you have millions of questions. It stays with you. It is disturbing you in a good way, makes you think. And that’s what I would call immortality. God created the World, it was the first total installation. People created Churches and that was the next total installation. People come there to think about good and evil, about their lives, to ask for help, for forgiveness for… miracle. I do think that there are special places on Earth, where channels connected to a Higher Power are located, and architects who choose the places for building all those churches and monasteries, for any religions, somehow did know or feel them. Total Installation is elevating an art space to highest level of human consciousness. But that’s a much bigger theme.

What relationship is there between Ilya/Emilia and Venice?

How important has Venice been for your art?

Venice is a magical city, on every level. Something about it always stirs your creativity, your connection with the past and present is very fragile here, but it’s probably one of the rare places on Earth where the air is full of mystery, where you walk at night and really are expecting some figure from the past to pass by. The past didn’t die here. It’s still alive. Did anybody ever think why so many artists, musicians, poets, and writers come to Venice to live and…to die? Coming back to your question about immortality. Maybe, Venice is the place where the souls keep living and even creating? And talented people somehow feel this pull of eternity here.

Ilya and I did work and live in Venice for many months during our big projects for Querini Stampalia and for the Venice Biennale. And some of those months were when Venice was empty of tourists. I can attest to incredible magic of this city. And some of our best projects, like Where Is Our Place? (an eternal question for anyone) were done here, in Venice. At the Querini Stampalia.

Ilya and Emilia Kabakov Art Foundation keeps your art and promotes and sponsors other artists, educational events, and exhibitions to foster cultural exchange and understanding. What is, in your opinion, the role and the strength of art for a more aware present and for the future of our society?

Another question which is very difficult to answer in our time. I strongly believe that Culture is what makes us different, what makes us human, which gives us the right to call ourselves human. If we destroy the cultural past of humans, we will destroy ourselves. I do believe that any destruction or even, presumably, ‘harmless’ desecration or destruction of cultural artifacts – sculptures, paintings, historical objects – has to be punished by law as destruction of World Cultural Heritage, Universal Property. There are no “good causes” or reasons to validate such things. Cultural dialogues in many cases can help to keep human relationships intact. Can art change the world? No, I don’t believe it can. But it definitely can change people, their attitude, and those people in many cases can change the world. And create a better future for the next generation of artists.

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Opera aperta

Carsten Höller e la nuova scala di Palazzo Diedo

Opera settecentesca dell’architetto Andrea Tirali, l’imponente Palazzo Diedo torna protagonista della scena veneziana e internazionale dopo un accurato restauro, che ha messo in luce la bellezza degli affreschi e la struttura dell’edificio trasformandolo nella nuova sede di Berggruen Art&Culture. Fortemente voluta dal suo fondatore Nicolas Berggruen, che nel 2022 ha acquistato la proprietà di Palazzo Diedo a Cannaregio, la sede il 20 aprile è stata aperta al pubblico con l’esposizione inaugurale Janus. A cura di Mario Codognato e Adriana Rispoli, la mostra accoglie le opere di undici artisti che hanno creato per l’occasione altrettante installazioni site-specific originali ideate da Urs Fischer, Piero Golia, Ibrahim Mahama, Sterling Ruby (che già aveva realizzato nel 2022 un intervento sulla facciata del Palazzo intitolato HEX ), Jim Shaw, Hiroshi Sugimoto, Aya Takano, Lee Ufan, Liu Wei, Mariko Mori (che ha appena inaugurato la sua meravigliosa e poetica installazione Peace Crystal nel giardino sul Canal Grande di Palazzo Corner della Ca’ Granda e il cui progetto è esposto al primo piano di Palazzo Diedo) e Carsten Höller. La missione del filantropo è quella di avere a Palazzo Diedo gli studi d’artista e una collezione di opere contemporanee site-specific commissionate via via agli artisti per il Palazzo. La scala elicoidale costruita da Carsten Höller rientra perfettamente in questa ottica. Doubt Staircase è il titolo di questa scala a chiocciola funzionale che collega i piani nobili del Palazzo, rimasto incompiuto nel ‘700 dopo la morte del proprietario e dell’architetto. Mancava dunque la scala. Perché non farla fare a un artista del calibro di Carsten Höller, famoso per i suoi scivoli asimmetrici, le giostre sghembe e interventi strutturali speciali e particolari? Ecco allora una scala a chiocciola con un’inclinazione di 5 gradi, in teoria un’inezia, che provoca nel fruitore un senso di spaesamento, incertezza e disequilibrio, sensazioni tipiche per chi è avvezzo all’uso delle opere di Höller. Esempi di scale a chiocciola a Venezia non ce ne sono molti, ma la più famosa in assoluto è la monumentale scala Contarini del Bovolo, capolavoro assoluto del primo Rinascimento, cui seguono le quasi nascoste scale di Palladio alle Gallerie dell’Accademia, quella a Palazzo Grimani e ancora quella del Sardi al Complesso dell’Ospedaletto. Dov’è allora il dubbio nella scala di Palazzo Diedo? La scala sembra (ed è) perfetta, ma è inclinata, ha una linea inusuale, è insomma tutta storta, come d’altronde Venezia, una linea continua e spezzata che si riflette, perfetta, nella sua immensa imperfezione. Irene Machetti

Open ENG art

Eighteenth-century Palazzo Diedo is open again in its full glory after careful restoration that rescued both the ancient frame of the building as well as the invaluable frescoes that decorate its interiors. The Palazzo is now home to Berggruen Art&Culture, who opened the doors to visitors on April 20 with art exhibition Janus, curated by Mario Codognato and Adriana Rispoli. The exhibition comprises site-specific art by eleven artists.

The mission of philanthropist Nicolas Berggruen is to host artist’s studios and a permanent collection of art commissioned to resident artists.

The spiral staircase built by Carsten Höller is one such piece. Doubt Staircase connects two floors of Palazzo Diedo, though in Höller’s style, the steps are not quite plumb, but five degrees askew. It sounds like nothing, but enough to alienate and unbalance us. There are a few other famous spiral staircase in Venice, the most famous being at Palazzo Contarini dal Bovolo, but why is Höllers a doubt staircase? Because it looks, and is, perfect, but is tilted, unusually aligned, in short, it is crooked, like Venice is, after all, a continuous, segmented line that perfectly reflects its immense imperfection.

Carsten Höller. Doubt Staircase Palazzo Diedo / Berggruen Art&Culture palazzodiedo.it

Carsten Höller, Doubt Staircase, 2024. Photo Massimo Pistore. Courtesy Carsten Höller Studio and Palazzo Diedo, Berggruen Arts & Culture

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Madre Oceano

In un’epoca in cui le sorti del Pianeta oscillano appese a un filo, in cui le terre e i mari collassano sotto al grave peso dell’inquinamento, un canto di rivolta si leva dalle profondità del Pacifico infrangendosi, come un’onda, sulle rive della laguna. Con la mostra Re-Stor(y)ing Oceania, ancora una volta TBA21 − Academy e Artspace Sydney invitano Venezia e il mondo ad unirsi alle invocazioni delle comunità indigene che abitano le isole dell’Emisfero australe, minacciate non solo dall’inesorabile innalzamento dei mari ma anche, e soprattutto, dalle devastazioni provocate dal deep sea mining Significativo che a ospitare questa preghiera collettiva sia proprio la chiesa di San Lorenzo, dove si riversa l’oceano fisico e spirituale delle artiste indigene Latai Taumoepeau e Elisapeta Hinemoa Heta, guidate, in un ancestrale canto di chiamata e risposta, dalla curatrice Talhoi Avini. Con Deep Comunion sung in minor (ArchipelaGO, THIS IS NOT A DRILL), attraverso delle piattaforme azionate dai movimenti dello spettatore, Taumoepeau esorta a prendere parte attivamente all’antico rituale del Me’etu’upaki, in cui l’atto di pagaiare ci ricorda che solo con fatica e cooperazione è possibile dirottare le sorti del mondo. Ma come intraprendere la rotta verso il cambiamento? La risposta è a qualche metro di distanza: seduti in cerchio sotto i dodici cieli Maori, i visitatori sono chiamati a superare il divario tra l’individuale e il collettivo, tra il privato e il pubblico, per sperimentare la relazionalità con il prossimo e soprattutto con un antenato comune: Moana, l’oceano, custode del segreto dell’esistenza e madre del mondo, che merita, ora più che mai, la nostra attenzione. Adele Spinelli ENG In a time when the future of the planet hangs by a thread, when lands and oceans collapse under the weight of pollution, a song of rebellion grows from the depths of the Ocean crashing, like a wave, on the shores of Venice. Re-Stor(y)ing Oceania is a project by TBA21 – Academy and Artspace Sydney that invites us to join indigenous communities in the southern hemisphere that suffer from rising sea levels and especially from devastating deep sea mining. Artists Latai Taumoepeau and Elisapeta Hinemoa Heta invite us to take part in the ancient ritual of Me’etu’upaki, rowing together will teach us that only effort and cooperation can change the world’s fate. How to set the right course? Look only a bit further: sitting in a circle under the twelve Maori skies, we will learn how to overcome the gap between the individual and the collective.

Re-Stor(y)ing Oceania

Fino 13 ottobre Ocean Space, Chiesa di San Lorenzo, Castello 5069 www.ocean-space.org

Siamo fatti di forma

La Biennale Arte di Adriano Pedrosa racconta storie stratificate, in cui le biografie degli artisti sembrano contenerne altre al proprio interno. Sradicamenti civili e sociali ci consegnano artisti sottoposti alle più diverse influenze espressive, che hanno confezionato uno stile personale fatto di ingredienti differenti. L’atto artistico sta anche qui, nel saper accostare elementi a prima vista inconciliabili. Julie Mehretu a Palazzo Grassi vede allestita la mostra più grande che le sia mai stata dedicata in Europa, e nel suo caso la stratificazione è visibile, dirompente, quasi tangibile allo sguardo. Come le stratificazioni e le sovrapposizioni che compongono i suoi dipinti, provenienti da musei internazionali e dalla stessa Collezione Pinault, la mostra prende forma nelle corrispondenze che nel corso degli anni si sono stabilite tra le diverse opere. La sua è una pratica radicata nell’astrazione, alimentata da storia dell’arte, geografia, lotte sociali, dai movimenti rivoluzionari e dal carattere di tutti coloro che hanno lasciato un segno in questi importanti settori della conoscenza e della creazione, intesa come atto d’ispirazione.

Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin, artisti e amici di Mehretu rispondono al suo appello e a quello della curatrice Caroline Bourgeois, formando un corpus espositivo dai confini liquidi, non incanalati da ordine cronologico.

ENG Adriano Pedrosa’s Biennale is a story of layered stories. Each artist tells their own, and each story has multiple within. Uprooting is the driving force behind a range of different expressive influences, in turn honing the personal style of each. This is art, too, being able to pair and blend items that appeared impossible to reconcile. Artist Julie Mehretu just opened the largest exhibition ever dedicated to her in Europe: in her case, the layering is apparent, shockingly so, almost tangible. Her practice was born with abstraction, and grew feeding on art, geography, social struggle, revolutionary movements, and the characters of everyone who left their mark and inspiration in these disciplines. Several other artists contributed their creations, which curator Caroline Bourgeois assembled in an exhibition of undefined contours and unrestrained by chronological order.

Fino 6 gennaio 2025 Palazzo Grassi www.pinaultcollection.com

Julie Mehretu. Ensemble
Elisapeta Hinemoa Heta, The Body of Wainuia¯tea, 2024
Re-Stor(y)ing Oceania, installation view at Ocean Space - Photo Giacomo Cosua
Julie Mehretu, Ensemble, installation view, Palazzo Grassi - Pinault Collection © Julie Mehretu

La febbre del sabato sera A Nebula, Christian Nyampeta e l’arte del dialogo sociale

Christian Nyampeta è un artista poliedrico che esplora come le comunità possano coesistere con le violenze globali, impiegando interazioni sociali e dialoghi come strumenti espressivi. Ha esposto in prestigiose istituzioni come la Biennale di Shanghai e il Carnegie International, e nel 2019 ha vinto l’Art Prize Future of Europe e l’European Union Prize.

Nyampeta è stato selezionato per presentare la sua opera When Rain Clouds Gather nell’ambito di Nebula, collettiva ospitata al Complesso dell’Ospedaletto in occasione della Biennale Arte 2024, a curata da Alessandro Rebottini e Leonardo Bigazzi e promossa da In Between Art Film, che valorizza la cultura delle immagini in movimento e supporta artisti e musei stimolando l’esplorazione e il dialogo tra discipline e time-based media. Nebula vede la partecipazione degli artisti internazionali Giorgio Andreotta Calò, Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, Saodat Ismailova, Cinthia Marcelle e Tiago Mata Machado, Diego Marcon, Basir Mahmood, Ari Benjamin Meyers e Christian Nyampeta.

When Rain Clouds Gather segue tre amici durante uno dei loro ultimi weekend a New York: Malia (interpretata da Maliyamungu Gift Muhande), Tina (Akeema-Zane) e Manu (interpretato dallo stesso Nyampeta). La storia inizia in modo familiare, con i protagonisti intenti a cucinare e organizzare il loro sabato sera. Tuttavia, le loro discussioni su cosa fare si trasformano presto in litigi, rivelando dinamiche sociali, storie personali e ideali profondi. Attraverso le loro conversazioni, emergono temi di ingiustizia globale e lotta personale. Tina tenta di mantenere viva la memoria del Congo

attraverso la sua arte, nonostante l’indifferenza dei suoi datori di lavoro. Malia denuncia le ingiustizie mondiali attraverso l’advertising e una miniserie sui genocidi ignorati dal resto del mondo. Manu, invece, riflette sulla rappresentazione della violenza nelle menti umane. Tuttavia, ognuno di loro critica gli altri per non fare abbastanza, evidenziando l’ironia di lavorare per istituzioni che contraddicono i loro ideali. La presenza costante dei social media e dei dispositivi elettronici disturba continuamente i protagonisti, rendendo difficile anche solo organizzare una serata insieme. Un tema cruciale dell’opera è proprio l’influenza pervasiva dei dispositivi elettronici e dei social, i quali, sebbene utili per il lavoro e la connessione sociale, agiscono come costante fonte di distrazione per i protagonisti, interrompendo non solo le loro discussioni ma anche i loro momenti di introspezione. Le notifiche, i messaggi e le chiamate spezzano i dialoghi, mostrando come la tecnologia moderna possa frammentare la concentrazione e impedire un’interazione significativa. Ciò riflette una realtà contemporanea in cui la connessione digitale sovrasta spesso quella umana amplificando il senso di alienazione e divisione sociale. La trama verte, inoltre, sul dilemma tra il vivere serenamente la propria vita quotidiana e l’urgenza di affrontare le difficoltà globali. Tina desidera solo passare un sabato sera divertente, nonostante la consapevolezza delle gravi ingiustizie nel mondo. Questo desiderio di normalità si scontra con le aspettative degli altri due artisti, creando una tensione che invita lo spettatore a riflettere sul proprio ruolo nel mondo.

When Rain Clouds Gather di Nyampeta offre uno sguardo profondo su come le nostre vite personali si intrecciano con le grandi questioni sociali, sollevando domande sul nostro impegno verso un cambiamento significativo. Beatrice Poggesi

Christian Nyampeta, When Rain Clouds Gather, in Nebula - Photo Lorenzo Palmieri, Courtesy of Christian Nyampeta and Fondazione In Between Art Film

arte

M9 – MUSEO DEL ’900

La dimensione del blu

Intervista

di

Ampia retrospettiva, fortemente voluta da M9 – Museo del ’900 per la visione che offre sul nostro contemporaneo, dedicata ai quarant’anni di carriera del grande artista canadese Edward Burtynsky, il cui lavoro si concentra sull’impatto ambientale del sistema industriale sul nostro Pianeta. Curata da Marc Mayer, già direttore della National Gallery of Canada e del Musée d’Art Contemporain di Montréal, con progetto allestitivo di Alvisi Kirimoto, la mostra BURTYNSKY Extraction/Abstraction propone oltre 80 fotografie di grande formato, 10 murales ad altissima definizione, un’experience di realtà aumentata e un’inedita sezione, chiamata Process Archive, che mostra gli strumenti e le fotocamere usate negli anni da Burtynsky nel corso della sua instancabile navigazione intorno al mondo, inclusi quei droni che gli hanno permesso di allargare ulteriormente l’obiettivo delle sue fotocamere.

Le sue grandi fotografie si presentano a un primo sguardo come affascinanti e indecifrabili campiture di colori e di forme astratte, che lasciano il pubblico sospeso di fronte a oggetti naturali o antropici spesso non immediatamente intellegibili, eppure in grado di attrarlo nel cuore delle opere di cui sono elementi connotanti. Abbiamo avuto il privilegio di visitare la mostra con Edward Burtynsky, facendoci da lui guidare dentro le sue spettacolari e monumentali fotografie.

Le sue immagini sono un pugno nello stomaco e un lampo di bellezza assoluta. Un dualismo molto netto. Da dove è partito e quale l’esito ultimo della sua ricerca?

Più che bella in sé, per me l’opera deve risultare innanzitutto coinvolgente e deve saper toccare temi universali. Sin dall’inizio della mia carriera sono sempre andato alla ricerca di insediamenti industriali di enormi dimensioni in giro per il mondo: le più grandi miniere, le più grandi fabbriche, le più grandi cave… Lavorare su siti di così ampie dimensioni richiede un grande lavoro di ricerca. Dato il punto di partenza, è un processo che può richiedere mesi, a volte anni, prima di trovare le risposte, le soluzioni giuste. Bisogna capire cosa possa essere visivamente davvero persuasivo e come poter riuscire a raccontare una storia coinvolgente usando una macchina fotografica. Il mio obiettivo è rivelare, non accusare. Mostro posti che la maggior parte delle persone non avrà mai l’occasione di visitare di persona e che sono fondamentali per mantenere il nostro stile di vita moderno.

Le sue fotografie fissano in modo lucidissimo gli effetti dell’agire umano, ma gli uomini compaiono raramente o sono troppo piccoli per essere notati. Un’assenza che diventa immanenza. Quale pensiero sottende questa sua scelta? Raramente ho restituito ritratti coi miei scatti. Nelle occasioni in cui appaiono persone queste sono lì per dare il senso delle proporzioni del soggetto principale della fotografia. È una specie di inversione del principio del sublime di Turner, ove la Natura era considerata la forza maggiore di tutte. Oggi è l’industria a schiacciare, a sovrastare gli uomini grazie a delle dimensioni gigantesche dagli uomini stessi definite e sviluppate. È l’industria oggi, quindi, l’elemento dominante del nostro vivere, forza usurpatrice sulla natura stessa.

La mia vicinanza al mondo naturale è al contempo profondissima sin da quando ero ragazzo, per cui anch’essa, la Natura, non può che ricoprire un ruolo centrale nelle mie immagini assieme a queste incursioni umane/industriali, relegando in una collocazione visiva residuale l’uomo.

Penso che questo punto di vista ci aiuti a fermarci e a pensare a cosa abbiamo davvero davanti agli occhi e a che cosa stiamo davvero facendo. Per me queste immagini vogliono essere degli spunti di riflessione per un dibattito più approfondito sull’impatto che collettivamente produciamo sul mondo naturale.

Burtynsky with Jim Panou in Agbogbloshie Recycling Yard, Accra, Ghana, 2017 (detail)
Photograph by Nathan Otoo, courtesy of the Studio of Edward Burtynsky

Into ENG the Blue

A wide-ranging retrospective curated by Marc Mayer and dedicated to the 40-year career of Canadian artist Edward Burtynsky. His work focuses on the environmental impact of the industrial system on our planet, and through a profound historical understanding of image creation and an impressive mastery of the photographic medium, Burtynsky invites his viewers to look at places that exist beyond our common experience – places that satisfy the desires and needs of the present, but at the same time determine the future of our habitat.

Your images are so powerful, a veritable burst of absolute beauty. Their duality is quite apparent, too. Where did you start your research, and what is your goal?

I tend to consider the work more compelling vs beautiful and try to touch on universal themes. From the very beginning of my career, I have always sought the largest scale instances of human industry around the world – the biggest mines, the biggest factories, quarries, etc. With all of the subjects and themes I’ve followed, looking for this scale has helped start me in the research process. From there the research can take months, sometimes years to find the places around the world where those examples exist, and figure out what might be visually compelling and how I can tell that story with my camera.

My goal has always been to be revelatory, not accusatory in showing people these places that most would never have the opportunity to visit, but are essential to maintaining our modern everyday lives.

Your photographs memorialize vividly the effect of human action, though humans are rarely seen, or are too small to be appreciated. An absence that is immanence. What idea lies behind this choice?

I have rarely been a portrait photographer. When people appear in my photographs it is to assist in representing the scale of what I’m showing – an inversion almost of Turner’s sublime, where Nature was once the largest force. Now humans are dwarfed by the industries we have created, and the impact of those are now a larger force or a usurper of Nature herself. My own affinity for the natural world began when I was a young boy, so the focus in my photography is her and these industrial / human incursions vs the humans themselves.

I find this perspective makes us stop and think about what we are actually seeing. And more importantly, what we are actually doing. I see these works as inflection points for deeper conversations about our collective impact on the natural world.

Your “large-scale industrial raids” allowed you to take on a journey through the inexorable, slow decline of our planet that is both extraordinary and dramatic. What impressed you the most? Is there time to reverse course?

One of the places that will forever have an impact on me is the shipbreaking yards in Bangladesh. I will never forget the feeling of having travelled back in time and entering a landscape that only Charles Dickens could have fathomed - it was harsh, dan -

Salt Encrustations #2, Lake Magadi, Kenya, 2017 © Edward Burtynsky, courtesy Flowers Gallery, London

arte

M9 – MUSEO DEL ’900

Le sue “incursioni industriali su larga scala” le hanno permesso di affrontare un viaggio straordinario e al contempo drammatico attraverso l’inesorabile e lento declino del nostro Pianeta. Cosa l’ha impressionata di più? È ancora possibile un cambiamento di rotta?

Tra i luoghi che più di altri hanno lasciato un profondo segno nella mia interiorità e nel mio segno artistico i siti di smantellamento delle navi in Bangladesh occupano una posizione di prima rilevanza. Al loro cospetto, non potrò mai dimenticare quella livida sensazione di aver viaggiato indietro nel tempo e di aver visto qualcosa che solo Charles Dickens avrebbe potuto magistralmente restituire due secoli dopo: il senso di pericolo, la durezza, il caldo, il tetro, la sconsolante precarietà dell’abitare simili contesti. Il tutto accompagnato dalla difficoltà di ammettere, di accettare che quei posti erano nient’altro che il risultato di un’attività umana. Un altro sito che mi ha lasciato interdetto per opposti motivi è stato il complesso delle antiche foreste nell’isola di Vancouver, in Canada. È altrettanto incredibile pensare che quei luoghi facciano parte del nostro mondo: la loro bellezza è al di là della comprensione umana per la forza, la varietà, la maestosità che sprigionano con disarmante naturalezza. Sono luoghi come questo, luoghi che ancora non sono stati macchiati dal progresso umano, che mi danno la speranza che siamo ancora in tempo per cambiare rotta. C’è ancora così tanta natura da proteggere!

Siamo stati affascinati dal dittico Salt Encrustations #2 & #3, Lake Magadi, Kenya, 2017, tanto che una parte di esso è stata scelta per la copertina del numero di giugno di Venews. Che cosa rappresenta per lei l’elemento acqua e l’azzurro come colore che ricorre enfatizzato nell’ambiente e in alcuni particolari di oggetti naturali o artificiali fotografati?

L’acqua è sicuramente sempre stata un elemento centrale del mio lavoro. L’acqua rappresenta insieme vita e distruzione, bellezza e devastazione. Nel dittico Salt Encrustations #2 & #3, Lake Magadi, Kenya, 2017 l’acqua è ritratta in questa dualità: sia come forza di vita che come elemento foriero di trasformazioni ambientali. L’eccezionale paesaggio del lago Magadi, con quelle sue incredibili formazioni di sale, racconta di cambiamenti geologici ed ecologici formatisi grazie all’azione di quello che è elemento più di ogni altro essenziale per la vita terrestre, segnatamente qui attraverso la sua evaporazione. Non so se sia un’attrazione conscia, ma il colore blu è certamente protagonista centrale nel mio lavoro. È più di un elemento visivo: simbolizza il delicato equilibrio tra la bellezza naturale e le conseguenze dell’attività umana. Blu è il colore che vediamo quando guardiamo oceani e cieli aperti; dà un senso di tranquillità, purezza, vitalità. Eppure nel mio lavoro il blu serve anche a ricordarci della fragilità degli specchi d’acqua. Le sfumature di blu che si trovano in oggetti naturali o artificiali sottolineano l’interconnessione esistente tra industria e ambiente. Ci ricordano che ciò che facciamo ha delle conseguenze sulla natura, spesso preoccupanti, talvolta bellissime. Spero che queste immagini facciano riflettere su quella che è oggi la nostra relazione con l’elemento acqueo. L’acqua è una risorsa essenziale per la vita e il nostro impatto su di essa è sempre più invasivo grazie allo sviluppo incontrollato delle nostre attività industriali.

I see these works as inflection points for deeper conversations about our collective impact on the natural world

gerous, hot, and impossibly bleak and difficult to reconcile that that place was a result of human industry.

I was equally taken aback by the ancient forests of Vancouver Island, British Columbia, Canada. A place equally difficult to imagine as part of our world; a hauntingly beautiful and completely natural topography and so lushly biodiverse. It’s places like this that have yet to be marred by human progress that fuel my hope that we can course correct because there is still so much left to protect.

We were fascinated by your diptych Salt Encrustations #2 & #3, Lake Magadi, Kenya, 2017, so much so that we picked it for the cover of our June issue. What does the water element represent for you, and what does the colour blue, so preciously highlighted in the environment and in details of natural and artificial objects you photographed?

Water has been a central element in much of my work, representing both life and destruction, beauty and devastation. In my diptych Salt Encrustations #2 & #3, Lake Magadi, Kenya, 2017, water certainly plays to this duality: a life-giving force and as a harbinger of environmental transformation. Lake Magadi’s unique landscape, with its vivid salt encrustations, tells a story of geological and ecological change, shaped by the presence and evaporation of this essential element.

The colour blue, which I cannot say that I consciously lean into, but is certainly highlighted in much of my work, can definitely be seen as more than just a visual element; it symbolises the delicate balance between natural beauty and the consequences of human activity. Blue is the colour our eyes pick up when looking at vast oceans and clear skies, evoking a sense of tranquillity, purity, vitality. Yet, in the context of my work, it also serves as a poignant reminder of the fragile state of our water bodies. The hues of blue found in both natural and artificial objects underscore the interconnectedness of human industry and the environment. They remind us that our actions reverberate through the natural world, often in ways that are as strikingly beautiful as they are concerning. Through these images, I hope to provoke a deeper understanding and reflection on our relationship with water. It is a vital resource that sustains life, yet it is also one we have profoundly impacted through our industrial endeavours.

Salt Ponds #3, Near Tikat Banguel, Senegal, 2019 © Edward Burtynsky, courtesy Flowers Gallery, London
Shipbreaking #13, Chittagong, Bangladesh, 2000 © Edward Burtynsky, courtesy Flowers Gallery, London

Li Chevalier I Hear the Water Dreaming

11th May - 15th September

Curated by Paolo De Grandis and Carlotta Scarpa

With scientific direction of Marta Boscolo Marchi

Museo d’Arte Orientale
Ca’ Pesaro, Santa Croce 2076 – Venezia

arte

M9 – MUSEO DEL ’900

Nelle sue fotografie anche ciò che è brutto e dannoso per l’ambiente sembra a dir poco affascinante, generando un effetto straniante di stupore in chi guarda. Non teme che una ricerca “alterata” della verità delle immagini, seppur solo da un punto di vista estetico, possa comunque indurre a relativizzare il problema ambientale in virtù di una predominanza della solennità della pura visione? Ho sempre cercato di evitare il termine “estetica del disastro” perché la maggior parte delle cose che fotografo non sono “disastri” in sé, ma il normale modo di procedere dell’attività umana. Tantomeno considero le mie fotografie come una ricerca “adulterata” della verità. Questi paesaggi sono stati fotografati in modo identico a come li si vede ad occhio nudo e benché sicuramente io cerchi di creare opere che abbiano una loro estetica e che siano pure belle, non penso che questo sia assolutamente in contrasto con lo stimolare l’attenzione e l’empatia del pubblico. Sono le qualità estetiche a rendere attraente l’arte, ciò che ci fa fermare e godere in questo caso di una fotografia; è in questi momenti di osservazione empatica che finalmente capiamo più in profondità cosa sta succedendo al Pianeta.

Quando riguarda le sue foto stampate ad alta definizione, anche a distanza di tempo, le è mai capitato di trovare nuove ispirazioni o di vedere i soggetti o gli oggetti fotografati e studiati precedentemente allo scatto, grazie all’ausilio di nuove tecnologie, in una nuova luce, trovando nuovi significati a cui prima non aveva pensato?

Non so se ho mai trovato nuovi significati in vecchie immagini dopo esserci tornato sopra ad anni di distanza. Sicuramente è successo più volte, anche nelle prime settimane di lavoro all’atto di rivedere il ripreso e di guardare i provini, che abbia notato alcuni dettagli che in un primo momento non avevo del tutto compreso o anche solo colto, specialmente nei casi di fotografia aerea. Questo è uno dei processi elaborativi che più mi attraggono della gigantografia: voglio che tutte queste immagini siano viste nelle dimensioni che sono loro proprie, così come le vediamo in M9 – Museo del ’900. In mostra c’è proprio un esempio di questi momenti di sorpresa: in Salt Ponds #3, Near Tikat Banguel, Senegal, 2019 quei motivi grigio scuri a forma di piuma che accerchiano lo stagno sono in realtà migliaia e migliaia di orme di piedi lasciate al momento della raccolta del sale. Un dettaglio che si può cogliere solo attraverso una visione ravvicinata dell gigantografia.

In your art, what is ugly and dangerous to nature almost looks charming, thus generating a sort of alienating amazement in us. Don’t you fear that an ‘altered’ research for truth in images, even if only from an aesthetic point of view, might diminish the scope of environmental issues for the sheer predominance of the solemnity of vision?

I have always shied away from the term “disaster aesthetics” because so much of what I photograph is not “disaster” per se, but “business as usual”. And I also wouldn’t consider my photographs an “altered” research for truth… these landscapes are photographed exactly as they would be seen by the naked eye and while of course I am also always in search of something that is visually aesthetic, even beautiful, I actually find it is more helpful in raising awareness and resonating with audiences.

It is the aesthetic quality that draws people into the images, that makes them stop and take time with each photograph, and in those moments of observation the realisation of what they are seeing dawns and from there you get a deeper understanding of what is happening to the planet.

When you look again at high-definition prints of your photographs, even a long time after, have you ever felt newly inspired or have you ever seen the subjects you previously studied and photographed under a new light, maybe finding new meanings that at first you hadn’t thought of?

I’m not sure if I have found new meaning in my images per se, after returning to them over a long period of time, but there are definitely instances – even in the initial weeks after a shoot where I am reviewing footage and looking at test prints – when I notice details and become awestruck by things I did not necessarily comprehend fully or pick up on while photographing things in the moment, especially from an aerial vantage point.

It’s one of the things I love about large format photography, and my desire to have these works seen at the scale they are intended to be shown – in an exhibition setting like BURTYNSKY: Extraction/ Abstraction at M9. An example of such a “surprise” moment is actually in this show. In Salt Ponds #3, Near Tikat Banguel, Senegal, 2019 the dark grey, feather-like patterns surrounding the salt ponds in this image are actually thousands upon thousands of footprints left by the artisanal harvesters, but that’s a detail you might only observe when standing in front of the real, large-scale photograph.

Burtynsky in Belridge, California, USA, 2003 - Photograph by Noah Weinzweig, courtesy of the Studio of Edward Burtynsky

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Non ci resta che piangere

Francesco Vezzoli, guida ragionata alla sua arte

Nella fitta concentrazione di luoghi d’arte dell’Area Marciana, la Quadreria del Museo Correr è forse la tappa di visita più penalizzata, ponendosi spazialmente a conclusione di un lungo percorso che inizia a Palazzo Ducale, per poi continuare con le ricche collezioni del Museo Correr distribuite nell’ottocentesco Palazzo Reale. La Pinacoteca, al secondo piano delle Procuratie Nuove, è invece un luogo d’arte straordinario e una raccolta di prim’ordine con un raffinato allestimento modernista di Carlo Scarpa: tavole tardo gotiche a fondo oro e tele del Rinascimento, con capolavori di Cosmè Tura, l’intera bottega dei Bellini, dal fondatore Jacopo ai figli Gentile e Giovanni, Antonello da Messina e dipinti dei ponentini, Vittore Carpaccio e gli epigoni belliniani. In questi mesi di Biennale, in questo raffinato scrigno d’arte Francesco Vezzoli (Brescia, 1971), tra i più quotati artisti contemporanei, dialoga con le opere degli antichi maestri e con l’allestimento scarpiano grazie a un’esposizione site-specific di 36 opere realizzate nel corso degli ultimi vent’anni, con le quali l’artista rigenera il percorso di visita del Museo: «Gusto e contesto possono essere rimessi in discussione» afferma Vezzoli. Il titolo della mostra, Musei delle Lacrime, rievoca il filo rosso delle opere dell’artista, dove su iconiche immagini di opere d’arte vengono create delle lacrime attraverso la tecnica intima e fortemente simbolica del ricamo. È un’indagine sulle lacrime perdute nella storia dell’arte, in particolare veneta, quella che compie l’artista, che rileva così come nelle rappresentazioni artistiche manchi l’atto di piangere. Vezzoli attinge alla vasta gamma di riferimenti personali: dalla cultura pop degli anni ‘70 e ‘80 alle culture queer, all’industria dello spettacolo, il tutto coesiste e dialoga con immagini subito riconoscibili della tradizione pittorica del passato. Nel dialogo modernista con l’allestimento scarpiano

Vezzoli sceglie un allestimento altrettanto minimalista ideato dal designer Filippo Bisagni, usando colori rosa e grigio come sfondo e creando un percorso nel percorso. Tanto è chiaro l’omaggio a Scarpa e alla sua ideologia che l’architetto è presente in mostra nell’opera Portrait of Carlo Scarpa as Doge Leonardo Loredan ispirata a Vettor Carpaccio. Forse la metafora più forte e congeniale a Vezzoli si consuma nella sala dedicata ad Antonello da Messina, completamente rivestita di travertino, dove l’icona pop Kim Kardashian appare come una moderna Madonna nelle fattezze dell’Annunciata di Antonello di Palazzo Abatellis a Palermo, non a caso un altro emblematico allestimento scarpiano.

L’esposizione curata da Donatien Grau rappresenta il nuovo corso della Venice International Foundation, sotto la presidenza di Luca Bombassei, che combina l’obiettivo di salvaguardare e tutelare il patrimonio artistico veneziano con nuove forme di fruizione e valorizzazione grazie alla forza, a volte dirompente, del contemporaneo. Imperdibile è la visita alla mostra con Vezzoli che attraverso l’audio guida da lui creata ci accompagna nel percorso espositivo mediante una narrazione ricca di spunti sull’interpretazione delle opere, su riflessioni e suggestioni personali. Franca Lugato

ENG The art gallery at Museo Correr – the Quadreria – is an extraordinary place of art, a gem in the dense art district around Piazza San Marco. The building houses a modernist installation by Carlo Scarpa and art ranging from the late Gothic period in the Late Middle Ages to the whole length of the Renaissance, with Venetian artists featured more prominently in their permanent collection. During the Art Biennale, the Museum invited artist Francesco Vezzoli to build a site-specific installation of thirty-six of his creations. Vezzoli’s art pays homage to both Scarpa’s intervention (with a Portrait of Carlo Scarpa as Doge Leonardo Loredan) and plays with pop icons contrasting ancient art.

