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LE TRE LEGGI LES TROIS LOIS

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AGENDA

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Maurizio Vitta

Oggi non sono molti a ricordare uno scrittore come Isaac Asimov. Divulgatore scientifco e dalla fantasia feconda, egli ha lasciato un nutrito gruppo di libri e racconti nei quali affrontò il tema, negli anni Cinquanta del XX secolo di gran voga, di una fantascienza che sembrava, grazie ai primi viaggi spaziali, a un passo dalla sua completa realizzazione. Nella sua numerosa produzione si ricorderà, fra gli altri, il Ciclo dei Robot. In questa raccolta Asimov immaginava che la terra era popolata di robot, ovvero esseri artifciali in grado di svolgere le più svariate funzioni in aiuto degli umani, i quali però si mostravano restii al loro aiuto, temendo i pericoli di quella popolazione di automi. La dottoressa Calvin, che di questi automi era l’inventrice, ha dovuto dunque combattere perché essi venissero accettati, nonostante i sospetti che essi suscitavano, e per questo li aveva dotati di un dispositivo che obbediva a tre leggi, ciascuna destinata a rendere innocui i robot e assicurare che essi si dimostrassero servizievoli e protettivi per gli esseri umani.

Ma che cosa ha a che fare questo ciclo di racconti di Asimov con l’attuale dibattito suscitato dalla cosiddetta intelligenza artifciale? E che cosa interessa, in esso, l’attenzione dedicata all’architettura e al design? La risposta immediata a questi ovvi interrogativi è antichissima e moderna insieme: l’architettura e il design sono fatti di una forma che deve la sua vita all’arte e insieme alla funzione, mentre l’intelligenza artifciale risulta fne a se stessa, e cioè il risultato artistico e quello funzionale sono tutti insieme affdati a un’unica operazione tecnica.

Ciò tuttavia pone un altro problema, ancora più intrigante. Come è noto, i robot (se mi è permesso di usare una vecchia parola a una situazione completamente nuova) operano, come si sa, secondo un binomio fsso e inalterabile: a ogni domanda danno una risposta esclusivamente basata sul “sì” e sul “no”. Per contro, qualunque essere umano sa che può rispondere a quella stessa domanda aggiungendo, ai due avverbi, un terzo, quello del “forse” (qui inteso come sinonimo di “probabile” e affni).

In altre parole, i robot, da quelli della dottoressa Calvin fno a oggi, rispondono a un comando loro rivolto dagli umani senza nessuna possibilità di scelta: gli ordini non si discutono; il “dubbio” non li sfora; il mondo dell’intelligenza artifciale è quello della irresponsabilità.

Questo spiega come mai questo mondo appare oggi così interessato all’architettura e al design. Queste, infatti, sono le due materie che più delle altre fondano la loro alchimia su un’analisi delle probabilità. Ogni idea di un’opera futura, solo abbozzata, ma viva e presente, assume, prima di essere attuata, un carattere ipotetico. Essa si presenta come una possibilità, o meglio una scommessa. Sa di vivere per il momento come idea, e dunque come “progetto”. Ed è nella sua qualità progettuale che è possibile scorgere quella dimensione del “forse” che separa il soggetto pensante dall’oggetto pensato. Oggi si fa un gran parlare di intelligenza artifciale, come se a fanco di quella naturale andassimo scoprendo una personalità ancora incerta, piegata alla volontà degli umani, ma già consapevole del suo inarrestabile sviluppo. Si può dire che il sogno della dottoressa Calvin sia sul punto di realizzarsi: l’intelligenza artifciale e quella naturale si fronteggiano più o meno alla pari. Di ciò si ha la prova nelle sempre più articolate e complesse architetture d’oggi, basate su forme un tempo incalcolabili, che danno vita a equilibri del tutto nuovi; oppure in un design che rivede i paradigmi del concetto stesso di abitare, concedendo ai modelli formali degli oggetti un rinnovamento, dovuto però non alla libera inventiva del designer, ma alla disponibilità di modelli matematici prefssati.

Non ci vuol molto a pensare che se oggi l’ingegner Eiffel e compagni dovessero progettare la famosa Tour affdando alla intelligenza artifciale l’incarico di disegnare “una nuova disposizione che permetta la costruzione di pilastri e piloni metallici di altezza anche superiore a 300 metri”, come si legge nella richiesta del brevetto presentata nel 1884, la soluzione tecnica e formale sarebbe probabilmente assai diversa.

