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Michelangelo Pistoletto

Pistoletto anticipa, implicitamente, l’Arte Povera, senza essere poverista. Poi fa opere Povere ad hoc in un breve arco di tempo, ma smette presto di fare il poverista. Questa sorta di anticipazione è legata all’attività di intellettuale e di promotore di iniziative espositive, quando ancora di Arte Povera non si parlava. Egli fa da ponte tra Torino e Roma e l’Oltralpe. Farà nascere il “Deposito di Arte Presente”. Acquisisce opere poveriste che espone in un appartamento privato di Torino. Ma il riferimento per l’Arte Povera è anche nella poliedricità che contraddistingue la sua lunga ricerca. Questa contempla pure un certo piglio minimalista (ma senza che egli si cali tout court in quella corrente) dato a taluni lavori basati sullo specchiamento ma, di sicuro, non sul Funk, né tanto meno sul “biomorfsmo”. E va ricordato almeno l’esperienza degli Oggetti in Meno (1965-66). E c’è forse un raccordo, magari implicito, col motto “Less is more” di Mies van der Rohe. Ma, a proposito degli Oggetti in Meno, Pistoletto sottolinea trattarsi di esperienza di “liberazione”: niente da aggiungere, niente da costruire, ma cose (“oggetti”) da togliere, o da mettere da parte o evitare. Ma non mi è molto chiaro il concetto esplicativo che si tratterebbe di oggetti che “portano con sé un’esperienza percettiva defnitivamente esternata”. Mi è chiara però la chiosa che essi “non rappresentano, ma ‘sono’” (e forse in ciò qualche eco manzoniana c’è, a dispetto della distanza ideologica e poetica con l’artista milanese). Un navigatore inquieto e intelligente che gira la barra agevolmente nella direzione che vuole. Quando decide di essere poverista, l’eleganza, che non è esclusiva del suo abbigliamento, lo accompagna comunque, e i suoi materiali non sono vili, ferraglie o reperti organici. Insiste sulla luce e i suoi rifessi (1967-68). Soprattutto, il fruitore trova, in questo caso, un funkismo nobilitato, o forse metafsicizzato, nell’uso degli stracci. Essi sono reperti del quotidiano, sì, ma ancora carichi di dignità funzionale. Accade nelle azioni di Zoo, gruppo con cui egli opera tra il 1968 e il 1970, con l’uso di abiti dismessi. Questo accade inoltre con un materiale non nobile – ma si direbbe sacrale sul piano storico – quale è il mattone, che egli usa nel suo Monumentino (1968) quale supporto di una vecchia scarpa (ad esempio nell’azione L’uomo ammaestrato, Vernazza, maggio 1968). Mesi dopo, questi mattoni saranno coperti di stracci, nella mostra “Arte Povera-Azioni Povere”, Amalf, ottobre 1968. Dove sia, nella sua ormai popolare Venere degli Stracci, “la dialettica di polarità” (espressione sua), che sarebbe propria dei Quadri Specchianti, non mi è chiaro, ma poco importa.. A me basta rilevare che un vero poverista non assume una scultura neoclassica per esserlo. Ma Michelangelo devia anche dalla stessa Arte Povera, proprio mentre la fa, ed eccolo trasgressore sia della tradizione, sia del movimento a cui si lega, ma non con mani e piedi, e non per sempre. Michelangelo guarda puntualmente oltre, al dopo, a qualche altra cosa: da formalista dinamico (e forse anche purovisibilista) e da performer (non a caso guarda con attenzione al teatro).

Non è casuale che la prima mostra uffciale del movimento Arte Povera si tiene nel settembre 1967 alla galleria La Bertesca di Genova. Infatti, in quegli stessi spazi, fno al gennaio dello stesso anno era ancora allestita la personale di Pistoletto sugli Oggetti in Meno (già presentati a Torino, un anno prima).

Ma diciamola tutta: l’Arte Povera è un guazzabuglio sin dall’inizio. Artisti eterogenei in rapporto agli assunti, lucidi ma variamente mutuati tra flosofa annusata, teatro e altro. E così c’è chi esce dal movimento e c’è chi entra (anche senza volerlo).