Francesco Vezzoli. Musei delle Lacrime
Fino 24 novembre Museo Correr, Piazza San Marco correr.visitmuve.it
Francesco Vezzoli, Omaggio a Salvo (Studio Per “Self-Portrait As A Self-Portrait”), 2013-2016 (Detail)
Francesco Vezzoli, Le Gant d’amour (After de Chirico and Jean Genet), 2010 (Detail)

Una casa per le vacanze

Una sorprendente città brulicante di vita, in cui gli spazi abitati racchiudono storie, immagini e voci. Un microcosmo vibrante da esplorare, fatto di persone all’interno delle loro case, che parla dei punti di forza di ciascuno e di come si possa crescere e produrre il cambiamento. About Us. Tracey Snelling for The Human Safety Net, curata da Luca Massimo Barbero, è la nuova installazione che integra il percorso interattivo di A World of Potential nella Casa di The Human Safety Net, al terzo piano delle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco. Sculture articolate, che riproducono in scala ridotta conglomerati urbani, che l’artista americana Tracey Snelling costruisce per catturare l’essenza della vita quotidiana, dai momenti più banali alle narrazioni più intime dietro le finestre chiuse, ricreando ambienti ed edifici ispirati a luoghi da lei realmente conosciuti e indagati nel corso dei suoi viaggi attraverso il mondo.

Un percorso alla ricerca della propria identità, libertà e potenziale che la Casa di The Human Safety Net offre a tutti coloro che ad agosto saranno a Venezia. L’iniziativa è August4All, con orario estivo 10-19, tutti i giorni tranne il martedì, ingresso libero per tutti con donazione volontaria. La donazione sostiene i programmi di The Human Safety Net a favore di famiglie vulnerabili con bambini piccoli da zero a sei anni e l’integrazione dei rifugiati attraverso il lavoro e l’imprenditorialità. M.M.

ENG An amazing city, teeming with life, whose buildings house stories, images, voices. A vibrant microcosm to explore.

Exhibition About Us. Tracey Snelling for The Human Safety Net, curated by Luca Massimo Barbero, is a new installation of articulated sculptures, scale reproductions of urban agglomerates that American artist Tracey Snelling builds to capture the essence of daily life, from the most uninteresting moments to the most intimate narratives behind closed doors. This is a journey to look for our own identity, our freedom, our potential that integrates A World of Potential at The Human Safety Net, a charity programme for vulnerable families.

Specchi d’anima

Ritratti che si moltiplicano in sequenze, corpi in movimento, montaggi ed effetti speculari.

Una serie inedita di fotografie, la maggior parte al femminile, giocano con La figura e i suoi doppi – come recita il titolo della mostra –, creando un’estetica poetica e talvolta onirica che cattura l’attenzione e stimola la riflessione. Sono le opere di Monique Jacot, celebre fotografa svizzera, che scorrono lungo le pareti del piano terra di Palazzetto Bru Zane, Centre de Musique Romantique Française, un progetto espositivo promosso da Fondation Bru in collaborazione con il museo svizzero Photo Elysée, in corso fino al 14 settembre. La mostra rappresenta non solo un omaggio al talento di Monique Jacot, ma anche un invito a riflettere sul potere della fotografia come mezzo di espressione e conoscenza in dialogo con altre forme artistiche, un ponte tra il passato romantico del Palazzetto e le espressioni contemporanee. Gli inizi della sua carriera, dopo aver studiato all’Ecole des Arts et Métiers di Vevey, vedono Monique Jacot vestire i panni della fotoreporter. La sua pratica è infatti caratterizzata da una profonda dedizione alla documentazione della vita quotidiana in Svizzera attraverso reportage su temi sociali, culturali e ambientali. Particolarmente noto il suo interesse verso la condizione femminile, evidenziato nelle sue opere più famose e incisive che riflettono una sensibilità verso le questioni di genere. La fotografa, riconosciuta per il suo significativo contributo alle arti visive, nel 2020 ha ricevuto il prestigioso Grand Prix Suisse du Design.

Beatrice Poggesi

ENG Portraits multiplying in sequence, bodies arranged in motion, montages, special effects. An original series of photographs, The Figure and its Doubles, by Swiss photographer Monique Jacot, populate the ground floor at Palazzetto Bru Zane. The exhibition is co-produced with Swiss museum Photo Elysée and will be open until September 14. It is more than an exhibition of Jacot’s talent, it is an invitation to reflect on the power of photography to relate with other forms of art, and to ferry the Palazzetto’s romantic past into the world of modern expression. Monique Jacot worked as a photojournalist and is known for her features on social, cultural, environmental issues, especially those that involve the female condition.

Monique Jacot. La figura e i suoi doppi
Fino 14 settembre Palazzetto Bru Zane, San Polo 2368
Monique Jacot, Sans titre, 1995 © Monique Jacot, Fotostiftung Schweiz, Courtesy Photo Elysee

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Mettere radici All’Arsenale germoglia un seme contemporaneo

Al centro del lavoro di Klaus Littmann (1951) troviamo un’attenzione viva da parte dell’artista, curatore e produttore svizzero per la cultura quotidiana e il confronto tra arte contemporanea e spazi urbani, entità viste in relazione dicotomica. In questa prospettiva, l’installazione Arena for a Tree sembra farsi materializzazione somma di questa indagine che Littmann porta avanti da decenni nel mondo dell’arte contemporanea attraverso una carriera fatta insieme di mostre d’arte tematiche e interventi nello spazio pubblico.

Difficile trovare in questo senso un luogo più emblematico dell’Arsenale di Venezia, un tempo cuore industriale della città e oggi avamposto contemporaneo affacciato sul mondo e fulcro degli eventi Biennale. Proprio in concomitanza con la 60. Esposizione Internazionale d’Arte curata da Adriano Pedrosa Littmann porta sul versante Nord dell’Arsenale l’installazione temporanea Arena for a Tree, che si erge come un’arca con un unico protagonista al suo centro: un albero, precisamente un cipresso calvo, scelto per le sue straordinarie capacità di interazione ambientale. Da lontano Arena for a Tree sembra una capsula di seme germogliante. Da vicino l’installazione si fa scultura, architettura e podio a un tempo: la tribuna offre tre file di posti a sedere e può ospitare 50 persone alla volta, creando un’esperienza intima e una vista ideale degli alberi viventi le cui radici sono immerse in una vasca d’acqua.

Progettata da Littmann e realizzata da Schnetzer Puskas Engineers, società di ingegneria civile che opera in Svizzera e in altri paesi del mondo, l’arena è formata da una struttura di doghe di legno traslucida a forma di cesto alta 7 metri, con un design che richiama il tronco di un albero in sezione trasversale con il suo motivo concentrico degli anelli di crescita.

«Quando gli alberi sono in foglia – spiega Littmann – vediamo in loro

una luce di speranza. Quando perdono le foglie, pensiamo all’impermanenza. L’albero è un segno di vita, un rappresentante della diversità delle specie e un testimone della vulnerabilità dell’ecosistema globale».

Arena for a Tree è un’evoluzione di FOR FOREST: The Unending Attraction of Nature, la più grande installazione d’arte pubblica austriaca che ha visto Littmann piantare, nel 2019, 299 alberi ad alto fusto sul prato dello Stadio Wörthersee, a Klagenfurt. Questo progetto itinerante della Kulturstiftung Basel H. Geiger è stato presentato per la prima volta nel 2021 a Basilea, con la mostra correlata Tree Connections, e un anno dopo a Zurigo. Venezia è la sua terza e ultima destinazione, la prima a includere l’acqua come cruciale elemento ambientale. D.C.

ENG Klaus Littmann’s art means vivid attention to the culture of everyday life and a confrontation of modern art and urban spaces, which exist in a sort of dichotomic relation. In this perspective, the installation Arena for a Tree seems to materialize the artist’s investigation – which he carried out for decades – in the world of contemporary art. Arena for a Tree, installed at Arsenale Nord in Venice, develops like a giant ark with one lone protagonist within it: a tree, a bald cypress to be precise, picked for its amazing capabilities of environmental interaction. From a distance, the installation looks like a capsule for a germinating seed. As we walk closer, it turns into sculpture, piece of architecture, and podium – all three together. The bleachers sit 50, and offer an intimate, ideal view on living trees, whose roots grow into a pool. Designed by Littmann and built by Swiss contractor Schnetzer Puskas Engineers, the basket-shaped timber arena is seven metres tall and reminds of the cross section of a tree trunk with its concentric circle pattern. Arena for a Tree is the evolution of FOR FOREST: The Unending Attraction of Nature, Austria’s largest public art installation: a set of 299 trees Littmann planted in Klagenfurt.

Arena for a Tree by Klaus Littmann on the way from Marghera passing San Marco to Arsenale, Venezia, 2024 © KBH.G - Photo Federico Vespignani

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

La voce del tempo Nuova speciale audioguida della Fondazione Giorgio Cini

È una fosca giornata di fine giugno, le grandi vetrate del teatro spandono sulla sala un tenue bagliore lattescente, mentre onde leggere si inseguono all’orizzonte, svelando e celando, come per gioco, il profilo sbiadito della laguna. In lontananza, il disegno scarlatto di una vela fende la scena per svanire, d’improvviso, dietro la sagoma del pianoforte a coda. Siamo all’auditorium Lo Squero sull’Isola di San Giorgio Maggiore per assistere alla presentazione della nuova audioguida di Fondazione Cini che con quest’ultimo tassello corona il progetto di audio-racconto avviato nel 2018 dall’azienda D’Uva, da oltre 60 anni impegnata nell’interpretazione del patrimonio culturale italiano. A fare gli onori di casa è Maria Ida Biggi, Direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma di Fondazione Cini, ma sono Ilaria D’Uva, amministratore di D’Uva srl, e Andrea Erri, Direttore Generale della Fondazione Teatro La Fenice ad entrare nel vivo della questione preannunciando ciò che tra pochi istanti accadrà sul palcoscenico. Silenzio. Scoppi di motore, rombi metallici. Poi, le gravi note del pianoforte e una voce: quella del Conte Vittorio Cini che ritorna a parlare attraverso una toccante lettera indirizzata al figlio Giorgio, la cui tragica morte in un incidente aereo ispirò la nascita dell’Istituzione. Ferro e legno, vibrafono e marimba, introducono il secondo ospite, il proto-magister Andrea Palladio, autore del maestoso chiostro rinascimentale e del grandioso refettorio per i monaci. Da qui, uno dopo l’altro, i grandi protagonisti della storia dell’Isola sfilano sul palco seguendo il cammino tracciato dalle composizioni di Antonio Fresa, eseguite dal vivo, per l’occasione, dai Solisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice. Paolo Veronese e il festante banchetto de Le Nozze di Cana, Baldassare Longhena, a cui venne affidata la ricostruzione della Biblioteca dopo il rovinoso incendio del 1630, e l’“artista perfetta”, Eleonora Duse, che sulle amare note del clarinetto, apre al pubblico le porte del più ricco archivio sulla sua vita e sulla sua arte. Saranno i loro racconti ad accompagnare i visitatori alla scoperta del complesso monumentale, trasformando le consuete descrizioni storiche in appassionanti storie interpretate da voci di noti attori e attrici italiani. In un luogo in cui la conservazione e la tutela del patrimonio artistico sono vera vocazione, in cui storia e attualità si fondono e concorrono all’elevazione della cultura, il passato ritorna a passeggiare accanto a noi. Adele Spinelli

Time speaks ENG to you

Lo Squero is an auditorium in the island of San Giorgio, a short boat rides off of Piazza San Marco, and a magic place surrounded by the soft glare of the summer light in the Venetian Lagoon. We are here to learn more about the new audio guide at Fondazione Cini, the manager of the Auditorium. It all starts with the sound of an engine breaking the silence, followed by pieces of metal clashing. Then a piano plays, accompanying the voice of Vittorio Cini, in turn reading a poignant letter addressed to his son, Giorgio, who died tragically young in an aviation accident. Iron, wood, vibraphone, marimba introduce the second guest, Andrea Palladio (1508 – 1580), the designer of the cloister and refectory for the monks that populate the island. One after the other, the protagonists of the history of San Giorgio Island make their voices heard and take us to discover the monumental compound, turning what used to be uninspired historical descriptions into passionate stories interpreted by accomplished thespians.

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Divina ma non solo Palazzo Cini omaggia Eleonora Duse

Il centenario della morte di Eleonora Duse (Vigevano, 1858 – Pittsburgh, 1924) è occasione di numerose iniziative che stanno restituendo la grandezza “contemporanea” di questa leggendaria figura del teatro italiano vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento, tra queste è certamente da non perdere la mostra-omaggio in corso a Palazzo Cini, frutto della collaborazione tra Fondazione Giorgio Cini e Regione del Veneto. Eleonora Duse, mito contemporaneo offre una visione inedita su una delle più grandi attrici di tutti i tempi, mettendo in mostra non solo l’agiografica e l’elogiativa, ma esplorando temi di studio ancora aperti attraverso una ricerca approfondita negli Archivi Cini. L’allestimento evita la banalità, proponendo oggetti mai esposti prima, tra cui abiti teatrali di complessa conservazione e lettere che rivelano aspetti inediti della sua personalità. Questi tesori mostrano la Divina come un’icona del teatro italiano, non solo per la sua abilità recitativa, ma anche per il suo gusto raffinato e la sua influenza culturale.

Nata nel nomadismo di una compagnia teatrale, Eleonora Duse ha mostrato fin dalla giovane età un talento innato per la recitazione. Senza una formazione specifica, la sua carriera è un esempio di come dedizione e intelligenza possano portare al successo. Dimostrando di essere non solo un’artista straordinaria ma anche un’imprenditrice brillante, a soli 26 anni fondò la propria compagnia teatrale, diventando autonoma e rivoluzionando il teatro con uno stile di recitazione fuori dagli schemi. La sua visione del teatro andava oltre la semplice rappresentazione scenica: per lei, il teatro doveva essere un luogo di cultura e crescita intellettuale. La fondazione della Casa delle Attrici a Roma testimonia il suo impegno per il sostegno di una maggiore presenza delle donne nella cultura italiana e per la promozione della recitazione come forma d’arte. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la presentazione delle sue lettere ricevute da amici scrittori, poeti e attori: nomi illustri come Luigi Pirandello, Giovanni Papini e Ada Negri offrono uno sguardo tridimensionale sulla sua personalità, permettendo di comprenderne meglio il pensiero e stato d’animo. Attraverso queste testimonianze emerge una figura di straordinario fascino e mistero, una donna dedicata alla sua arte e alla cultura, nonché un modello di stile e dedizione per altri artisti. Eleonora Duse è spesso associata a Gabriele D’Annunzio, anch’egli presente tra le lettere, tuttavia la mostra evita di cadere nella banalità raccontando la vita privata della Divina, spesso distorta da cliché e pregiudizi, restituendo invece la sua grandezza di artista rivoluzionaria capace di dimostrare che la perfezione è una costruzione sociale da rifiutare. La sua recitazione, basata sulla ricerca estetica dell’imperfezione, rappresenta un elogio alla dedizione e alla passione per l’arte. Beatrice Poggesi

Eleonora Duse, mito contemporaneo Fino 13 ottobre Palazzo Cini, Dorsoduro 864 www.cini.it

arte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

Tra oro e penombra Mete e itinerari dal Milione di Marco Polo

«Mi piacerebbe condurti fino al punto in cui si smette di capire, si smette di immaginare; vorrei condurti dove si comincia a sentire».

Così scriveva in Mania, Daniele Del Giudice, scrittore amato da Italo Calvino – autore de Le città invisibili rievocate per Kublai Khan. «Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla»: su questo assioma paradossale che obbedisce al sogno e alla propria fede, “Paradiso ritrovato” in forma di grazia concessa da Dio che va cercata per essere raggiunta, risiede forse il successo del nome di colui che è noto come il più famoso e brillante viaggiatore, mercante e ambasciatore veneziano, dal Medioevo in poi, ovvero Marco Polo (1254-1324), di cui ricorrono quest’anno i 700 anni dalla morte.

La mostra I mondi di Marco Polo. Il viaggio di un mercante veneziano del Duecento, a cura di Giovanni Curatola e Chiara Squarcina, con la collaborazione di Marco Guglielminotti Trivel, in corso nell’Appartamento del Doge a Palazzo Ducale, richiama proprio questa sensazione in itinere di “riscoperto e indefinito”, nel particolare allestimento di “scintillante luce dorata e oscurità latente o improvvisa”, essendo incentrata sulla ricostruzione di alcuni percorsi di civiltà incontrate da Marco Polo insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo e descritte ne Il milione Il manoscritto, di cui in seguito si fecero almeno 150 esemplari in lingue diverse, fu elaborato col titolo Devisement dou monde in francoitaliano dallo scrittore Rustichello da Pisa, che vide Polo quando questi fu imprigionato a Genova nel 1298 e ne ascoltò i racconti:

ne possiamo vedere qualcuno esposto oltre al Testamento redatto dal notaio Giovanni Giustinian il 9 gennaio 1923, ove il mercante si mostra magnanimo, elargendo denaro e liberando il suo servo Pietro di nascita tartara dalla schiavitù. I Polo contribuirono anche allo sviluppo della cartografia, ne è una testimonianza il Mappamondo di Frá Mauro, che risale al 1450-1460: ben 120 voci si ritrovano, infatti, ne Il Milion. Fra i territori attraversati, di cui la mostra propone varie suppellettili e tessuti provenienti da musei italiani ed esteri, vi sono le due Armenie, la Cina, la Mongolia e la regione himalayana con il Tibet e infine l’India. La romantica veduta de La casa di Marco Polo disegnata da Giovanni Pividor nel XIX secolo, cede il passo alla modernità della ricostruzione multimediale e tridimensionale della abitazione dei Polo a San Giovanni Grisostomo, acquistata grazie alle ricchezze accumulate tramite i commerci. Nell’area che conserva traccia nella toponomastica della Corte del Milion vi è oggi, al suo posto, il Teatro Malibran, inaugurato nel 1678: scavi archeologici hanno fatto emergere vari reperti. Nel dipinto di impostazione accademica di Leonardo Gavagnin, Il ritorno di Marco Polo (Venezia, Fondazione Musei Civici), assistiamo al riconoscimento di Marco come “novello Ulisse”, uomo maturo e con barba lunga, di ritorno dall’Oriente e in atto di mostrare le sue preziose mercanzie – denaro e gioielli – ai familiari increduli e raccolti in una sala di ricevimento elegantemente solenne quanto sobria, dopo ventiquattro anni di avventure affascinanti quanto impegnative. Tranquillo Cremona evidenzia invece la sontuosa sfarzosità di Marco Polo alla corte del Gran Khan dei Tartari (1863, Roma, Gam). La nostalgia del mito della Serenissima come potenza mercantile è alimentata da busti in marmo come quelli di Francesco Bosa a Palazzo Ducale e di Augusto Gamba dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, così

Zoran-Mušicˇ, Storia di Marco Polo

Gold in the ENG shadows

come dai cartoni per i mosaici di Antonio Zona (1867, Genova, Palazzo Doria Tursi) e di Giulio Carlini, Marcus Polus Venetus (1881, villa Hanbury, La Mortola, Ventimiglia) realizzati dalle maestranze della ditta Salviati guardando alla ritrattistica veneta cinquecentesca legata a Tiziano e Tintoretto. Forse anche un pittore veneziano come Giacomo Favretto si lasciò suggestionare in quegli anni, raffigurandosi come un Marco Polo contemporaneo, in un dipinto noto come Autoritratto e dedicato “all’amico S. Salviati”, con cornice decorativa di effetto simile al mosaico.

Il mito di Marco Polo fra ‘800 e ‘900 e fino ai giorni nostri continuerà, si pensi solo ai delicati ma incisivi manifesti acquarellati su carta di Ludwig Hohlwein Marco Polo Tee del 1920-40 o al grande arazzo di lana ricamato e di formato orizzontale (1951) dell’artista sloveno Zoran Music, sintesi del viaggio di Marco Polo in cinque riquadri, un unicum per il salone del transatlantico Augustus. E ancora, l’allegria di Le Secret de Marco Polo, operette su libretto di Raymond Vincy, musiche di Francis Lopez e canzoni di Luis Mariano, fino alle “mille lire” con il falso storico dell’effigie di Marco Polo del 1982, data peraltro anche dello sceneggiato premiato con l’Emmy Award della Rai, in coproduzione con 33 paesi, per l’ottima regia di Giuliano Montaldo, le emozionanti musiche di Ennio Morricone e gli splendidi tredicimila costumi di Enrico Sabbatini, di cui attualmente una parte è visibile come originale e restaurata, più audiovisivi della serie girata in Italia, Cina, Tibet e Mongolia, in una mostra curata da Stefano Nicolao, in collaborazione con Simonetta Leoncini e Giovanni Viti, al Museo di Palazzo Mocenigo. Luisa Turchi

“If I tell you that the city I’m travelling to is non-continuous in space and time, but grows thicker and thinner in places, you must not believe we can give up looking for it.” To this paradoxical axiom that obeys dream and faith, the greatest and most brilliant traveller, merchant, and Venetian ambassador since the Middle Ages, Marco Polo, owes his fame. Exhibition The Worlds of Marco Polo. The Journey of a 13th-Century Venetian Merchant, curated by Giovanni Curatola and Chiara Squarcina, focuses on the reconstruction of some of the civilization Marco, his father Niccolò, and uncle Matteo, met in their travels and described in their memoir, co-authored by Rustichello da Pisa and known in Italian as Il Milione

Some of the earliest translations are also on exhibition, as is Marco Polo’s will, providing for freedom for his servant, Peter, his servant of Tartar birth. The Polos also contribute to the development of cartography. An ancient globe of 1450-1460 known as Mappamondo di Frà Mauro lists 120 places named in Marco Polo’s book. Of the many lands they travelled to, are Armenia, China, Mongolia, Tibet, and India.

The exhibition shows a reconstruction of the Polo house, as well as romanticized, posthumous portraits of the travellers in the guise of ‘modern Ulysses’ back from the Orient with the most precious goods. A 1863 painting by Tranquillo Cremona shows Marco Polo At The Court of Kubla Khan

The aura of Marco Polo never faded. Look at the beautiful watercolour posters by Ludwig Hohlwein of 1920-40 or the large wool tapestry by Zoran Mušicˇ, or listen to Le Secret de Marco Polo, an operetta on a libretto by Raymond Vincy with music by Francis Lopez and lyrics by Luis Mariano. The eyes of older Italians will immediately recognize the 1000-lire note issued in 1982, bearing an effigy of Marco Polo based on a spurious portrait. In the same year 1982, Italian state broadcaster RAI produced a mini-series on Marco Polo, with music by Ennio Morricone and 13,000 costumes designed by Enrico Sabbatini.

arte

IN THE CITY GALLERIES

GALLERIA D’ARTE L’OCCHIO

TOBIA RAVÀ

Memorie d’Infinito

Fino Until 27 agosto August Tobia Ravà è l’artista delle prospettive mistiche, archetipiche e progressive, sulla scia della ghematrià e kabbalah di tradizione ebraica. Visioni simmetriche e parallele d’Infinito epifanico che trovano la loro realizzazione in un presente immaginato in quanto memoria e futuro di frammenti di luce. Al di là della materia e del calcolo matematico e teosofico, crea ponti di parole e immagini che uniscono a livello spirituale e internazionale, attraverso una creatività che implode su sé stessa aprendo a mondi altri. La mostra è incentrata sulla novità dei Tondi con temi specifici che sono i suoi cavalli di battaglia, ovvero le Foreste alchemiche, gli Alberi della vita, gli Animali, i Vortici e le Architetture in un formato che rimanda sia agli specchi di Van Eyck che ai Tondi a carattere religioso di artisti del Rinascimento. La ri-creazione dei luoghi del reale tramite un linguaggio codificato e significante, nasce all’interno di un percorso armonico di permutazione lettera numero o peso, col valore numerico sequenziale che ne deriva. Fondamentali i suoi studi a Bologna con Umberto Eco, le scoperte matematiche legate a Fibonacci e verificate da Giudiceandrea con l’avallo di Odifreddi. Fra le tecniche utilizzate nelle opere, le catalizzazioni UV su alluminio ricoperte di vernici vetrificanti, le sublimazioni su raso e la fusione a cera persa dei bronzi. Oltre alle Venezie, Bosco arcobaleno e Albero di Luna, Gatta hatula curiosa, Bassotto black e Tartartripla L.T.

ENG Tobia Ravà is the artist of mystical, archetypical, progressive perspective, following in the path of the Hebrew tradition of Gematria and Qabalah. Symmetrical, parallel visions of the Infinite realize in an imaginary present and a future made of shards of light. Beyond matter and mathematical, theosophical calculation, Ravà creates bridges of words and images that come together on a spiritual, international level. Ravà studied with philosopher Umberto Eco. His art techniques include UV catalysation on aluminium, sublimation, and lost-wax bronze casting.

Dorsoduro 181 www.gallerialocchio.it | www.artepardes.org

A display of work

La Galleria Lorcan O’Neill, terza galleria contemporanea più nota a Roma, ha aperto a Venezia una sede che è un piccolo gioiello affacciato a destra sul canale con la porta d’acqua proprio di fronte a Ca’ Pesaro e a sinistra su un delizioso e verdeggiante giardino all’inglese. Con la mostra A display of work by Richard Long, la Land Art entra così “in formato lagunare”.

Un pezzo di Natura, un microcosmo ricostruito in un esiguo spazio, in forma di sentiero roccioso che corre nel centro della stanza, composto da innumerevoli pietre di marmo d’Istria e rosso di Verona, collocate sul pavimento grezzo secondo un ordine prestabilito dalla mano dell’artista e che termina a muro, contro porte dipinte con argilla e pittura. Sono le pietre che per millenni sono servite a erigere monumenti e palazzi veneziani, che ora concorrono a realizzare la linea immaginaria di un Canal Grande di ciottoli come un letto di un fiume, senza la presunzione di cadere nel mare. Ogni pietra è scelta e posta in un punto preciso per ricreare l’orizzonte di una passeggiata condivisibile in una veduta d’insieme. Al centro e ai lati delle pareti, opere che richiamano porte, onde luminose e le rughe della Terra. L’artista, originario di Bristol, nato nel 1945, pone l’enfasi sul fatto di avere attenzione per le bellezze nascoste della Laguna, tutte da riscoprire, favorendo il contatto con l’Altrove che è dentro e fuori di Noi, in un ambiente da tutelare. L.T.

ENG Established modern art gallery Lorcan O’Neill, based in Rome, opened an office in Venice: a jewel facing a canal right in front of Ca’ Pesaro, with a delightful, lush English garden on its side. Their first exhibition is Venice is A display of work by Richard Long, which makes Land Art enter the Venice art world.

A piece of Nature, a microcosm built in a tiny space in form of rocky hiking path running amid the room. The path is traced with Istria and Verona marble, white and red. They are the building blocks that for centuries were used to build the beautiful palazzos in Venice. Richard Long (b. 1945 in Bristol) highlights the hidden beauties of the Venetian Lagoon and encourages us to get in touch with the Elsewhere.

Ponte Pesaro, Santa Croce 2074 mail@lorcanoneill.com

GALLERIA LORCAN O’NEILL RICHARD LONG

GALLERIA RAVAGNAN ATTASIT POKPONG

Flowering Branch

Fino Until 12 luglio July

Galleria Ravagnan offre un interessante viaggio attraverso i dipinti di Attasit Pokpong (1977), artista thailandese che vive e lavora a Bangkok, considerato una delle stelle della scena artistica contemporanea del suo Paese. Formatosi al Rajamonkong Institute of Technology di Bangkok e laureatosi in Arte al Rajamonkong Technology Centre di Bangkok, i suoi primi lavori sono cronache visive colorate e impressioniste tratte direttamente dalle strade cittadine brulicanti di traffico o dai mercati dei fiori di Bangkok. Successivamente l’artista si afferma per i raffinati ritratti ravvicinati di donne asiatiche, in bilico tra realismo e cultura pop, con soggetti scelti prevalentemente tra i membri della sua famiglia. Lavorando sia con l’acquerello che con la pittura a olio, Pokpong utilizza spesso un contrasto di colori chiari per i volti dei suoi soggetti e scuri per gli sfondi, con riflessi vivaci per le labbra e i capelli o gli oggetti come gli occhiali. Una galleria di ritratti che saprà sorprendere.

ENG Galleria Ravagnan will take you on a journey using Attasit Pokpong’s art. Pokpong (b. 1977) is a Thai artist living and working in Bangkok and enjoying great renown in his country’s art scene. His first works are colourful, impressionist visual chronicles directly inspired by the urban visions of the incredibly busy streets of Bangkok or its flower market. Later, Pokpong began focusing on refined close-up portraits of Asian women, halfway between realism and pop culture, with the subjects picked mainly from his family members. The artist uses both oil and watercolour, and often employs contrasting light colours for faces, and dark hues for backgrounds. We will be looking at a surprising portrait gallery.

Piazza San Marco 50/A www.ravagnangallery.com

MARIGNANA ARTE

PROJECT ROOM

PIERA BENETTI Strati

13-27 luglio July

Piera Benetti vuole mostrare come i confini che separano le parti della rappresentazione – il soggetto, lo sfondo, la carta – siano in mutamento e come questo ne modifichi la relazione e il significato. Il colore è il mezzo espressivo dell’artista. Con il progetto Strati, Piera Benetti porta ad un esito radicale le tematiche che stanno alla base del suo lavoro. La messa in discussione della neutralità del bianco, dell’estetizzazione dell’operare artistico, della pretesa unitarietà del soggetto portano alla ricerca di un linguaggio che riesca non solo a dar conto della pluralità di sguardi sul reale che caratterizza il presente, ma del loro complesso convivere, accanto. I colori accostati al di fuori di accordi cromatici classici, la scelta di dipingere su una gomma i tessuti wax, i contorni tagliati su linee incurvate e spezzate mostrano uno stridore, caratteristica del lavoro dell’artista, un diverso mostrarsi della bellezza, senza armonia, per sovvertire, anche all’interno di un dipinto, le relazioni.

ENG Artist Piera Benetti shows us how the lines the separate the subjects of representation – subject, background, paper – evolve and change their relationship and meaning. Colour is her expressive media of choice, and in her Strati (lit. ‘layers’), Benetti brings to a radical outcome the neutrality of the colour white, the aestheticization of artmaking, the supposed unitarity of the subject. Her language acknowledges the plurality of the ways we look at reality. The unusual juxtaposition of colours, her choice of waxed canvas, the cutout profiles on curved, broken lines show a kind dissonance that is typical of her art: a different kind of showing beauty, forging harmony, to subvert extant relationships, even within a single painting.

Rio Tera’ dei Catecumeni, Dorsoduro 140 benettipiera.wixsite.com/benettipiera

CAPSULE VENICE

WANG

HAIYANG

Love Dart

6 luglio July-8 settembre September

Wang Haiyang (Shandong, Cina, 1984) utilizza un approccio multimediale per espandere la portata retorica dell’arte. Il suo lavoro riflette su argomenti esistenziali contemporanei e indaga, attraverso il mezzo del corpo, temi come l’identità, il linguaggio e la lussuria. Nella sua mostra personale Love Dart, a cura di Manuela Lietti, Wang Haiyang utilizza i mezzi della pittura a olio, dell’acquerello e del video per ritrarre una vasta gamma di soggetti e oggetti intrisi di ambigue potenzialità, che esistono in un costante stato di trasformazione, scambio di energia, passione e desiderio. Wang Haiyang indaga le idee di cambiamento, sessualità, piacere e istintualità per trasmettere un’esperienza priva di giudizio, che trascende la logica binaria, producendo un costante stato di fluidità tra identità, specie e generi diversi.

ENG A multi-media approach to expand the rhetorical scope of art. Wang Haiyang’s reflects on modern existential issues and investigates themes like identity, language, and lust. His personal exhibition Love Dart uses oil painting, watercolour, and video to recreate a set of subjects and objects of ambiguous potential, which exist in continuous state of transformation, energy exchange, passion, and desire.

The artist worked on the ideas of change, sexuality, pleasure, and instinct to depict an experience free from judgement that transcends any binary logic while supporting a state of fluidity between identities, species, and genders.

Fondamenta Rossa, Dorsoduro 2525 www.capsuleshanghai.com

arte

NOT ONLY VENICE

Tutti giù per terra

La terza edizione di Officina Malanotte a Tezze di Piave

Un programma di residenza artistica e una mostra open studio per riattivare il territorio attraverso l’arte contemporanea e la tradizione vitivinicola, sempre in contatto con la comunità locale: è questo il progetto Officina Malanotte, giunto quest’anno alla terza edizione e portato avanti con dedizione dalla famiglia Bonotto Delle Tezze. Fino al 21 luglio, a Tezze di Piave, gli spazi della tenuta e della cantina della famiglia – dove da secoli si porta avanti una ricerca enologica e dove si produce, tra gli altri, il Malanotte del Piave Docg, tra i vini rossi più iconici del Veneto – restituiscono al pubblico i risultati del periodo di ricerca artistica durato tre settimane, svoltosi tra i vitigni, le cantine, le corti e i vecchi (e nuovi) spazi produttivi all’inizio dell’estate.

Diversi per tecniche, indagini concettuali e mezzi, gli artisti invitati dal curatore Daniele Capra – Paolo Pretolani, Fabrizio Prevedello, Eleonora Rinaldi e Giorgia Severi – hanno dato vita alle loro creazioni senza alcuna limitazione tematica o vincoli di sorta, tranne uno: vivere in contatto con la realtà locale. Con la più totale libertà espressiva, gli artisti hanno guardato alla natura, a ciò che li circondava, e alle rispettive ricerche creative, in un clima di convivialità e confronto che si è rivelato estremamente fertile. I risultati della residenza sono ora “disseminati” in diversi spazi della tenuta, alcuni normalmente non accessibili al pubblico, a comporre una mostra-open studio da non perdere. Lavorando con la natura e con le sue tracce, Giorgia Severi realizza due frottage su vecchie lenzuola fornite dalla famiglia e dagli altri abitanti del paese, uno tratto da un vitigno e l’altro eseguito sulla superficie di una monumentale quercia di oltre 250 anni, vero e proprio “membro della famiglia” Bonotto.

Negli spazi dell’ex stalla e del vecchio negozio del materassaio, posti tra la corte interna e la strada principale del paese, Paolo Pretolani ed Eleonora Rinaldi hanno trovato il loro atelier temporaneo. Per i propri dipinti, il primo si è ispirato allo spazio e agli oggetti che lo circondavano, ma anche al cielo, che diventa lo scenario quasi magico e surreale per uccelli, antenne per le telecomunicazioni, dischi volanti e aerei militari dalle forme vagamente vegetali o animali; la seconda, invece, ha colto l’occasione per approfondire la potenza espressiva del disegno e dello studio sulla figura umana e sul suo doppio, resa attraverso colori sgargianti e un’atmosfera magica e inafferrabile, sospesa nel tempo. Fabrizio Prevedello presenta due sculture: da un lato, un’opera in cui i materiali industriali e tipici dell’architettura – non a caso uno dei suoi maestri è Carlo Scarpa –, come ferro e cemento, incontrano quelli più caratteristici dell’arte, quali gesso e marmo. Grazie a delle colature di cemento liquido (aggiunte ogni volta che il lavoro è stato staccato e riposizionato da un luogo della tenuta all’altro), la “creatura” è cresciuta come un essere organico ed emerge ora al centro della parete esterna di uno dei capannoni nuovi. Dall’altro, un imponente “treppiedi” di ispirazione scarpiana, che ‘muovendosi’ trascinato su uno degli appoggi, lascia sul suolo dei segni concentrici ed effimeri quanto il segno di un gessetto.

Officina Malanotte si conferma un’esperienza autentica, in cui artisti, cittadinanza e pubblico diventano protagonisti attivi.