Il che ci riporta alla questione della logica del “sì” e del ”no”, connaturata nel carattere stesso dell’intelligenza artifciale, e alla quale continua a mancare il correttivo, squisitamente umano, del “ forse”. Le ricerche condotte da Joseph Weizenbaum in questo settore hanno dimostrato come l’essere umano sia disposto a concedere a un computer assai più comprensione e capacità di ragionamento logico di quanto si possa supporre. Il che vuol dire che i giudizi, le soluzioni o le indicazioni fornite dalla intelligenza artifciale saranno in un tempo breve ritenute più autorevoli di quelle della intelligenza naturale. Sarà questo il destino delle opere progettuali, dell’architettura e del design?

L’immagine di uno studente impegnato a copiare dalla pagina di Wikipedia la risposta a un quesito senza capire ciò che sta scrivendo fa pensare.

Aujourd’hui, rares sont ceux qui se souviennent d’un écrivain comme Isaac Asimov. Vulgarisateur scientifque doté d’une grande imagination, il a laissé un grand nombre de livres et nouvelles où il aborde des sujets de science-fction, très en vogue dans les années 1950, qui, grâce aux premiers voyages dans l’espace, semblent avoir franchi un autre pas vers une réalisation complète. Parmi ses nombreuses œuvres, citons, entre autres, le Cycle des Robots. Dans cette série, Asimov imagine une Terre peuplée de robots, c’est-à-dire d’êtres artifciels capables d’accomplir les fonctions les plus disparates pour venir en aide aux êtres humains qui se montraient méfants à leur égard car ils craignaient les dangers que pouvait représenter cette population d’automates. Susan Calvin, qui a inventé ces robots, doit donc se battre pour les faire accepter malgré les inquiétudes qu’ils suscitent, et pour cela, elle les dote d’un dispositif obéissant à trois lois, chacune étant sensée garantir l’inoffensivité de ces robots, leur utilité aux êtres humains et leur protection.

Mais quel est le rapport de ce cycle de nouvelles et de romans d’Asimov avec le débat actuel sur la fameuse intelligence artifcielle ? Et en quoi l’architecture et le design sont-ils concernés dans ce cycle? La réponse qui vient immédiatement à l’esprit est à la fois moderne et très ancienne : l’architecture et le design sont faits d’une forme qui naît tant de l’art que de la fonction, tandis que l’intelligence artifcielle est une fn en soi, en ce sens que le résultat artistique et le résultat fonctionnel sont tous deux confés à une seule opération technique. Mais cela pose un autre problème, encore plus intriguant. Comme chacun sait, les robots (si l’on me permet d’employer un vieux mot dans un contexte complètement nouveau) fonctionnent selon un binôme fxe et inaltérable : à chaque question, ils répondent exclusivement par “oui” ou par “non”. En revanche, n’importe quel être humain sait qu’il peut répondre à cette même question avec un troisième adverbe, à savoir “peut-être” (entendu ici comme “probable” et autres synonymes). En d’autres termes, les robots, depuis ceux de Susan Calvin jusqu’à ceux d’aujourd’hui, répondent à un ordre qui leur est donné par l’homme sans aucune possibilité de choisir ; les ordres ne sont pas contestés, le “doute” ne les effeure pas, le monde de l’intelligence artifcielle est celui de la non-responsabilité. Cela explique pourquoi ce monde semble s’intéresser de si près à l’architecture et au design. Il s’agit en effet de deux matières qui, plus que les autres, fondent leur alchimie sur l’analyse des probabilités. Avant d’être mise en pratique, toute idée d’œuvre à venir, seulement esquissée mais vivante et présente, revêt un caractère hypothétique. Elle se présente comme une possibilité, voire comme un pari. Elle sait qu’elle vit pour le moment en tant qu’idée, et donc en tant que “projet”. Et c’est dans sa qualité conceptuelle qu’il est possible de discerner cette dimension du “peut-être” qui sépare le sujet pensant de l’objet pensé. Aujourd’hui, on parle beaucoup d’intelligence artifcielle, comme si, à côté de l’intelligence naturelle, nous étions en train de découvrir une personnalité encore foue, soumise à la volonté des êtres humains, mais déjà consciente du caractère inéluctable de son développement. On peut dire que le rêve de Susan Calvin est sur le point de se réaliser : l’intelligence artifcielle et l’intelligence naturelle se trouvent plus ou moins sur un pied d’égalité, comme en témoignent les architectures actuelles, de plus en plus élaborées et complexes, basées sur des formes autrefois incalculables, qui donnent lieu à des équilibres totalement nouveaux, ou bien un design qui revoit les schémas du concept même d’habitat, en conférant un renouveau aux modèles formels des objets, qui n’est pas le fruit de la créativité du concepteur mais celui de la disponibilité de modèles mathématiques prédéterminés. Nous pouvons très bien supposer que si l’ingénieur Eiffel et ses collaborateurs devaient concevoir la célèbre Tour aujourd’hui en confant à l’intelligence artifcielle la tâche de concevoir “une nouvelle disposition qui permette de construire des piliers et des pylônes en métal pouvant même dépasser les 300 mètres de haut”, tel qu’indiqué dans la demande de brevet déposée en 1884, la solution technique et formelle serait sans doute très différente.