Questo particolarmente quando il capitano Germano Celant decide di annoverare artisti stranieri, non in via uffciale, ma in sede saggistica. E questo allo scopo di dare dimensione internazionale al suo movimento. Ma sta di fatto che, dal punto di vista promozionale, il Celant militante – che negli ultimi anni ha cercato di alzare la bandiera dello storico – insisterà sugli italiani. Anche Achille Bonito Oliva ha fatto operazione analoga, evitando di distrarre l’osservatore dai suoi cinque cavalieri dell’apocalisse, come il business imponeva, assieme alla consapevolezza che in generale si trattava di neoespressionismo. Il grande movimento davvero internazionale e davvero rivoluzionario resta il Nuovo Realismo con la sua forza d’urto del “nuovo approccio percettivo alla realtà” (come dice il suo teorico Pierre Restany) e che peraltro nasce a Parigi e annovera un solo italiano. Ma poi, a proposito di Pistoletto (tra virgolette cito Celant), dov’è il “valore magico e meravigliante degli elementi naturali”? Oppure ci si chiede dove sia l’autore che “abolisce la sua parte di artista... e re-impara a percepire, a sentire, a respirare...a usarsi come uomo”; o dove siano i “turbamenti psicofsici per una vita plurisensitiva e plurilineare; o “l’esperienza biologica” o il cercare “il nomadismo continuo per eludere la coerenza...caratteristica della concatenazione del sistema”.

Pistoletto è un universo, ha sperimentato di tutto, facendo spesso terra bruciata intorno a sé, salvo i radicalismi simil-manzoniani. Ha cominciato nel 1955 con una serie di autoritratti interessanti non tanto per l’ovvietà che superavano i dilaganti astrattismi, quanto perché fondati su una fgurazione di ricerca con esiti innovativi sul piano compositivo, cromatico, spaziale, e anche simbolico (sic). Ha aperto varie direzioni di ricerca e di operatività. Si è imposto con la forza delle idee e della mente. Malgrado la sua prevalente asciuttezza capace di asetticità e la sua concettualità che pure è contenuta, si è costruito un habitat espressivo di piglio classico, fssando peraltro un flo rosso con la linea paterna (anche con riferimento all’esperienza del restauro) e con l’avvio sobrio e apparentemente innocuo degli autoritratti. Ma non c’è spazio, adesso, per la sua attività nel sociale e l’interesse a teorizzare.

Michelangelo Pistoletto anticipe implicitement, l’Arte povera, sans être “povériste”. Il réalise ensuite des œuvres “pauvres” ad hoc pendant une courte période, mais cesse rapidement de faire le “povériste”. Cette sorte d’anticipation est liée à son activité d’intellectuel et de promoteur de projets d’exposition, à une époque où l’on ne parlait pas encore d’Arte povera. Il sert de pont entre Turin et Rome et au-delà des Alpes. Il crée le “Deposito di Arte Presente”, acquiert des œuvres poveristes qu’il expose dans un appartement privé à Turin. Mais la référence à l’Arte Povera se trouve aussi dans la nature multiforme qui caractérise sa recherche depuis longtemps. Une recherche qui a aussi un côté vaguement minimaliste (mais sans qu’il ne tombe dans ce courant) dans certaines œuvres réalisées sur miroir mais, certainement pas un côté Funk et encore moins le “biomorphisme”. Et il faut rappeler au moins l’expérience “Oggetti in meno”, 1965-1966, et peut-être un lien, avec la maxime “Less is more” de Mies van der Rohe. Mais, en ce qui concerne les “Objets en moins”, Pistoletto souligne qu’il s’agit d’une expérience de “libération” : rien à ajouter, rien à construire, mais des choses (“objets”) à enlever, à mettre de côté ou à éviter. Cependant, l’explication selon laquelle il s’agirait d’objets qui “portent en eux une expérience perceptive défnitivement extériorisée” ne m’est pas très claire. Ce qui est clair pour moi, en revanche, c’est le propos selon lequel ils “ne représentent pas, mais “sont” (et peut-être y a-t-il là un quelconque écho manzonien, malgré la distance idéologique et poétique par rapport à l’artiste milanais). Un navigateur inquiet et intelligent qui manœuvre la barre en douceur dans la direction qu’il veut. Lorsqu’il décide d’être “povériste”, l’élégance, qui n’est pas seulement celle de ses vêtements, l’accompagne quoi qu’il en soit, et ses matériaux ne sont pas vils, ferraille ou restes organiques. Il insiste sur la lumière et ses refets ( 1967-1968). Et surtout, le spectateur trouve ici un funkisme ennobli, ou peut-être rendu métaphysique, dans l’utilisation des chiffons. Il s’agit de vestiges du quotidien, certes, mais qui conservent une dignité fonctionnelle. Cela se retrouve dans les actions de Zoo, un groupe avec lequel il a travaillé entre 1968 et 1970, qui utilisait des vêtements jetés. Il en va de même pour un matériau qui n’est pas noble – mais que l’on pourrait qualifer de sacré sur le plan historique – comme la brique, qu’il utilise dans son Monumentino (1968) comme support d’une vieille chaussure (par exemple dans l’action “L’uomo ammaestrato”, Vernazza, mai 1968). Quelques mois plus tard, ces briques seront recouvertes de chiffons lors de l’exposition Arte Povera–Azioni Povere, à Amalf, en octobre 1968. Où se trouve, dans sa Venere degli Stracci désormais populaire, la “dialectique des polarités” (pour reprendre son expression), qui serait propre aux Quadri Specchianti, je ne sais pas trop, mais peu importe. Il me sufft de noter qu’un véritable povériste n’assume pas une sculpture néoclassique pour l’être. Mais Michelangelo Pistoletto s’écarte aussi de l’Art pauvre lui-même, juste au moment où il le fait, et le voici transgresseur à la fois de la tradition et du mouvement auquel il se lie, mais pas pieds et poings liés, et pas pour toujours. Michelangelo Pistoletto regarde précisément au-delà, vers l’après, vers quelque chose d’autre : en tant que formaliste dynamique (et peut-être même en tant que puro-visibiliste) et en tant que performer (ce n’est pas une coïncidence s’il s’intéresse de près au théâtre). Ce n’est pas un hasard si en septembre 1967, la première exposition offcielle du mouvement, intitulée “Arte Povera –Im spazio” se tient à la galerie La Bertesca à Gênes. En effet, dans ces mêmes espaces, l’exposition personnelle de Pistoletto, “Objets en moins” (qui avait déjà été présentée à Turin l’année précédente), était encore en cours jusqu’en janvier de la même année.