Officina Malanotte

Fino 21 luglio Tenuta Bonotto Delle Tezze, Tezze di Piave, Vazzola (Treviso) officinamalanotte.art

Paolo Pretolani
Fabrizio Prevedello
Eleonora Rinaldi
Giorgia Severi - Photo Nico Covre

OUR 2024 PROJECTS IN VENICE

GREENHOUSE

Portugal National Pavilion at ACP - Palazzo Franchetti (II Noble Floor)

MALATH-HAVEN

Oman National Pavilion at Palazzo Navagero Gallery

THE ART OF SEEING - STATES OF ASTRONOMY

Georgia National Pavilion at Palazzo Palumbo Fossati

THE BLUE NOTE

Côte d’Ivoire National Pavilion at San Trovaso Art Space

THE NEIGHBOURS

Bulgaria National Pavilion at Sala Tiziano - Centro Culturale Don Orione

VLATKA HORVAT: BY THE MEANS AT HAND

Croatia National Pavilion at Fabrica33

WAN ACEL. TULI BAMU, TURI BAMWE, WE ARE ONE

Uganda National Pavilion at Bragora Gallery

BREASTS

ACP, Fondazione IEO Monzino, Contemporis ETS at ACP - Palazzo Franchetti (Mezzanine Floor)

DANIEL PEŠTA. SOMETHING IS WRONG

Museum Montanelli at Tana Art Space

DOMANI

Jacques Martinez at SPARC* - Spazio Arte Contemporanea

GYÖNGY LAKY & REBECCA TABER. BETWEEN WORLDS

Mima Begovic Art Projects at Magazzino Van Axel

H2O VENEZIA: DIARI D’ACQUA / WATER DIARIES

Lapis Lazuli: artE in collaboration with Fondazione Barovier&Toso at SPUMA

HENRI BEAUFOUR. PORTRAITS IMAGINAIRES

curated by Valerio Dehò at Palazzo Pisani Santa Marina

HUGO McCLOUD. NEW WORKS

Luce Gallery at Palazzo Contarini Polignac

INFINITY ART

Pahsi Lin at Cavana ai Gesuati

LEAPS, GAPS AND OVERLAPPING DIAGRAMS

Loris Cecchini at Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano

MARIA KREYN. CHRONOS

Ministry of Nomads Foundation at Chiesa Anglicana

MEMO AKTEN. BOUNDARIES

Vanhaerents Art Collection at Chiesa di Santa Maria della Visitazione

PASSENGERS IN TRANSIT

193 Gallery - Collateral Event at Ex Farmacia Solveni

REZA ARAMESH. NUMBER 207

MUNTREF and ICA MIAMI at Chiesa di San Fantin

MONGOL ZURAG: THE ART OF RESISTANCE

U. Tsultem, Herron School of Art+Design and Mongol Zurag Society at Garibaldi Gallery

THE ROOTED NOMAD

Kiran Nadar Museum of Art at Magazzini del Sale 5

TRANSCENDENCE

Wallace Chan at Cappella di Santa Maria della Pietà

ULYSSES: WE ARE ALL HEROES

Fondation Valmont at Palazzo Bonvicini

YOUR GHOSTS ARE MINE: EXPANDED CINEMA, AMPLIFIED VOICES

Qatar Museums at ACP - Palazzo Franchetti (I Noble Floor)

STORIE DI MARE

Sotto il santuario di Santa Maria di Leuca de Finibus Terrae, dallo scoglio di punta Mèliso, il più sudorientale d’Italia, parte un’immaginaria linea d’acqua che attraversa il mare verso Levante, taglia la parte superiore dell’isola di Corfù e alla fine si arena nei bassi fondali d’Albania, alle foci del fiume Butrinto. Questa linea segna il confine geografico del Golfo di Venezia tra Mare Adriatico e Mar Ionio, lungo la rotta che da sempre ha unito le due sponde; un confine che raramente ha diviso entità geografiche e culturali contigue, che con le acque ha mescolato etnie, idiomi, suoni, forme architettoniche ed artistiche, sapori e profumi e altri innumerevoli segni riconducibili alle medesime radici di civiltà, che riemergono sempre vitali tra i due mari

di Camillo Tonini

Punto di forza per quanti hanno cercato di dominare questo strategico braccio di mare, per obiettivi militari e commerciali tra loro complementari, è stata la profonda conoscenza di queste acque, che nel frastagliato dialogo con le linee dei litorali forniscono tante sorprese e opportunità talvolta imprevedibili, ma che anche riservano molti pericoli per chi le affronta in navigazione con imperizia o scarsa prudenza. La Repubblica Serenissima ha dedicato molta attenzione a questo tratto di mare, considerato come la naturale estensione dei propri domini; ancora tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, poco prima di essere costretta dai nuovi assetti politici europei ad affidare la sicurezza del proprio Stato ai soli strumenti della diplomazia e non più alla forza militare, Venezia ordinò ai comandanti della propria flotta di percorrere, esplorare, scandagliare e descrivere con ancora migliore precisione le coste, le isole e le acque che bagnavano territori tra l’Adriatico e lo Ionio, e anche di perlustrare l’Arcipelago greco, il Mediterraneo orientale, fino a Candia, a Cipro e alle coste settentrionali dell’Asia Minore e dell’Africa. Conoscere con migliore definizione la realtà geografica nel raggio dei propri interessi di Stato significava prendere vantaggio sui diretti competitori. Gasparo Tentivo, veneziano, era uno di quei comandanti, navigatore esperto e attento geografo. Figlio di Antonio, anch’egli uomo di mare nella flotta della Serenissima, alla sua morte nei primi anni ottanta del secolo XVIII, gli era subentrato nell’incarico di approntare vere e proprie campagne idrografiche a partire dalle coste pugliesi e da quelle balcaniche – da Brindisi alle Bocche di Cattaro – fino a raggiungere le acque che bagnano l’Albania Veneta e verso Levante ai mari attorno alla Grecia continentale e ai suoi arcipelaghi. Due lettere che il Tentivo inviò nell’autunno del 1683 dal Canal di Corfù e dalle acque dell’isola di Fanò a Paolo Michiel, all’epoca suo Capitano ordinario delle navi, nelle quali gli esternava tutta la sua devozione e il debito di riconoscenza per averlo proposto al Senato nei ranghi della marineria veneziana, sono la scarsa testimonianza della sua presenza e intensa attività in operazioni di comando al servizio della Serenissima.

Un altro documento, questa volta iconografico conservato al Museo Correr, fornisce un’ulteriore memoria sulla figura di questo navigatore. È un disegno colorato datato 1687 con il titolo Ordinanza delle nave venete direte dall’Ecc:º S: Lorenzo Venier C:º Exº delle navi, dove sono raffigurate le navi a vela della flotta veneziana – l’Armata grossa – disposte in linea di fila, ognuna contraddistinta dal proprio nome e da quello del proprio comandante (Foto 1). Al centro dello schieramento, con la fiammola sulla trinchetta e i gonfaloni di San

Marco a poppa e a prora, si individua la Fama Volante e il nome del “Cap.º Gasparo Tentivo” (Foto 2). Alla data di questo documento Venezia già da tre anni aveva ripreso con successo le armi contro gli Ottomani al comando di Francesco Morosini per la riconquista del Peloponneso, in quella che verrà definita la Prima Guerra di Morea (1684–1699).

Ad integrare queste poche notizie storiche su Gasparo Tentivo, quasi che il nome della nave che comandava gli predicesse il destino della sua scarsa futura memoria, è la nota dei Commemoriali redatti dal nobile Pietro Gradenigo: «Gasparo Tentivo veneziano Capitano di pubbliche Navi fiorì alla metà del Secolo XVII. Uomo abile nella Scienza Nautica, di cui ne diede vari saggi memorabili in un Opera Manuscritta che raccoglie tutte le dimostrazioni e discrizioni dei Porti Littorali e viaggi maritimi, che succedono nei Mari Adriatici, Jonico ed Egeo, cioè dal Porto di Malamocco sino a quello di Costantinopoli. L’Opera stessa è un volume in Foglio, e li Disegni sono esatti, e lavorati con somma diligenza, e come che le Descrizioni sono state esaminate, e verificate dall’Occhio di chi dopo il Tentivo ha viag-

Foto 1 e 2 Ordinanza delle nave venete direte dall’Ecc:º S: Lorenzo Venier C:º Exº delle navi, disegno colorato, 1783, Museo Correr, Venezia
Foto 2 particolare La Fama Volante del Cap.° Gasparo Tentivo

s torie

NEL MEDITERRANEO IN NAVIGAZIONE I PORTOLANI DI

GASPARO TENTIVO

giato nei suddetti Mari, saranno perciò come un eterno Monumento della somma perizia del medesimo. Morì Gasparo nel 1702 l’ultima volta che fu Capitano della Nave nominata In pace». Se poche sono le notizie sulla figura storica del Tentivo, la fama della sua opera, Il Nautico ricercato dal Mare. Portolano Topografico, (Foto 3) lui vivente e anche dopo la morte, dovette essere non di poco conto in considerazione della diffusione che il suo portolano ebbe tra la gente di mare con formati, testi, apparati illustrativi e decorativi anche molto diversi tra loro per un’evidente differenziazione del pubblico a cui erano destinati. Solo al Museo Correr si conservano sei manoscritti riconducibili al Tentivo, uno alla Biblioteca Querini Stampalia, una copia al Museo Navale di Venezia e ancora un’altra alla Biblioteca Universitaria di Padova. Inoltre, dispersi dal mercato antiquario sono segnalati altri esemplari presso la Newberry Library di Chicago, la British Map Library di Londra, il Maritime Museum di Greenwich, la Biblioteca Nazionale di Atene, che fanno salire a tredici il numero totale degli esemplari finora rinvenuti. Emanuele Cicogna nella copia da lui posseduta annotava che

questa quantità di esemplari era dovuta al fatto che «L’Autore Tentivo faceva eseguire […] man mano che andava aggiungendo qualche notizia». Era comunque, con tutta evidenza, anche il frutto della riconosciuta utilità di questo portolano, innovativo per i tempi in cui venne prodotto perché presentava insieme testi scritti, carte d’insieme con lo sviluppo delle coste e piani particolareggiati dei porti ad uso dei piloti. Peraltro, la volontà della Repubblica di tenere riservati per sé questi strumenti di navigazione che potevano svelare segreti militari e i continui aggiornamenti nelle successive repliche, finirono per sconsigliare dell’opera una definitiva e codificata redazione a stampa.

I testi del Il Nautico ricercato dal Mare. Portolano Topografico sono condotti con prosa essenziale e tecnica che poco lascia al gusto letterario, ma che forniscono numerose utili informazioni nautiche e notizie sui luoghi descritti, con la precisa ed espressa intenzione, dichiarata dall’autore nella premessa ad uno dei sui manoscritti, «...ACCIO’ RESTI FACILITATA LA NAVIGATIONE». Vi sono riportate le rotte che le imbarcazioni devono seguire per non incorrere nei perico-

Foto 3 Gasparo Tentivo, Il Nautico ricercato dal Mare. Portolano Topografico, frontespizio di un manoscritto

Foto 4 Descrittione del Porto di Brindisi nella Puglia e Descrittione delle Bocche di Cattaro, in G. Tentivo, Il Nautico ricercato dal Mare. Portolano Topografico

Foto 5 Descrittione del Canale di Calamota. Isola di Mezo e Zupana, in G. Tentivo, Il Nautico ricercato dal Mare. Portolano Topografico

li, segnalando secche e scogli sommersi, con la nomenclatura nautica in uso all’epoca che invece dei gradi esprimeva le direzioni con i nomi dei venti: Tramontana (N), Greco (NE), Levante (E), Scirocco (SE), Ostro (S), Garbino (SW), Ponente (W), Maestro (NW). Sono registrate in miglia marine le distanze tra i luoghi più importanti e per alcuni di questi è calcolata la latitudine, l’unica coordinata condivisa da tutte le marinerie che si riusciva a calcolare con l’uso degli strumenti di bordo. Grande attenzione è dedicata alla descrizione dei punti cospicui a terra riconoscibili dall’alto mare: montagne, colline, valloni, macchie di vegetazione, fortezze, chiese e campanili, torri d’avvistamento e con grande precisione sono annotati i luoghi idonei all’ancoraggio, con informazioni sull’opportunità della sosta durante le varie stagioni dell’anno e le diverse condizioni di vento, nonché la migliore posizione consigliata per dare fondo alle ancore, indicando la profondità delle acque espressa in braccia e la qualità del fondo marino, sabbioso, roccioso, buon tenitore o meno. Infine, per i principali porti e ridossi, alcune note riguardano la possibilità di rifornimento d’acqua dolce, di cibo, di legname, di cantieri per il rimessaggio e la manutenzione delle imbarcazioni, così come pure le tipologie dei carichi mercantili che si potevano imbarcare: frumento, uva, vino, sale e la vallonea, ovvero le ghiande della Quercus aegilops che per la loro alta concentrazione di tannino erano raccolte e impiegate nella concia dei pellami. (Foto 4)

Intercalate ai testi manoscritti, compaiono le carte d’insieme con lo sviluppo delle coste ed i piani particolareggiati dei porti e delle principali insenature dove sono tratteggiati con segni convenzionali i buoni ancoraggi, le secche pericolose, gli scogli affioranti e le misure delle profondità. Delineate ad inchiostro e a volte finemente acquerellate, queste delicate pagine sono opera di copisti, più o meno abili, rimasti fino ad oggi anonimi che ci restituiscono nella loro fresca e colorata sobrietà descrittiva, le immagini di quei luoghi, sospesi tra cielo e mare, che furono campi di sanguinose battaglie navali, incroci di lucrosi commerci, testimoni di violente tempeste, ma anche, per chi ora ancora li frequenta, nella loro incantata e solare bellezza, leggendario e magico scenario “da cui vergine nacque Venere”. (Foto 5). Altro che GPS!

PER SAPERNE DI PIÙ

G. Mazzariol, Catalogo del fondo cartografico queriniano, Venezia 1959.

R. V. Tooley, Dictinary of mapmakers, New York 1979. Carte da navigar. Portolani e carte nautiche del Museo Correr 1318-1732, a cura di S. Biadene, Venezia 1990. Albania. Immagini e documenti dalla Biblioteca Nazionale Marciana e dalle collezioni del Museo Correr di Venezia, Tirana, Istituto Italiano di Cultura, Venezia 1998.

A. Stouraiti, La Grecia nelle raccolte della Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2000.

L. G. Navari : A venetian portolan text by Gasparo Tentivo, Atene, Giugno-Luglio 1999.

G. Tolias, The Greek portolan charts. XV-XVII centuries, Atene 1999.

P. Presciuttini, Le coste del mondo, Ivrea 2000. Navigare e descrivere. Isolari e portolani del Museo Correr di Venezia, XV-XVIII secolo, a cura di C. Tonini e P. Lucchi, Venezia 2001.

Canale topografo dell’Isola di Corfù con la dimostrazione e annotazione di Fondi, Secce, e Scogli che in esso si contiene, in G. Tentivo, Il Nautico ricercato dal Mare

a SCRITTO NEL DESTINO

Trovare la tua voce a volte richiede pazienza e l’attraversamento di diverse situazioni della vita. Sono contento che ci sia voluto un po’ di tempo per arrivare a questo punto, perché adesso so cosa voglio dire

Gregory Porter

Gregory Porter arriva al Teatro La Fenice il 9 luglio anticipato da una fama mondiale che l’ha reso una delle voci più influenti del momento. Una voce calda, da baritono, in cui convivono jazz, soul e gospel, e che gli ha permesso di portare il jazz contemporaneo al grande pubblico collezionando numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali due Grammy Awards nella categoria Miglior Album Vocale. Come per altri artisti che possiamo definire ‘crossover’, il suo talento ha valicato il mondo del jazz facendo comparire i suoi album nelle classifiche di diversi Paesi, soprattutto europei. I suoi live, ospitati nelle più prestigiose sale da concerto, raccolgono migliaia di spettatori registrando numerosi sold out.

Californiano di origine, Porter ha alle spalle una storia particolare legata ad un altro amore, quello per il football. Grazie a questo sport infatti ottenne una borsa di studio alla San Diego State University. Se non si fosse infortunato alla spalla, spezzando così il suo sogno da atleta, forse Gregory Porter non sarebbe mai diventato Gregory Porter. Dopo la fine della carriera sportiva si trasferì a Brooklyn lavorando come chef, ma esibendosi anche nei jazz club. Conobbe così il sassofonista, compositore e pianista Kamau Kenyatta, che divenne rapidamente il suo mentore e primo promotore della sua carriera. Il resto è storia. Nel 2010 Porter ha ottenuto la sua prima nomination per un Grammy con Water. Il suo terzo album, Liquid Spirit del 2013, inciso per Blue Note, è presto arrivato al

numero due della classifica Billboard Top Jazz Albums e ha vinto il Grammy Award 2014 come Miglior Album Vocale jazz. Liquid Spirit è diventato anche uno degli album jazz più ascoltati in streaming di tutti i tempi, con oltre 20 milioni di stream. Il suo secondo lavoro per Blue Note, Take Me to the Alley, è stato pubblicato all’inizio del 2016 e comprende la versione di Porter di Holding On Sebbene ami le canzoni originali, Gregory torna spesso alle sue radici, come nell’album tributo del 2017 Nat King Cole & Me. L’ultimo album, del 2021, è Still Rising, raccolta di gemme musicali con le tracce più amate dall’artista, cover e duetti mozzafiato con Paloma Faith, Moby, Jamie Cullum, Jeff Goldblum e molti altri.

Nell’ambito di Venezia Jazz Festival, Gregory Porter si inserisce in quel nutrito elenco di star che hanno varcato il palcoscenico del Teatro La Fenice portando il loro bagaglio di storia, musica e riconoscimento. Da Winton Marsalis a Burt Bacharach, da Bobby McFerrin e Keith Jarrett (solo per citarne alcuni), il Festival fin dalla sua fondazione ha riservato alla Sala Grande del Teatro le più lucenti stelle del firmamento internazionale, spesso in date uniche e formazioni speciali. Non fa eccezione Gregory Porter, nell’unica data italiana del suo tour: un evento straordinario che rimarrà nei cuori di chi già adora la sua voce inconfondibile e di chi verrà ad ascoltarlo dal vivo per la prima volta.

Da parte nostra, un altro prezioso tassello che va ad arricchire una lunga storia fatta di artisti memorabili.

di Giuseppe Mormile Direttore artistico di Venezia Jazz Festival

Gregory Porter will play at Fenice Theatre on July 9. His warm, baritone voice made him one of the most influential performers in the worlds of jazz, soul, and gospel, and popularized modern jazz to a wider audience, all the while collecting several awards and accolades, including two Grammys. As goes for other ‘crossover’ artists, Porter’s talent goes beyond jazz, and his concerts regularly fill the most prestigious music halls. Born in California, Gregory Porter studied at San Diego State on a football scholarship. If it weren’t for a shoulder injury, he might have never become the Gregory Porter we know. In Brooklyn, where he moved, he met musician Kamau Kenyatta, the first to believe in his musical career, and the rest is history. In 2010, Porter got his first Grammy nomination for Water. His third album, Liquid Spirit of 2013, placed second in the Top Jazz Albums Billboard ranking and went on to won the 2014 Grammy for Best Vocal Jazz Album. Liquid Spirit is also one of the most streamed jazz albums ever, with over 20 million hits. His later Take Me to the Alley of 2016 includes a version of Holding On. Although he loves original songs, Gregory often goes back to his roots, as he did in his 2017 tribute album Nat King Cole & Me. His latest album, Still Rising, came out in 2021, and is a collection of the artist’s greatest hits, cover, and amazing duets At the Venice Jazz Festival, Gregory Porter will be one of the many stars who performed at Fenice Theatre, sharing with his audience a rich legacy of history, music, and recognition. From Winton Marsalis to Burt Bacharach, Bobby McFerrin to Keith Jarrett, just to name a few, the Venice Jazz Festival reserved the main hall at Fenice for the brightest stars of international music. Gregory Porter will be no exception in his only Italian date of his tour. This will be an amazing event for both those who know and love his unmistakable voice and for those who will see him for the first time. We are honoured to add another precious piece of musical history to our tapestry of amazing art.

Gregory Porter

9 luglio Teatro La Fenice www.venetojazz.com

musica

16. VENEZIA JAZZ FESTIVAL

Lo spirito dell’isola

Avere come riferimenti musicali Ella Fitzgerald, Joe Zawinul, Herbie Hancock, Keith Jarret, Diana Krall dimostra un gusto insindacabile per la grande musica e una grande consapevolezza nei propri mezzi, quando decidi di intraprendere la carriera di cantante. Nata a Lisbona da genitori capoverdiani, Carmen Souza è cresciuta con i suoni e le tradizioni delle isole ben impresse nel proprio DNA. Fin dall’inizio del proprio percorso artistico si è dimostrata pioniera femminile capace di scrivere, registrare e portare in scena la sua formula perfettamente bilanciata di world jazz in tutto il mondo. Una pluripremiata cantautrice e strumentista con una carriera che abbraccia più di un decennio e dieci album acclamati dalla critica, pubblicati dall’etichetta tedesca Galileo Music.

Souza, insieme al suo partner musicale di lunga data, il contrabbassista Theo Pascal, è stata in tournée in tutto il mondo fin dal 2005 e, esibizione dopo esibizione, è diventata una vera forza della musica mondiale, tra le cantanti jazz più richieste in Europa, ospite del Venezia Jazz Festival nell’appuntamento del 6 luglio allo Squero di San Giorgio.

Il suo carisma e la sua tecnica vocale le hanno permesso di sconfinare con disinvoltura ben oltre i limiti della world music, del jazz e del cantautorato.

ENG Carmen Souza was born in Lisbon from Cape Verdean parents. She was brought up with the sounds and traditions of her islands and an admiration for the Gotha of jazz: Ella Fitzgerald, Joe Zawinul, Herbie Hancock, Keith Jarret, Diana Krall. Since the beginning of her musical career, she demonstrated her ability to author, record, and stage her perfectly balanced world jazz formula anywhere in the world. An award-winning singer-songwriter and instrumentalist, Carmen Souza has been touring the world since 2005 with her musical partner Theo Pascal. Concert after concert, her fame grew and is now one of the most requested jazz performers in Europe. She will play at Squero Auditorium in San Giorgio Island in Venice on July 6.

luglio Auditorium Lo Squero, Isola di San Giorgio www.venetojazz.com

Ascolta e impara

Gli Incognito, autentica istituzione e formazione pioniera dell’acid jazz arriva il 21 luglio sul palco di Piazza Mercato, a Marghera, per una tappa del tour nazionale organizzata da Veneto Jazz in collaborazione con il Settore Cultura del Comune di Venezia e Arteven.

Nati in Inghilterra nel 1976 dalla volontà di Jean-Paul “Bluey” Maunick, nella loro storia si sono confermati collettivo in continuo mutamento, esattamente come la loro musica, capace di mettere insieme 15 album in studio in oltre 30 anni di carriera. La fluidità nelle composizioni è un elemento caratterizzante del percorso degli Incognito, tratto che non ha mai ingabbiato uno stile musicale ben definito e versatile, che spazia dal soul al funk fino all’r&b. I successi dei primi anni Duemila vengono confermati nel 2010 dalla pubblicazione di Live in London: the 30th Anniversary Concert e Transatlantic R.P.M. arricchito dalle performance di artisti come Chaka Khan e Mario Biondi. Nel 2012 gli Incognito pubblicano Surreal, seguito da Amplified Soul (2014), I n Search of Better Days (2016) e Tomorrow’s New Dream (2019), come sempre un lavoro di immersione nell’acid jazz e con i contributi di numerosi musicisti e cantanti. Negli anni gli Incognito hanno mantenuto fede alla loro idea musicale, ovvero quella di un sound non solo da ballare ma anche da ascoltare, che potesse conciliare la raffinatezza del jazz con il calore e la sensualità sonora del soul-funk.

ENG Acid jazz pioneers Incognito will play in Marghera, just outside Venice, on July 21 as part of the Veneto Jazz-sponsored tour. Founded in 1976 in England by Jean-Paul Bluey Maunick, their story is one of evolution and change. The fifteen albums they released over their career is a testimony to their compositional fluidity and tendency to escape labels, with their sound ranging from soul to funk to r ‘n’ b. their latest work, Tomorrow’s New Dream of 2019, is an acid jazz immersion the band created with the help of amazing guest stars. Over the years, Incognito kept true to their muse: a sound that is easy to dance to and to listen to, one that beautifully blends the refinement of jazz with the warmth and sensuality of soul-funk.

Carmen Souza

Born in the U.S.A.

Nato e cresciuto a Grand Marais, Minnesota, all’anagrafe Jacob Michael Schmidt ma per tutti Cobi, si è presto esposto a una vasta gamma di influenze musicali che avrebbero plasmato il suo stile distintivo. Una carriera iniziata intorno al 2008 e che inizialmente lo vedeva come membro della band folk indie Gentlemen Hall con Gavin Merlot e Rory Given tra gli altri. Sono stati i suoi sforzi da solista a metterne veramente in mostra l’abilità artistica, sfociata in una consapevolezza i cui frutti si vedono sul palco in ogni sua esibizione. Il suo singolo di debutto, Don’t You Cry for Me, pubblicato nel 2016, ha segnato un punto di svolta ottenendo il plauso della critica e guadagnandosi una base di fan devoti. La sua musica fonde senza voli pindarici elementi di soul, rock e pop, creando un intreccio sonoro emozionale e dinamico, lavorando ai confini dei generi convenzionali. Le sue pubblicazioni successive, inclusi gli album Songs From the Ashes e Love In The Wildwood, confermano la sua versatilità. Al di là della sua discografia, Cobi è rinomato per le sue accattivanti esibizioni dal vivo: che si tratti di dominare il palco in luoghi intimi o in grandi happening, l’impressione indelebile della presenza carismatica e il potente indirizzo vocale lasciano un ricordo vivido nella mente dell’ascoltatore.

Mentre la sua carriera continua a svilupparsi, la passione di Cobi per la narrazione attraverso la musica promette di affascinare il pubblico e consolidarne l’immagine di artista visionario. ENG Born and raised in Grand Marais, Minnesota, Jacob Michael Schmidt a.k.a. Cobi has been influenced by a large gamut of music tastes, all contributing to her distinctive style. His career began in 2008 as part of indie folk band Gentlemen Hall, though it is a as solo artist that he shines brightest: his debut single Don’t You Cry for Me of 2016, was received exceptionally well by critics and fanbase alike. His music is a blend of soul, rock, and pop: an emotional, dynamic sound plot that pushes at the edge of conventional genres. His later works confirm how versatile he is. Cobi is also a great live performer: whether large or small his stage, the indelible impression of his charisma and his powerful voice are nothing short of memorable.

Il dosaggio sapiente

Adam Holzman è ormai una presenza di casa negli spazi votati alla sperimentazione di Combo, l’Ex Convento dei Crociferi di Venezia. È curato infatti proprio da lui, autentico guru della sperimentazione, nome eccellente della storia del jazz e interprete fra i più eccellenti del sintetizzatore, il nuovo workshop firmato da Veneto Jazz che, sul solco delle tante edizioni del Moog Summer Camp, propone un seminario di due giorni dedicato ai sintetizzatori analogici.

Il Synth Workshop si sviluppa nei giorni di venerdì 2 e sabato 3 agosto, secondo un programma che spazia dalle nozioni generali di keyboard alla teoria e pratica dei synth fino al componing

Il seminario avrà anche una insolita incursione: quella del giornalista di Radio3 Rai, Valerio Corzani a intervistare una leggenda come Holzman, che collaborò come tastierista alla straordinaria incisione di Tutu di Miles Davis, diventando poi direttore artistico della sua band leggendaria.

I partecipanti potranno inoltre accedere ad una borsa studio istituita in ricordo di Marcello Mormile, fondatore del festival di musica elettronica Nu Fest e primo promotore del progetto. Destinata a valorizzare la creatività giovanile in questo settore, prevede l’assegnazione di una licenza Arturia V Collection X-Full.

Al termine del seminario, sabato 3 agosto, sempre al Combo, sarà possibile assistere anche al concerto di Adam Holzman, in trio con Stefano Olivato (basso e armonica) e Davide Ragazzoni (batteria), data di punta dell’edizione estiva del Venezia Jazz Festival.

ENG Adam Holzman is a known presence at the Combo space in Venice. He is an experimenter, a name of excellence in the history of jazz, and an excellent interpreter of the synthesizer. Holzman is in town to curate the upcoming Synth Workshop, due August 2 and 3, a class that will range from general keyboard notions all the way to componing skills. Participants may qualify for a scholarship funded in memory of Marcello Mormile, the founder of electronic music festival Nu Fest and once promoter of the project. At the end of the seminary, at Combo space on August 3, Holzman will perform in a concert with Stefano Olivato (bass and harmonica) and Davide Ragazzoni (drums), starting off the Venezia Jazz Festival.

Adam Holzman Trio 3 agosto Combo www.venetojazz.com

musica FESTIVAL

Libertà

è partecipazione

Women for Freedom in Jazz

La conferenza stampa sulla terrazza dell’Hotel Carlton di Venezia è una tradizione alla quale non vogliamo mai rinunciare. Sì, perché si tratta di un appuntamento non ‘solo’ dedicato alla presentazione di una rassegna musicale di assoluto livello, nata nel 2017 grazie all’intuito dell’ideatrice e direttrice artistica Elena Ferrarese, quanto della possibilità di fare il punto sull’attività portata avanti dall’organizzazione umanitaria indipendente Women for Freedom, realtà apartitica e aconfessionale che quest’anno compie 10 anni fondata con l’obiettivo di aiutare donne e bambini di ogni parte del mondo a raggiungere la libertà e il pieno godimento dei diritti fondamentali, offrendo protezione, educazione, assistenza e riabilitazione alle vittime di tratta, sfruttamento sessuale, violenza e povertà. Sara Longo, Ginga, Malika Fé, Perla Palmieri a luglio, Sara Fortini e Lara Ferrari a settembre: ecco le voci femminili protagoniste di un programma confezionato in collaborazione con Caligola Music che attraverso l’uomo-simbolo Claudio Donà si può fare garante di una qualità alta, abbinata alla più vorace curiosità espressiva e di ricerca.

L’ottava edizione vuole omaggiare le artiste del passato che hanno lottato per la propria emancipazione e la propria libertà di espressione, spesso attraversando storie di violenza e stigmatizzazione.

Giovedì 11 luglio la regina del gospel Ginga ci porta in viaggio tra i colori soul, neosoul e jazz della sua anima con il progetto Deep in My Soul, accompagnata dal pianista Alessandro Omiciuolo in un concerto che passa dai grandi classici reinterpretati in chiave contemporanea a brani di artisti emergenti.

Canto e racconto: jazz e femminismo è la proposta del 18 luglio che vede protagonista la cantante parigina, ma veneziana d’adozione, Malika Fé: un progetto nato assieme al Centro Antiviolenza del Comune di Venezia che prende ispirazione da un lavoro della scrittrice Angela Davis. Da Gertrude Ma’ Rainey ad Aretha Franklin, Malika racconta la storia delle donne precursori del movimento di emancipazione femminile afroamericano e dei loro canti di ribellione, in cui nominano senza ambiguità il problema della violenza maschile.

Altro lavoro nato in seno alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è quello di Perla Palmieri, che giovedì 25 farà ascoltare anche il brano The Dry Cleaner From Des Moines di Joni Mitchell, reinterpretato insieme ad altre 25 artiste per il progetto Women in Jazz Unite! Italy di Rossana Casale.

Freedom and ENG participation

Women for Freedom is a non-partisan, non-confessional association that helps women and children in any part of the world reach freedom and full enjoyment of their fundamental rights, offering protection, education, assistance, and rehabilitation to the victims of human trafficking, sexual exploitation, violence, and poverty. The upcoming jazz programme won’t only be a series of excellent musical nights, but the chance to see and appreciate just how much charity can do to help those in need. Women for Freedom in Jazz homages performers who fought for their emancipation and freedom of expression, oftentimes struggling against violence and stigmatization. On July 11, gospel queen Ginga will take us on a journey to the lands of soul, neo-soul, and jazz with her creation Deep in My Soul, a collection of great classics and pieces by up-and-coming composers. On July 18, Malika Fé, in cooperation with the City of Venice Anti-Violence Programme, will tell the story of pioneering women in the African-American female emancipation movement.

Women for Freedom in Jazz 4, 11, 18, 25 luglio Hotel Carlton on the Grand Canal www.womenforfreedom.org

musica

GIOVANNI DELL’OLIVO VENETIKO REBETIKO

La musica che gira intorno

Intervista Giovanni Dell’Olivo

di Massimo Bran

Venetikorebetiko, questo il titolo dell’intrigante e vitale ultimo lavoro pubblicato da Giovanni dell’Olivo con i suoi “rebetes” del Collettivo di Lagunaria. Un titolo che parla eloquentemente da solo e che nella sua circolarità ritmica ci immerge immediatamente nelle radici profonde di uno dei linguaggi musicali popolari del Mediterraneo tra i più affascinanti e al contempo, forse, tra i meno frequentati e conosciuti dai più al di fuori del perimetro ellenico. Il cosiddetto “blues greco”, definizione quanto mai appropriata della musica rebetika, è connotato da una straordinaria ricchezza di elementi eterogenei, tipica di quelle culture popolari nate e cresciute nei ghetti dei porti del Mare Nostrum, dove la contaminazione era la vera radice connettiva tra chi lì viveva e si esprimeva proveniente da ogni dove. Dell’Olivo, veneziano di origini levantine, compositore, cantautore, interprete di musica popolare e polistrumentista di strumenti cordofoni, da oltre vent’anni impegnato in progetti di contaminazione musicale attingendo alle varie culture musicali del Mediterraneo, in questo album propone un’antologia di brani rebetici tradotti e ricontestualizzati di maestri del calibro di Markos Vanvakaris, Antonis Delias, Vassilis Tsitsanis, Vassilis Perpiniadis, Marika Papaghika. A completare il tutto, allargando l’orizzonte aperto sul Mare Nostrum, una miscellanea di canzoni originali di Dell’Olivo stesso connotate da un unico tema conduttore legato al mare, alle città d’acqua e al rapporto fra Venezia e le culture del Mediterraneo. Per entrare più a fondo nelle viscere popolari di questo mare in musica l’abbiamo incontrato.

Come si inserisce questo ultimo lavoro nel lungo, composito percorso della tua ultradecennale ricerca attorno alle radici vive e vitali della musica popolare?

Si tratta in realtà di un ritorno alle origini, in particolare al mio primo lavoro discografico del 2006 che si intitolava Lagunaria, “cose della Laguna” nel quale la musica del Canzoniere Popolare Veneto è stata per la prima volta oggetto di contaminazione con le sonorità mediterranee, greche e turche in particolare, attraverso l’utilizzo di strumenti come il bouzouki, l’oud, il saz. L’idea che il percorso musicale del Collettivo di Lagunaria si traducesse metaforicamente in un viaggio per le rotte del Mediterraneo è sempre stata la migliore

sintesi per esprimere il nostro lavoro. Venetikorebetiko è dunque un viaggio fatto di parole e musica che ci riporta idealmente alle tratte delle Mude da Mar, percorse sin dal medioevo dai mercanti veneziani. In questo racconto musicale il Mare Nostrum, “Η Μεσόγειος Θάλασσα” come lo chiamano i greci, o “Akdeniz ” come lo chiamano i turchi, si trasforma in un crocevia di beni materiali, di culture, di idiomi, di esperienze. In una parola, di Civiltà. Una civiltà che parla una propria lingua meticcia, il Sabir, o lingua franca del Mediterraneo dove l’idioma veneziano si è depositato copiosamente nei secoli, insieme al greco, al turco, e a molte altre lingue ancora. Venetikorebetiko nasce in particolare dal lavoro di traduzione e rielaborazione di alcuni brani di quel peculiare movimento musicale greco, sorto agli inizi del ventesimo secolo, denominato per l’appunto Rebetiko, il “blues greco”, la musica maledetta.

Il Mediterraneo che guarda a Oriente, Venezia, le contaminazioni con le varie culture e linguaggi levantini. Quale l’essenza identitaria peculiare del Rebetiko e quali invece le sue più rilevanti assonanze con le altre musiche, le altre culture popolari del Mare Nostrum?

Il Rebetiko si caratterizza per assenza di un’identità precisa; è frutto del meticciato culturale di mondi attigui, a volte conflittuali ma in stato di continua permeabilità. Il linguaggio musicale che ne deriva

Venetiko Rebetiko Alfa Music

e che ne incarna l’essenza è quindi inevitabilmente liquido, osmotico, plasmabile, come lo è il mare con le forme delle coste che lo conterminano. Musicalmente si sviluppa per scale modali (maqam) di forte impronta ottomana, ma nasce nei Cafè Chantant di Smirne e Costantinopoli da musicisti appartenenti alla comunità greca.

Al suo interno, fra le altre, è riconoscibile inoltre un’anima chiaramente sefardita, lascito culturale di una presenza ebraica fortissima in tutta l’Asia Minore fino a Salonicco, ed anche qualche elemento di musica più occidentale.

Non è certo da dove derivi il termine. Chi dice dal turco ‘ribat’ (prigione), chi dall’arabo ‘rabith’ (fuorilegge), chi addirittura dal veneto ‘rebelo’ (o rebelòt, ribellione).