Ce qui nous ramène à la logique du “oui” et du “non”, intrinsèquement liée au caractère même de l’intelligence artifcielle, et à laquelle continue de manquer le juste milieu éminemment humain qu’est le “peut-être”. Les recherches menées par Joseph Weizenbaum dans ce domaine ont montré que l’être humain est prêt à permettre à un ordinateur d’avoir des capacités de compréhension et de raisonnement logique bien plus importantes qu’on ne l’imagine. Cela signife que les avis, les solutions ou les indications fournis par l’intelligence artifcielle seront rapidement considérés comme plus fables que ceux de l’intelligence naturelle.

Est-ce là le destin des projets, de l’architecture et du design ?

L’image d’un étudiant occupé à copier la réponse à une question sur Wikipédia sans comprendre ce qu’il est en train d’écrire fait réféchir.

Not many people still remember a writer like Isaac Asimov. A great promoter of scientific ideas with a fertile imagination, he wrote numerous books and short stories whose science fiction themes, very much in vogue in the 1950s, seemed on the verge of coming true as man began venturing into space. His numerous works notably include the Robot Cycle . In this collection, Asimov imagined the earth being populated by robots, i.e. artificial beings capable of performing the most miscellaneous tasks to help humans, who, however, were reluctant to help them, fearing the dangers posed by these automatons.

Dr Calvin, who was the inventor of the automatons in question, had to fight to have them accepted in face of all the suspicions they aroused. She did this by fitting them with a device that obeyed three laws, each designed to render the robots harmless and ensure they were helpful and protective of human beings. But what does this cycle of Asimov’s short stories have to do with current debate sparked by so-called artificial intelligence?

And what is so interesting about its focus on architecture and design?

The immediate answer to these obvious questions is both old and new at the same time: architecture and design are an embodiment of art and function at the same time, whereas artificial intelligence is an end in itself, i.e. its artistic/functional sides are both the product of technology.

This, however, poses another even more intriguing question. As is well known, robots (if I may be allowed to use an old word in a completely new context) always operate in the same way: to every question they reply either “yes” or “no”. Conversely, all human beings know they can answer that same question while adding ‘perhaps’ to either of these adverbs (here taken a synonym for “probably” or such like).

In other words, robots, from Dr Calvin’s to their present-day counterparts, respond to commands they are given by humans without being able to make choices: orders are not questioned; “doubt” does not occur to them; the world of artificial intelligence is one of irresponsibility.

This explains why this realm seems to be so interested in architecture and design at the moment. They, more than any other realms, base their alchemy on an analysis of probability.

Every idea for a future work is initially nothing but an hypothesis until it is actually created. It presents itself as a possibility or rather a gamble. It knows it is initially nothing but an idea and, hence, a “project”. And this is where the “perhaps” comes in that separates a thinking subject from the object of its thought.

Today there is much talk of artificial intelligence, as if alongside natural intelligence we were suddenly discovering some kind of uncertain entity bent to the will of humans but already aware of its own relentless growth. It may be claimed that Dr Calvin’s dream is about to come true: artificial and natural intelligence are more or less on an equal footing.

