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... E BERTA FILAVA

PERUGINO, “DIVIN PITTORE”?

Di francesco sciarrino

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Negli studi critici sui pittori del Rinascimento, l’opera di Pietro Vannucci, detto il Perugino, è stata spesso marginalizzata. Per gli studiosi ciò che separa la sua arte da quella di personalità come Leonardo o Piero della Francesca è ciò che si potrebbe definire “intenzione intellettuale”; Perugino sembra infatti non addentrarsi profondamente nella psicologia dei personaggi raffigurati, e spesso il suo stile non ha il rigore formale di un autore che voglia esprimere il proprio pensiero, peccando di sentimentalismo e ripetitività. E forse i suoi detrattori più accaniti hanno ragione di criticare Perugino, considerando il grande malcontento che avevano suscitato le sue ultime opere perfino tra i contemporanei. Tuttavia nelle celebri Vite, il Vasari, uomo sensibile e padre della moderna Storia dell'Arte, dimostra di apprezzare molto l’abilità coloristica del Maestro, e scrive che, prima della crisi, l’opera di Perugino era ritenuta talmente valida da essere studiata in tutta Europa. Agostino Chigi, uno dei più grandi mecenati del Rinascimento italiano, aveva poi definito Perugino “Il meglio maestro d’Italia”.

Il pittore aveva dunque degli ammiratori e la stima da parte dei committenti, obiettivo fondamentale in una società dove l’artista, per affermarsi, necessitava del sostegno di un mecenate o delle proposte di lavoro da parte di chiese e monasteri. Pietro aveva ricevuto la sua prima commissione importante poco più che ventenne, nel 1473. Da qui un’ascesa rapidissima, l’avventura a Roma sotto il patronato di Sisto IV e il suo capolavoro, La consegna delle chiavi, nella parete inferiore della Sistina. Perugino era a quel punto talmente affermato da aprire due botteghe e servirsi dell’aiuto di molti allievi, uno dei quali, Raffaello Sanzio, avrebbe poi superato il Maestro, sintetizzandone l’arte e proiettandola verso nuovi orizzonti. Ma è proprio all’apice della fama che il Perugino rimane vittima di se stesso e i “tipi” umani da lui delineati, Madonne assorte e dai morbidi contorni del volto, Crocifissi immersi in un’atmosfera di silenzio e sottrazione emotiva, e santi raffigurati in Sacre conversazioni coi piedi quasi a passo di danza diventano spesso stereotipi figurativi. Perugino arriva perfino a riprodurre su tele diverse gli stessi cartoni preparatori, e il pubblico lo abbandona. Oggi però, in occasione della mostra realizzata per i cinquecento anni dalla morte, il pittore avrà forse un’altra possibilità di stupire i visitatori. Nonostante gli innegabili difetti, infatti, c’è una lezione che la storia dell’arte ha imparato dal Perugi- no: lo sviluppo del paesaggio inteso non più come sfondo di un evento, ma come palcoscenico spirituale sul quale l’uomo, nella sua piccolezza, vorrebbe comunque ritagliarsi la sua parte. In molte opere la perfezione delle lontane e aperte vallate, o l’algida severità delle architetture classiche, rendono l’elemento umano quasi accessorio; nella Consegna delle chiavi, invece, i personaggi appaiono perfettamente integrati nell’ordine architettonico e paesaggistico dell’affresco, attraverso la collocazione per livelli delle figure nello spazio unita a una prospettiva chirurgica. L’iniziale dicotomia tra individuo e universo circostante corrisponde, per il pittore, alla tensione fra reale e ideale. E l’artista, anziché mostrare il contrasto tra i due elementi, tenta l’utopia di una mediazione. Nei soggetti del Perugino l’umano si mescola al divino, ma non avendone le caratteristiche non può considerarsi del tutto tale. E il risultato di questo esilio è un limbo malinconico nel quale lo spettatore si perde e, tornando alla realtà, si sente ferito. Così, memore di ciò che ha appena visto, reagisce con un sorriso stanco, simile all’oziosa tristezza della bellissima Maddalena, dove, in quello che forse è il dipinto più profondo di Perugino, si avverte “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.

La storia è spesso popolata da personaggi eccentrici e dittatori celebri per la loro crudeltà, ma forse nessuno ha mai raggiunto la fama di colui che, nell’immaginario popolare, è diventato l’archetipo del tiranno capriccioso e narcisista: si tratta di un certo Lucio Domizio Enobarbo, meglio noto come Nerone. Già, proprio il presunto incendiario di Roma, il persecutore dei cristiani, il megalomane ideatore della Domus Aurea, e molto altro ancora. Nella vita però è importante non essere prevenuti: anche Nerone, infatti, avrebbe potuto diventare un “bravo ragazzo”. Il problema, come al solito, era la sua famiglia. Se voi lettori foste stati figli di Agrippina, capace di eliminare un paio di avversari scomodi una settimana sì e l’altra pure, e di sposarsi con un vecchio zio zoppo e balbuziente per sedersi a un passo dal potere assoluto, non avreste ricevuto una sana educazione affettiva, proprio come è successo al piccolo Lucio. Immaginatevi come si sarà sentito Nerone nel momento in cui, grazie a un piatto di funghi “conditi” dalla mamma, divenne improvvisamente sovrano di un quarto della popolazione mondiale a soli sedici anni. Di sicuro ha deciso di imitare i trucchi materni, eliminando poco dopo,

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