Una storia a dir poco intrigante ed affascinante caratterizza questo linguaggio musicale, espressione vivida di una cultura suburbana, da ghetti portuali. Una musica che affonda le sue radici nel dolore della migrazione forzata, a suo modo sovversiva, pericolosa politicamente e socialmente, ribelle e quindi osteggiata dal potere. Come si è risolta e si risolve questa sua natura insieme profondamente identitaria e al contempo marginale?

Storicamente il rebetiko nasce come cifra musicale identitaria dei profughi greci di Smirne che si riversarono nei sobborghi del Pireo ad Atene e di Salonicco dopo la cosiddetta “Catastrofe” del 1922, quando Grecia e Turchia, al culmine della crisi che coinvolgeva i due Paesi, fecero uno scambio di popolazioni dai territori limitrofi. I profughi greci di Turchia furono un milione e duecentomila fra Smirne e Costantinopoli. Il Rebetiko è appunto la musica di quegli emarginati, in prevalenza colti ma privi di mezzi, che si riversano per le strade di un Paese, la Grecia, povero, impreparato socialmente e culturalmente a prestare accoglienza a questa ondata migratoria senza precedenti. Il Rebetiko si afferma come la musica dei bassifondi e i temi cari ai rebetes e alle rebetisse sono riflesso di quel mondo con tratti fortemente libertini e bohemien che sembrano precorrere i tempi dei figli dei fiori americani, con 50 anni di anticipo. Le canzoni parlano di amori burrascosi, di prigione, sesso, droga. Non stupisce, quindi, che la dittatura di Metaxas del 1936 abbia messo fuori legge la musica rebetika, considerata va da sé immorale nei contenuti ed oltretutto etnicamente impura, perseguitandone gli interpreti. L’occupazione nazista del 1942 e il regime dei colonnelli del 1967 daranno successivamente il definitivo colpo di grazia al movimento. Il recupero nei successivi anni ‘70 fino ai giorni nostri di questa tradizione è avvenuto attraverso una sorta di assimilazione simbolica in chiave politica di questa musica alle idee libertarie contro le dittature. Oggi è patrimonio culturale immateriale della Grecia.

Tra i grandi interpreti del Rebetiko, qual è stata la figura chiave, al netto anche della qualità intrinseca della propria cifra artistica, che ha segnato in maniera decisiva e profonda l’affermarsi di questa straordinaria espressione della musica popolare?

Il panorama dei rebetes (e delle rebetisse, perché in questa musica si raggiunse sin dall’inizio una vera e propria parità di genere) è molto variegato. Il musicista considerato tuttavia il capostipite di genere da pubblico e critica fu Markos Vanvakaris, classe 1905, nato nell’isola di Siros, capoluogo delle Cicladi. Ideatore del cosiddetto Rebetiko maturo o pireotiko, fondò nei primi anni ‘20 il celebre quartetto del Pireo con Anestis Delias, Ghiorgos Batis e Stratos Pagiumtzis. Le sue canzoni in nove ottavi, diabolicamente in bilico fra la tonalità maggiore e minore dell’accordo dominante (come il blues di Robert Johnson per intendersi), riempiono ancora oggi le taverne greche con le loro note avvolgenti. Nel nostro disco due brani sono traduzioni da Vanvakaris, ma abbiamo anche Anestis Delias, Vanghelis Perpiniadis, Vassilis Tsitsanis ed altri ancora.

La cifra contemporanea di questa musica e più in generale di tutta la musica popolare, in particolare mediterranea. Quanto ha contribuito la definizione, l’etichetta di world music, con il decisivo apporto di figure quali Peter Gabriel, nel consolidare la frequentazione sempre più larga di queste espressioni culturali radicate nel cuore più quotidiano della nostra società?

Sicuramente moltissimo, perché ha filtrato l’etnomusicologia e pop con una potenza mediatica inedita. Accanto a Peter Gabriel, rimanendo sempre nel pop più colto, devono essere ricordati però anche altri giganti, tra tutti, almeno Paul Simon per la musica africana e sudamericana, George Harrison per quella indiana, e la fadista contemporanea Mariza. Nel mondo della world music un ruolo imprescindibile lo ha svolto sicuramente anche Paco De Lucia, capace come nessuno prima di trasformare definitivamente il flamenco contemporaneo attraverso la contaminazione con la musica araba ed il jazz. Ma non dimentichiamo che tutto questo interesse per la musica popolare viene da lontano, dal movimento del folk revival che Alan Lomax accese negli anni ‘40 negli Stati Uniti e che portò nei successivi anni ‘50 e ‘60 anche in Italia, incontrando fortuitamente e poi collaborando con il grande antropologo Ernesto De Martino. Senza il loro lavoro e quello dei pionieri di questo movimento nel resto d’Europa non sarebbe mai potuto germogliare tutto questo interesse diffuso attorno alla musica popolare e, di conseguenza, per la cosiddetta world music.

musica

Senza Ultimo non ce ne andiamo

Dopo il grande successo del suo ultimo tour, Ultimo, una delle icone musicali più amate dai giovani italiani, si prepara a incantare il pubblico ancora una volta. Il cantautore romano torna sul palco dello Stadio Euganeo di Padova il 6 luglio per la tappa conclusiva del tour La Favola continua. Questo tour estivo vede Ultimo esibirsi con i brani del suo nuovissimo album Altrove, pubblicato lo scorso 17 maggio. Inizialmente, le date annunciate erano solo cinque, ma il travolgente successo della prevendita –con oltre 50.000 biglietti venduti in appena mezz’ora – ha portato ad aggiungere nuove date a Trieste, Napoli, Torino e Roma. Niccolò Moriconi, vero nome dell’artista, ha conquistato una straordinaria popolarità a soli ventisette anni. La sua capacità di fare sold out in tutti gli stadi italiani in tempi record lo ha consacrato come il personalità capace di dominare con costanza la scena musicale italiana, confermandosi come uno dei giovani cantautori più influenti degli ultimi anni. Prima di ottenere questa enorme fama, Ultimo era comunque figura di riferimento della scena indipendente romana, dove il suo stile spaziava tra la musica pop, rap e il cantautorato italiano. Il giovane cantante ha raggiunto la notorietà nazionale con il brano Il ballo delle incertezze al Festival di Sanremo del 2018, classificandosi al quarto posto nella categoria Nuove Proposte e aggiudicandosi il prestigioso Premio Lunezia. La sua partecipazione al Festival ha segnato un punto di svolta, e in seguito alla pubblicazione dell’album Peter Pan nel 2018 ha ottenuto un clamoroso successo aggiudicandosi cinque volte il rinomato disco di platino. Nel 2019 Ultimo è tornato al Festival di Sanremo con il brano I tuoi particolari, classificandosi al secondo posto. Lo stesso anno ha pubblicato Colpa delle favole, che ha raggiunto la straordinaria cifra di 30.000 copie vendute in una sola settimana, diventando il più venduto dell’anno. Nel 2023 ha partecipato nuovamente al Festival di Sanremo, continuando a consolidare la propria posizione nella scena musicale italiana fino ad arrivare ad un riconoscimento di critica e pubblico che lo mette ai primissimi posti delle classifiche di gradimento, esempio di cantautorato di ultima generazione. Beatrice Poggesi

Ultimo

6 luglio Stadio Euganeo-Padova www.zedlive.com

Play for your rights

Tom Morello, un’icona vivente della potenza rivoluzionaria del rock, l’8 luglio sale sul palco del Castello Scaligero di Villafranca per riaffermare come e quanto la musica possa ancora cambiare il mondo. Il leggendario chitarrista ha lanciato il suo tour il 26 giugno a Köln, toccando poi i palcoscenici italiani al Lucca Summer Festival, al Villafranca Festival e alle OGR di Torino durante il mese di luglio. Grazie alla capacità unica di far vibrare il cuore del pubblico con accordi potenti e incisivi, Tom Morello presenta brani innovativi che mescolano rock, heavy metal, funk, hip hop e musica elettronica. Non si ha ancora una scaletta ufficiale del concerto, ma il chitarrista ha affermato che, affiancato dal musicista italiano Thomas Raggi dei Måneskin, suonerà sicuramente le canzoni dei suoi album più recenti pubblicati nel 2021 e un brano di Springsteen. Inoltre, sarà possibile assistere alla performance di un brano inedito intitolato Soldier in the Army of Love, frutto della collaborazione tra Tom e il suo talentuoso figlio tredicenne.

Tom raggiunse la fama come chitarrista dei leggendari Rage Against the Machine, band rap metal che dominò gli anni ’90 e vinse ben due Grammy. Grazie alla sua tecnica di distorsione del suono e agli effetti che evocano lo scratching di un giradischi, è considerato uno dei chitarristi più innovativi di tutti i tempi, elogiato da Rolling Stone come uno dei “cento più grandi musicisti del mondo”. Oltre ai RATM, ha cofondato gli Audioslave con il compianto Chris Cornell dei Soundgarden, e ha collaborato con una varietà di altri artisti prima di dedicarsi alla carriera solista. La sua versatilità artistica gli ha permesso di creare opere musicali uniche combinando rock, rap e elettronica. Uno spirito libero in grado di adattare la sua musica non solo a diversi generi musicali, ma anche ai propri ideali politici. Tom Morello infatti è anche un attivista politico fortemente critico verso il sistema capitalista che governa la nostra realtà. Seguendo il solco del percorso tracciato dalla madre Mary, attivista politica fondatrice di Parents for Rock and Rap, Tom partecipa assiduamente a manifestazioni sostenendo i propri ideali socialisti.

Un chitarrista che mira a dimostrare quanto il rock possa essere uno strumento potente per il cambiamento sociale. Attraverso la sua musica innovativa e i suoi testi provocatori, continua a ispirare una nuova generazione di ascoltatori a riflettere e ad agire.

Tom Morello

8 luglio Castello Scaligero-Villafranca www.eventiverona.it

Padre nostro

Fabrizio e Cristiano, il padre e il figlio. Cristiano, la sua voce sempre un pelo più giovane, più acerba. Fabrizio, padre nostro ineguagliato, insuperato, l’anarchico divenuto legge e fede impossibili da scardinare, da soppiantare.

Dal 2009 Cristiano De André porta in tour le canzoni del padre, le riarrangia e le incide con onestà edipica. I suoi tour e le incisioni dei suoi live dedicati al padre, a partire dal primo De André canta De André, funzionano come dialogo apertamente e devotamente conflittuale: si cerca un po’ del padre nel figlio e un po’ del figlio nella riproposta delle canzoni del padre. Il risultato è sempre sorprendente e illuminante perché esprime con grande lealtà la comune condizione di un’insuperabile nostalgia, l’ammissione dell’esistenza di una legge – di una poesia, di una musica – superiore. Il che, direbbe Faber, è esattamente il contrario dell’anarchia. Eppure, come non leggere nel gesto di Crisitano l’esito di un atteggiamento libertario di sovvertimento di quell’ordine simbolico garantito dal padre? Come non leggere in questa musica doppiata e sovvertita l’essenza di quell’individualismo anarchico che era la postura poetica di Fabrizio? Il successo del primo tour, a dieci anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, fu clamoroso. E i concerti bellissimi, un omaggio e una resa incondizionata alla musica di Faber, alla sua pericolosa, sovversiva immortalità. Eppure negli arrangiamenti, spesso venati di sonorità rock e psichedeliche, oppure direttamente influenzate dalla poliedricità del comune maestro Mauro Pagani, si sentiva tutto Cristiano. Il suo stare al mondo, il suo confrontarsi col padre, circostanza che nella sua vicenda musicale si è sempre prodotta, con alterni risultati. Dopo due edizioni di De André canta De André (2009 e 2010), Cristiano ripete nel 2016 e poi nel 2018, anno in cui porta in tour la sua riproposta di Storia di un impiegato, il concept politico di Fabrizio, nel cinquantesimo anniversario del ‘68, in chiave più marcatamente rock. Il tour, diventato un film presentato alla 78. Mostra di Venezia, è un altro successo. Cristiano dal vivo dà tutto se stesso e nell’omaggiare il padre sembra distinguersi, emergere, rinnovarsi, sopratutto nella definizione e nella cura degli arrangiamenti, sempre affidati a musicisti straordinari. Il suo nuovo De André Best of Live Tour, al via il 13 luglio da Termoli, porterà in 21 città italiane il repertorio di Fabrizio a 25 anni dalla scomparsa, toccando Piazzola sul Brenta il 27 luglio. Insieme a Cristiano, i suoi musicisti di sempre: Osvaldo di Dio alle chitarre, Davide Pezzin al basso, Luciano Luisi alle tastiere e alla batteria Ivano Zanotti. Riccardo Triolo

Cristiano De André

27 luglio Anfiteatro Camerini-Piazzola sul Brenta www.zedlive.com

Questione di qualità

Dilungarsi sull’unicità di un luogo come il Vittoriale, concepito e realizzato da Gabriele D’Annunzio, è superfluo in questo caso. Scorrendo il programma di Tener-a-mente – Festival del Vittoriale la sensazione prevalente è quella di trovarsi di fronte ad una rassegna che gioca un campionato differente, su un livello semplicemente superiore.

Se il luogo permette già di partire con diversi punti di vantaggio sulla concorrenza, i nomi che compongono l’offerta musicale sbaragliano senza troppo sforzo la concorrenza, fin dalle prima date andate in scena a giugno con artisti del calibro di Kasabian, i Dogstar con Keanu Reeves al basso (!) e Interpol. Il 5 luglio Cat Power porta in Italia il live del suo nuovo album dal vivo Cat Power Sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert. Lo scorso novembre l’artista statunitense è salita sul palco della Royal Albert Hall di Londra regalando al pubblico la rievocazione magistrale di uno dei concerti dal vivo più leggendari di tutti i tempi. Tenutosi al Manchester Free Trade Hall nel maggio 1966 – ma denominato comunemente Concerto della Royal Albert Hall a causa di un bootleg erroneamente etichettato – lo spettacolo originale vide Bob Dylan effettuare il suo iconico passaggio da acustico a elettrico a metà esibizione, scatenando le ire dei puristi del folk e modificando per sempre la traiettoria del rock’n’roll.

Jack Savoretti e Jake Blake il 7 e l’8 luglio portano rock ed elettronica a livelli arricchiti dalle rispettive rielaborazioni personali, il primo portando in tour in Italia la sua ultima fatica, Miss Italia, il secondo con Playing Robots into Heaven. Chitarrista tra i migliori in circolazione, a Gardone riviera il 10 luglio, Gary Clark Jr. ha condiviso il palco con numerose leggende del rock, il suo stile spazia dal blues al jazz, dal soul al country accomunandolo a giganti come Jimi Hendrix, Eric Clapton e Jeff Beck.

Come dite? Artisti italiani ce ne sono? Ovviamente sì, e di livello pure quelli: De Gregori arriva con un doppio live il 13 e 14 luglio, data la grande richiesta di biglietti; il 19 ecco Colapesce e Di Martino con quel loro cantautorato introspettivo che fa pensare ad un ipotetico incontro tra Battiato e Battisti; il 21 ecco Carmen Consoli portare in scena la sua inesauribile voglia di ricercare, vestire i propri brani più iconici di abiti inediti e mettersi alla prova affrontando ogni palcoscenico con sicurezza da veterana e sfrontatezza da debuttante.

Davide Carbone

Festival del Vittoriale

Fino 29 luglio Anfiteatro del Vittoriale-Gardone Riviera www.anfiteatrodelvittoriale.it

musica FESTIVAL

A rilascio prolungato

Arrivato al compleanno numero 18, sembra che per il Mirano Summer Festival il salto di qualità sia ormai definitivo. La manifestazione musicale ideata da Paolo Favaretto e portata avanti con la collaborazione dell’associazione Volare 4.0 si distacca infatti dall’universo cover-band, che continua a costituire la maggior parte delle offerte musicali miranesi, per chiamare sul palcoscenico artisti di punta dell’universo pop come Ricchi e Poveri, The Kolors, Achille Lauro, Loredana Berté e Raf lungo tutto il mese di luglio. Il 12 luglio arriva uno dei fenomeni del rap italiano, Ernia, impegnato stavolta in un dj-set fatto su misura per il pubblico miranese, con i must irrinunciabili del repertorio hip hop italiano e internazionale in rapida successione per condividere con i fan i pezzi che hanno formato la sensibilità artistica del giovane rapper milanese, trent’anni ma con un bagaglio di album ed esibizioni da autentico veterano. Alexia, leggenda vivente della musica disco anni ‘90, il 17 luglio promette di far ballare almeno tre generazioni sulle note della dance più scatenata, ripercorrendo una carriera che l’ha vista mettere a segno colpacci discografici come Uh lalala, Summer Is Crazy e The Music I Like Tra il 19 e il 22 luglio ecco che si materializza il salto di qualità a cui accennavamo, con nomi di primo piano del panorama pop italiano. Si parte con Achille Lauro, tanto irriverente quanto talentuoso. Reduce dal successo di Ragazzi Madre – L’Iliade il docufilm che racconta il suo percorso artistico e i primi dieci anni di carriera, quest’estate è finalmente pronto a riabbracciare un pubblico che non ha mai smesso di sostenerlo per celebrare tutti gli album che da icona trap lo hanno consacrato a poliedrico artista in grado di smantellare ogni stereotipo.

Il 20 e il 22 rispettivamente con The Kolors e Loredana Bertè il Mirano Summer Festival entra di diritto nell’agenda delle manifestazioni musicali più in vista dell’estate italiana, grazie alla forza aggregante di un pop d’autore che mette d’accordo ascoltatori di tutte le età. Come dite? La vostra nostalgia si spinge fino agli anni ‘80? Nessun problema, a Mirano arriva Raf il 25 luglio per festeggiare i 40 anni dall’uscita di Self Control D.C.

Mirano Summer Festival

Fino 28 luglio Impianti sportivi-Mirano miranosummerfestival.it

Louder than love AMA, un festival di tanti festival

Esiste un luogo in cui pop e black-metal risuonano sotto lo stesso cielo, in cui Birmingham confina con Berlino, in cui i reef di chitarra si mescolano ai bassi violenti della trap: non è l’ultima playlist da viaggio su Spotify, ma l’AMA Music Festival, che dal 5 luglio ritorna a smuovere l’estate vicentina con una line-up degna dei migliori stage europei. Un evento ormai imperdibile per i giovani di tutto il Nord Est, che con ben 8 date raccoglie a Romano d’Ezzelino star di fama mondiale e artisti emergenti, nomi italiani e internazionali, uniti fianco a fianco per celebrare la musica in tutte le sue forme.

Anche quest’anno Villa Cornaro è pronta ad accogliere i migliaia di spettatori attesi per questa ottava edizione, come sempre arricchita dalle Experience legate al territorio proposte dall’organizzazione: dalle visite guidate al rafting, dai musei ai voli in parapendio, insomma, un ricchissimo calendario di eventi in grado di coinvolgere davvero tutti, perché è proprio nell’abbraccio con la diversità che AMA Festival sprigiona la propria forza. Ma veniamo al sodo. La preview apre il sipario venerdì 5 luglio con i reef psichedelici dei Queen Of The Stone Age, leggende dello stoner rock capaci di infiammare il palco sulle note dell’ultimo disco In Times New Roman. Segue la prima edizione del Metal Park, “festival nel festival” che tra il 6 e il 7 luglio chiama a raccolta gli amanti dell’hard rock e dell’heavy metal con grandi nomi come Emperor e Bruce Dickinson, iconico frontman della band londinese Iron Maiden.

L’onda rock si infrange poi sul 12 luglio riempiendo Ca’ Cornaro del sound eclettico dei Marlene Kuntz, nonchè del fascino decadente e imprescindibile dei CCCPFedeli alla linea, tornati a calcare i palchi dopo una lunga assenza e attesissimi per quest’unica data nel Nord Est.

Habitat naturale

«Il No Borders Music Festival è un festival di musica senza confini, un contenitore di esperienze musicali; non ha delimitazioni per quanto concerne il genere musicale spaziando dalla musica classica al jazz, né di appartenenza sociale o geografica degli artisti invitati.

In chiusura della preview potremmo aspettarci altre stelle del rock, ma ecco che AMA ci sconvolge cambiando stazione radio: a smorzare “la noia” il 13 luglio arriva Sanremo per far ballare il grande pubblico sulle hits di Tedua e Angelina Mango.

Il 21 agosto si torna in scena con il botto in pieno stile Offsprings, punk-rock band californiana reduce dal tour americano più acclamato di sempre che sarà headliner del Day 1 con una scaletta dai toni nostalgici, mentre il Day 2 è il turno della musica sperimentale nostrana traghettata dalle atmosfere elettriche e underground dei Subsonica.

Non poteva mancare una data dedicata al rap italiano, il 23 agosto ad alternarsi sul palco sono infatti alcuni dei volti più noti della scena, dai veterani Coez & Frah Quintale ai giovani emergenti come Kid Yugi, rapper classe 2001 i cui pezzi già risuonano nei migliori club italiani. Ed è proprio alla clubbing culture che strizza l’occhio la penultima data dell’AMA Festival, che con il NoName Party si prepara ad alzare i bpm guidati dell’“architetto sonoro della Germania”, Paul Kalkbrenner.

Dopo la notte di fuoco, il 25 agosto i riflettori si accendono un’ultima volta per accogliere sul palco gli Editors, il cui sound ipnotico di ispirazione New Wave chiude il sipario sulla grande manifestazione. Rock, rap, pop, indie, trap, post-punk, ska, alternative, un vero e proprio viaggio attraverso il tempo e lo spazio in cui i confini geografici e generazionali sbiadiscono per lasciare spazio alla musica, ancora una volta “louder than love”. Adele Spinelli

AMA Music Festival

5, 6, 7, 12, 13 luglio; 21, 23, 25 agosto Villa Cornaro-Romano d’Ezzelino www.amamusicfestival.com

No Borders Music Festival costituisce il riflesso culturale internazionale di quella che è la storia locale e del prodotto turistico e di immagine». Da questa dichiarazione d’intenti pubblicata nel sito di riferimento del No Borders è già possibile immaginarsi immersi in paesaggi naturali ad ascoltare concerti dei più grandi artisti internazionali, chiamati ad esibirsi dove difficilmente avrebbero potuto immaginare, luoghi raggiungibili solo a piedi o in bicicletta, particolare non di poco conto.

Goran Bregovic´ e Morcheeba rappresentano un inizio di tutto rispetto, su questo non c’è dubbio. Il 20 luglio, nel pomeriggio, i laghi di Fusine accolgono Bregovic´, colui che ha portato in Italia la musica balcanica come la intendiamo oggi, milioni di dischi venduti e migliaia di concerti in cui stare fermi ad ascoltare è praticamente impossibile. Con una storia iniziata nel 1995, i Morcheeba sempre il 20 si confermano band sinonimo di evoluzione, partiti dal trip-hop per poi abbracciare, grazie all’uso di sonorità elettroniche, generi sempre diversi.

Kruder & Dorfmeister, in tema di elettronica, non hanno niente da imparare da nessuno: il 21 luglio il loro dj-set in collaborazione con Thievery Corporation trasforma Fusine in una dancefloor in piena regola, con atmosfere rilassate e lounge-friendly.

Il batterista e fondatore dei Police, Stewart Copeland arriva al No Borders il 27 luglio ai laghi di Fusine insieme alla FVG Orchestra per un’esperienza immersiva nei grandi successi di The Police, arrangiati in chiave sinfonica, oltre ai momenti salienti delle composizioni di Copeland stesso.

Manu Chao torna in Italia il 28 con un concerto già sold-out capace come sempre di parlare al mondo raccontando storie di migrazione e mescolanza culturale di rara preziosità fondendo culture e stili differenti come rock, punk, reggae e musica iberica.

Il Mistery Concert ritorna il 3 agosto in questa 29. edizione del No Borders Music Festival, dando continuità a un format testato già nel 2019 che ha visto come protagonista proprio Manu Chao.

No Borders Music Festival Fino 4 agosto Sella Nevea-Tarvisio www.nobordersmusicfestival.com

musica LIVE

Scacco in otto mosse

La musica è bella perché è varia. L’offerta musicale italiana in estate non conosce padroni, trovano diritto di cittadinanza rassegne jazz al pari di maratone di dj-set, l’importante è condividere momenti di pura emozione live, urlando per farsi sentire o magari ascoltando in religioso silenzio.

Il Marostica Summer Festival riesce a coniugare queste differenti componenti confezionando un programma contenuto da quel gioiellino che si conferma essere Piazza degli Scacchi, per l’occasione juke-box a cielo aperto.

Attesi in Piazza San Marco a Venezia il 4 luglio, il giorno precedente è qui a Marostica che potete trovare Il Volo: il trio formato da Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble ha deciso di festeggiare con il pubblico italiano i 15 anni di carriera e di lunga amicizia, portando sul palco i nuovi brani del primo disco di inediti, i più grandi successi della tradizione musicale italiana e quelli del proprio repertorio, mostrando le molteplici sfaccettature dell’evoluzione artistica dei suoi singoli componenti.

Emma Marrone li segue il 6 luglio con annessa voce graffiante e appassionata, siamo sicuri poi che la cantante leccese si fermerà a Marostica anche il giorno successivo per uno dei concerti più attesi del programma 2024: i Take That in formazione trio (Gary Barlow, Mark Owen e Howard Donald) hanno pubblicato il nono album in studio, This Life, il 24 novembre scorso. Il primo singolo, Window, è la loro prima composizione originale in oltre cinque anni e suggerisce ciò che gli ascoltatori possono aspettarsi: musicalità eccezionale, ritornelli entusiasmanti e una bellissima miscela di armonie.

Se parliamo di pop italiano non possiamo prescindere da Mahmood e Annalisa, che il Marostica Summer Festival ha in programma rispettivamente l’8 e il 12 luglio per due date che si preannunciano già sold-out, in buona compagnia di leggende nostrane del mestiere come Pooh (15 e 16 luglio) e Antonello Venditti (17) con il suo Notte prima degli esami 1984-2024 40th Anniversary Ma se questa edizione lascerà una data da tramandare ai posteri siamo pronti a scommettere decisi sull’11 luglio: in Piazza arrivano i Deep Purple, che quest’estate in Italia passeranno per appena due date (l’altra a Roma, il giorno precedente).

Marostica Summer Festival

Fino 17 luglio Piazza degli Scacchi-Marostica marosticasummerfestival.it

Don’t follow the leader

Che l’idea del collettivo musicale, ove la leadership, anziché essere legata ad un singolo musicista, è frutto di una collaborazione e di una integrazione tra pari, sia vecchia come il rock, è un dato di fatto. I Grateful Dead negli Stati Uniti nel 1965 e gli Amon Dull nel 1967 in Germania testimoniano che sin dall’inizio il rock ha trovato nell’approccio collettivo un antidoto, sia pure parziale, alla esasperata individualità dello stardom da sempre connesso a questo mondo sonoro. Ma un altro fatto storico è che soprattutto a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso si addensa il sorgere di gruppi collettivi che si presentano come esperienze rizomatiche: non gerarchiche, orizzontali, liquide e non strutturate. Pensiamo agli Arcade Fire, agli Anticon, agli Animal Collective, ai Godspeed You! Black Emperor, ai Broken Social Scene, per finire con i Sault nati nel 2019. Soggetti sonori non toccati dalla fama del mondo (se si eccettuano gli Arcade Fire), ma caratterizzati da una fortissima individualità progettuale ed estetica e da un seguito di fan di tutto rispetto.

L’ultimo caso di collettivo musicale di livello internazionale è italiano: sono i C’mon Tigre, e stavolta alla dimensione del collettivo si aggiunge anche l’assoluta riservatezza biografica sui musicisti che ne reggono le strategie sonore. Sappiamo solo che sono due ragazzi di Ancona, trapiantati a Bologna, che si circondano di musicisti internazionali per le attività live e di produzione discografica e che sono molto attratti dall’arte visuale.

La loro musica è il trionfo dell’eclettismo: fin dall’omonimo primo disco nel 2014, i C’mon Tigre hanno fatto una bandiera dell’indeterminatezza dei generi musicali, praticando un blend di elettro-jazz, funk, afro-beat, soul, indie, per giungere fino ai confini del clubbing. Musica che potrebbe anche correre il rischio di una pericolosa frequentazione del glamorous, se non fosse che la lucidità, la raffinatezza e la determinazione dei nostri la preserva da questo pericolo. La musica dei C’mon Tigre non trova eguali nel panorama italiano, ascoltare i loro dischi significa entrare in un labirinto sonoro fatto di auto-controllo, maturità produttiva, pulsione alla sperimentazione raffinata.

Si ascolti tra tutte l’ultima canzone del disco uscito nel 2023, Habitat, frutto della collaborazione con Arto Lindsay, il folletto brasiliano eroe di mille e mille battaglie musicali in nome della bellezza e della libertà creativa. F.D.S.

www.operaestate.it

C’mon Tigre
luglio Teatro Al Castello-Bassano del Grappa

musica CLUBBING

Elettronicamente domani

Intervista Snackulture

di MoxyB

Del Muretto abbiamo già parlato a lungo nel numero scorso, presentando la stagione e soffermandoci soprattutto sull’attenzione intensa e mirata dei suoi gestori per il suono quale elemento identitario imprescindibile per qualsiasi club di livello internazionale che si rispetti. Essendo il club jesolano senza se e senza ma uno tra questi, pur offrendo diversi momenti per pubblici di diverse età ed interessi, fa piacere quindi constatare che questo lavoro di scavo sulle sonorità elettroniche contemporanee sia sempre più profondo e prospettico nell’economia complessiva delle attività della disco di via Bafile. L’occasione di questa intervista collettiva alla nuova proprietà (Snackulture di Samuele Bucciol, Paolo Chiarella, Alessandro Pegoraro e Stefano Rampinelli) viene da una grande novità registrata in queste stesse settimane, ossia l’acquisto del locale, dei muri del club da parte dei gestori stessi. Il che alza se possibile ancora di più il livello della loro sfida al futuro in divenire.

Dopo oltre 60 anni di storia nell’epicentro pulsante della nightlife italiana, oggi ilMuretto, un must assoluto del clubbing nazionale con vista sul mondo, cambia proprietà, divenendo una cosa sola con la gestione dello stesso. Una svolta importante e prospettica, che responsabilizza ancora di più chi disegna le linee gestionali ed artistiche del club. Cosa è davvero cambiato per voi oggi e come immaginate il vostro futuro dopo questa vera svolta?

Cambiare tutto, per non cambiare niente, questa è la filosofia che perseguiamo. ilMuretto è un brand solido, costruito mattone su mattone dal 1961 dalle gestioni precedenti, che avevano come denominatore comune essere al passo con i tempi, con una visione internazionale. Questo ha permesso ad intere generazioni di vestire la maglia de ilMuretto e di portare con sé per sempre ricordi indelebili, da trasmettere anche ai figli.

Mantenere questo status, consapevoli di un nuovo linguaggio da adottare, è la nostra sfida più grande nell’era del digitale, dove chiunque può ambire ad essere qualcun altro, senza un contraddittorio critico e storico.

Essendo ilMuretto un brand siamo già proiettati verso il futuro, non solo con la programmazione artistica ma anche con una linea strategica ed estetica ben precisa, in cui sicuramente ci sarà un naturale legame con Venezia (città natale di Stefano Rampinelli, uno dei soci ndr). Per noi il club non rappresenta solo intrattenimento, ma un vero e proprio movimento culturale che comprende tematiche come il senso di appartenenza e di comunità, la moda e l’arte in senso lato. Per questo, anche per il futuro, stiamo ragionando su diverse attività parallele.

La stagione estiva 2024 è iniziata all’insegna dei dj top del circuito internazionale. Rispetto anche solo a pochi anni fa, quanto oggi l’investimento su queste assolute star della consolle incide sulle sorti complessive di un club storico come il vostro? Sia in termini mediatici che di consolidamento del pubblico. La direzione artistica del sabato notte, che ha come scelta quella di portare a Jesolo le star mondiali della scena elettronica, rappresenta l’investimento più importante che sostiene la nostra struttura, trattandosi di più di qualche centinaia di migliaia di euro. La magia e la storicità del club, unite agli show iconici dei dj, rendono il nostro sabato notte unico. La conformità del club e la vicinanza tra pubblico e artista rende l’esperienza sia degli avventori che dei dj unica anch’essa. I social, in tal senso, hanno amplificato questi momenti, con le esibizioni degli artisti più celebri a ilMuretto che ogni settimana raggiungono milioni di visualizzazioni.

Due nomi su tutti davvero da non perdere nel clou dell’estate nella teoria complessiva dei vostri eventi “live”.

Nonostante tra aprile, maggio e giugno più di qualcuno di rilevante sia già passato, due nomi per noi sono davvero pochi, visto chi c’è ancora in cartellone! Pensiamo a veri e propri mostri sacri come Jamie Jones o Joseph Capriati, ma anche ad autentiche rivelazioni a livello globale degli ultimi anni quali Indira Paganotto o 999999999, tra l’altro

Mochakk

questi ultimi originari del veneziano. Ma se dobbiamo per forza fare due nomi, scegliamo un uomo e una donna: Mochakk e Lp Giobbi. Il primo, brasiliano, già passato da noi lo scorso anno, è uno dei dj più attesi e ormai una autentica star mondiale; la seconda, statunitense, è un’artista incredibile, capace nel 2023 di pubblicare con Taylor Swift il remix di Cruel Summer

Com’è cambiata la vostra audience, il vostro pubblico negli ultimi anni e quali novità prevedete, intuite, a riguardo in un futuro sempre più in vorticoso divenire?

La risposta sui social dei nostri fan e clienti è fantastica. Ci definiscono ‘virali’ su diverse piattaforme; i dati su Instagram e Tik Tok sicuramente sono un termometro dell’attenzione straordinaria che i più ci riservano e della reputazione raggiunta dal nostro club. Il pubblico di riferimento è quindi prevalentemente appartenente alla generazione Z, ma vediamo che dipende anche dalla serata. Spesso una grande risposta arriva anche da parte di over 30 o perfino 40. Per il futuro l’intenzione è migliorare sempre, da più punti di vista. Quest’anno sono già stati fatti dei lavori importanti a livello strutturale, portando tra le varie innovazioni un nuovo impianto audio in linea con quelli dei più importanti club internazionali. Non neghiamo poi che il nostro desiderio per i prossimi anni sia quello di valorizzare maggiormente anche l’area esterna, adiacente al locale.

a cura di Adele Spinelli

‘NDEMO A FAR SPLASH!

Martedì 16 luglio dalle 18 al calar del sole l’Edipo Re ormeggia sulle rive dell’isola di Poveglia per lasciarsi cullare dalle onde dell’elettronica. L’aperitivo si inaugura con una conversazione tra Diletta Sereni e Davide Longoni de L’Integrale, in dialogo con la direttrice artistica del festival Edipo Re, Silvia Jop. A seguire, il vascello che un tempo ospitò la Callas e Pasolini si trasforma in consolle accogliendo un Dj d’eccezione: il frontman dei Subsonica Samuel, che animerà il dancefloor acquatico fino alle ultime luci del tramonto. Tra un tuffo e uno spritz, a placare la fame ci pensa il Convivio Acquatico, la proposta gastronomica in forma di merenda-aperitivo elaborata dai cuochi del collettivo gastrinomico Tocia! e liberamente ispirata ai temi del nuovo numero de L’Integrale. Il luogo dell’evento è raggiungibile esclusivamente con la propria barca, ormeggiando intorno a Edipo Re. www.edipore.it

TRA VENEZIA E MYKONOS

Dopo il successo dell’Opening Party, anche questo mese il Dj Tommy Vee continua a far ballare il popolo della notte al ritmo di tech e deep-house. L’idea di traghettare la nightlife lidense verso un modello più contemporaneo, ispirato al glamour di Mykonos e Ibiza, si rivela vincente, come dimostra il gran numero di giovani che, dallo scorso mese, affolla la spiaggia del Des Bains ogni venerdì sera. Durante le StarryNigths in giugno si sono susseguiti alla consolle artisti e Dj di fama internazionale, le cui line up hanno invaso i club di tutta Europa. Anche questo mese gli ospiti non sono da meno: si inizia, il 5 luglio, con Albert Marzinotto, vincitore del talent Top Dj nel 2015 ed ora guest di grandi discoteche e festival italiani, per poi proseguire con una sequenza di altri protagonisti della miglior scena elettronica.