Evidence of this can be seen in today’s increasingly articulate and complex architecture based on forms that were once incomputable, which give rise to completely new states of affairs; it also comes to the fore in design that resets the paradigms of the very concept of living, upgrading the stylistic design of artefacts not so much based on the designer’s free inventiveness as on the availability of pre-computed mathematical models.

It is easy to imagine that if the engineer Mr. Eiffel and his companions were to design their famous tower relying on artificial intelligence to create “a new arrangement that would allow the construction of metal pillars and pylons over 300 metres tall”, as stated in the patent application submitted in 1884, its technical/stylistic design would probably be quite different.

Which takes us back to the question of the “yes” and “no” logic embedded in the very “nature” of artificial intelligence that still lacks the exquisitely human touch of “maybe”.

The research conducted by Joseph Weizenbaum in this field has shown that human beings are willing to concede far more understanding and logical reasoning capacity to a computer than one might suppose.

Which means that the judgements, solutions or indications provided by artificial intelligence will, very soon, be considered more authoritative than those of natural intelligence. Will planning, architecture and design follow suit?

The image of a student busy copying the answer to a question from a Wikipedia page without understanding what they are writing gives us food for thought.

AMA Group è da tempo impegnata nella progettazione di complessi industriali per la produzione di semiconduttori. Ne ha progettati 25 in 11 nazioni, per le maggiori società dell’industria elettronica. Attualmente è in costruzione, ad Agrate Brianza, il nuovo modulo R3, per ST per la quale ha realizzato gli stabilimenti industriali in Francia, Singapore e Italia.

Il “wafer fab”, l’acronimo che caratterizza questi sofsticatissimi impianti industriali, deriva dalla caratteristica fetta circolare di silicio, di diametro variabile in base alla tecnologia produttiva adottata, che è passato da circa 150mm agli attuali 450mm. Il nuovo modulo R3 rappresenta un’interpretazione elaborata del concetto base di wafer fab; infatti, data la limitata disponibilità di aree libere all’interno del sito, congestionato dalla presenza di altri edifci di ST, una volta defnito lo spazio per il cuore del complesso: la camera bianca, i volumi di supporto sono stati posizionati in maniera articolata, determinando un intarsio costruttivo. Vi è anche un nuovo edifcio per uffci all’angolo sud-ovest dell’area di intervento, colle- gato al modulo esistente R2 attraverso un ponte pedonale e un nuovo Central Utility Building a nord del modulo R3. Nonostante la complessità plano-volumetrica, strutturale ed impiantistica, l’intervento risulta fuido e dinamico, anche nella sua distribuzione interna, funzionale ai molteplici e delicati processi produttivi.

La progettazione è stata mirata alla coerenza architettonica con il lessico degli altri edifci presenti sul sito, esercizio già praticato da AMA Group, quando fu realizzato il modulo F13, composto da un edifcio per uffci e da due lobby di cui una, la principale, di accesso al sito ST. Ciò che segue è il dialogo con Alfonso Mercurio, fondatore del gruppo.

A.M. l’Arca International essendo una rivista di architettura tende a pubblicare l’immagine architettonica e non la storia fnendo per ignorare che io, con i miei collaboratori, abbiamo realizzato 26 WEF in tutto il mondo, per tutte le società e ciò rappresenta un avvenimento importante per l’Italia che è riuscita a misurarsi con simili prodotti.

M.P. Realmente una cifra iperbolica in un settore di preminenza perché, come è noto, il mondo gira grazie ai microchips e quindi, oltre alle questioni architettoniche, occorre valutare ciò che questo lavoro rappresenta per uno studio italiano. Del resto gli italiani hanno realizzato le grandi dighe, le ferrovie, monumenti e città intere A.M. E il nostro lavoro rappresenta una avvenimenti ancora più importante per la vita d’oggi. Siamo riusciti a progettare e realizzare anche impianti negli Stati Uniti: a Dallas e a Austin, per la Texas Instruments.

M.P. Viene da chiedersi come nasce questa avventura. Come viene fuori l’ipotesi di dedicarsi esclusivamente a tali impianti. Ad opere che al primo sguardo sembrano più legate all’ingegneria che all’architettura.

A.M. Ciò rappresenta un errore perché al punto di vista architettonico hanno un loro interesse e fascino ma non riusciamo a far comprendere che queste opere non rappresentano solo magnifci impianti tecnologici ma interventi corretti per l’ambiente e il territorio.