Mais admettons-le : l’Arte povera est un méli-mélo dès le départ. Des artistes hétérogènes par rapport à leurs convictions, lucides mais empruntant de manière variée à la philosophie pressentie, au théâtre et autres. Ainsi, il y a ceux qui quittent le mouvement et ceux qui y entrent (même sans le vouloir). C’est notamment le cas lorsque l’historien de l’art italien Germano Celant décide d’inclure des artistes étrangers, non pas offciellement, mais dans un contexte d’essais, et ce, afn de conférer une dimension internationale à son mouvement. Mais le fait est que, sur le plan promotionnel, le militant Celant – qui dans les dernières années a tenté de hisser le drapeau de l’historien – insistera sur les Italiens. Achille Bonito Oliva a également mené une opération similaire, évitant de distraire l’observateur de ses cinq cavaliers de l’apocalypse, comme l’exigeait le marché, en sachant qu’il s’agissait en général de néo-expressionnisme. Le grand mouvement vraiment international et vraiment révolutionnaire reste le Nouveau Réalisme avec la force d’impact de la “nouvelle approche perceptive de la réalité” (selon les termes de son théoricien Pierre Restany) et qui, d’ailleurs, est né à Paris et n’a compté qu’un seul Italien. Mais alors, concernant Pistoletto (je cite Celant entre guillemets), où est la “valeur magique et émerveillante des éléments naturels” ? On peut aussi se demander où est l’auteur qui “abolit son rôle d’artiste... et réapprend à percevoir, à sentir, à respirer... à se servir de lui-même en tant qu’homme”, ou où sont les “troubles psychophysiques d’une vie plurisensitive et plurilinéaire” ou “l’expérience biologique” ou la quête d’un “nomadisme perpétuel pour se soustraire à la cohérence [...] caractéristique de la concaténation du système”.

Pistoletto est un univers, il a tout expérimenté, souvent en faisant table rase autour de lui, à l’exception des radicalismes à la Manzoni. Il a commencé en 1955 avec une série d’autoportraits intéressants non pas tant pour le fait évident qu’ils dépassaient l’abstractionnisme galopant, mais parce qu’ils étaient basés sur une fguration de recherche avec des résultats novateurs en termes de composition, de couleur, d’espace, et même de symbolisme (sic). Il a ouvert plusieurs directions de recherche et d’exploitation. Il s’est imposé par la force des idées et de l’esprit. Malgré sa sobriété dominante susceptible d’aseptisation et sa conceptualité elle aussi contenue, il s’est construit un habitat expressif à l’air classique, fxant un fl rouge avec la ligne paternelle (également en référence à l’expérience de la restauration) et avec le début sobre et apparemment anodin des autoportraits. Mais il n’y a pas de place aujourd’hui pour son activité sociale et son intérêt pour la théorisation.