IG: @lapagoda.lido

Lp Giobbi © CJ Harvey

classica l L’UOMO DEL LAGO

L’ispirazione è un risveglio, una fuga da tutte le facoltà umane, e si manifesta in tutte le grandi conquiste artistiche
Giacomo Puccini

Il 13 luglio 1883 veniva eseguito in prima assoluta il Capriccio sinfonico, lavoro che il ventiseienne Giacomo Puccini aveva presentato come compito d’esame finale al Conservatorio di Milano. Per una fortuita coincidenza, è proprio il 13 luglio la data scelta per il concerto Omaggi a Puccini dal mondo, proposto dalla Fondazione Teatro La Fenice nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della morte del celebre compositore lucchese, che avrà luogo nientemeno che in piazza San Marco. La piazza, che già da parecchi anni fa da teatro a un intenso programma estivo di concerti e spettacoli musicali, ospiterà l’orchestra e il coro del Teatro La Fenice, diretti per l’occasione da James Conlon con Alfonso Caiani in qualità di maestro del coro, che si esibiranno per onorare uno dei compositori italiani più amati, presentando una selezione di brani pucciniani, alternati a pagine di altri autori in qualche modo legati al compositore toscano.

Ad aprire il concerto sarà la celeberrima aria di Cavaradossi «E lucevan le stelle» dalla Tosca, interpretata dal tenore Francesco Demuro, cui seguirà la seducente aria di Cio-Cio-San dalla Madama Butterfly «Un bel dì vedremo», affidata alla soprano Selene Zanetti. Vi sarà poi l’occasione per inserire un breve omaggio a un altro centenario, quello della prima assoluta della Rhapsody in Blue di George Gershwin, uno dei protagonisti della scena musicale statunitense d’inizio Novecento, che, eseguita per la prima volta a New York il 12 febbraio 1924, vedrà esibirsi al pianoforte il giovanissimo talento russo Aleksandr Malofeev, appena ventiduenne ma già notissimo e apprezzato interprete.

Quindi seguiranno alcuni brani di altri autori, a partire dalla marcia trionfale e dal finale del secondo atto dell’Aida di Giuseppe Verdi, compositore che Puccini ebbe modo di conoscere personalmente in gioventù e cui dedicò una commossa intervista nel 1913, in occasione del centenario della nascita. Il pubblico ascolterà dunque il Bolero di Maurice Ravel, testimonianza dell’influenza pucciniana sul mondo musicale francese, e le impetuose note della Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner, di cui Puccini fu grande ammiratore in gioventù, e dal quale trasse l’uso del leitmotiv tanto connota la sua produzione musicale.

In chiusura ancora Puccini, in guisa di cornice, con tre brani della Turandot, l’ultima opera autografa del maestro, lasciata incompiuta a causa dell’infermità che lo portò poi alla morte il 29 novembre 1924, e pubblicata postuma con integrazioni di altre mani. «Tu che di gel sei cinta», l’appassionata aria di Liù, tra le indimenticabili figure femminili dell’opera di Puccini, precede il celeberrimo «Nessun dorma». A concludere il concerto, le dolci note del «Padre augusto», la soluzione dell’enigma finale e il lieto fine dell’opera; tale aria, seguita dal fastoso inno corale integrato nella partitura da Franco Alfano in perfetto stile pucciniano, costituisce una sorta di sintesi di tutte le potenzialità musicali del compositore lucchese, ponendo così un degno sigillo conclusivo all’esecuzione marciana.

Omaggio a Puccini dal mondo

13 luglio Piazza San Marco www.teatrolafenice.it

On July 13, 1883, the Capriccio sinfonico premiered. Twenty-six-year-old Giacomo Puccini presented the piece at his licensing exam at the Milan Conservatory. Coincidentally, July 13 is also the date picked for Omaggi a Puccini dal mondo, a programme produced by Fenice Theatre in Piazza San Marco. The Fenice’s resident orchestra and choir, conducted by James Conlon and Alfondo Caiani, will homage one of the most beloved Italian composers with pieces from both Puccini’s oeuvre and others. The concert will open E lucevan le stelle from the Tosca, performed by tenor Francesco Demuro, followed by Cio-Cio-San’s seducing aria Un bel dì vedremo from Madama Butterfly, performed by soprano Selene Zanetti. Another centennial to celebrate is the premiere of George Gershwin’s Rhapsody in Blue. Performed for the first time in New York on February 12, 1924. In Venice, the piece will be played by young Russian talent Aleksandr Malofeev. Other pieces by other composers will follow, like the triumph march from the second act of Giuseppe Verdi’s Aida

As a young man, Puccini met Verdi, and in 1913, he dedicated him a heartfelt interview. We will then listen to Maurice Ravel’s Bolero, a testimony to Puccini’s influence on the French musical world, and the wild notes of Richard Wagner’s Ride of the Valkyries. Puccini was a young admirer of Wagner’s, and adopted the use of Leitmotiv in his own production. Closing act again with Puccini with three pieces from the Turandot, his last opera and one that he left unfinished due to illness. Puccini died on November 29, 1924, and the Turandot was completed by others. Tu che di gel sei cinta precedes the famous Nessun dorma. The very last piece of the programme will be Padre augusto, the solution of the final enigma and the opera’s happy ending.

Courtesy Teatro La Fenice © Roberto Moro

ARTS BAR

Opening hours: Daily | 6.30 pm-12.30 am at The St. Regis Venice

Discover an artistic mixology experience where art turns into cocktails. Drinks inspired by the city's artistic a nd cultural legacy, all served in a stunning experiential space, along with an impressive terrace overlooking the Grand Canal.

The St. Regis Venice Hotel

San Marco 2159 - 30124, Venice

+39 041 240 0001

artsbarvenice.com

classical

OPERA

Opere, prime Classici della lirica e star internazionali per l’estate dell’Arena

Dopo il successo dell’apertura del festival lirico dell’Arena di Verona lo scorso 7 giugno, con un evento di portata internazionale caratterizzato da una rassegna di arie e brani strumentali tra i più famosi dell’opera lirica italiana, e con la maestosità della Turandot nell’allestimento di Franco Zeffirelli, la celebre manifestazione operistica nell’anfiteatro veronese prosegue in questi mesi con un programma «ricco di proposte, di spessore e qualità artistica», che offre «uno sguardo sul futuro dell’opera e della musica classica, sugli artisti di domani e sul modo stesso di fruizione dell’esperienza a teatro», nelle parole della Sovrintendente della Fondazione Arena di Verona, Cecilia Gasdia. Inevitabili, come in tutti i teatri italiani, gli appuntamenti con l’opera di Giacomo Puccini, indiscusso protagonista della Stagione, che segna il centenario della sua scomparsa: a luglio sarà proposta in due date la Bohème, nella nuova produzione firmata da Alfonso Signorini, mentre ad agosto sarà la volta della Tosca, che vedrà esibirsi – per la prima volta in questo ruolo sul palco dell’Arena – l’ammirata soprano russa Anna Netrebko.

Ciò che colpisce del programma areniano, tuttavia, è la presenza di ben due diverse rappresentazioni dell’Aida di Giuseppe Verdi. La prima, per tutto il mese di luglio, è proposta nel visionario allestimento «di cristallo» di Stefano Poda, già rappresentato nella scorsa Stagione in occasione del centenario del festival areniano. Artista poliedrico e con ventennale esperienza di regia, Poda mette in scena uno spettacolo maestoso che mescola – come in un quadro d’arte contemporanea – diverse suggestioni, facendo dialogare luci e ombre, il movimento delle danze con il design futuristico delle scene; un allestimento che il regista stesso definisce «contemporaneo, ma atemporale», dominato da una gigantesca mano meccanica che avvolge la scena, a rappresentare la potenza creatrice e al contempo distruttrice dell’uomo. Di tutt’altro tenore l’Aida in scena nella seconda metà di agosto, per la quale verrà rievocato lo storico allestimento del 1913, ossia la prima assoluta di tale opera sul palco dell’Arena, con le scenografie dell’architetto veronese Ettore Fagiuoli. Tale ricostruzione storica del capolavoro verdiano era stata curata ancora negli anni Ottanta dal regista Gianfranco de Bosio, scomparso nel 2022, al cui centenario della nascita è dedicata la riproposizione di questo allestimento, in guisa di omaggio alla sua precisione filologica. Un cartellone che spazia decisamente dalla tradizione all’innovazione, e come tale – secondo gli auspici del vicedirettore artistico della Fondazione, Stefano Trespidi – in grado di accontentare le più diverse tipologie di pubblico, affiancando in un unico percorso i grandi classici, interpretati dalle stelle della lirica, e progetti contemporanei e d’avanguardia. Nicolò Ghigi

Prime ENG operas

The opera season in the majestic, Roman-era amphitheatre in Verona is one of the most acclaimed internationally. Their programme is rich in offers of the highest artistic quality and weight, and promises to showcase the future of opera and classical music, upcoming performers, and the very ways to see and enjoy opera. Giacomo Puccini is all about the programme and is undoubtedly the protagonist of the season, which falls 100 years since his death. In July, the Bohème will be performed twice in a new production authored by Alfonso Signorini, while in August, the Tosca will see Russian soprano Anna Netrebko play the title role for the first time at the Arena. Further amazement with two different staging of Giuseppe Verdi’s Aida: the first, scheduled for July, is Stefano Poda’s visionary ‘crystal’ staging, which we saw last year, and which employs a giant mechanical hand enveloping the scene; the second, due August, is a re-enactment of the historical 1913 staging, the first production of the Aida at the Arena.

101. Arena Opera Festival Fino 7 settembre Arena di Verona www.arena.it

APERTO A TUTTO classical

La programmazione musicale di Operaestate non ammette deroghe: come per danza, teatro e circo contemporaneo l’unica regola è dare spazio al talento in ogni sua forma, chiamando spesso sul palco interpreti giovani e giovanissimi.

Ad affiancarli, ecco grandi nomi della scena teatrale e musicale per un equilibrio che il pubblico percepisce tangibile in ogni singolo spettacolo.

GIOVANNI ANDREA ZANON/ MARTINA CONSONNI

13 luglio Teatro Al Castello-Bassano del Grappa

Aprono la sezione dedicata ai talenti della classica il violinista Giovanni Andrea Zanon e la pianista Martina Consonni. Programma tutto dedicato al più puro romanticismo, con le Tre Antiche Danze Viennesi di Kreisler, la Sonata n. 2 Op. 100 di Brahms, la Sonata n. 1 Op. 105 di Schumann, venata di poesia romantica, il brillante virtuosismo del Rondò Capriccioso di Saint-Saëns.

LEONORA ARMELLINI/QUINTETTO DI FIATI

25 luglio Chiostro del Museo Civico-Bassano del Grappa

Al Chiostro del Museo Civico uno straordinario Quintetto di fiati composto da giovani musicisti in piena affermazione, con la pianista Leonora Armellini, prima musicista donna premiata al Concorso Chopin di Varsavia. Propongono tre Sestetti composti tra fine ‘800 e primi del ‘900 dai compositori francesi: Albert Roussel, vicino alla rinascita impressionista, Francis Poulenc, riecheggiante lo stile popolare del music-hall, e Ludwig Thuille, prettamente romantico.

VIRGILIO SIENI/MARIO BRUNELLO

29 luglio Teatro Al Castello-Bassano del Grappa

Mario Brunello e Virgilio Sieni protagonisti di un omaggio alla musica di Ezio Bosso, legato al violoncellista da personale amicizia.

«A distanza di dieci anni – scrive Brunello proprio in una lettera al coreografo che ha diretto la Biennale Danza dal 2013 al 2016 – la Sonata Roots che Ezio ha scritto per me mi manda un richiamo. Penso quindi sia il momento di ritentare di farla sentire per quello che è, o per lo meno quello che io sento che è, con radici in Bach, Cage, Messiaen, Paert».

ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO

4 agosto Teatro Al Castello-Bassano del Grappa

La Nona Sinfonia di Beethoven arriva a Operaestate eseguita dall’OPV e dal Coro Lirico Veneto diretti da Marco Angius, con la presenza di solisti come il baritono Markus Werba, il mezzosoprano Elmina Hasan e il tenore Pierluigi D’Aloia. Una composizione dalla forte valenza simbolica che compie 200 anni e ha espresso, attraverso il linguaggio universale della musica, ideali di libertà, pace e solidarietà mai tanto necessari come in questi tempi.

EVA GEVORGYAN

8 agosto CSC Bonaventura-Bassano del Grappa

Appena ventenne, la giovane pianista Eva Gevorgyan ha vinto premi in più di 40 concorsi pianistici internazionali. Per il pubblico di Operaestate eseguirà, di Chopin, il Notturno op. 62 n. 1 e la Polacca op. 44, di audace mutevolezza nel gioco armonico. Due composizioni in forma di valzer come la Valse op. 38 di Scriabin e La Valse di Ravel, dalla ricchezza armonica sconvolgente. Chiusura con Carnaval op. 9 di Schumann, fantasiosa raccolta di venti pezzi dalla travolgente forza ispiratrice.

RELAZIONI EXTRA/ORDINARIE

Quando gli artisti mi dicono che vorrebbero essere programmati a Bassano, io chiedo loro: conoscete il Festival? Avete presente il nostro pubblico?

Operaestate Festival torna per la sua 44. edizione dal 2 luglio al 15 settembre con oltre 100 spettacoli di danza, teatro, musica, circo contemporaneo a Bassano del Grappa e nei teatri, parchi, giardini e luoghi d’arte della Pedemontana Veneta. Un programma denso di importanti coproduzioni e prime nazionali con affermati protagonisti della scena nazionale e internazionale e tanti giovani emergenti, per un’edizione dedicata al tema delle Relazioni e all’insegna della multidisciplinarietà. Dal 2023 direttore artistico della sezione Danza di Operaestate, Michele Mele, da sempre attivo sia nella scena artistica indipendente italiana che nella politica culturale dell’arte dal vivo, ci racconta il denso percorso compiuto in questi suoi primi due anni da curatore accompagnandoci per mano nella caleidoscopica teoria di spettacoli dell’edizione 2024 del Festival.

Dallo scorso anno sei alla guida del settore danza di Operaestate. Quali le sfide che hai dovuto affrontare e quali i risultati più gratificanti ad oggi ottenuti?

La sfida più grande è stata ed è a tutt’oggi quella di preservare le varie comunità artistiche, professionali, non professionali, il pubblico stesso, che nel loro insieme rappresentano una “massa critica” molto presente nelle nostre attività, nutrendo aspettative, esprimendo bisogni che alimentano un dialogo bellissimo e continuo.

Da questo punto di vista ringrazio Roberto Casarotto per aver investito in questa direzione negli anni prima del mio arrivo.

La proposta che sto portando avanti si muove quindi nel segno della continuità e al contempo nella direzione di una certa discontinuità attraverso proposte nuove, alcune radicalmente distanti da quanto proposto precedentemente. Non voglio ancora parlare di risultati, perché gli obiettivi che mi pongo sono a medio termine e due edizioni sono poche per misurare gli esiti di questo nuovo percorso. Ritengo nel frattempo positivo il fatto che quest’anno il Ministero della Cultura abbia confermato tutti i punteggi da noi acquisiti in termini qualitativi e quantitativi negli anni scorsi e, elemento non certo secondario anzi, il fatto che il pubblico abbia reagito in modo molto positivo al programma da noi proposto lo scorso anno.

Per anni ti sei occupato di promozione di spettacoli, al fianco di Antonio Latella prima, e con compagnie indipendenti come Anagoor e Gruppo Nanou poi. Cosa significa per te essere ora dall’altra parte della ‘barricata’, con tutte le responsabilità che ne derivano?

Nel mio percorso professionale la direzione artistica ha sempre rappresentato un desiderio forte e un obiettivo cui puntare con passione e decisione. Promuovere il lavoro di diverse realtà mi è servito a conoscere e a studiare da vicino il lavoro di direttori e programmatori. C’è una bella differenza tra vendere e comprare, ma essere in questa posizione oggi in qualche modo lo

The 44th edition of Operaestate Festival Veneto will produce over 100 shows – dance, theatre, music, circus –in several places in the Venetian inland. Important co-productions, national premieres, and celebrated performers from Italy and abroad as well as emerging talents for an edition dedicated to Relations and building upon multi-disciplinarity. Michele Mele worked as the art director for the Dance section of Operaestate since 2023. We talked with him about his work as curator and the upcoming programme at Operaestate.

Challenges and results.

The greatest challenge has been, and still is, to preserve artistic communities, whether professional or non-professional, as well as the audience, which together make up a critical mass that is

essential in our business. It visualizes our best expectations, and it channels needs that feed beautiful, continuous conversation. From this point of view, I want to thank Roberto Casarotto for the work he carried out in this direction before I came around.

My proposal is one of continuity and, at the same time, innovation with new programmes that look quite unlike what we’ve done before. I cannot comment on results yet, because none of my goals can come to fruition in two short years. I think it is good that the Ministry of Culture praised our work and, no less importantly, that audiences reacted very positively to last year’s programme.

Being an art director.

In my professional life, art direction was a step I wanted to take, with passion and with decision. To promote the work of others

Silvia Gribaudi, Grand jetè - Photo Andrea Macchia

theatro

MICHELE MELE

OPERAESTATE FESTIVAL

sento da una parte come un privilegio, dall’altra come la naturale evoluzione di un percorso svolto da me in questi intensi anni di lavoro. Io spero che gli artisti e gli organizzatori possano percepire una sensibilità particolare da parte mia dato che conosco perfettamente gli sforzi necessari nel prendere contatto, presentare un progetto, costruire delle relazioni e nella migliore delle ipotesi finalizzare tutto questo in una collaborazione. Ma sono anche molto esigente: quando gli artisti mi dicono che vorrebbero essere programmati a Bassano, io chiedo loro: ci siete mai stati? Conoscete il Festival? Avete presente il nostro pubblico? Bisogna sempre stimolare la conoscenza reciproca per porre basi solide in una relazione e in questi dialoghi la passata esperienza al fianco degli artisti trovo che rappresenti per me una risorsa enorme in termini di scelte.

Operaestate è un grande contenitore di meraviglie che si propagano da Bassano verso le altre città-palcoscenico, svelando un territorio da scoprire con occhi diversi. Quali sono gli highlights di questa stagione? Un tuo consiglio su cosa assolutamente non poter perdere. Il lavoro più significativo che abbiamo svolto quest’anno nella costruzione del programma è stato quello di tenere al centro della nostra attenzione la dimensione multidisciplinare, prediligendo progetti e spettacoli che avessero al centro della proposta questa tensione. Alessandro Sciarroni dirige dei cantanti ( U. 26/07), Anagoor lavora con dei danzatori ( Bromio 27, 28/07), Gruppo Nanou si ispira al cinema e propone una installazione coreografica con la musica dal vivo di Bruno Dorella ( Redrum 20, 21/07), MK porta un progetto nato in collaborazione con l’Accademia di architettura di Mendrisio ( Creatures 9, 10/09). Da non perdere sono anche gli spettacoli di due amici storici del festival come Marco Paolini ( Latitudini 18, 19/07) e Alessandro Bergonzoni ( Sempre sia rodato 22/07), di due coreografe italiane diversissime come Cristina Kristal Rizzo ( Monumentum 31/07) e Silvia Gribaudi ( Grand jeté 2/08), nonché gli attesissimi ritorni a Bassano di Sharon Fridman ( Go Figure 6/08) e dei Motus ( Frankenstein 23/07).

Il programma musicale di Operaestate regala sempre occasioni per uscire dal mainstream classico percorso da troppi festival estivi. Quali principi animano le vostre scelte in questa direzione?

La proposta musicale di Operaestate è curata da Sofia Girardi con la quale il dialogo è sempre più fitto e il confronto costante. Lei conosce molto bene la scena veneta dei festival e delle rassegne e quindi la diversificazione della proposta è prima di tutto frutto del suo attento lavoro di mappatura. Ogni anno riusciamo a proporre delle ‘chicche’ con un occhio vigile alla qualità della proposta. La grande attesa quest’anno è per il 12 luglio, quando presenteremo al Castello Tito Gobbi il concerto di C’Mon Tigre.

B.Motion, un “festival nel festival”, punto d’incontro a livello internazionale per la scena emergente delle arti performative. Quali le linee programmatiche dell’edizione che ci attende tra fine agosto e settembre?

Per la prima volta superiamo la consueta divisione del programma per generi, con un weekend dedicato alla danza, uno al teatro e uno alla musica, proponendo un unico palinsesto multidisciplinare.

Abbiamo convocato tutte insieme le varie comunità e le fasce di pubblico cresciute negli anni a B.Motion; l’invito è quindi quello di mescolarsi, di uscire dagli steccati di genere, di smettere di pensare al pubblico della danza come composto da individui a cui interessano solo distrattamente la musica o il teatro.

Questa decisione restituisce eloquentemente il nostro interesse a presentare lavori meno riconducibili alle singole discipline rispetto al programma ‘main’, ma anche una consapevolezza maggiore delle tendenze che si stanno facendo avanti a riguardo a livello internazionale. Fortunatamente le nuove generazioni, alle quali si rivolge in maniera particolare B.Motion, vivono in maniera decisamente meno rigida la distinzione tradizionale tra i diversi linguaggi espressivi dell’arte scenica.

Nella rassegna di quest’anno mi piace qui segnalare due eventi speciali in particolare. Il primo è il progetto Koltès, tre traduzioni de La notte poco prima delle foreste in veneto, napoletano e siciliano affidate rispettivamente a Babilonia Teatri, Domenico Ingenito e Giuseppe Massa con Dario Mangiaracina de La rappresentante di lista. Il secondo, BNetwork, è un atelier promosso dal Centro per la Scena Contemporanea di Bassano che coinvolge i rappresentanti dei numerosi progetti di rete (locali, nazionali e internazionali) nei quali siamo coinvolti e che presenterà in questa occasione diversi spettacoli, italiani e stranieri, esito di varie progettualità.

Photo Antonio Cama

has been important to get to know and study how the job is done best. There’s quite a difference between buying and selling, and in a certain way, I think my position, today, is one of privilege. On the other hand, I feel it is the natural evolution of professional growth. I hope artists and producers will appreciate my awareness of how hard it is to get in touch with the right people, present a project, build relationships, and in the best of cases, sign up for collaboration. I can be demanding, too: when artists say they want to perform with us, I ask them: have you ever been here? Do you know about our Festival? Do you know our audience? We need to stimulate mutual curiosity to build a solid business relationship. I treasure my experience working with performers for the amount of resources I can use now in terms of choice.

The highlights of the season.

The musical programme at Operaestate has been curated by Sofia Girardi. We work very closely together. Sofia knows the local festival scene very well, which means the reason the programme is so diverse is due to her careful mapping of all the greatest shows and performers. One example: we can’t wait for the C’mon Tigre concert on July 12.

Other great shows will be Alessandro Sciarroni on July 26; Anagoor’s dance show Bromio on July 27 and 28; a film-inspired choreographic installation by Gruppo Nanou with live music by Bruno Dorella, Redrum on July 20 and 21; MK’s project in cooperation with the Mendrisio School of Architecture, Creatures on September 9 and 10; two shows by Operaestate aficionados Marco Paolini (Latitudini on July 18 and 19) and Alessandro Bergonzoni (Sempre sia rodato on July 22); two shows by Italian choreographers Cristina Kristal Rizzo (Monumentum on July 31) and Silvia Gribaudi (Grand jeté on August 8); and the much anticipated return of Sharon Fridman (Go Figure on August 6) and Motus (Frankenstein on July 23).

The B.Motion sub-programme.

For the first time, we will be going beyond the usual scheduling by art form, with one weekend dedicated to dance, one to theatre, and one to music. This year, there will be one multi-disciplinary programme. We invited the several communities and audiences that grew up with B.Motion to mix and mingle, to break past bounda -

ries, to stop thinking of, say, the audience of a dance show as being uninterested in music or theatre.

We made this decision to remark our interest in showing works that are less easily classified under the label of a single discipline viz. the main programme, though also to show awareness in terms of modern international trends. Fortunately, younger generations, who are the main addressees of the B.Motion programme, are much less rigid as far as the different languages of performance arts go. I would like to point out two events in particular. The first is the Koltès project, three translations of Bernard-Marie Koltès’s The Night Just Before the Forests in Venetian, Neapolitan, and Sicilian dialects. The second is BNetwork, a workshop that will involve local and international projects and that will participate with several shows.

Gruppo Nanou, Redrum - Photo Lorenzo Pasini
Motus, Frankestein © Andrea Macchia

theatro

FESTIVAL

Limine Le Accademie internazionali in scena per Venice Open Stage

Una zona ibrida, dove i profili del conosciuto sbiadiscono e l’ignoto dilaga dinanzi a noi. Una soglia tra ciò che eravamo e ciò che saremo, un varco tra lo spazio e il tempo in cui tutto deve ancora accadere o forse, a ben guardare, sta già accadendo. È in un posto come questo che nasce il teatro, forma espressiva dell’hic et nunc eppure antica quanto la nostra civiltà, che sin dalle sue origini di rito collettivo permette all’uomo di accedere a una dimensione altra, in cui infrangere leggi, costumi e gerarchie sociali per sprigionare l’energia della creazione. Proprio alla liminalità e all’ambiguità del rituale è ispirata la tredicesima edizione di Venice Open Stage, il festival teatrale organizzato dall’associazione culturale Cantieri Teatrali Veneziani e ospitato come ogni anno nell’arena Gigi Dall’Aglio, in Campazzo San Sebastiano. Con il titolo Limı˘nis, dall’1 al 13 luglio la rassegna offre l’occasione di vivere il teatro come uno spazio conviviale e trasformativo attraverso 10 spettacoli dal carattere marcatamente sperimentale, in grado di trasportare lo spettatore in una dimensione sospesa da cui uscirà inevitabilmente mutato, poiché, tanto a teatro quanto nel rituale, si entra come individui e si esce come parte di una piccola comunità. Le rappresentazioni sono divise in tre sezioni, prima tra tutte quella dedicata alle Accademie italiane ed internazionali. Segue la sezione Fermenti, aperta alle compagnie professioniste di recente formazione che meglio hanno saputo cimentarsi con i nuovi linguaggi drammaturgici, per finire con la Rassegna delle compagnie d’avanguardia già affermate. Tra gli ospiti più curiosi di questa edizione segnaliamo l’accademia The Aleksander Zelwerowicz National Academy of Dramatic Art di Varsavia, che giovedì 11 e venerdì 12 luglio ritorna con Blasted, basato sull’omonimo spettacolo di Sarah Kane in cui si affrontano, colpendo in profondità, le nozioni di guerra, morte e salute mentale. Sul filo sottile tra la vita e la morte si pone anche Fondamenta Zero, che con Resterò per sempre nella foto di uno sconosciuto venerdì 5 apre la sezione Fermenti con un monito: “Tra 60 minuti qualcuno morirà”. Forse, uno (o 10) dei personaggi di Emanuele Aldrovandi, che chiude la rassegna il 13 luglio con Dieci modi per morire felici, un esperimento teatrale che attraverso un dispositivo performativo coinvolge ogni sera alcuni spettatori in platea. Adele Spinelli

Thresholds ENG

A hybrid zone, where the profile of the known and the unknown blur into nothingness. A threshold between what we were and what we will be, a gap between space and time where everything is yet to happen, or maybe, if we look closely, is already happening. This is the kind of place theatre is made, the expressive form of the here and now, yet as old as civilization, a rite that allowed humans to access other dimensions, break laws, costumes, and social hierarchies.

Venice Open Stage is a theatre festival that will take place on July 1 to 13. This year’s edition has been named Limı˘nis (Latin for ‘threshold’) and will comprise ten very experimental shows that will change the audience forever – you enter as individuals, you come out as if belonging to a small community. The programme is divided in three sections: the Accademie section is dedicated to theatre schools and academies, Fermenti with more recent start-ups that work on avant-garde theatre, and Rassegna, comprising established theatre companies.

One of the most anticipated show is one by The Aleksander Zelwerowicz National Academy of Dramatic Art of Warsaw: Blasted, based on Sarah Kane’s play of the same name.

13. Venice Open Stage | Limı˘nis 1-13 luglio Campazzo San Sebastiano, Dorsoduro www.veniceopenstage.org

Intreccio indissolubile

L’Estate Teatrale Veronese nel segno del Bardo

Teatro, danza e musica tornano al Teatro Romano di Verona per la 76. Estate Teatrale Veronese: fino al 20 settembre il Festival presenta 15 prime nazionali e 7 coproduzioni, per un totale di ben 52 serate di spettacolo dal vivo. Novità quest’anno il ritorno dei grandi allestimenti shakespeariani e classici, firmati come sempre da un’alta qualità registica di fama nazionale e internazionale.

Il programma della settantaseiesima edizione, la quinta firmata dal direttore artistico Carlo Mangolini, vede sul palcoscenico del Teatro Romano, per la sezione teatro, alcuni tra i migliori attori italiani del momento come Francesco Montanari, Lodo Guenzi, Francesco Acquaroli, Federica Rosellini, Arianna Scommegna, Sara Putignano e l’eterno Franco Branciaroli, ma anche registi di primo livello come Filippo Dini, Paul Curran, Serena Sinigaglia, Veronica Cruciani, Davide Sacco e Paolo Valerio. Per la danza la compagnia COB Opus Ballet con un nuovo allestimento shakespeariano di Sogno di una notte di mezza estate (1, 2 agosto) firmato da Davide Bombana, Chiara Frigo con Blackbird (27, 28 luglio) un inedito progetto di comunità liberamente ispirato a The Dark Lady di Shakespeare, e l’immancabile energia dei Momix, guidati dal geniale Moses Pendleton, che ha ideato uno speciale omaggio alla città. Un cartellone pensato per celebrare al meglio la tradizione shakespeariana, con allestimenti ideati per il palcoscenico del Teatro Romano, che raddoppia i titoli classici, seguiti con crescente passione e partecipazione negli ultimi anni, e punta sulla valorizzazione degli artisti del territorio, ma che al contempo guarda all’Europa e al mondo per accogliere le nuove frontiere del teatro e della danza.

Oltre il Teatro Romano, il programma del Festival si snoda attraverso luoghi inediti di una Verona tutta da scoprire, come il Bastione delle Maddalene e l’intero Quartiere di Veronetta, suggestive location che ospitano progetti legati al teatro contemporaneo. Dopo il successo dello scorso anno si rinnova la centralità del Bardo sia nella danza che nella sezione internazionale del Verona Shakespeare Fringe, realizzato in collaborazione con il Centro Skenè dell’Università di Verona e il Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, che ad agosto porta al Teatro Camploy prestigiose Compagnie provenienti da tutto il mondo.

76. Estate Teatrale Veronese Fino 20 settembre www.spettacoloverona.it

LEZIONI DI BALLO

Molto più di un ballo da sala. Oltre spacchi e tacchi, il tango è un’esperienza sensoriale, una forma di improvvisazione e condivisione tra coppie che si reinventa ogni notte, attraversando continenti e adattandosi sempre a nuovi ritmi e suoni. Ma se il tango è così inafferrabile, perché scriverne? Elisa Guzzo Vaccarino ci offre una risposta con il suo Tango. La danza sconfinata (Casadeilibri, 2024), che esplora l’essenza di questa danza in tutte le sue sfaccettature.

Guzzo Vaccarino, laureata in Filosofia e formata alla danza accademica e contemporanea, ha dedicato decenni allo studio e alla critica della danza collaborando con prestigiose testate giornalistiche e istituzioni culturali, tra cui La Biennale e l’ASAC di Venezia. Il suo nuovo libro sul tango non si limita all’analisi storica, ma si inoltra a svelarne le evoluzioni, dal palcoscenico alla milonga, dal virtuosismo di Astor Piazzolla al pop elettronico. Per l’autrice il tango non è solo passione e seduzione ma anche geometrie, ascolto e condivisione, un continuo cambio de roles che lo rende personale e universale. Elisa Guzzo Vaccarino ci invita a scoprire qui il tango in profondità, senza pregiudizi, con una curiosità che abbraccia passato, presente e futuro. Un volume che rappresenta un’occasione unica per entrare nel mistero di una danza che, pur rimanendo inafferrabile, riesce a catturare chiunque la incontri, rinnovandosi e rimanendo sempre attuale. Un viaggio alla scoperta di un mondo seducente, in perpetua trasformazione, instancabilmente, in un intreccio di storia e contemporaneità.

Tango. La danza sconfinata di Elisa Guzzo Vaccarino Casadeilibri, 2024

c inema

UNIVERSI PARALLELI

Questo film me lo sono proprio goduto, ho cercato di togliere tutto e ritornare alle basi. È stato un po’

tornare a scoprire il cinema e al perché mi piaceva così tanto... Tim Burton

Nel 1988 nemmeno la sciagurata traduzione del titolo che spesso affligge i film stranieri all’arrivo in Italia riuscì a scalfire la dirompente originalità di una pellicola destinato a fare storia.

Beetlejuice - Spiritello porcello (in lingua originale semplicemente Beetlejuice ) è stato il secondo lungometraggio di quel genio cinematografico che risponde al nome di Tim Burton da Burbank, California, semplicemente uno dei registi più densi di significato della propria generazione e Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 2007.

Un film che racchiudeva al proprio interno tante se non tutte le caratteristiche del cinema che negli anni successivi avremmo avuto il privilegio di goderci: i protagonisti che passano a miglior vita praticamente ad inizio film, il gusto per il macabro che il nostro avrebbe portato negli anni ai più alti livelli poetici e narrativi, ironia e autoironia a palate, ma soprattutto attori con spalle abbastanza larghe da padroneggiare elementi tanto contrastanti a prima vista, ma in simbiosi tra loro.

Michael Keaton, Alec Baldwin, Geena Davis e Winona Ryder furono senza dubbio all’altezza del compito nel raccontare la storia surreale del perfido spiritello chiamato dai protagonisti per scacciare i nuovi abitanti della loro casa, venduta dopo la loro dipartita. Beetlejuice Beetlejuice è il secondo capitolo di questa storia, ancora con Keaton e la Ryder in un cast arricchito da Jenna Ortega, Monica Bellucci e Willem Dafoe, ritorno alla regia di Burton 5 anni dopo Dumbo ma soprattutto è il film di apertura della prossima Mostra del Cinema, con proiezione in Sala Grande fissata per il prossimo 28 agosto in prima mondiale.

Dopo un’inaspettata tragedia familiare, tre generazioni della famiglia Deetz tornano a casa a Winter River. Ancora perseguitata da Beetlejuice, la vita di Lydia (Ryder) viene sconvolta quando la figlia adolescente e ribelle, Astrid (Ortega), scopre il misterioso modellino della città in soffitta e il portale per l’Aldilà viene accidentalmente aperto. Con i problemi che stanno nascendo in entrambi i regni, è solo questione di tempo prima che qualcuno pronunci tre volte il nome di Beetlejuice (immancabilmente Keaton) e il demone dispettoso torni nuovamente per scatenare il suo caos.

A Venezia torna un regista che con la propria visionarietà ci ha fatto venire più volte il dubbio di quale fosse l’effettiva realtà delle cose, forse il più grande esempio di come il cinema possa stravolgere i confini del percepito facendoli coincidere con quelli di un’immaginazione sconfinata. E sempre, costantemente affamata.

LEONE D’ORO

Il nome anagrafico è Susan Alexandra Weaver, ma già all’età di 14 anni cominciava ad essere chiamata Sigourney, prendendo spunto da un personaggio minore del film Il Grande Gasby. La Weaver, che riceve a Veneza il Leone d’Oro di quest’anno dopo essere stata al Lido l’ultima volta nel 2022 con Master Gardener di Paul Schrader, si è laureata in Bachelor of Arts alla Stanford University di Palo Alto in California. Ha poi ha conseguito un Master of Fine Arts presso lo Yale University’s School of Drama. Una delle prime apparizioni cinematografiche è stata in una piccola parte nel film Io e Annie di Woody Allen, nel 1977. Il suo vero debutto cinematografico però lo si è visto nel film di grande successo di Ridley Scott del 1979, Alien. «Uno dei veri piaceri di Alien è guardare una star come Sigourney Weaver» scriveva Ty Burr del Boston Globe. Sette anni più tardi, nel 1986, ha ripreso il ruolo di Ellen Ripley in Aliens – Scontro finale di James Cameron. La sua interpretazione le è valsa la nomination all’Oscar e al Golden Globe come migliore attrice. Nel 1992, ha riportato in vita Ripley in Aliens 3 di David Fincher e nel 1997 ha ancora recitato e coprodotto Alien – La clonazione per la regia di Jean-Pierre Jeunet. Gli anni Ottanta costituiscono per l’attrice un decennio d’oro, consacrandola star di Hollywood. Nel 1982 è in Un anno vissuto pericolosamente di Peter Weir, al fianco di un Mel Gibson si conferma come un’attrice in grande ascesa. Nel 1984 è nell’indimenticabile Ghostbusters di Ivan Reitman, che la rivorrà poi in Ghostbusters II del 1989.