M. P. La committenza ha capito il problema?

A.M. Direi proprio di sì. Hanno compreso lo sforzo che ho fatto in questa direzione e anche i giornali alla fne hanno parlato di ciò. Ho approfttato del progetto realizzato in Italia, il più ampio nel nostro Paese.

M. P. Parliamo di come nasce questa avventura.

A.M. Mio cugino lavorava alla Texas Instruments. Devono fare un ampliamento dello stabilimento di Rieti che produceva computer e non i microchips. I tecnici della ATEX vennero in Italia per conoscere progettisti e dissero a mio cugino che vorrebbero conoscere italiani che sappiano parlare inglese per dare una mano. Sono gli inizi degli anni 80. In seguito decisero di fare un fabbriche in Italia, ad Avezzano, simile a quella di Dallas che mi mandano a vedere.

M.P. Un procedimento simile a ciò che viene adottato per il supermarket o i centri commerciali. Esiste una struttura e bisogna cucire un abito sopra che la protegga.

A.M. La Uefa Fab è un edifcio molto complesso, con tutta una serie di problemi come le micro infezioni e la pulizia dell’aria in varie settori. Andai a Dallas per vedere l’edificio. Ci tornai con i miei collaboratori: ingegneri, impiantisti, strutturisti per fare una progettazione integrata. Studiammo la cosa e alla fine pensai che se poteva realizzare meglio. Loro fecero una riunione con i vari facilities e accettarono.

Costruimmo ad Avezzano perché era vicino all’autostrada per Roma e quindi a Fiumicino e all’università dell’Aquila. Divenne una specie di San Pietro che anche dalle altre strutture venivano a vedere.

M.P. Qual è la novità?

A.M. Il sistema della pulizia dell’aria. Loro usavano enormi ventilatori che mettevano ai lati della green room, la camera bianca. Proposi un diverso sistema di ventilazione evitando strutture enormi per i ventilatori.

Proposi di fare per la clean room invece di due piani un piano in più che risolveva i vari problemi: la dirty sub e loro accettarono la soluzione che cambiò completamente la logica dei WEF. Da quel momento in poi ho lavorato per le società più importanti del mondo. Mi sono anche sforzato di imporre una immagine architettonica adeguata ai siti industriali che sono capannoni spesso senza alcun collegamento tra loro.

Interview de Mario Pisani avec Alfonso Mercurio, Président de AMA Group, architecte spécialisé dans la conception de complexes industriels pour la fabrication de semi-conducteurs

AMA Group est actif depuis longtemps dans la conception de complexes industriels pour la fabrication de semi-conducteurs. Il en a réalisé 25 dans 11 pays, pour les plus grandes entreprises de l’industrie électronique. Actuellement, le nouveau module R3 pour la société ST, pour laquelle il a réalisé des établissements industriels en France, à Singapour et en Italie, est en cours de construction à Agrate Brianza (Lombardie). Le wafer fab, qui caractérise ces établissements industriels ultra sophistiqués, est une procédure qui utilise un disque de silicium dont le diamètre varie en fonction de la technologie de production adoptée, et qui est passé d’environ 150 millimètres à 450 millimètres. Le nouveau module R3 est une interprétation élaborée du concept de base du wafer fab. En effet, en raison du peu d’espaces libres disponibles sur le site, encombré par la présence d’autres bâtiments ST, une fois défni l’espace du cœur du complexe, c’est-à-dire la salle blanche, les volumes de support ont été positionnés de manière méthodique, en déterminant une insertion constructive. Il y a également un nouveau bâtiment de bureaux à l’angle sud-ouest du site, relié au module R2 existant par une passerelle, et un nouveau Central Utility Building au nord du module R3. Malgré sa complexité en termes de volumétries, de structure et d’ingénierie, l’intervention s’avère fuide et dynamique, y compris dans sa distribution interne, adaptée à la multiplicité et à la délicatesse des processus de production.

Le projet visait la cohérence architecturale avec le langage des autres bâtiments du site, un exercice déjà pratiqué par AMA Group lors de la construction du module F13, qui se compose d’un bâtiment de bureaux et de deux halls, dont l’un, le principal, est l’entrée du site ST. Ce qui suit est un entretien avec Alfonso Mercurio, le fondateur du groupe.