Pistoletto is, implicitly, a forerunner of Arte Povera, without being a “poverist”. He quickly goes on to create ad hoc Arte Povera works, but he soon stops being a ‘poverist;. This sort of trailblazing is linked to his endeavours as an intellectual and promoter of exhibition projects, when Arte Povera was not yet even being talked about. He was as a sort of bridge between Turin and Rome and beyond the Alps. He set up the “Deposito di Arte Presente” acquiring Arte Povera works that he exhibited in a private fat in Turin. But the relation to Arte Povera cab also be found in the multifaceted nature of his lengthy experimentation. This also includes a certain minimalist slant (but without him falling blindly into that line of thinking) given to certain works based on mirroring but certainly not Funk and even less so “biomorphism”. And it is at least worth mentioning his experimentation with Oggetti in Meno (1965-66) and, perhaps, a connection, possibly implicit, with Mies van der Rohe’s motto “Less is more”. However, in relation to his Oggetti in Meno, Pistoletto emphasises that it is a matter of ‘liberation’: nothing to add, nothing to construct, just things (‘objects’) to be removed, set aside or avoided. But I am not very sure about the explanation regarding objects that ‘carry with them a defnitively externalised perceptual experience’. What is clear to me, however, is the comment that they “do not represent but simply ‘are’” (and perhaps there are echoes of Manzoni here, despite the ideological and poetic distance between him and this Milanese artist). A restless, intelligent navigator who smoothly turns the tiller in the direction he wants. When he decides to be “poor”, then elegance, which is merely confned to his clothing, accompanies him nonetheless, and his materials are not crude, scrap metal or organic relics. He insists on light and its refections (1967-68). Above all, the onlooker inevitably fnds an ennobled or perhaps metaphysicalised Funkiness in the use of rags. They are, indeed, relics of everyday life but still bursting with practical dignity. This can be found in the works of Zoo, a group he worked with from 1968-1970 making use of discarded clothes. This is also the case with a material that is not noble – but one might say sacred on a historical level – such as bricks, which he uses in his Monumentino (1968) as a support for an old shoe (for example in the work entitled “L’uomo ammaestrato”, Vernazza, May 1968). Months later, these bricks would be covered with rags in the Arte Povera-Azioni Povere exhibition, Amalf, October 1968. Where “the dialectic of polarities” (his expression) is to be in his now popular Venus in Rags, “the dialectic of polarities” (his expression), which was to be a distinctive part of his Quadri Specchianti, is not clear to me, but that matters little. It is suffcient for me to point out that a true ‘poverist’ does not simply assume a sculpture is neoclassical.

Michelangelo even deviates from Arte Povera as he is making it and, in this sense, he is a transgressor of both tradition and the movement to which he is tied, but not by his hands and feet and certainly not forever. Michelangelo is looking forward to what lies ahead, to something else: as a dynamic formalist (and perhaps even a pure-visibilist) and as a performer (it is no coincidence that he is very attentive to the theatre).

It is equally unsurprising that the frst offcial exhibition of the Arte Povera movement was held in September 1967 at La Bertesca Gallery in Genoa. These are indeed the premises where Pistoletto’s solo exhibition of Oggetti in Meno (which had already been presented in Turin a year earlier) ran until January of the same year.

But let’s face it: Arte Povera has been a hotchpotch from the start. Heterogeneous artists in relation to their assumptions, lucid but variously borrowed from philosophy, theatre etc. And so, there are those who leave the movement and those who join it (even without wanting to). This is particularly evident when Captain Germano Celant decided to enrol foreign artists, not offcially but through their writings. And that was to give an international dimension to his movement. But the fact remains that, from a promotional point of view, militant Mr Celant – who in recent years has tried to raise the fag of being a historian – has always focused on Italians. Achille Bonito Oliva did something similar, making sure onlookers were not distracted from his fve horsemen of the apocalypse, as business dictated, secure in the knowledge that this was basically neo-expressionism.

The truly great international and authentically revolutionary movement is still New Realism with its “new perceptual approach to reality” (as its theorist Pierre Restany once put it) and which, moreover, originated in Paris and includes only one Italian. But then, speaking of Pistoletto (quoting Celant), where is the ‘magical and marvellous value of natural elements’? Or you cannot help wondering where the author is who “abolishes the artist in him... and re-learns how to perceive, feel, breathe... make use of himself as a man”; and where are the “psycho-physical disturbances required of a multi-sensitive and plurilinear life”; or the ‘biological experience’ or quest for ‘continuous nomadism to avoid being coherent... so distinctive of systematic concatenation’.

Pistoletto is a universe, he has experimented with everything, often leaving scorched earth around himself, except for his Manzoni-like radicalisms. He began in 1955 with a series of self-portraits that were interesting not so much for the obviousness they surpassed, their rampant abstractionism, but rather because they were based on fgurative experimentation producing innovative results on a compositional, chromatic, spatial and even symbolic (sic) level. He opened up various lines of research and operation. He has imposed himself through the strength of his ideas and mind. Despite his prevailing dryness capable of sterility and his conceptuality that is, I fact, constrained, he has built his own stylistic habitat with classical fair, continuing his father’s line of thinking (even in relation to restoration) after a rather sober and apparently innocuous start with self-portraits. But there is no room for his socially-driven work anymore and his interest in theorising.

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