Il 1989 la vede vincere due Golden Globes per la commedia Una donna in carriera (1988, migliore attrice non protagonista, nel cast Melanie Griffith e Harrison Ford) e Gorilla nella nebbia (1988, migliore attrice protagonista). In entrambi i casi è anche nominata all’Oscar. Gli anni Novanta la vedono ancora molto attiva, senza tuttavia raggiungere il successo di pubblico dei dieci anni precedenti. Nel 1993 recita in Dave - Presidente per un giorno, ancora di Ivan Reitman. Nel 1994 ne La morte e la fanciulla, di Roman Polanski. Riceve nomination ai Golden Globe per la sua partecipazione a Tempesta di ghiaccio di Ang Lee (1997) vincendo un BAFTA e la co-interpretazione in La mappa del mondo (1999) con Julianne Moore. Nel 1999 le dedicano una stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Successivamente la vediamo in ruoli da non protagonista in Heartbreakers (2001), Tadpole (2002), The Girl in the Park del 2007. L’abbiamo poi vista nell’epico Exodus (2014) dell’amico Ridley Scott, che 35 anni prima ridefinì con lei l’immagine della donna nel sistema hollywoodiano. Maurizio De Luca

Photo Steve Schofield
Photo Gage Skidmore, CC BY-SA 3.0

cinema

OPEN AIR

Ci siamo tutti

La formula del cinema all’aperto fa parte dell’immaginario collettivo da tempo immemore. Personalmente, ogni volta che mi capita di leggere di iniziative di questo tipo mi torna in mente una delle tante scene indimenticabili di quel capolavoro assoluto che è stato Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, premiato tra il 1989 e il ‘90 con Gran Prix della Giuria a Cannes, Golden Globe e Oscar per il miglior film straniero.

Nel paesino siciliano di Giancaldo il pubblico è troppo numeroso per assistere all’ultima proiezione in sala de I Pompieri di Viggiù : ecco che allora il piccolo Salvatore Cascio convince il fenomenale Philippe Noiret a proiettare il film sulla facciata di una casa affacciata sulla piazza, con tripudio del pubblico, riunito in un rito collettivo vecchio come il mondo.

Operaestate si inserisce in questo solco portando ai Giardini Parolini, recentemente recuperati in centro a Bassano del Grappa, i titoli più in vista dell’ultima stagione cinematografica, per serate estive a contatto con il grande cinema italiano e internazionale. Leggendo il programma, viene davvero da pensare che niente e nessuno sia stato lasciato fuori dall’offerta cinematografica. La rappresentanza italiana è di livello massimo, con C’è ancora domani di Paola Cortellesi (20 luglio) e il suo successo davvero senza precedenti in tutto il mondo; Leone d’Argento alla regia, sette David di Donatello e candidatura all’Oscar, Io capitano di Matteo Garrone è un’opera straordinaria che resterà nella storia del cinema italiano, sullo schermo il 1° agosto. Adagio di Sollima (24 agosto) e Cento domeniche di e con Antonio Albanese (21 luglio) altre opere da non perdere quando parliamo di cinema italiano. Ma non manca davvero nessuno dei titoli che sono stati sulla bocca di tutti nella stagione appena trascorsa: i capisaldi Barbie e Oppenheimer regolarmente in programma rispettivamente il 28 luglio e il 23 agosto, così come il kolossal Dune – Parte 2, riservato alla sera di Ferragosto e con un cast stellare comprendente Timothée Chalamet, Zendaya, Christopher Walken, Florence Pugh, Léa Seydoux, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Dave Bautista, Javier Bardem, Stellan Skarsgård e Charlotte Rampling. Se invece la vostra curiosità cinefila è rivolta alle zone d’ombra e ai terreni meno battuti, ecco per voi Challengers di Guadagnino (10 agosto), Anatomia di una caduta (22 agosto) e Jeanne du Barry (16 agosto), con un sontuoso Johnny Depp. Davide Carbone

Operaestate Cinefestival

Fino 26 agosto Giardini Parolini-Bassano del Grappa www.operaestate.it

Storie da guardare

Torna Cinemoving, il cinema su quattro ruote, nei quartieri e in campo, sotto casa e sotto le stelle: da giugno a settembre in programma ci sono 70 spettacoli tra Mestre, Venezia e Isole. Cinemoving accompagna il pubblico verso l’appuntamento cinematografico per eccellenza, con la Mostra del Lido già febbrilmente attesa e in arrivo dal 28 agosto al 7 settembre. Anche quest’anno il programma si articola in diverse sottosezioni che in altrettanti luoghi portano avanti sguardi paralleli, che dal grande schermo rimbalzano in ogni direzione che il cinema è in grado di intraprendere. Al Lido ecco Uno sguardo all’orizzonte : per sei giovedì, dal 4 luglio all’8 agosto, in riva al mare nella spiaggia libera di VeneziaSpiagge verranno proiettati film che osservano l’orizzonte del nostro vivere tra cui Lady Bird di Greta Gerwig e Il mio amico Eric di Ken Loach. Storie che affrontano con delicatezza e forza le relazioni sociali e le ragioni che spingono gli esseri umani a costruire comunità.

Al Parco San Giuliano troviamo invece Uno sguardo al mondo: il 9, 10, 11, 16, 17 e 18 luglio sei serate dedicate al cinema con protagonista la montagna, storie reali o immaginarie, tutte ambientate tra le cime, da scalare o vivere, come Le otto montagne con la coppia di fuoriclasse Borghi-Marinelli e La prima neve di Andrea Segre. Un cinema tematico che apre lo sguardo su questioni importanti: l’equilibrio fondamentale tra uomo e natura, le risorse offerte dagli ambienti e il modo di utilizzarle.

Venezia centro storico è invece lo scenario della rassegna Uno sguardo all’Europa : da giovedì 1 a martedì 20 agosto, ecco diciannove serate in campo San Polo dedicate al cinema europeo con lungometraggi, cortometraggi, documentari e film di finzione provenienti da diverse nazioni europee a cui saranno dedicati approfondimenti e presentazioni, in stretta collaborazione con diverse istituzioni internazionali, tra cui da segnalare la parentesi estiva di Cinema Svizzero a Venezia

E poi, come un filo sottile e resistente, il cinema itinerante sarà nei quartieri: il programma di Cinemoving 2024 è ricco di titoli per tutti i gusti, dal cinema italiano alle commedie, ai film dedicati ai bambini e di azione, a disposizione nelle diverse location di tutto il territorio comunale come Alberoni, Malamocco, Campalto, Ca’ Noghera, Ca’ Sabbioni, Chirignago, Dese, Favaro, Gazzera, Malcontenta, Mestre, Pellestrina, Terraglio, Tessera, Zelarino. Tutti gli spettacoli sono ad ingresso gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Cinemoving 2024

4 luglio-20 agosto www.culturavenezia.it/cinema

Lady Bird

Unico al mondo

Sulle rive dell’Arsenale torna la quinta edizione di Barch-in, il cinema drive-in tutto veneziano che dal 7 al 14 luglio riaccende il megaschermo per illuminare le notti della laguna. Nato durante il periodo della pandemia in risposta alle restrizioni anti-assembramento, da cinque anni il festival offre un’occasione d’incontro in cui riscoprire i classici della cinematografia contemporanea comodamente dal proprio barchin. L’edizione 2024, curata per la programmazione cinematografica e musicale dall’Associazione culturale FEMS du cinéma, si unisce alle celebrazioni per il 700esimo anniversario dalla morte di Marco Polo scegliendo come filo conduttore il viaggio del celebre esploratore lungo la Via della Seta, rinnovando il profondo legame con l’elemento-acqua. È proprio ai confini del mare che hanno luogo le vicende narrate dal primo film in programmazione: il 7 luglio, la marina militare britannica approda all’Arsenale con Master & Commander, pellicola diretta da Peter Weir e divenuta un grande classico del genere. Solcati i sette mari, giovedì 11 si imposta la rotta alla volta di Belfast, film semi-biografico di Kenneth Branagh in cui attraverso la storia del giovane Buddy vengono affrontati i temi dell’emigrazione e della diversità. La terza serata, dedicata ai ragazzi, vede invece come protagonista il pirata Sinbad nel film d’animazione Sinbad, la leggenda dei sette mari diretto da Patrick Gilmore per la DreamWorks. Come da tradizione, il titolo della quarta pellicola, che più di tutti celebra Marco Polo e l’Oriente, viene rivelato solo pochi minuti prima della proiezione di sabato 13, mentre il 14 luglio gli schermi dell’Arsenale ospitano la premiazione del concorso Short Film Contest on Water, assoluta novità di quest’anno in cui cinque cortometraggi si sfidano nello spazio pre-film delle quattro serate. Adele Spinelli

ENG You thought you knew drive-in theatres. Well, maybe you do, but you wouldn’t bet any such thing existed in Venice. Think again! Boats exist, and what started as a pandemic-driven distancing compliance turned into the funniest little thing. The 2024 edition is a classic cinema programme running July 7 to 14 and starting with Peter Weir’s Master & Commander, followed by Kenneth Branagh’s Belfast and Patrick Gilmore’s animated film Sinbad: Legend of the Seven Seas. As is tradition, the fourth film will only be revealed a few minutes before screening, although we already know it’s something celebratory of Marco Polo, who died seven hundred years ago. On the last day – July 14 – the screens will show the awarding ceremony of Short Film Contest on Water, whose nominee movies will be screened before the main feature each night.

New York, Napoli, Roma, Palermo e Venezia in un limpido e folgorante bianco e nero per questa ultima trasposizione del ciclo di romanzi di Patricia Highsmith con Tom Ripley come protagonista. I tempi dilatati di una serie Tv concedono respiro alla storia e danno modo alla sceneggiatura di soffermarsi sulle ossessive mosse di una mente ossessiva: le infinite scale da salire e scendere, le doppie porte dell’ascensore da aprire e chiudere, il motore della barca da fermare e far ripartire, le tracce di sangue da pulire e ripulire… Tutto ruota attorno al volto imperturbabile di Andrew Scott (il “Prete” di Fleabag e il Professor Moriarty di Sherlock ), perfetto nel ruolo del micidiale Ripley mentre si muove come un animale braccato, lasciandoci la sensazione che il suo agire sia mosso da una fatale necessità piuttosto che da un’abominevole scelta. Ripley è il Male proprio perché ci obbliga nostro malgrado a considerarlo migliore dei buoni intorno a lui, con le loro banali, innocue meschinità. In questo oscuro abisso, l’arte supera la vita e l’accostamento di luce e ombra è la chiave di tutto, dentro e fuori metafora. Proprio come per il sublime artista – accusato di omicidio – Caravaggio, le cui opere tracciano una sorta di superbo e macabro itinerario artistico parallelo al percorso che Ripley compie per far perdere le sue tracce. Da vedere in lingua originale almeno le scene in cui Andrew Scott parla in italiano con i diversi personaggi che incontra nel suo funesto ‘grand tour’, dall’addetto alle poste al commissario di polizia, dalla portinaia (Margherita Buy) al concierge. Nelle ultime scene compare John Malkovich, un omaggio al Tom Ripley di Liliana Cavani del 2002 ( Il gioco di Ripley), tratto invece dal terzo capitolo della saga della Highsmith. Marisa Santin

making space for art

BIENNALE ARTE 2024 20.04 – 24. 11

National Participation AZERBAIJAN PAVILION

From Caspian To Pink Planet: I Am Here Campo della Tana, Castello 2126/A

Collateral Event Above ZobeideExhibition from Macao China

Istituto Santa Maria della Pietà, Castello 3701

Global Painting. La Nuova pittura cinese

From an idea of Vittorio Sgarbi and Silvio Cattani

Curated by Lü Peng and Paolo De Grandis with Carlotta Scarpa and Li Guohua

07.12.2023 – 05.05.2024

Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

SINCE 1984 Curatorship Consultancy Management

136 EXHIBITIONS IN THE VENICE BIENNALE

40th Anniversary 1984 -2024

QUARTETTO

This is where it all started in Scuola Grande di San Giovanni Evangelista with artists Joseph Beuys, Bruce Nauman, Enzo Cucchi, Luciano Fabro and curators Paolo De Grandis, Achille Bonito Oliva, Alanna Heiss, Kaspar Koenig

Collateral Event Trevor Yeung: Courtyard of AttachmentsHong Kong in Venice Campo della Tana, Castello 2126

LI CHEVALIER

I Hear the Water Dreaming

Curated by Paolo De Grandis and Carlotta Scarpa Scientif direction of Marta Boscolo Marchi 11.05 – 15.09 2024 Museo d’Arte Orientale di Venezia

artecommunications.com

cinema

SUPERVISIONI

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, fu pluriomicida, ingannatore, lenone e quant’altro, eppure fu e rimane uno dei più grandi pittori mai vissuti. Bisogna distinguere tra l’artista, l’uomo e le sue opere? Shostakovich nella sua autobiografia racconta un episodio traumatico: Tarkovskij per rendere realistica una scena del capolavoro Andrej Rublëv ordinò di dar fuoco a una mucca. Al rifiuto del suo assistente, cosparse personalmente l’animale di benzina e gli diede fuoco. Questo detestabile episodio rende Stalker, Solaris o Andrej Rublëv meno degni di visione? Ho appena assistito alla proiezione di Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos e ne sono stato turbato. Credo di aver visto tutta la sua produzione, forse non ho rintracciato i suoi primi cortometraggi, ma da Kinetta (2005) in poi sono stato fedele spettatore. Anche in questo suo primo lungometraggio mi hanno reso sgomento le pantomime di stupro della cameriera, le scene di violenza in spiaggia con l’occhio della cinepresa in campo a simboleggiare l’occhio voyeuristico dello spettatore. Un messaggio a doppio binario: solo la violenza fa sentire vivi, ma anche una denuncia della società greca dominata dal patriarcato e dal machismo. Assenza di musica, luci giallognole, tutto molto asettico nella scuola di Michael Haneke. Un richiamo ad Aristotele e alla sua teoria che la violenza in scena porti ad una salvifica catarsi finale o a Platone, che nel libro IV de La Repubblica fa dire a Leonzio, che apre gli occhi di fronte a cadaveri ai piedi del boia «Eccoveli, sciagurati, saziatevi di questo bello spettacolo»?.

Dogtooth (Cannes 2009) è una metafora sul cinema, il messaggio sembra essere “crediamo in ciò che vediamo”. Una famiglia tenuta segregata in casa, dove ogni presenza esterna è pericolo, dove perfino il linguaggio è negato, la fica diventa “una grande lampada” e la cinepresa riprende spesso le persone senza testa, a significare perdità di identità. I ragazzi della famiglia percepiscono la vita al di fuori da pochi filmati clandestini, primo fra tutti Rocky. Ma a colpirmi a suo tempo fu Alps (2011), premio per la miglior sceneggiatura a Venezia in cui, accompagnati dalla musica dei Carmina Burana, un gruppo clandestino di attori si propone di sostituirsi a persone defunte. Anche qui volti spesso negati, sfondi poco nitidi, assenza di emozioni. L’identità si crea solo con la sostituzione. Nel 2013 vidi a Venezia uno splendido e orribile cortometraggio, Necktie all’interno della serie Future reloaded, dove due adolescenti si sfidano a duello e il morituro esala ultimo respiro dicendo: «Ho più ricordi di quanti ne avrei se avessi mille anni». Ricordo che quella notte non riuscii a dormire, pensando ai miei figli. Arriva il successo internazionale con The Lobster (Festival di Cannes, 2015), film sulla solitudine, sull’omologazione imposta dalla nostra società, sul razzismo, con un Colin Farrell magnifico e un uso del rallenty che mi ricorda il giudizio di Roland Barthes su come le immagini ferme siano presagio di morte. Anche qui un finale aperto, quasi a lasciare una responsabilità di scelta e giudizio allo spettatore.

Il perturbante freudiano domina anche ne Il sacrificio del cervo sacro (Cannes, 2017), che programmaticamente inizia con una operazione a cuore aperto. Una tragedia che riprende Eschilo e il sacrificio di Ifigenia e il suo messaggio che non si sfugge al fato, con tanto di coro. E gli occhi continuano a sanguinare, leit motiv del regista. Anche La Favorita del 2018 è un film sul potere, sull’assenza di regole che ne contraddistingue le dinamiche di gioco. La pruderie degli spettatore è scossa dalla bravura di Emma Stone “nell’ essere brava a leccarla, là sotto”, ma il film resta un capolavoro tecnico con i suoi grandangoli, fisheye, immagini

deformate, illuminazione a luce di candela, montaggi alternati e la superba recitazione dei protagonisti. Alla fine restano solo i conigli, rimpianti, rimorsi dei figli non sopravvissuti. Povere creature (Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, poi quattro premi Oscar) film stupendo, dalla ricchezza holliwoodiana dei tempi migliori, ma quanto incide nella fantasia dello spettatore sono le nudità, la spregiudicatezza a sfiorare la pedofilia di Bella o le ferite, le suture, le malformazioni nei visi e nei corpi (ricordiamo Rhythm 0 di Marina Abramovic o Cut piece di Yoko Ono). Poi, è vero, vi è anche una rivincita al femminile o un inno alla libertà di comportamento. Non può, con stilemi molto diversi, non ricordare Cronenberg e il suo Crash del 1996. Ora Kinds of Kindness sottolinea un desiderio inconscio di abbandonarsi a norme o a padroni in cambio di inutili ricompense, la racchetta rotta di un tennista famoso, il casco di Ayrton Senna o le scarpe di Michael Jordan. Un’obbedienza sociale da far trovare deliziosa la lettura di Anna Karenina (proprio blasfemo, questo Lanthimos!) o il bisogno di accettazione nel secondo episodio che obbliga una consenziente Emma Stone a tagliarsi prima un dito, poi asportarsi il fegato per soddisfare i marito. Non meglio il terzo brano, tra obitori, celle frigorifere e stanze da letto. Un messaggio continuo sulla perdità di identità nella nostra società, sull’omologazione imperante. Ricordiamo anche il corto, visibile su MUBI, Nimic (2019) con un bravo Matt Dillon sul tema dell’identità, del doppio, del genere, del colore, anche nei titoli iniziali e finali al nome degli attori viene tolta una lettera. Siamo in pieno Kafka. Niente è sicuro, nessun ruolo, non siamo certi di chi siamo. Loris Casadei

cinema

CINEFACTS

a cura di Marisa Santin

GENTE NON COMUNE

Tre matrimoni, cinque figli, oltre centottanta film in sessant’anni e un Oscar alla carriera nel 2017. “A life well lived”, scrive Kiefer Sutherland annunciando la morte del padre avvenuta nel giugno scorso, all’età di ottantotto anni.

È difficile selezionare solo cinque dei suoi film, quindi scegliamo quelli che fin dall’inizio della sua carriera hanno consacrato Donald Sutherland nell’Olimpo del cinema.

M*A*S*H

di Robert Altman (1970)

Irriverente e antiretorico, il film segue le vicende di un gruppo di chirurghi dell’esercito statunitense presso un ospedale militare da campo durante la Guerra di Corea. Il Capitano Benjamin “Occhiodifalco” Pierce (Donald Sutherland) e il suo collega “Trapper” John McIntyre (Elliott Gould) affrontano con umorismo e una buona dose di insubordinazione le atrocità della guerra e le rigide regole militari.

A Venezia... un dicembre rosso shocking

di Nicolas Roeg (1973)

Sensitive che parlano con i defunti, inquietanti premonizioni, delitti misteriosi, lugubri scorci veneziani: gli ingredienti per un perfetto film horror ci sono tutti. Ma il film di Nicolas Roeg, in cui Donald Sutherland e Julie Christie sono una coppia in lutto per la tragica morte della figlia, è anche un viaggio nell’abisso del dolore e della perdita.

Il giorno della locusta

di John Schlesinger (1975)

Ambientato nella Los Angeles degli anni ’30, il film segue le vicende di vari personaggi che vivono ai margini dell’industria cinematografica, in una rappresentazione visivamente ricca e inquietante della decadenza di Hollywood. Performance memorabile di Donald Sutherland nel ruolo di Homer Simpson, un timido e solitario contabile ossessionato da una giovane attrice.

Gente comune

di Robert Redford (1980)

Timoty Hutton è Conrad, un adolescente che lotta con il senso di colpa e la depressione dopo la morte del fratello maggiore; Donald Sutherland è Calvin Jarrett, il padre amorevole e preoccupato che cerca di capire e sostenere la famiglia. Redford esplora le complessità delle dinamiche familiari, regalandoci un film commovente e intenso. Impossibile trattenere le lacrime…

La cruna dell’ago

di Richard Marquand (1981)

Nel thriller di Marquand, tratto dall’omonimo romanzo di Ken Follett, Donald Sutherland è una spia nazista tradita dalla passione per una donna sposata (Kate Nelligan), in un mix intrigante di romanticismo e spionaggio sullo sfondo della Seconda Guerra mondiale. Sutherland offre una performance intensa e sfumata inoltrandosi nei meandri delle motivazioni umane, in un film che cattura l’atmosfera tesa e incerta del conflitto.

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IL GRANDE COMANDANTE

Beith Chaim è detto in ebraico il
Cimitero: “casa della vita”. Per Aldo non è un modo di dire, una speranza, ma una realtà concreta. È l’ambiente in cui si muove la sua vita

Chi segnala un libro agli amici ha una grande responsabilità: consiglia loro una lettura che deve interessarli e arricchirli culturalmente, permettendo, al termine della lettura, di constatare che si sia appreso qualcosa che valeva la pena ed eventualmente stimolarli ad approfondire l’argomento trattato.

Quante esigenze, quanti scrupoli! Perciò, di solito, sono molto rare le segnalazioni che mi permetto di avanzare.

Ma in questo caso, al contrario, proverei un senso di colpa se omettessi di suggerire la lettura di questo testo molto piacevole, singolare per argomento, originale, prezioso, elaborato nel corso di diversi anni, a causa di circostanze eccezionali (Covid 19) e dato alle stampe soltanto adesso.

Va subito doverosamente fatta una premessa: la materia di questa straordinaria pubblicazione ci conduce verso una dimensione umana, essenziale, che raramente abbiamo avuto occasione di sentire trattare, incredibile, delicata, ma affascinante.

Quando le mani stringono per la prima volta il libro, non ci si può immaginare che poi, leggendolo, si venga accompagnati per sentieri apparentemente ignoti, ma talvolta invece lievemente intuiti o soltanto percepiti, impalpabili, spesso tuttavia non lontani da sensazioni anche già vissute.

Marjorie Agosín

Aldo Izzo: Il custode della memoria

e l’antico cimitero ebraico di Venezia

Traduzione Roberta Orlando Facchin

Foto di Samuel Shats

Solis Press, 2024

Per iniziare a parlarne merita partire dalla foto allusiva di copertina: una barca, vuota, sulla riva di un canale veneziano, in quieta e invitante attesa di noi, per traghettarci sull’altra sponda. Si tratta dell’inizio di un viaggio verso l’ignoto? Più probabilmente, invece, verso quella parte di noi stessi che istintivamente teniamo a rispettosa distanza, e che quindi resta un po’ sfuocata, in ombra, volutamente rimandata a un generico “dopo”. E perciò, se la cosa può inizialmente sconcertarci, viceversa, procedendo nella lettura, ci tranquillizza la presenza e la compagnia solida, buona e generosa della straordinaria persona che il testo, mettendolo sapientemente a fuoco, ci presenta, analizza e alla fine ci fa conoscere a fondo. Si tratta di una figura speciale, rara, sensibile e vigorosa che viene descritta, approfondita, analizzata nei particolari, dall’infanzia alla vecchiaia. Ne emerge un personaggio non comune, quasi di famiglia, un vero amico, rassicurante come un fratello maggiore: si tratta di Aldo Izzo, il custode rispettoso e scrupoloso della memoria nel Cimitero Ebraico del Lido di Venezia. Memoria che noi istintivamente consideriamo naturale relegare al passato, ma che Aldo viceversa silenziosamente vive in prima persona e ci aiuta a percepire in una dimensione molto presente. Procedendo passo passo nell’affascinante lettura ci si rende conto che il Cimitero è soltanto la cornice di un quadro umano, dell’analisi ammirata profonda di una figura speciale, modesta e appassionata, ma che all’occorrenza, nei momenti delicati della vita, sentiamo silenziosamente al nostro fianco, sempre pronto a offrirci un aiuto incredibile.

Marjorie Agosín è una poetessa pluri-premiata, saggista, narratrice e attivista, oltre che docente di Lingua Spagnola e di Letteratura Latino Americana al Wellesley College. Il suo lavoro sui diritti umani, in particolare sui diritti delle donne in Cile, ha ricevuto il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite. La Professoressa Agosín ha vinto molti importanti premi letterari in Cile e in questo libro usa ancora una volta la sua poesia evocativa e la sua voce ben distinta per puntare le luci sulla storia nascosta di Venezia la cui ricchezza ben merita di essere registrata e ricordata.

Photo Samuel Shats

ALDO IZZO

IL CUSTODE DELLA MEMORIA

Photo Samuel Shats
Photo Samuel Shats

Aldo è un uomo di poche parole: ha vissuto una vita straordinaria, originale, che lo ha incredibilmente arricchito. Ha navigato come Comandante di Lungo Corso, assumendosi la responsabilità di grandi navi mercantili e naturalmente delle persone del suo equipaggio per 37 anni. Forse la lunga navigazione sommata alle sue doti naturali, all’educazione ricevuta e alle traumatiche esperienze molto giovanili di perseguitato dalle leggi razziali, gli hanno consentito possedere capacità comunicative non comuni. Non ha bisogno di parlare per farsi ascoltare, per spiegare, per trasmettere i suoi pensieri. Il suo atteggiamento, la sua sensibilità, i suoi vigorosi gesti sono sufficienti. Terminato il periodo di navigazione, ha gettato l’ancora della sua vita finalmente a Venezia, dove ha deciso di mettere a frutto la sua raffinata e solida esperienza per dedicarsi agli altri esseri umani, quando, colpiti da dolori immensi, si trovano spersi, disorientati. Da ragazzo, come accennato, Aldo è stato perseguitato, costretto a nascondersi. Ma assieme a suo fratello ha avuto l’esperienza singolare di poter frequentare il Cimitero Ebraico del Lido di Venezia, che incredibilmente era diventato il suo rifugio, un posto sicuro: era il suo giardino. Aldo inoltre, con la sua sensibilità, riusciva a percepirlo animato da persone libere dal tempo e dalla materia, un luogo dove in effetti si sentiva protetto e dove ha imparato a comunicare con quel linguaggio straordinario, senza parole, semplice e profondo, da pochi conosciuto, che però si avverte quando si va a far visita alla tomba di un parente caro.

L’autrice del libro, Marjorie Agosin, americana di origini cilene, poetessa pluripremiata, saggista, narratrice, attivista, è rimasta affascinata dalla figura del grande “Comandante”, dalla sua silenziosa attività. E, superando anche quella innata ritrosia del carattere di Aldo che gli impedirebbe di parlare di sé, è stata capace di sfogliare le pagine del libro della sua vita, scoprendo le sue grandi doti, ammirandolo e riportandolo fedelmente ai lettori. Con la sua sensibilità, capacità e mezzi espressivi molto raffinati, ci consente di avvicinarlo, di conoscerlo a fondo e apprezzarlo. Venezia è l’unica cornice giusta nella quale, in silenzio, Aldo può muoversi ed essere generosamente attivo. Il dovere e la generosità, nella sua vita, sono le stelle che hanno sempre segnato la sua rotta, con naturalezza, senza incertezze, ma con decisione e con forza.

Neppure il Covid 19, la tremenda epidemia del 2020, è riuscito a fermarlo. «I morti devono sempre e comunque essere sepolti», anche se ciò comportava dei rischi mortali. La “presa in cura” (nota espressione ebraica, globale), serietà, senso del dovere, osservazione continua, rispetto, delicatezza hanno sempre ispirato le sue azioni. Quando il destino ci fa passare attraverso il dolore disperante dovuto alla perdita di una persona cara, quando facciamo esperienze che mutano il corso della nostra vita, la mano e il cuore di Aldo sono magicamente sempre presenti, accanto a noi, per lo più senza parole, magari con un semplice sguardo, a condividere il nostro disorientamento e dolore, per porgerci un solido aiuto. Sempre con la bocca chiusa e con il cuore aperto, diceva di lui un amico che lo conosceva bene.

Beith Chaim è detto in ebraico il Cimitero: “casa della vita”. Per Aldo non è un modo di dire, una speranza, ma una realtà concreta. È l’ambiente in cui si muove la sua vita. Le parole del vento e dell’acqua esistono a Venezia. Occorre saperle e volerle ascoltare. «Il Cimitero del Lido esiste dal 1386», afferma Aldo, quasi a giustificare la sua grande responsabilità nel curarlo quotidianamente, in

ogni particolare: le esigenze sono tante, spesso imprevedibili. È naturale che si debba essere sempre disponibili, senza sosta. Antonietta, la sua adorabile Moglie, mancata nel 2016 condivideva in silenzio il suo modo di sentire. Finché ha potuto, anche Lei collaborava. «Devo» è la spiegazione che Aldo ha sempre risposto a chi gli domandava: «Perché lo fai?». Lui “cura” tutti: moltissimi ovviamente arrivati al Lido ben prima che lui nascesse. Ma per lui sono tutti presenti, tutti uguali, tutti “suoi”. E quando passa a controllare, non è da escludere che intoni dentro sé un canto silenzioso per loro. Quasi un saluto rispettoso e affettuoso. Anche quando tutto è in ordine, il suo passaggio non è mai inutile: toglie dall’oblio chi non ha più parenti. Passa, guarda, vede, agisce per il decoro, riconosce, ricorda. In un certo senso fa vivere.

Il volto di Aldo è segnato da tante profonde rughe significative: fatiche, pensieri, sofferenze e gioie hanno lasciato la loro traccia, nel solco del dovere. Quante esperienze, quanta energia per procedere seguendo una direzione certa, sicura, ben tracciata, per lui chiaramente visibile!

Il Talmud, nella sua saggezza, aveva previsto la presenza di questi esseri meravigliosi: aveva menzionato infatti la figura di chi si occupava dei defunti, catalogandola tra gli altruisti, meritori. I defunti, infatti, si sa, non possono restituire…

Aldo non è un uomo differente dagli altri esseri umani: come tutti, ha avuto anche lui una vita piena di alti e bassi, di soddisfazioni e momenti felici, ma anche di tormento e sconforto. Dopo la sofferenza, ha tirato fuori tutta la sua forza, la grinta, e ha trovato, con volontà ferrea, la capacità di accantonarli, relegandoli nel capitolo: “dolori”, e di proseguire la sua esemplare vita! Se non sollecitato, mai ritorna a rievocare pubblicamente il suo personale passato, forse fedele all’insegnamento biblico di non voltarsi mai indietro: la moglie di Lot infatti si era girata verso il passato e si era trasformata in una statua di sale! Ma lui invece, “vive” al presente, quotidianamente, il passato di tutti gli abitanti del Cimitero. Sia ben chiaro, ne conosce le vite, ne cura i ricordi. Una dimensione straordinaria, ma reale!

Le parole dell’Autrice del libro sono splendide, incredibilmente precise. E quando la prosa si dimostra insufficiente, non di rado si esprime in poesia, mezzo ancora più raffinato, ed efficace. Non solo, ma il testo è supportato da una misurata serie di profonde “immagini sensibili”, foto in bianco e nero di Samuel Shats, che integrano il quadro, rendendo vive e comprensibili per il lettore certe realtà impalpabili che potrebbero sfuggire, realtà convenzionali in cui si stempera passato, presente e futuro, senza confini precisi.

Il libro contiene anche una chicca molto raffinata, relativa alla grafica: ma questa non voglio anticiparvela, per lasciarvi il gusto di scoprirla e gustarla al momento della affascinante lettura.

Un doveroso avvertimento per i lettori: giunti al termine delle pagine del libro, non di rado assale il desiderio di riprenderlo in mano per poterne approfondire preziosi particolari forse sfuggiti durante la prima attraente lettura. Una storia che non ha fine… la storia della vita, la storia del Beith Chaim del Lido di Venezia.

etcc...

PREMIO CAMPIELLO LA CINQUINA

CAMPIELLO OPERA PRIMA

LA CASA DELLE

ORFANE BIANCHE

Fiammetta Palpati (Laurana Editore, 2024)

Per aiutarsi reciprocamente, tre donne di mezz’età decidono di ritirarsi in una casa di paese con le rispettive anziane madri, bisognose di assistenza. La convivenza, sulla carta, è un incastro perfetto: cosa c’è di meglio della rusticità dei bei tempi andati per dividere spese, pensieri, incombenze, e magari risanare quel legame intimo tra madre e figlia, di accudimento e amore, che al momento è invertito? Ma il nido si rivela presto un covo di immaturità, risentimento, egocentrismo e disperazione che sfocia in un tragicomico delirio collettivo: la casa si rivolta contro le inquiline e il loro desiderio, soffocandole tra immondizie, un cane infido e l’odore nauseabondo di una papera guasta.

Fiammetta Palpati è nata a Roma, dove si è laureata in Letterature comparate. Vive ad Amelia, nella campagna umbra, dove ragiona, insegna e scrive di paesaggio e letteratura.

LOCUS DESPERATUS

Michele Mari (Giulio Einaudi Editore, 2024)

Tutte le cose amate hanno un’anima, e quindi una volontà. Quando il protagonista di questa storia si vede costretto a traslocare dalla sua casa per lasciare il posto ad un nuovo inquilino, tutti i libri, le stampe, gli oggetti e i ricordi d’infanzia così a lungo custoditi dovranno a loro volta scegliere se fuggire insieme a lui oppure passare al nuovo proprietario. L’autore di Tu, sanguinosa infanzia e di Leggenda privata ci consegna una storia carica di mistero, struggimento e ossessione per i feticci accumulati nel corso di un’esistenza, una storia tormentata e divertente sul senso che diamo agli oggetti, sulla loro carica affettiva e sulla loro capacità di racchiudere frammenti della nostra stessa identità dai quali risulta doloroso e devastante separarsi: «Ridotto così, ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola».

DILAGA OVUNQUE

Vanni Santoni (Laterza, 2023)

PSiamo a Barcellona, è notte e stiamo per entrare in un deposito di treni con una bomboletta spray e il cappuccio della felpa tirato su. Ciò che secondo l’autore dilaga ovunque è la street art, un fenomeno di cui si sono perse le origini e che Vanni Santoni prova a descrivere attraverso una storia raccontata in prima persona da una graffitara. Il punto di vista non è dunque quello diurno di chi scopre un nuovo murale dietro l’angolo di casa, né di chi è incaricato di far ripulire un vagone “imbrattato”. Il monologo serrato di questa outsider restituisce il lato notturno, attivo e motivazionale di un’espressione artistica che è anche appropriazione urbana e atto di autodeterminazione. «[…] il gusto di infrangere limiti e tabù, certo, e quello di rispondere all’attacco segnico, alle squadre di esperti di marketing che ogni giorno attaccano i cervelli dai cartelloni e dalle vetrine, ma anche e soprattutto quello di sabotare l’ordine dei segni della città, diventare col tuo segno la città stessa».

ALMA

Federica Manzon (Feltrinelli, 2024)

«È facile inventare leggende attorno a chi omette e omette. Sono le persone di cui non sappiamo nulla che suscitano in noi una curiosità, una fantasia. E quindi il nostro innamoramento». Il nuovo romanzo di Federica Manzon parte da qui, dal rapporto tra un padre che spariva e riappariva senza preavviso e una figlia, Alma, di cui l’autrice racconta la storia in terza persona, da quando da bambina viveva a Trieste con la famiglia a quando torna da adulta nella sua città per capire molte cose e chiudere dei cerchi. Il padre incarna prima di tutto una geografia. Tutto nei suoi spostamenti di qua e di là del confine con l’ex Jugoslavia è misterioso e Alma non sa nulla del suo lavoro, se non che forse consisteva nel trascrivere, correggendoli, i discorsi del Maresciallo Tito. Ma nonostante i misteri e le omissioni, una cosa il padre è riuscito a trasmettere alla figlia: un’idea di libertà che unisce Alma a Trieste e a quel confine che è proprio lì, a pochi chilometri da lei.