A.M. En tant que revue d’architecture, l’Arca International a tendance à publier l’image architecturale et non l’histoire, et fnit ainsi par ignorer que j’ai réalisé, avec mes collaborateurs, 26 WEF dans le monde entier, pour toutes les sociétés, et que cela représente un événement important pour l’Italie qui a réussi à se mesurer à ce type de produits.

M.P. Un chiffre vraiment hyperbolique dans un domaine de prédilection car, comme nous le savons, aujourd’hui le monde tourne grâce aux puces électroniques et donc, au-delà des questions architecturales, il est nécessaire d’évaluer ce que ce travail représente pour une entreprise italienne. Du reste, les Italiens ont réalisé les grandes digues, les chemins de fer, les monuments et des villes entières.

A.M. Et notre travail représente un événement encore plus important dans la vie d’aujourd’hui. Nous avons également réussi à concevoir et à réaliser des usines pour Texas Instruments, à Dallas et à Austin, aux États-Unis.

M.P. On en vient à se demander comment est née cette aventure. Comment vous est venue l’idée de vous consacrer exclusivement à ce genre d’installations, à des ouvrages qui, à première vue, relèvent davantage de l’ingénierie que de l’architecture ?

A.M. Cela représente une erreur, car du point de vue architectural, elles ont leur intérêt et leur attrait, mais nous ne parvenons pas à faire comprendre que ces installations ne sont pas seulement de magnifques ouvrages technologiques, mais qu’elles sont aussi des œuvres qui respectent l’environnement et le territoire.

M. P. Le client a-t-il compris le problème ?

A.M. Je pense que oui. Il a compris l’effort que j’ai fait dans ce sens, et même les journaux ont fni par en parler. J’ai profté du projet réalisé en Italie, le plus étendu dans ce pays.

M. P. Parlons un peu de la genèse de cette aventure.

A.M. Mon cousin travaillait chez Texas Instruments. Ils doivent agrandir l’usine de Rieti qui produisait des ordinateurs et non des puces. Les techniciens ATEX sont venus en Italie pour rencontrer des architectes et ont dit à mon cousin qu’ils voudraient rencontrer des Italiens parlant anglais pour les aider. C’était au début des années 1980. Plus tard, ils ont décidé de construire une usine en Italie, à Avezzano, semblable à celle de Dallas qu’ils m’ont envoyé visiter.

M.P. Une procédure similaire à celle qui est adoptée pour les supermarchés ou les centres commerciaux. Une structure existe et il est nécessaire de coudre un vêtement dessus pour la protéger.

A.M. L’Uefa Fab est un bâtiment très complexe, qui présente toute une série de problèmes, tels que les micro-infections et la propreté de l’air dans différents secteurs. Je suis allé à Dallas pour voir le bâtiment. J’y suis retourné avec mes collaborateurs : techniciens, installateurs, ingénieurs structures, pour réaliser un projet intégré. Nous avons étudié la question et, à la fn, j’ai pensé que nous pouvions faire mieux. Quant à eux, ils ont tenu une réunion avec les différentes structures et ont accepté. Nous avons construit à Avezzano parce que c’était près de l’autoroute menant à Rome et donc à Fiumicino et à l’université de L’Aquila. Cela est devenu une sorte de San Pietro que même ceux des autres établissements venaient voir.

M.P. Qu’y a-t-il de nouveau ?

A.M. Le système de purifcation de l’air. Le siège de Dalles utilisait d’énormes ventilateurs placés sur les côtés de la salle verte, la salle blanche. Moi j’ai proposé un système de ventilation différent, évitant les énormes structures de ventilation. Pour la salle blanche, j’ai proposé de faire un étage supplémentaire au lieu de deux étages, ce qui résoudrait les différents problèmes : avec la dirty sub, ils acceptèrent la solution qui changea complètement la logique des WEF. À partir de ce moment-là, j’ai travaillé pour les plus grandes sociétés du monde. Je me suis également efforcé d’imposer une image architecturale appropriée à des sites industriels qui ne sont souvent que des hangars sans aucun lien entre eux.

Client: STMicroelectronics – sede di Agrate Brianza

Project and Engineering: AMA Group (www.amagroup.it)

Interview byMario Pisani to Alfonso Mercurio, President of AMA Group, architect specialized in the design of industrial complexes for the production of semiconductors

AMA Group has long been involved in the design of industrial complexes for semiconductor manufacturing. It has designed 25 of them in 11 countries for major companies in the electronics industry. Currently under construction in Agrate Brianza is the new R3 module for ST, for whom it has already built industrial plants in France, Singapore and Italy.

The ‘wafer fab’, the acronym used to describe these sophisticated industrial plants, gets its name from an eye-catching circular slice of silicon, whose diameter varies according to the kind of manufacturing technology being employed and has increased from around 150mm to its current size of 450mm.

The new R3 module represents an elaborate interpretation of the basic ‘wafer fab’ concept; in fact, given the limited availability of free areas on a site congested by the presence of other ST buildings, once the space for accommodating the core of the complex was allocated (the ‘clean room’), the ancillary structures were carefully positioned to create an elaborate structural inlay. There is also a new offce building over on the south-west corner of the project area connected to old module R2 by a footbridge and a new Central Utility Building to the north of module R3. Despite its volumetric, structural and plant-engineering complexity, the project is fuid and dynamic, even as regards its internal layout that is designed to handle multiple, delicate manufacturing processes.

The design was focused around architectural conformance to the vocabulary of the other buildings on the site, an operation adopted by AMA Group when building module F13t, consisting of an offce building and two lobbies, one of which, the main lobby, also acts as an entrance to the ST site.

What follows is a conversation with Alfonso Mercurio, founder of the group.

A.M. l’Arca International, being an architecture magazine, tends to publish architectural images and not the stories behind them, ending up ignoring the fact that my team and I have built 26 WEFs all over the world for all kinds of companies and so this project is an important event for Italy that has fnally managed to come to terms with products like these.

M.P. A truly incredible number in such a key feld since, as we all know, the world runs on microchips and, therefore, in addition to architectural issues, we need to assess what this work represents for an Italian frm. After all, Italians have built great dams, railways, monuments and entire cities.

A.M. And so our work is an even more important event in modern-day life. We have also designed and build plants in the United States: in Dallas and Austin for Texas Instruments.

M.P. One wonders how this venture came about. How does the idea of devoting oneself exclusively to such installations come about? To works that, at frst glance, seem more related to engineering than architecture.

A.M. That is actually wrong, because from an architectural point of view they may be interesting and charming in themselves, but people do not really understand that these works are not just magnifcent technological installations, they are environmentally-friendly projects that ft into their surroundings.

M.P. Do clients understand all this?

A.M. Yes, I would say so. They understand the effort I have made in this sense and even the newspapers eventually covered these matters. I took advantage of the publicity surrounding the project carried out in Italy, the largest in our country.

M.P. Let’s talk about how this venture began.

A.M. My cousin worked at Texas Instruments. They needed to extend their Rieti plant, which manufactured computers and not microchips. The technicians from ATEX came to Italy to meet designers, and they told my cousin they wanted to meet Italians who could speak English to help out. That was back in the early 1980s. Later they decided to build a factory in Avezzano in Italy, similar to the one in Dallas that they had sent me to visit.

M.P. A procedure similar to that used for supermarkets or shopping centres. You have a structure and it needs to be covered with a new protective coating.

A.M. Uefa Fab is a very complex building that entails whole series of problems, such as micro infections and the cleanliness of the air in various areas. I went to Dallas to see the building. I went back there with my work colleagues (engineers, plant-engineers and structural engineers) to create an integrated design. We studied everything carefully and, in the end, I thought it could be done better. They had a meeting with the various facilities and agreed. We built it in Avezzano because it was close to the motorway to Rome and then on to Fiumicino and the University of L’Aquila. It became a sort of St. Peter’s that people from the other facilities also came to visit.

M.P. What’s new?

A.M. The air cleaning system. They used huge fans that they attached to the sides of the green room, the clean room. I proposed a different ventilation system without huge fans. I suggested created an extra foor for the clean room instead of the usual two and this solved the various issues: the dirty utility sub. They accepted this solution, which completely changed the logic of WEF. From then on, I worked for some of the most important companies in the world. I also endeavoured to impose an appropriate architectural image on industrial sites, which are often just warehouses with no connection between them.

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