IL FUOCO CHE TI PORTI DENTRO

Antonio Franchini (Marsilio, 2024)

Sospettosa, negativa, paranoica, ossessiva, ma anche divertente, eccentrica e anticonformista. Angela Izzo ha avuto una vita complicata ed è difficile starle accanto perché la furia che ha dentro non si ferma nemmeno di fronte ai figli. Antonio Franchini, in questa biografia appassionata e cinica, racconta sua madre con un’onestà a tratti spietata, facendola a pezzi senza risparmiarle nulla, nemmeno questo: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza». Ma Angela, trasformandosi in un personaggio, arriva a rappresentare anche una città, Napoli, e un’intera mentalità, quella meridionale; che forse in realtà è anche nazionale. Può essere questo il fuoco che Angela si porta dentro? L’atavico senso di inferiorità di una donna del Sud che si trasferisce nel tanto odiato Nord? Oppure è stata la guerra vista da bambina? O forse la ‘colpa’ è del padre, morto quando lei era ancora troppo piccola?

Abbiamo cercato di usare le parole come antidoto alla cupezza di questi tempi; i fatti quotidiani spesso ci hanno aperto un ombrello grigio che solo le parole possono squarciare. La bellezza è l’antidoto. Cultura, parole e libertà, in fondo, sono la stessa cosa

Walter Veltroni, Presidente Giuria dei Letterati Premio Campiello

LA CASA DEL MAGO

Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie, 2023)

Tra i cinque finalisti del Premio Campiello c’è uno degli scrittori e critici più apprezzati nel nostro Paese, Emanuele Trevi, con La casa del mago, edito da Ponte alle Grazie. È forse il suo romanzo più personale, commovente e al tempo stesso pieno di ironia e umorismo, dedicato alla memoria del padre, Mario Trevi, famoso psicanalista junghiano, un grande personaggio, un uomo complicato, distratto, che vive quasi in un suo “altrove”. Nella frase che la madre ripete sempre di fronte ai comportamenti del marito – «Lo sai com’è fatto» – si trova un’indicazione precisa: bisogna accettare la sua distanza, la sua riservatezza. C’è un episodio emblematico nel racconto. Durante la gita a Venezia da bambino per visitare la Biennale, il padre non si gira mai, prosegue sempre dritto, spedito; moglie e figlio lo devono seguire ed Emanuele si tiene stretto a lui con la cintura dell’impermeabile. Alla fine si smarrirà e tornerà in hotel, ritrovando la strada da solo. Nel titolo l’autore usa una parola arcaica per descrivere il lavoro di psicanalista, che è in fondo un guaritore d’anime, quindi un mago, come nelle società primitive dove c’era sempre qualcuno che sapeva curare i problemi del corpo e della mente. La casa invece è l’ordinatissimo appartamentostudio del padre in cui il disordinatissimo scrittore si trasferisce, che diviene una protagonista parlante, il centro essenziale della storia. Riportando le emozioni provate nel non facile rapporto padre-figlio, Trevi offre al lettore moltissimi spunti e suggestioni, attraverso una scrittura che ipnotizza, uno stile unico, mai banale, che trasporta

in un intreccio di vita vera e letteratura, di profondità e leggerezza, di autobiografico e biografico, in un esercizio della memoria che attraversa la storia e la cultura del Novecento. Con La casa del mago lo scrittore prosegue la sua “narrazione dei morti” e, dopo aver rievocato le figure di Pasolini, Laura Betti, Cesare Garboli, Amelia Rosselli, Rocco Carbone, Pia Pera, ora tocca al padre. Trevi sostiene che i morti sembrano essere attratti dalla scrittura, capaci di “affiorare nelle parole”, ma forse qui, nel tentativo di ritrovare il padre e capirne l’essenza, lo scrittore cerca e trova sé stesso. Nato a Roma nel 1964, Emanuele Trevi ha vinto il Premio Viareggio nel 2018 con Sogni e favole e il Premio Strega con Due vite nel 2021. Ha esordito nel 2003 con il romanzo I cani del nulla. Tra gli altri romanzi, ha pubblicato Qualcosa di scritto, Istruzioni per l’uso del lupo, Senza verso, Il libro della gioia perpetua, Il popolo di legno È anche autore di molti saggi e curatele e collabora con Radio3 e con il Corriere della Sera. Elisabetta Gardin

SHOWCASE MODELLO — DESIGN DARIO SIMPLICIO VILLA

Conservative showcase made for the architectural model of Teatro La Fenice, by Giannantonio Selva, 1792 La Fenice Opera House Foundation - Venice
From the short film “IL MODELLINO RESTAURATO” © Kinonauts / La Fenice Opera House Foundation - Venice

INCONTRI PAROLE

Ci troviamo in San Bartolomio? Ci vediamo in San Luca? Prendiamo uno spritz in Santo Stefano?

Quante volte i veneziani, quasi senza accorgersene, hanno pronunciato, frasi invitanti come quelle sopra citate? Come mai? Che cosa sta alla base di queste frasi? Un desiderio, la ricerca di un piacere? Un’infinità di esigenze!

Tantissimi infatti possono essere i motivi, ma a monte di queste espressioni c’è un’unica, grande aspirazione: incontrarsi, stare assieme, ritrovarsi, scambiare pensieri, condividere un momento spensierato, raccontare un’esperienza nuova o anche soltanto consigliare un bacaro. Senza certamente la pretesa di voler risalire alla vasta gamma di motivi che provocano il desiderio di incontro, accontentiamoci di analizzarne qualcuno. Così. Semplicemente. In ordine sparso. Partiamo dagli incontri di affari, quelli che sembrano forse i più frequenti, che appaiono, in un certo senso “necessari”. Perché? Per impostare problemi, per risolverli assieme, sentire altri pareri, trovare soluzioni, tentare transazioni, per riferire, approfondire, scambiare idee in modo più ampio e tranquillo, sereno e meno frettoloso rispetto alle più essenziali telefonate, alle email, ai WhatsApp. O anche soltanto per scoprire, per ascoltare altri punti di vista. È vero: oggi con le telefonate da cellulari, utilizzati magari correndo per la strada, talvolta con una pratica cuffietta introdotta nel padiglione auricolare, durante incredibili spostamenti, passando tra la folla, senza neppure… vederla, superando improvvisi tratti con “scarsità di campo” in cui le frasi vengono brutalmente mozzate e recuperate poi successivamente, grazie alle segnalazioni dell’interlocutore, la sintesi di una conversazione si riesce anche a costruire, è vero, ma così è sempre frettolosa, povera, insoddisfacente, anche se essenziale. Siamo sinceri, un incontro diretto, è tutta un’altra cosa! Guardarsi in viso, ascoltare, essere ascoltati dal vivo, cogliendo magari le importanti reazioni impercettibili del viso di chi ci sta di fronte durante il nostro eloquio, reazioni che lo commentano silenziosamente, ma in modo inequivocabilmente indicativo, mentre accetta o respinge o condivide le nostre parole, i nostri pensieri, è una cosa ben diversa! Vedersi, ascoltarsi da una breve distanza, persino poter litigare (la differenza di opinioni, di convinzioni è lecita, non di rado producente, utile, quando non sia preconcetta) con una persona che ci sta fisicamente di fronte, dà una maggior soddisfazione, di completezza. Incontro: una splendida abitudine veneziana, anche quella di vedersi al caffè! Non è una perdita di tempo, ma un acquisto di umanità. E se poi, se tra le parole scambiate, i commenti, dovesse anche scappare qualche lieve, superficiale sfumata allusione, pettegolezzo, qualche accenno di insinuazione, purché bonario e benevolo, può costituire un momento informativo, allegro, curioso e anche un po’, per taluno, attraente, esclusivo e… divertente. Facciamo un passo nel nostro passato. Ricordate? I primi incontri, quelli che abbiamo fatto a scuola? Sembravano insignificanti, casuali, talvolta forzati. Invece quanto erano importanti, quante amicizie hanno cementato, quanto ci hanno insegnato! Ad esempio da quelle frequentazioni abbiamo imparato a riconoscere la grande varietà di esseri umani che ci circonda. I compagni di scuola, infatti, costituivano un bel campionario rispetto a quello che poi nella vita abbiamo avuto occasione successivamente di incontrare: vi erano i compagni seri, quelli ridicoli, i permalosi, comici, intelligenti, modesti, superdotati, solitari, socievoli, schivi, pazienti, timidi, tolleranti, traditori, bugiardi, generosi, ruffiani. Da ragazzi non ci siamo mai resi conto quanto quegli incontri quotidiani fossero tutti così importanti e “speciali”. Non solo, ma avevano in

gran parte una incredibile caratteristica: quella di diventare indelebili. Ma, all’epoca, assolutamente non ce ne siamo resi conto. Gli incontri successivi della vita davano la sensazione di aver cancellato quelli “antichi”, scolastici. Invece…, invece, anziché sbiadire con il passare del tempo, sono rimasti magicamente stampati, cristallizzati, immutabili in un angolo sconosciuto della memoria che, se interpellato, pure a distanza di tanto tempo, li restituisce intatti, forse con l’aggiunta di un lieve sapore di tenero e dolce (il passato, chissà perché, è infarcito spesso di nostalgia!).

Vivere una vita di relazione ci sembra un fatto scontato, naturale, normale, ovvio. E quanti sono i tipi di incontri! Casuali, obbligati (sul posto di lavoro, a meno che si lavori sempre in remoto, cosa oggi assai frequente), in attività affini, per interesse, ricercati (per solitudine), per affinità di idee politiche, per progressiva amicizia, per analogia caratteriale, incontri pubblici, privati, incontri per passione sportiva, per passione per il gioco (i famosi club del bridge o degli scacchi), persino incontri di semplici sguardi, talvolta carichi di significato, anche compromettenti, comunque molto importanti.

Ma volendo cambiare campo: anche in geometria troviamo gli incontri (due corde che incontrano una circonferenza!). In questo caso, però, viene esclusa la parte emotiva ed empatica, lasciando il posto esclusivamente a ragionamenti e constatazioni, a rigide logiche già collaudate anche talvolta complesse, che escludono conseguenze impreviste, inaspettate.

Questa magica parola non finisce mai di stupirci. Sembra quasi di prendersi allegramente gioco di noi: che ci crediate o no, nell’analisi di questa incredibile parola, ho… “incontrato” più difficoltà di quante ne pensassi! All’inizio mi sembrava tutto così semplice e naturale, invece la ricchezza della lingua italiana mi ha allargato improvvisamente il panorama! (ma mi ha anche, confesso, incuriosito, divertito…).

E non è finita qui: a pensarci bene, vi siete mai resi conto che quando guidiamo una autovettura incontriamo in continuazione i variopinti cartelli stradali che ci condizionano, ci richiamano l’attenzione, ci aiutano, ci avvertono, ci impongono, ci costringono, ci salvano, ci indicano, ci consigliano, ci vietano, ci offrono alternative, ci agitano, ci rassicurano. Nella vita poi si incontrano tante cose desiderabili o sgradite, comunque sorprendenti, attese, sperate, temute. C’è chi… incontra più spese del previsto, c’è chi invece incontra la dea bendata (con una schedina da € 2 vince oltre 100 milioni di euro: e dove, se non a Napoli?). Come sopra abbiamo notato certe volte gli incontri possono essere anche casuali, inaspettati. Se si tratta di esseri umani il verbo incontrare talvolta potrebbe arricchirsi, cambiare addirittura vestito e diventare “imbattersi”. Si, ma questo privilegio, teniamolo presente, è riservato soltanto agli esseri umani. Una strada che ne incontra un’altra non si… imbatterà mai nell’altra!

Un altro incontro figurato? Quel libro, si dice, ha “incontrato” (è sottinteso: il favore del pubblico). E poi? Li ricordate gli “incontri” del terzo tipo?

Ma in questa sede è bene lasciare in disparte gli alieni. Invece, conscio di essermi limitato a indicare soltanto alcune categorie comuni o curiose, mi piace concludere, viceversa, con due esempi molto importanti, che segnano la vita sentimentale di tante persone. L’incontro con il primo amore, (quello che “non si scorda mai”, come sottolineava sornione, sorridendo, un… maestro di musica!) e quello che ci accompagna tutta una vita, cioè l’incontro fatale con il proprio partner. Qualche volta, ma assai di rado, questi ultimi due possono anche coincidere. A Voi il compito di scoprirne alcuni di questi casi rari, eccezionali! (in attesa di… “incontrare” la prossima parola).

city diary Estate, che spettacolo!

agenda

MUSICA , CLASSICA, TEATRO, CINEMA

Lug Jul

05

venerdì Friday

Festival del Vittoriale

CAT POWER

Bob Dylan tribute

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

06 sabato Saturday

JAMIE JONES

ARCHIE HAMILTON

GERMANO VENTURA

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

ULTIMO

Musica d’autore

Stadio Euganeo-Padova h. 21

Marostica Summer Festival

EMMA

:music a

10

mercoledìWednesday

Festival del Vittoriale

GARY CLARCK JR

KINGFISH

Blues

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

11

giovedìThursday

Women for Freedom in Jazz GINGA

Jazz

Hotel Carlton on the Grand Canal h. 21

Marostica Summer Festival

DEEP PURPLE

Rock

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

12

venerdì Friday

Pop Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

07 domenica Sunday

Marostica Summer Festival

TAKE THAT

Pop

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

Festival del Vittoriale

JACK SAVORETTI

Rock

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone Riviera h. 21.15

08 lunedì Monday

TOM MORELLO

Rock

Castello Scaligero-Villafranca h. 21

Festival del Vittoriale

JAMES BLAKE

Pop elettronico

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone Riviera h. 21.15

Marostica Summer Festival

MAHMOOD

Pop Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

09 martedìTuesday

Venezia Jazz Festival

GREGORY PORTER

Jazz Teatro La Fenice h. 21

Mirano Summer Festival

ERNIA

Dj-set

Impianti sportivi-Mirano h. 21

Marostica Summer Festival

ANNALISA

Pop

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

AMA Music Festival

CCCP - FEDELI ALLA LINEA

MARLENE KUNTZ

Rock alternativo

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

13

sabato Saturday

JOSEPH CAPRIATI

MARCO ZABEO

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

AMA Music Festival

TEDUA

ANGELINA MANGO

Pop

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

Festival del Vittoriale

FRANCESCO DE GREGORI

Blues

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

14

domenica Sunday

Venezia Jazz Festival

MONICA SALMASO TRIO

Jazz

Auditorium Lo Squero h. h. 18

Festival del Vittoriale

FRANCESCO DE GREGORI

Blues

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

15

lunedì Monday

Marostica Summer Festival

POOH

Rock

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

16

martedìTuesday

Marostica Summer Festival POOH

Rock

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

17

mercoledìWednesday

Mirano Summer Festival

ALEXIA

Pop

Impianti sportivi-Mirano h. 21

Marostica Summer Festival

ANTONELLO VENDITTI

Musica d’autore

Piazza degli Scacchi-Marostica h. 21

18

giovedìThursday

Women for Freedom in Jazz MALIKA FÈ

DARIO ZENNARO

LELLO GNESUTTA

Jazz

Hotel Carlton on the Grand Canal h. 21

19

venerdì Friday

Venezia Jazz Festival

SNEER

Jazz

Palazzo Municipale-Fiesso d’Artico h. 21

Mirano Summer Festival

ACHILLE LAURO

Pop

Impianti sportivi-Mirano h. 21

Festival del Vittoriale

COLAPESCE DIMARTINO

Musica d’autore

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

20 sabato Saturday

MOCHAKK

MATISA

GERMANO VENTURA

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

Mirano Summer Festival THE KOLORS

Pop

Impianti sportivi-Mirano h. 21

No Borders Music Festival

MORCHEEBA

Musica balcanica

Lago Superiore di Fusine-Tarvisio h. 14

No Borders Music Festival

GORAN BREGOVIC

Musica balcanica

Lago Superiore di Fusine-Tarvisio h. 16

21 domenica Sunday

Venezia Jazz Festival

INCOGNITO

Acid jazz

Piazza Mercato-Marghera h. 21

Festival del Vittoriale

CARMEN CONSOLI

Musica d’autore

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

No Borders Music Festival

THIEVERY CORPORATION

KRUDER & DORFMEISTER

Dj-set

Lago Superiore di Fusine-Tarvisio h. 14

22 lunedì Monday

Mirano Summer Festival

LOREDANA BERTÈ

Pop

Impianti sportivi-Mirano h. 21

25 giovedìThursday

Venezia Jazz Festival COBI Indie rock Splendid Venice Hotel h. 21

Women for Freedom in Jazz PERLA PALMIERI

Jazz Hotel Carlton on the Grand Canal h. 21

Mirano Summer Festival RAF Pop Impianti sportivi-Mirano h. 21

26

venerdì Friday

Castello Festival

YAMANDU COSTA

Jazz

Piazza Eremitani-Padova h. 21

Operaestate

ALESSANDRO SCIARRONI

Musica corale

Teatro Remondini-Bassano h. 21.20

Festival del Vittoriale

MARCUS MILLER

Funk

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

27 sabato Saturday

BEDOUIN SHUBOSTAR

SIMONE DE KUNOVICH

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

CRISTIANO DE ANDRÈ

Musica d’autore

Anfiteatro Camerini-Piazzola sul Brenta h. 21

Rumors Festival

VINICIO CAPOSSELA

Musica d’autore

Teatro Romano-Verona h. 21

Festival del Vittoriale

MAX GAZZÈ

Pop

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone Riviera h. 21.15

No Borders Music Festival

STEWART COPELAND

Rock

Lago Superiore di Fusine-Tarvisio h. 14

28 domenica Sunday

Rumors Festival

MARISA MONTE

Musica brasiliana

Teatro Romano-Verona h. 21

No Borders Music Festival

MANU CHAO

Folk

Lago Superiore di Fusine-Tarvisio h. 14

29 lunedì Monday

Festival del Vittoriale PASSENGER

Folk

Anfiteatro del Vittoriale-Gardone

Riviera h. 21.15

Ago Aug

03

sabato Saturday

Venezia Jazz Festival

ADAM HOLZMAN TRIO

Jazz

Combo h. 21

SOLID GROOVES

BLACKCHILD

CARLITA

DENNIS CRUZ

PAWSA

THE MARTINEZ BROTHERS

Dj-set

Spiaggia del Faro-Jesolo h. 22

No Borders Music Festival

MISTERY CONCERT

Artista a sorpresa

Rifugio Gilberti-Sella Nevea h. 14

04

domenica Sunday

Venezia Jazz Festival

ADAM HOLZMAN TRIO

Jazz

Combo h. 21

No Borders Music Festival

JAN GARBAREK GROUP

TRILOK GURTU

Jazz

Altopiano del Montasio h. 14

10

sabato Saturday

NDIRA PAGANOTTO

VALENTINØ

KLEA

LEONARDO

AANN HOPP

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

11

domenica Sunday

KID YUGI

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

14

mercoledìWednesday

SETH TROXLER

DJ TENNIS

JONNY ROCK

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

15

giovedìThursday

MAU P

ITALOBROS

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

17

sabato Saturday

MARCO FARAONE ROSSI. SWEELY

LUCA DONZELLI

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

21

mercoledìWednesday

AMA Music Festival THE OFFSPRING BUZZCOCKS

NECK DEEP

Punk

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

22

giovedìThursday

AMA Music Festival

SUBSONICA

COSMO

Musica elettronica

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

23

venerdì Friday

AMA Music Festival

COEZ & FRAH QUINTALE

IL TRE

CLARA RHOVE

KID YUGI

Rap

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

24

sabato Saturday

JIMI JULES

LP GIOBBI

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

AMA Music Festival

PAUL KALKBRENNER

BRINA KNAUSS

DEER JADE

NO BRAND

Dj-set

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

25 domenica Sunday

AMA Music Festival

EDITORS

Indie rock

Villa Ca’ Cornaro-Romano d’Ezzelino h. 21

28

mercoledìWednesday

Operaestate

LUNA CENERE

ANTONIO RAIA

Jazz

CSC San Bonaventura-Bassano h. 18

31 sabato Saturday

999999999

REGAL KLEA

STEPHAN KRUS

LADY C

Dj-set

Il Muretto-Jesolo h. 22

Operaestate

CATERINA PALAZZI

KANAKA

Noise

Teatro Remondini-Bassano h. 21

agenda

MUSICA , CLASSICA , TEATRO, CINEMA

INDIRIZZI

ALTOPIANO DEL MONTASIO

Tarvisio nobordersmusicfestival.com

ANFITEATRO CAMERINI

Piazzale Camerini-Piazzola www.zedlive.com

ANFITEATRO DEL VITTORIALE

Via Vittoriale 12-Gardone www.anfiteatrodelvittoriale.it

AUDITORIUM LO SQUERO

Isola di San Giorgio Maggiore www.venetojazz.com

CASTELLO SCALIGERO

Piazza Castello-Villafranca www.eventiverona.it

COMBO

Campo dei Gesuiti 4878 www.venetojazz.com

CSC SAN BONAVENTURA

Via dell’Ospedale 6-Bassano www.operaestate.it

HOTEL CARLTON ON THE GRAND CANAL

Santa Croce 578

Fb: Women for Freedom in Jazz

IL MURETTO

Via Roma Destra 120-Jesolo www.ilmuretto.org

IMPIANTI SPORTIVI

Via Cavin di Sala-Mirano miranosummerfestival.it

LAGO SUPERIORE DI FUSINE

Tarvisio

nobordersmusicfestival.com

PALAZZO MUNICIPALE

Piazza Marconi 16-Fiesso www.venetojazz.com

PIAZZA DEGLI SCACCHI Marostica marosticasummerfestival.it

PIAZZA EREMITANI

Padova www.castellofestival.it

PIAZZA MERCATO

Marghera www.venetojazz.com

RIFUGIO GILBERTI

Sella Nevea nobordersmusicfestival.com

SPIAGGIA DEL FARO

Jesolo Lido www.ilmuretto.org

SPLENDID VENICE HOTEL

S. Marco Mercerie, 760 www.venetojazz.com

STADIO EUGANEO

Viale Nereo Rocco-Padova www.zedlive.com

TEATRO LA FENICE

Campo San Fantin 1965 www.venetojazz.com

TEATRO REMONDINI

Via Trinità 8/c-Bassano www.operaestate.it

TEATRO ROMANO

Rigaste Redentore 2-Verona www.venetojazz.com

VILLA CA’ CORNARO

Romano d’Ezzelino www.amamusicfestival.com

Lug Jul

06

sabato Saturday

MARKUS STENZ direttore

Musiche di Ives, Bellini, Wagner “Stagione Sinfonica 2023-2024”

Ingresso/Ticket € 99/77

Teatro La Fenice h. 20

07 domenica Sunday

MARKUS STENZ direttore

Musiche di Ives, Bellini, Wagner

“Stagione Sinfonica 2023-2024”

Ingresso/Ticket € 99/77

Teatro La Fenice h. 17

11

AIDA

giovedìThursday

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Alvise Casellati

Regia Stefano Poda “Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

12

venerdì Friday

IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Opera buffa in due atti

Musiche di Rossini

Direttore George Petrou

Regia Hugo De Ana “Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

13

sabato Saturday

OMAGGI A PUCCINI

DAL MONDO

JAMES CONLON direttore

SELENE ZANETTI soprano

FRANCESCO DEMURO tenore

ALEXANDER MALOFEEV pianoforte

Musiche di Puccini, Verdi, Ravel

Ingresso/Ticket € 320/35

Piazza San Marco h. 21

GIOVANNI ANDREA ZANON violino

MARTINA CONSONNI pianoforte

Musiche di Brahms, Schumann, Saint-Saëns

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 15

Teatro Al Castello-Bassano del Grappa h. 21.20

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival” Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

18 giovedìThursday

AIDA

Opera in quattro atti Musiche di Verdi

Direttore Alvise Casellati

Regia Stefano Poda

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

19

venerdì Friday

LA BOHÈME

Opera in quattro quadri Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Alfonso Signorini

“Arena di Verona Opera Festival” Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

20 sabato Saturday

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival” Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

21 domenica Sunday

AIDA

Opera in quattro atti Musiche di Verdi

Direttore Alvise Casellati

Regia Stefano Poda

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

23 martedìTuesday

ROBERTO BOLLE AND FRIENDS

Musiche del repertorio classico danzate dalle più grandi etoiles della scena internazionale

“Arena di Verona Opera Festival” Ingresso/Ticket € 240/28

Arena di Verona h. 21.30

24

mercoledìWednesday

ROBERTO BOLLE AND FRIENDS

Musiche del repertorio classico

danzate dalle più grandi etoiles della scena internazionale

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 240/28

Arena di Verona h. 21.30

25

giovedìThursday

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti

Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

LEONORA ARMELLINI

pianoforte

QUINTETTO DI FIATI

Musiche di Poulenc, Roussel

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 10

Museo Civico-Bassano del Grappa h. 21.20

26

AIDA

venerdì Friday

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Alvise Casellati

Regia Stefano Poda

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

27 sabato Saturday

LA BOHÈME

Opera in quattro quadri

Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Alfonso Signorini

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

29 lunedì Monday

MARIO BRUNELLO violoncello

VIRGILIO SIENI

Musiche di Pärt, Cage, Bach, Bosso

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 20/18

Teatro Al Castello-Bassano del Grappa h. 21.20

Ago Aug

01

AIDA

giovedìThursday

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Alvise Casellati

Regia Stefano Poda

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21.15

02

TOSCA

venerdì Friday

Opera in tre atti

Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

03

sabato Saturday

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti

Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

04

domenica Sunday

MARCO ANGIUS direttore

ORCHESTRA DI PADOVA E

DEL VENETO

Musiche di Beethoven

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 30/25

Teatro Al Castello-Bassano del Grappa h. 21

08

giovedìThursday

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti

Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

EVA GEVORGYAN pianoforte

Musiche di Chopin, Schumann, Ravel

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 10

CSC San Bonaventura-Bassano del Grappa h. 21

09

venerdì Friday

TOSCA

Opera in tre atti

Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

10

sabato Saturday

AIDA 1913

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Daniel Oren

Regia Gianfranco De Bosio

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

11

domenica Sunday

IX SINFONIA

Musiche di Beethoven

Direttore Andrea Battistoni

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 240/28

Arena di Verona h. 21.45

LUCA GIOVANNINI violoncello

LEONARDO COLAFELICE

pianoforte

Musiche di Chopin, Schumann, Rachmaninov

“Operaestate 2024”

Ingresso/Ticket € 10

Museo Civico-Bassano del Grappa h. 21

16

venerdì Friday

TOSCA

Opera in tre atti

Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

17

sabato Saturday

CARMEN

Opéra-comique in quattro atti

Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

18

domenica Sunday

AIDA 1913

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Daniel Oren

Regia Gianfranco De Bosio

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

21 mercoledìWednesday

PLÁCIDO DOMINGO NOCHE ESPAÑOLA

Musiche del repertorio operistico

Direttore Jordi Bernacer

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 285/34

Arena di Verona h. 21

22

giovedìThursday

AIDA 1913

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Daniel Oren

Regia Gianfranco De Bosio

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

23

venerdì Friday CARMEN

Opéra-comique in quattro atti Musiche di Bizet

Direttore Leonardo Sini

Regia Franco Zeffirelli

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

24

sabato Saturday

IL BARBIERE DI SIVIGLIA Opera buffa in due atti

Musiche di Rossini

Direttore George Petrou

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

26 lunedì Monday

QUATOUR TCHALIK

Musiche di Fauré e Saint-Saens

“Concerto per Peggy”

Ingresso riservato ai soci/ For members only

Collezione Guggenheim h. 21

agenda

MUSICA, CLASSICA , TEATRO , CINEMA

28

mercoledìWednesday

VIVA VIVALDI

THE FOUR SEASONS IMMERSIVE CONCERT GIOVANNI ANDREA ZANON

violino

Musiche di Vivaldi

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 240/28

Arena di Verona h. 21.30

29 giovedìThursday

AIDA 1913

Opera in quattro atti

Musiche di Verdi

Direttore Daniel Oren

Regia Gianfranco De Bosio

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

30 venerdì Friday

TURANDOT

Dramma lirico in tre atti

Musiche di Puccini

Direttore Francesco Ivan Ciampa

Regia Cecilia Ligorio

“Stagione Lirica e Balletto 20232024”

Ingresso/Ticket € 210/15

Teatro La Fenice h. 19

TOSCA

Opera in tre atti

Musiche di Puccini

Direttore Daniel Oren

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

31 sabato Saturday

IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Opera buffa in due atti

Musiche di Rossini

Direttore George Petrou

Regia Hugo De Ana

“Arena di Verona Opera Festival”

Ingresso/Ticket € 270/32

Arena di Verona h. 21

INDIRIZZI

ARENA DI VERONA

Piazza Bra-Verona www.arena.it

COLLEZIONE GUGGENHEIM

Dorsoduro 701 guggenheim-venice.it

CSC SAN BONAVENTURA

Via dell’Ospedale 2-Bassano del Grappa www.operaestate.it

MUSEO CIVICO

Piazza Garibaldi 34-Bassano del Grappa www.operaestate.it

PIAZZA SAN MARCO

Venezia www.teatrolafenice.it

TEATRO AL CASTELLO

Piazza Ezzelini-Bassano del Grappa www.operaestate.it

TEATRO LA FENICE

Campo San Fantin 1965 www.teatrolafenice.it

Lug Jul

01

lunedì Monday ESAGERATE!

Più che un aggettivo, un’esortazione di e con Cinzia Spanò

“Venice Open Stage 2024”

Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

02

MUA’

martedìTuesday

di Noemi Piva

Con Sara Chinetti e Noemi Piva

“Venice Open Stage 2024”

Ingresso libero/Free entry

Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

03

mercoledìWednesday

DREAMBAZAAR

a BIG journey for a TINY fern!

ArtEZ - Master in Theatre Practices

“Venice Open Stage 2024”

Ingresso libero/Free entry

Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

04

giovedìThursday DREAMBAZAAR

(vedi mercoledì 3 luglio)

Ingresso libero/Free entry

Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

05

venerdì Friday

RESTERÒ PER SEMPRE

NELLA FOTO DI UNO

SCONOSCIUTO

Fondamenta Zero

“Venice Open Stage 2024”

Ingresso libero/Free entry

Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

06

sabato Saturday BEFORE NIGHT FALLS

D/Collective

“Venice Open Stage 2024”

Ingresso libero/Free entry

Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

07 domenica Sunday

OIDA

Un rito musicale teatrale

Progetto Amunì

“Venice Open Stage 2024” Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

08 lunedì Monday

HOMESICKNESS BLUES

Aristotle University of Thessaloniki, Faculty of Fine Arts - School of Drama

“Venice Open Stage 2024” Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

09 martedìTuesday HOMESICKNESS BLUES (vedi lunedì 8 luglio) Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

10

mercoledìWednesday

TESLA

di e con Ksenija Martinovic

“Venice Open Stage 2024” Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

11 giovedìThursday

BLASTED

The Aleksander Zelwerowicz National Academy of Dramatic Art di Varsavia

“Venice Open Stage 2024” Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio Campazzo San Sebastiano h. 21.45

12

venerdì Friday BLASTED (vedi giovedì 11 luglio)

Gigi dall’Aglio

San Sebastiano h. 21.45

13 sabato Saturday

DIECI MODI PER MORIRE FELICE di Emanuele Aldrovandi “Venice Open Stage 2024” Ingresso libero/Free entry Arena Gigi dall’Aglio

San Sebastiano h. 21.45

17

mercoledìWednesday

ROMEO E GIULIETTA

(PRATO INGLESE)

Regia di Filippo Dini

Con i neo diplomati della Scuola del Teatro Stabile di Torino

“Estate Teatrale Veronese 2024”

Ingresso/Ticket € 33/10

Teatro Romano-Verona h. 21.15

18

giovedìThursday

18. BIENNALE DANZA

Il 18. Festival Internazionale di Danza Contemporanea si svolge dal 18 luglio al 3 agosto 2024, diretto da Wayne McGregor. In programma numerosi appuntamenti quotidiani con solisti e compagnie internazionali e l’attività di Biennale College Danza che diventa parte integrante del programma del Festival. Vedi Festival Guide pp. 32-65

AFTER JULIET

(PRATO INGLESE)

Regia di Filippo Dini

Con i neo diplomati della Scuola del Teatro Stabile di Torino

“Estate Teatrale Veronese 2024”

Ingresso/Ticket € 33/10

Teatro Romano-Verona h. 21.15

19

venerdì Friday

TITIZÉ. A VENETIAN DREAM

Regia di Daniele Finzi Pasca

Compagnia Finzi Pasca

Fino al 13 ottobre lo spettacolo va in scena al Teatro Goldoni ogni giovedì, venerdì, sabato e domenica

Vedi Coverstory pp.12-19

Ingresso/Ticket € 50/20

Teatro Goldoni h. 19

20

sabato Saturday

REDRUM

Coreografia di Marco Valerio

Amico, Rhuena Bracci

Musiche di Bruno Dorella gruppo nanou

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 15/12

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 18/21

21

domenica Sunday

REDRUM

(vedi sabato 20 luglio)

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 18/21

23

martedìTuesday

FRANKENSTEIN

(A LOVE STORY)

Ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande Motus

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 15/12

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 21.20

25

giovedìThursday

MOLTO RUMORE PER NULLA

Adattamento e regia di Veronica Cruciani con Lodo Guenzi, Sara Putignano

“Estate Teatrale Veronese 2024”

Ingresso/Ticket € 33/10

Teatro Romano-Verona h. 21.15

26

venerdì Friday

MOLTO RUMORE PER NULLA

(vedi giovedì 25 luglio)

Teatro Romano-Verona h. 21.15

27

sabato Saturday

BROMIO

Drammaturgia del movimento

Marta Ciappina

Drammaturgia Simone Derai, Piero Ramella

Anagoor

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 15/12

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 18/21.20

28 domenica Sunday

BROMIO

(vedi sabato 28 luglio)

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 18/21.20

31 mercoledìWednesday

MONUMENTUM

THE SECOND SLEEP

Concept, coreografia, costumi Cristina Kristal Rizzo

Danza Annamaria Ajmone, Marta

Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 15

Teatro al Castello “Tito Gobbi”

Bassano del Grappa h. 21.20

Ago Aug

02

venerdì Friday

GRAND JETÉ

di Silvia Gribaudi con Silvia Gribaudi e MM

Contemporary Dance Company:

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 20/18

Teatro al Castello “Tito Gobbi” Bassano del Grappa h. 21

06

martedìTuesday

GO FIGURE

Coreografia e direzione artistica

Sharon Fridman

Interpreti Shmuel Dvir Cohen, Tomer Navot

Musica di Noam Helfer

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 20/18

Teatro al Castello “Tito Gobbi” Bassano del Grappa h. 21

09

venerdì Friday

CREATURES

Album degli abitanti del Nuovo Mondo

Coreografie e atmosfera di Michele Di Stefano

MK Company

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 20

Chiostro del Museo Civico Bassano del Grappa h. 21

10

sabato Saturday

CREATURES

Album degli abitanti del Nuovo Mondo

(vedi venerdì 9 agosto)

Chiostro del Museo Civico Bassano del Grappa h. 21

21

mercoledìWednesday

DELIVERY

Ideazione e regia Matteo Maffesanti

Elevator Bunker

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 16.30/21

THE GAME

Concetto e realizzazione: Cristina Galbiati, Ilija Luginbühlti

Trickster-p

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Spazio Corona

Bassano del Grappa h. 18.30

22 giovedìThursday

DELIVERY

(vedi mercoledì 21 agosto)

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 16.30/21

THE GAME

(vedi mercoledì 21 agosto)

Spazio Corona

Bassano del Grappa h. 18.30

ALL OF MY LOVE

Ideazione, coreografia e interpretazione Ioanna

Paraskevopoulou

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 20

23 venerdì Friday

FORESTO

Progetto Koltès

Da La notte poco prima delle foreste di Bernard-Marie Koltès Cura, regia Babilonia Teatri

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 17

THE GAME

(vedi mercoledì 21 agosto)

Spazio Corona

Bassano del Grappa h. 18.30

NEVER YOUNG

Drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani

Regia Francesca Macrì Biancofango

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 20

24

sabato Saturday

NUTTATA

Progetto Koltès

Da La notte poco prima delle foreste Traduzione, scrittura e lettura di Domenico Ingenito

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Palazzo Sturm

Bassano del Grappa h. 17

CREPA

di e con Sara Sguotti e Arianna Ulian

“OperaEstate 2024”

Ingresso/Ticket € 20

Chiostro del Museo Civico

Bassano del Grappa h. 21

agenda

MUSICA, CLASSICA, TEATRO , CINEMA

HEALING TOGETHER

Coreografia Daniele Ninarello

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 21.30

25

domenica Sunday

CANZUNA SEGRETA

Progetto Koltès

Da La notte poco prima delle foreste Taduzione e adattamento Giuseppe Massa, con Dario Mangiaracina, Giuseppe Massa Musiche Dario Mangiaracina

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Palazzo Sturm

Bassano del Grappa h. 17

BLESS THE SOUND THAT SAVED A WITCH LIKE ME

Assolo coreografico di Benjamin Kahn, creato per Sati Veyrunes

“OperaEstate 2024 – B.Motion” Ingresso/Ticket € 8

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 20

TO BE POSSESSED

Coreografia, performance di Chara Kotsali

Drammaturgia di Dimitra Mitropoulou

“OperaEstate 2024 – B.Motion” Ingresso/Ticket € 8

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 21.30

26

lunedì Monday

LOURDES

di e con Emilia Verginelli e con Dario Costa

“OperaEstate 2024 – B.Motion” Ingresso/Ticket € 8

Spazio Corona

Bassano del Grappa h. 21

27

martedìTuesday

LUISA*

di e con Valentina Dal Mas

Premio Scenario Periferie 2023

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 17

LOURDES

(vedi lunedì 26 agosto)

Spazio Corona

Bassano del Grappa h. 21

THE ONE WHO LEAVES IS NOT GONE

Coreografia e danza Thalia Pigier

Musica di Suzanne Seiller

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Teatro Remondini

Bassano del Grappa h. 21.30

28

mercoledìWednesday

REPLAY

di Nur Garabli

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Cortile Vittorelli

Bassano del Grappa h. 17

MERCURIO

Musica di Antonio Raia

Danza Luna Cenere

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

CSC San Bonaventura

Bassano del Grappa h. 20

30

venerdì Friday

BARRANI

Corps Citoyen

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Chiesa di San Giovanni

Bassano del Grappa h. 20

31

sabato Saturday

MIKE

Creato ed eseguito da Dana Michel

“OperaEstate 2024 – B.Motion”

Ingresso/Ticket € 8

Palazzo Bonaguro

Bassano del Grappa h. 15

INDIRIZZI

ARENA GIGI DALL’AGLIO

Campazzo San Sebastiano

Dorsoduro www.veniceopenstage.org

CSC SAN BONAVENTURA

Via dell’Ospedale 2-6

Bassano del Grappa www.operaestate.it

TEATRO GOLDONI

San Marco 4650/B www.teatrostabileveneto.it

TEATRO REMONDINI

Via Santissima Trinità 8/C

Bassano del Grappa www.operaestate.it

TEATRO ROMANO

Regaste Redentore 2 www.spettacoloverona.it

Lug Jul

07

domenica Sunday

MASTER & COMMANDER

Regia di Peter Weir (2003) LE AVVENTURE DI MARCO POLO

Regia di Emanuele Luzzati, Giulio Gianini (1971)

“Cinema Barch-in” Arsenale h. 20

09

martedìTuesday

L’ULTIMA VIA DI RICCARDO BEE

Regia di Emanuele Confortin (2023)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo”

Parco San Giuliano-Mestre h. 21

10

mercoledìWednesday

BELLE ET SÉBASTIEN

Regia di Nicolas Vanier (2013)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo”

Parco San Giuliano-Mestre h. 21

11

giovedìThursday

BELFAST

Regia di Kenneth Branagh (2021)

LE AVVENTURE DI MARCO POLO

Regia di Emanuele Luzzati, Giulio

Gianini (1971)

“Cinema Barch-in”

Arsenale h. 20

LADY BIRD

Regia di Greta Gerwig (2017)

“Cinemoving 2024”

Spiaggia libera-Lido h. 21.15

LE OTTO MONTAGNE

Regia di Felix Van Groeningen (2022)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo”

Parco San Giuliano-Mestre h. 21

12

venerdì Friday

SINBAD. LA LEGGENDA DEI

7 MARI

Regia di Ron Clements, John Musker (2023)

LE AVVENTURE DI MARCO POLO

Regia di Emanuele Luzzati, Giulio

Gianini (1971)

“Cinema Barch-in”

Arsenale h. 20

UN DIVANO A TUNISI

Regia di Manele Labidi (2019) “Cinemoving 2024” Serra dei Giardini h. 21.15

13

sabato Saturday

FILM A SORPRESA

“Cinema Barch-in” Arsenale h. 20

16

martedìTuesday

LA MONTAGNA CREATA

DALL’UOMO

Regia di Leonardo Panizza (2021)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo” Parco San Giuliano-Mestre h. 21

17

mercoledìWednesday

HEIDI

Regia di Alain Gsponer (2015) “Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo” Parco San Giuliano-Mestre h. 21

18

giovedìThursday

LE CRONACHE DI NARNIA: IL VIAGGIO DEL VELIERO

Regia di Michael Apted (2010)

“Cinemoving 2024” Spiaggia libera-Lido h. 21.15

LA PRIMA NEVE

Regia di Andrea Segre (2013) “Cinemoving 2024 - Uno sguardo al mondo” Parco San Giuliano-Mestre h. 21

19

venerdì Friday

IL VIAGGIO DI ARLO

Regia di Peter Sohn (2015)

“Cinemoving 2024” Serra dei Giardini h. 21.15

25 giovedìThursday

IL MIO AMICO ERIC

Regia di Ken Loach (2009)

“Cinemoving 2024” Spiaggia libera-Lido h. 21.15

26 venerdì Friday

LA COLPEVOLE SONO IO

Regia di François Ozon (2023) “Cinemoving 2024” Serra dei Giardini h. 21.15

Ago Aug

01

giovedìThursday

FUORI CAMPO

Selezione di corti indipendenti

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

L’UOMO CHE FISSA LE CAPRE

Regia di Grant Heslov (2009)

“Cinemoving 2024” Spiaggia libera-Lido h. 21.15

02

venerdì Friday

RUBEN BRANDT

Regia di Milorad Krstic (2018)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

TROPPO CATTIVI

Regia di Pierre Perifel (2022)

“Cinemoving 2024” Serra dei Giardini h. 21.15

03

sabato Saturday

SEMMELWEIS

Regia di Lajos Koltai (2023)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo

sull’Europa” Campo San Polo h. 21

04

domenica Sunday

EGY MINDENKIÉRT

Regia di András Muhi Pires (2021)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

05

PLOI

lunedì Monday

Regia di Árni Ásgeirsson (2018)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa”

Campo San Polo h. 21

06

martedìTuesday

FILM PREMIO LUX DEL PARLAMENTO EUROPEO

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

07

mercoledìWednesday

THE QUIET GIRL

Regia di Colm Bairéad (2022)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo

sull’Europa”

Campo San Polo h. 21

08

giovedìThursday ONCE

Regia di John Carney (2006)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

IL LIBRO DELLA VITA

Regia di Jorge R. Gutierrez (2014)

“Cinemoving 2024” Spiaggia libera-Lido h. 21.15

09

venerdì Friday

ROOM

Regia di Lenny Abrahamson (2015)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo

sull’Europa” Campo San Polo h. 21

10

sabato Saturday

FILM PREMIO LUX DEL

PARLAMENTO EUROPEO

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo

sull’Europa” Campo San Polo h. 21

12

lunedì Monday

UN VRAI BONHOMME

Regia di Benjamin Parent (2019)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

13

martedìTuesday

PEAU D’ÂNE

Regia di Jacques Demy (1970)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa” Campo San Polo h. 21

14

mercoledìWednesday

LE ROI ET L’OISEAU

Regia di Paul Grimault (1979)

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa”

Campo San Polo h. 21

15

giovedìThursday

ETHEL & ERNEST

Regia di Roger Mainwood (2016) “Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa”

Campo San Polo h. 21

16

venerdì Friday

FILM PREMIO LUX DEL PARLAMENTO EUROPEO

“Cinemoving 2024 - Uno sguardo sull’Europa”

Campo San Polo h. 21

17

sabato Saturday

LES HISTOIRES D’AMOUR DE LIV S.

Regia di Anna Luif (2023)

“Cinema Svizzero a Venezia #13” Campo San Polo h. 21

18

domenica Sunday

ECHTE SCHWEIZER

Regia di Luka Popadic (2024)

“Cinema Svizzero a Venezia #13” Campo San Polo h. 21

19

lunedì Monday

BON SCHUUR TICINO

Regia di Peter Luisi (2023)

“Cinema Svizzero a Venezia #13” Campo San Polo h. 21

20

martedìTuesday

VENICE FILM WEEK

Promosso dalla Tarkovski Agency

“Cinemoving 2024” Campo San Polo h. 21

21

mercoledìWednesday

VENICE FILM WEEK

Promosso dalla Tarkovski Agency

“Cinemoving 2024”

Casa del Cinema h. 21

22

giovedìThursday

VENICE FILM WEEK

Promosso dalla Tarkovski Agency

“Cinemoving 2024” Casa del Cinema h. 21

23

venerdì Friday

VENICE FILM WEEK

Promosso dalla Tarkovski Agency “Cinemoving 2024” Casa del Cinema h. 21

26

lunedì Monday

L’INNOCENTE

Regia di Louis Garrel (2022) “Cinemoving 2024” Parco Albanese-Mestre h. 21.15

27

martedìTuesday

CAPITAN MUTANDA

Regia di David Soren (2017) “Cinemoving 2024” Parco Albanese-Mestre h. 21.15

28

mercoledìWednesday

NEZOUH. IL BUCO NEL

CIELO

Regia di Soudade Kaadan (2022) “Cinemoving 2024” Parco Albanese-Mestre h. 21.15

INDIRIZZI

ARSENALE

Castello cinemabarchin.com

CAMPO SAN POLO Venezia www.culturavenezia.it

CASA DEL CINEMA San Stae 1990 www.culturavenezia.it/cinema

PARCO ALBANESE Mestre www.culturavenezia.it

PARCO SAN GIULIANO Mestre www.culturavenezia.it

SPIAGGIA LIBERA

Lungomare D’Annunzio 2-Lido di Venezia www.culturavenezia.it

biennalearte

NATIONAL PARTICIPATIONS / COLLATERAL EVENTS / NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

NATIONAL PARTICIPATIONS

Repubblica di ARMENIA

Magazzino del Sale 3, Dorsoduro 264 IG @khemchyan_nina

Repubblica dell’AZERBAIGIAN

Campo della Tana, Castello 2126/A www.azerbaijanvenicebiennale.com

Repubblica Popolare del BANGLADESH

Spazio Espositivo STAERT, Santa Croce 1979/A BOSNIA-ERZEGOVINA

Palazzo Zorzi (UNESCO Venice Office), Castello 4930

BULGARIA

Sala Tiziano-Centro Culturale Don Orione Artigianelli Dorsoduro 919 www.bulgarianpavilionvenice.art

Repubblica del CAMERUN

Palazzo Donà delle Rose, Fondamenta Nove Cannaregio 5038

CILE

Magazzino n. 42, Marina Militare, Castello 2738/C IG @cosmonacion | www.cultura.gob.cl

Repubblica di CIPRO

Associazione Culturale Spiazzi, Castello 3865

Repubblica Democratica del CONGO

Ex Cappella Buon Pastore, Castello 77 COSTA D’AVORIO

Centro Culturale Don Orione Artigianelli, Dorsoduro 947

CROAZIA

Fàbrica 33, Calle Larga dei Boteri, Cannaregio 5063 www.croatianpavilion2024.com

CUBA

Teatro Fondamenta Nove, Cannaregio 5013 www.wilfredoprieto.com

ESTONIA

Chiesa delle Penitenti, Fondamenta Cannaregio 890 www.cca.ee

ETIOPIA

Palazzo Bollani, Castello 3647 www.ethiopiapavilion.org

GEORGIA

Palazzo Palumbo Fossati, San Marco 2597 IG @georgian_pavillon_2024

GERMANIA/2

Isola della Certosa e Giardini IG @deutscherpavillon

GRENADA

Palazzo Albrizzi-Capello, Cannaregio 4118 www.grenadavenice.org

Repubblica Islamica dell’IRAN

Palazzo Malipiero, San Marco 3198 Repubblica del KAZAKHSTAN

Museo Storico Navale, Riva San Biasio, Castello 2148

Repubblica del KOSOVO

Museo Storico Navale, Riva San Biasio, Castello 2148 www.pavilionofkosovo.com

LITUANIA

Chiesa di Sant'Antonin, Salizada Sant’Antonin Castello 3477 www.lndm.lt/inflammation

Repubblica di MACEDONIA DEL NORD

Scuola dei Laneri, Santa Croce 131/A IG @macedonianpavilion

MONGOLIA

Campo della Tana, Castello 2127/A (near the Arsenale entrance) www.2024mongolian-pavilion.org

MONTENEGRO

Complesso dell’Ospedaletto Barbaria de le Tole, Castello 6691 IG @slavadar

NIGERIA

Palazzo Canal, Rio Terà Canal, Dorsoduro 3121 www.nigeriaimaginary.com

Sultanato dell’OMAN

Palazzo Navagero, Castello 4147 IG @omanpavilion

Repubblica di PANAMA

Spazio Castello 2131 www.panamapavilion.org

PORTOGALLO

Palazzo Franchetti, San Marco 2842 www.greenhouse2024.com

ROMANIA/2

Palazzo Correr, Campo Santa Fosca, Cannaregio 2214 IG @romanianpavilion2024

Repubblica di SAN MARINO

Fucina del Futuro, Calle e Campo San Lorenzo Castello 5063/B www.biennaleveneziasanmarino.com

SANTA SEDE

Casa di Reclusione Femminile Venezia Sant’Eufemia, Giudecca 712 www.vatican.va

Repubblica di SLOVENIA

Serra dei Giardini, Via Garibaldi, Castello 1254 www.mg-lj.si

Repubblica Unita della TANZANIA

La Fabbrica del Vedere, Calle del Forno Cannaregio 3857 www.tanzaniapavilion2024.com

Repubblica Democratica di TIMOR-LESTE

Spazio Ravà, San Polo 1100 IG @natalieking_curator

UGANDA

Bragora Gallery, Castello 3496

Repubblica dello ZIMBABWE

Santa Maria della Pietà, Castello 3701

COLLATERAL EVENTS

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA/1

A Journey to the Infinite. Yoo Youngkuk

Campo Santa Maria Formosa, Castello 5252 www.yooyoungkuk.org

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA/2

A World of Many Worlds

Campo Santa Maria Formosa, Castello 5252 www.asia-forum.international www.bagrifoundation.org

ISTITUTO SANTA MARIA DELLA PIETÀ/1

A bove Zobeide

Exhibition from Macao, China

Calle della Pietà, Castello 3701 www.MAM.gov.mo

CASTELLO GALLERY

A ll African Peoples’ Consulate Castello 1636/A www.theafricacenter.org

PROCURATIE VECCHIE/1

A ndrzej Wróblewski (1927-1957)

In the First Person

Piazza San Marco 139-153/A www.starakfoundation.org

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE Berlinde De Bruyckere.

City ofRefuge III

Abbazia di San Giorgio Maggiore www.abbaziasangiorgio.it

DOCKS CANTIERI CUCCHINI Catalonia in Venice

Bestiari | Carlos Casas

San Pietro di Castello 40/A www.bestiari.llull.cat

SALONE VERDE - ART & SOCIAL CLUB

C osmic Garden

Calle Regina, Santa Croce 2258 IG @chanakya.school

PALAZZO CONTARINI POLIGNAC

Daring to Dream in a World of Constant Fear

Dorsoduro 874

BRUCHIUM FERMENTUM

D esde San Juan Bautista…

Calle del Forno, Castello 2092 www.consolatorem.org | IG @remproject.gallery

CAMPO DELLA TANA/1 E lias Sime

Dichotomy jerba

Tanarte, Ramo de la Tana, Castello 2125 (near the Arsenale entrance) www.simevenice.org

ESPACE LOUIS VUITTON E rnest Pignon-Ernest

Je Est Un Autre

Calle del Ridotto, San Marco 1353 www.pignon-ernest.com

PALAZZO CAVANIS

E wa Juszkiewicz. Locks withLeaves and Swelling Buds

Fondamenta Zattere ai Gesuati, Dorsoduro 920 www.fabarte.org

PALAZZO ROCCA CONTARINI CORFÙ

Jim Dine. Dog on the Forge Dorsoduro 1057/D www.dogontheforge.com

ACCADEMIA DI BELLE ARTI

PALAZZINA CANONICA CNR-ISMAR

Josèfa Ntjam

swell of spæc(i)es

Accademia di Belle Arti di Venezia, Dorsoduro 423 CNR-ISMAR, Riva dei Sette Martiri, Castello1364/A www.las-art.foundation | IG @josefantjam

FONDATION WILMOTTE

L ee Bae

La Maison de la Lune Brûlée

Corte Nuova, Fondamenta dell'Abbazia Cannaregio 3560 www.leebaestudio.com | www.wilmotte.com

IL GIARDINO BIANCO ART SPACE

M adang: Where We Become Us

Via Garibaldi, Castello 1814 www.biennialfoundation.org

EX FARMACIA SOLVENI

Passengers in Transit Dorsoduro 993-994 www.193gallery.com

FONDAZIONE DELL’ALBERO D’ORO Per non perdere il filo.

Karine N’guyen Van Tham

Parul Thacker

Palazzo Vendramin Grimani, San Polo 2033 www.fondazionealberodoro.org

ISTITUTO SANTA MARIA DELLA PIETÀ/2

Peter Hujar

Portraits in Life and Death

Calle della Pietà, Castello 3703 IG @peterhujararchive

FONDACO MARCELLO

R ebecca Ackroyd Mirror Stage

Calle del Traghetto, San Marco 3415 IG @rebeccaackroyd

PROCURATIE VECCHIE/2 R obert Indiana

The Sweet Mystery

Corte Maruzzi, Piazza San Marco 105 (second floor) www.ysp.org.uk

ARTENOVA

S eundja Rhee

Towards the Antipodes

Campo San Lorenzo, Castello 5063 www.korica.org | www.seundjarhee.com

PALAZZO SORANZO VAN AXEL

S hahzia Sikander

Collective Behavior

Fondamenta Van Axel o de le Erbe Cannaregio 6099, 6071, 6072 www.cincinnatiartmuseum.org | www.clevelandart.org

PALAZZO CONTARINI POLIGNAC

MAGAZZINO GALLERY

S outh West Bank. Landworks, Collective Action and Sound Dorsoduro 874 www.adambroomberg.com

FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA T he Endless Spiral Betsabeé Romero

Galleria di Piazza San Marco, San Marco 71/C www.betsabeeromero.com

PALAZZO SMITH MANGILLI VALMARANA T he Spirits of Maritime Crossing Cannaregio 4392 www.bkkartbiennale.com

CAMPO DELLA TANA/2 T revor Yeung

Courtyard of Attachments, Hong Kong in Venice Ramo de la Tana, Castello 2126 (opposite the Arsenale entrance) 2024.vbexhibitions.hk | IG @plantertrevor

SPAZIO BERLENDIS

Ydessa Hendeles. Grand Hotel Calle Berlendis, Cannaregio 6301 www.artmuseum.utoronto.ca

PALAZZO DELLE PRIGIONI Yuan Goang-Ming Everyday War Castello 4209 (next to Palazzo Ducale) www.taiwaninvenice.org

NOT ONLY BIENNALE

A PLUS A GALLERY

Double Take

Fino Until 15 luglio July San Marco 3073 www.aplusa.it

AKKA PROJECT

The Residency Outcome

Fino Until 13 settembre September

Ca’ del Duca, Corte Duca Sforza, San Marco 3052 www.akkaproject.com

ARSENALE INSTITUTE FOR POLITICS OF REPRESENTATION

William Kentridge

Self-Portrait as a Coffee-Pot

Riva dei Sette Martiri, Castello 1430/A www.arsenale.com

ARSENALE NORD

Klaus Littmann. Arena for a Tree Fino Until 31 luglio July Arsenale Nord www.kbhg.ch

ATENEO VENETO

Walton Ford. Lion of God Fino Until 22 settembre September Campo San Fantin, San Marco 1897 www.ateneoveneto.org

BEL-AIR FINE ART

Carole Feuerman. Patrick Hughes Calle del Spezier, San Marco 2765 | Dorsoduro 728 www.belairfineart.com

BIBLIOTECA MARCIANA At Home Abroad Piazzetta San Marco 7 bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it

CA’ D’ORO

César Meneghetti + Laboratori d’arte di Sant’Egidio Fino Until 15 settembre September Galleria Giorgio Franchetti (atrio, piano terra) Cannaregio 3932 www.polomusealeveneto.beniculturali.it www.cadoro.org

CA’ PESARO/1

Armando Testa Fino Until 15 settembre September Galleria Internazionale d’Arte Moderna Santa Croce 2076 www.capesaro.visitmuve.it

CA’ PESARO/2

Chiara Dynys. Lo Stile Fino Until 15 settembre September Galleria Internazionale d’Arte Moderna (Sale Dom Pérignon), Santa Croce 2076 www.capesaro.visitmuve.it

CA’ PESARO/3

Lucia Veronesi La desinenza estinta Fino Until 13 ottobre October Galleria Internazionale d’Arte Moderna Santa Croce 2076 www.capesaro.visitmuve.it

biennalearte

NOT ONLY BIENNALE IN THE CITY

CA’ REZZONICO

Lorenzo Quinn

Fino Until 15 settembre September Museo del Settecento Veneziano (androne) Dorsoduro 3136

www.carezzonico.visitmuve.it

CASA DI CARLO GOLDONI

Eva Marisaldi. Biribisso San Polo 2794 www.carlogoldoni.visitmuve.it

CHIESA DI SAN FANTIN

Reza Aramesh. Number 207 Fino Until 2 ottobre October Campo San Fantin, San Marco 3090 www.actionbynumber.com

CHIESA DI SAN GALLO

Jaume Plensa. Janus Fino Until 30 settembre September Campo San Gallo, San Marco 1103 www.fondazioneberengo.org

CHIESA DI SANTA MARIA DELLA PIETÀ

Wallace Chan. Transcendence Fino Until 30 settembre September (Cappella laterale) Riva degli Schiavoni, Castello www.wallace-chan.com

CHIESA DI SANTA MARIA DELLA VISITAZIONE Memo Akten. Boundaries Fondamenta Zattere ai Gesuati, Dorsoduro 919/A www.vanhaerentsartcollection.com

CIPRIANI GIUDECCA

Daniel Buren. Haltes Colorées Fino Until 30 settembre September Belmond Hotel Cipriani, Giudecca 10 www.belmond.com

COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM

Jean Cocteau La rivincita del giocoliere

Fino Until 16 settembre September Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 www.guggenheim-venice.it

COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO NEBULA

Barbaria de le Tole, Castello 6691 inbetweenartfilm.com

CREA CANTIERI DEL CONTEMPORANEO CYFEST 15 Vulnerability

Fino Until 30 agosto August Giudecca 211/B www.cyfest.art | www.creavenice.com

EUROPEAN CULTURAL CENTRE (ECC) PALAZZO MORA | PALAZZO BEMBO GIARDINI MARINARESSA

PERSONAL STRUCTURES

Beyond Boundaries

Palazzo Mora, Strada Nova, Cannaregio 3659 Palazzo Bembo, Riva del Carbon, San Marco 4793 Giardini della Marinaressa, Riva dei Sette Martiri, Castello www.personalstructures.com www.ecc-italy.eu

FONDACO DEI TEDESCHI

Best Regards

The Anonymous Project by Lee Shulman

Fino Until 17 novembre November Rialto www.dfs.com/venice

FONDAMENTA SANT’ANNA

Milena ZeVu. Silent Supper

Venice Art Projects, Castello 994 www.silentsupper.com

FONDATION VALMONT

Ulysses. We Are All Heroes

Fino Until 23 febbraio February, 2025

Palazzo Bonvicini, Santa Croce 2161/A www.fondationvalmont.com

FONDAZIONE BERENGO ART SPACE

ARSENALE NORD | TESA 99

GLASSTRESS 8½

Fino Until 24 novembre November

Fino Until 25 agosto August

Campiello della Pescheria 4, Murano Arsenale Nord www.glasstress.org | www.fondazioneberengo.org

FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA PALAZZETTO TITO

Guglielmo Castelli

Fino Until 7 luglio July

Dorsoduro 2826 www.bevilacqualamasa.it

FONDAZIONE EMILIO E ANNABIANCA VEDOVA/1 Eduard Angeli. Silentium

Magazzino del Sale, Zattere, Dorsoduro 266 www.fondazionevedova.org

FONDAZIONE EMILIO E ANNABIANCA VEDOVA/2 Amendola

Burri Vedova Nitsch

Spazio Vedova, Zattere, Dorsoduro 50 www.fondazionevedova.org

FONDAZIONE POTENZA TAMINI

Gianmaria Potenza

Dorsoduro 1450 www.fondazionepotenzatamini.it

FONDAZIONE PRADA

Christoph Büchel

Monte di Pietà

Ca’ Corner della Regina, Santa Croce 2215 www.fondazioneprada.org

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA Ilya and Emilia Kabakov Between Heaven and Earth

Fino Until 14 luglio July

Campo Santa Maria Formosa, Castello 5252 www.querinistampalia.org

GALLERIA ALBERTA PANE

Luciana Lamothe

Folding Roads

Fino Until 27 luglio July

Calle dei Guardiani, Dorsoduro 2403/H www.albertapane.com

GALLERIA LUCE Spazialismo, Optical Art, Figurazione e Novecento San Marco 1922/A www.gallerialuce.com

GALLERIA RAVAGNAN

Spaces and Contemplation

Piazza San Marco 50/A | Dorsoduro 686 www.ravagnangallery.com

GALLERIA RIZZO

Brian Eno. Gibigiane

Fino Until 10 luglio July

Giudecca 800/Q www.galleriamichelarizzo.net

GALLERIE DELL’ACCADEMIA

Willem de Kooning e l’Italia

Fino Until 15 settembre September

Campo della Carità, Dorsoduro 1050 www.gallerieaccademia.it

GARIBALDI GALLERY

Mongol Zurag

The Art of Resistance

Via Giuseppe Garibaldi, Castello 1815

HOTEL METROPOLE

Rob e Nick Carter

Beyond the Frame

Riva degli Schiavoni, Castello 4149 www.hotelmetropole.com

IKONA | LAB | AZZIME I confini dell’Alterità

Fino Until 27 ottobre October

Campo del Ghetto Novo, Cannaregio www.ghettovenezia.com

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE FONDAZIONE CINI/1

Visi di Alessandro Mendini

Fino Until 28 luglio July

Biblioteca Manica Lunga

Isola di San Giorgio Maggiore www.cini.it

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE FONDAZIONE CINI/2

Alex Katz

Claire, Grass and Water

Fino Until 29 settembre September

Sala Carnelutti, Isola di San Giorgio Maggiore www.cini.it

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE LE STANZE DEL VETRO 1912-1930. Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia

Isola di San Giorgio Maggiore www.lestanzedelvetro.org

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE LE STANZE DELLA FOTOGRAFIA/1

Helmut Newton. Legacy

Isola di San Giorgio Maggiore www.lestanzedellafotografia.it

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE LE STANZE DELLA FOTOGRAFIA/2

Patrick Mimran. Out of Focus

Fino Until 11 agosto August

Isola di San Giorgio Maggiore www.lestanzedellafotografia.it

LA GALLERIA DOROTHEA VAN DER KOELEN

Visions of Beauty

Calle Calegheri, San Marco 2566 www.galerie.vanderkoelen.de

M9 – MUSEO DEL ‘900 Burtynsky

Extraction/Abstraction

Fino Until 12 gennaio January, 2025

Via G. Pascoli 11, Venezia Mestre www.m9museum.it

MAGAZZINI DEL SALE 5

Kiran Nadar Museum of Art

The Rooted Nomad Dorsoduro 262 www.knma.in

MAGAZZINO MARINA MILITARE N. 41

Tomokazu Matsuyama Mythologiques

Campo della Celestia, Arsenale

MARIGNANA ARTE

Maurizio Pellegrin Verónica Vázquez

Fino Until 27 luglio July Gallery, Dorsoduro 141 www.marignanaarte.it

MUSEO CORRER

Francesco Vezzoli

Musei delle Lacrime Piazza San Marco correr.visitmuve.it

MUSEO D’ARTE ORIENTALE

Li Chevalier

I Hear the Water Dreaming

Fino Until 15 settembre September Ca’ Pesaro (terzo piano), Santa Croce 2076 www.orientalevenezia.beniculturali.it

MUSEO DEL MERLETTO Fragile Stories

Fino Until 8 gennaio January, 2025 Piazza Galuppi 187, Burano www.museomerletto.visitmuve.it

MUSEO DEL VETRO Federica Marangoni

On The Road 1970-2024. Non solo vetro

Fino Until 3 novembre November Fondamenta Giustinian 8, Murano www.museovetro.visitmuve.it

MUSEO FORTUNY

Eva Jospin. Selva

Palazzo Pesaro degli Orfei, San Marco 3958 www.fortuny.visitmuve.it

NEGOZIO OLIVETTI

Tony Cragg

Le forme del vetro

Fino Until 1 settembre September Piazza San Marco 101 www.fondoambiente.it

OCEAN SPACE

Re-Stor(y)ing Oceania

Fino Until 13 ottobre October Chiesa di San Lorenzo, Castello 5069 www.ocean-space.org | www.tba21.org/academy

PALAZZETTO BRU ZANE

Monique Jacot

La figura e il suo doppio

Fino Until 14 settembre September San Polo 2368 www.fondation-bru.org

PALAZZINA MASIERI

Armonia Metis

Galerie Negropontes, Dorsoduro 3900 www.negropontes-galerie.com

PALAZZO AMALTEO

Kimiko Yoshida

Private Collection

Corte Amaltea, San Polo 2646/A (visit by appointment) www.kimiko.fr

PALAZZO BEMBO/1

Journey of Labels

European Cultural Centre

Riva del Carbon, San Marco 4793-4785 www.artsconnectionfoundation.org www.foodofwar.org

PALAZZO BEMBO/2

R r OMA LEPANTO

European Cultural Centre

Riva del Carbon, San Marco 4793–4785 www.eriac.org | www.dokuzentrum.sintiundroma.de

PALAZZO CINI/1

Martha Jungwirth Heart of Darkness

Fino Until 29 settembre September Campo San Vio, Dorsoduro 864 www.palazzocini.it

PALAZZO CINI/2 Eleonora Duse

Fino Until 13 ottobre October Campo San Vio, Dorsoduro 864 www.palazzocini.it

PALAZZO CORNER DELLA CA’ GRANDE Mariko Mori. Peace Crystal: A Prayer for Peace

Fino Until 7 ottobre October San Marco 3878 www.berggruenarts.org

PALAZZO DIEDO

Berggruen Arts & Culture

Janus

Da From 20 aprile April Fondamenta Diedo, Cannaregio 2386 www.berggruenarts.org

PALAZZO DUCALE

I mondi di Marco Polo

Fino Until 29 settembre September Appartamento del Doge, Piazzetta San Marco www.palazzoducale.visitmuve.it

PALAZZO FERRO FINI

Grand Hotel Venezia

Fino Until 30 novembre November Consiglio regionale del Veneto, San Marco 2322 www.consiglioveneto.it

PALAZZO FRANCHETTI/1 Your Ghosts Are Mine Expanded cinema, amplified voices

ACP- Palazzo Franchetti (piano nobile), San Marco 2847 www.dohafilminstitute.com

PALAZZO FRANCHETTI/2 Breasts

ACP- Palazzo Franchetti (mezzanino) San Marco 2847

PALAZZO GRASSI

Julie mehretu. Ensemble

Fino Until 6 gennaio January, 2025

Campo San Samuele, San Marco 3231 www.pinaultcollection.com

PALAZZO GRIMANI

Rick Lowe

The Arch Within the Arc

Castello Ramo Grimani, Castello 4858 www.polomusealeveneto.beniculturali.it

PALAZZO ROTA IVANCICH

Planète Lalanne

Fino Until 3 novembre November

Calle del Remedio, Castello 4421 www.benbrownfinearts.com

PROCURATIE VECCHIE/1 The Human Safety Net A World of Potential

Procuratie Vecchie, Piazza San Marco 128 www.thehumansafetynet.org

PROCURATIE VECCHIE/2 About Us

Tracey Snelling for The Human Safety Net

Da From 12 aprile April

Procuratie Vecchie, Piazza San Marco 128 www.thehumansafetynet.org

PUNTA DELLA DOGANA

Pierre Huyghe. Liminal Dorsoduro 2 www.pinaultcollection.com

SAN CLEMENTE PALACE KEMPINSKI VENICE Seung-Hwan Kim. Organism Isola di San Clemente www.kempinski.com/venice

SCALA CONTARINI DEL BOVOLO Shane Guffogg San Marco 4303 www.vcprojects.art

SCOLETTA DEI TIRAORO E BATTIORO Scoletta Dell’arte: Digital Reform Fino Until 15 settembre September Salizada San Stae, Santa Croce 1980 www.taex.com

SCUOLA GRANDE DELLA MISERICORDIA Zeng Fanzhi

Near and Far/Now and Then Fino Until 30 settembre September Cannaregio 3599 www.lacma.org

SPARC* SPAZIO ARTE CONTEMPORANEA

Jacques Martinez. Domani Campo Santo Stefano, San Marco 2828/A www.veniceartfactory.org

SPAZIO SV

Sobin Park. Enter the Dragon Campo San Zaccaria, Castello 4693 www.spaziosv.com

SPUMA SPACE FOR THE ARTS H 2 O VENEZIA. Diari d’acqua (chiuso in Agosto closed in August) Fondamenta San Biagio, Giudecca 800/R www.lapislaz.com

SQUERO CASTELLO Ioan Sbârciu

Estranged from Nature Fino Until 14 luglio July Salizada Streta, Castello 368 www.zueccaprojects.org

TANA ART SPACE

Daniel Pešta

Something is Wrong Fondamenta de la Tana, Castello 2109/A www.museummontanelli.com

UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI L’Avanguardia nel deserto

Fino Until 29 settembre September

Ca’ Foscari Esposizioni, Dorsoduro 3246 www.unive.it

Mensile di cultura, spettacolo e tempo libero Numero 289-290 - Anno XXVIII Venezia, 1 luglio 2024

Con il Patrocinio del Comune di Venezia

Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 1245 del 4/12/1996

Direzione editoriale Massimo Bran

Direzione organizzativa Paola Marchetti

Relazioni esterne e coordinamento editoriale Mariachiara Marzari

Redazione Chiara Sciascia, Davide Carbone

Speciali Fabio Marzari

Coordinamento Newsletter e progetti digitali Marisa Santin

Grafica Luca Zanatta

Hanno collaborato a questo numero

Katia Amoroso, Maria Laura Bidorini, Loris Casadei, Matilde Corda, Fabio Di Spirito, Elisabetta Gardin, Nicolò Ghigi, Renato Jona, Maurizio De Luca, Michela Luce, Franca Lugato, Irene Machetti, Beatrice Poggesi, Lucio Salvatore, Livia Sartori di Borgoricco, Adele Spinelli, Camillo Tonini, Riccardo Triolo, Delphine Trouillard, Luisa Turchi

Si ringraziano

Sara Bossi, Marta Savaris, Silvia Pellizzeri, Valeria Romagnini, Alessandra Morgagni, Giuseppe Mormile, Emanuela Caldirola, Ilaria Grando – Ufficio stampa DMT de La Biennale di Venezia

Traduzioni

Andrea Falco, Patrizia Bran, Richard McKenna lo trovi qui:

Bookshop Gallerie dell’Accademia; Qshop (c/o Querini Stampalia, Santa Maria Formosa); Alef (c/o Museo Ebraico, zona Ghetto); Mare di Carta (Fondamenta dei Tolentini); Studium (zona S. Marco); Toletta, Toletta Cube e Toletta Studio (zona Campo San Barnaba) e in tutte le edicole della città.

Direttore responsabile Massimo Bran

Guide spirituali

“Il più grande”, Muhammad Alì Il nostro “Ministro della Fantasia”, Fabio Marzari

Recapito redazionale

Cannaregio 563/E - 30121Venezia tel. +39 041.2377739 redazione@venezianews.it www.venezianews.it

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La redazione non è responsabile di eventuali variazioni delle programmazioni annunciate

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20.04 30.09 h. 11 19

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