CUCINA
VIAGGIO
L'impero del ramen pag. 22
Kansai per gourmet pag. 30
gratuito - numero 2 - maggio - settembre 2016
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Casa dolce casa
JĂŠrĂŠmie Souteyrat per Zoom Giappone
zoom ediToriale
Dire che l’architettura giapponese affascina l’occidente, non è affatto esagerato. Gli architetti nipponici non solo sono capaci di concepire opere che costituiscono esempi di audacia, ma tengono anche profondamente in considerazione gli uomini che usufruiranno di queste costruzioni. In queste specificità risiede l’interesse suscitato dell’architettura giapponese. Non è forse per questo che i costruttori del Sol Levante godono di un tale appeal e ricevono regolarmente i premi più prestigiosi quali il celebre Pritzker? Non c’è dubbio che le cose stiano così. Zoom Giappone si interessa quindi naturalmente a questo settore e ai suoi principali protagonisti, affinché quest’ultimi ci raccontino le loro ambizioni di oggi e come si immaginano il Giappone di domani. Di certo le buone idee non mancano.
L O SGUARDO DI ERIC RECHSTEINER Quartiere di meguro, a Tokyo
© Eric Rechsteiner
ambizioni
Non tutti i mostri sono cattivi e non tutti saranno sfidati da Ultraman, il supereroe tanto amato dai Giapponesi. La prova di tutto ciò é rappresentata da un mostro gentile che abita un parco della capitale dove i bambini si ritrovano per giocare. Forse, fra di loro, c’è qualcuno che si immagina nelle vesti del celebre personaggio dal costume rosso e argento, pronto a combattere questo mostro dalla bocca spalancata?
LA REDAZIONE redazione@zoomgiappone.info
Copertina : Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
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Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
Questa foto scattata nel quartiere di Ebisu a Tokyo mostra come la città giapponese non sia affatto il paradiso dei grattacieli.
Benvenuti a casa ! La casa giapponese non è soltanto quell’opera che si osserva con occhio talvolta perplesso fra le pagine dei libri d’arte.
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he immagine abbiamo dell’architettura giapponese? Cosa siamo soliti immaginarci quando dobbiamo descrivere le città nipponiche? Quasi sempre, pensiamo a grandi edifici, a vie strette e a una tale densità di abitanti che facciamo fatica a concepire il Giappone come “l’arcipelago della casa”. Per renderci conto del contrario, tuttavia, non è nemmeno necessario lasciare il cuore di Tokyo o di altre metropoli nipponiche. La casa è un elemento indissociabile dall’identità cittadina, molto più di quanto non lo sia a Roma, ad esempio, dove possedere un’abitazione è rivelatore di uno sforzo finanziario notevole o di una condizione economica più che florida. Riconcentriamoci sulla casa giapponese: l’architetto tedesco Bruno Taut se ne era già interessato nel lontano 1937 in un’opera che ha fatto epoca, Houses and People of Japan. In quest’opera di riferimento, Taut proponeva ai lettori la possibilità di scoprire la cultura locale attraverso l’abitazione. L’autore sottolineava come la casa fosse
il frutto della cultura degli uomini e delle donne che l’abitavano, prima ancora di esistere come opera d’arte. È spesso sotto quest’ultima chiave di lettura, tuttavia, che le case giapponesi sono rappresentate nei libri d’arte. Valorizzate dal talento di bravi fotografi, somigliano a certe nature morte che andiamo ad ammirare nei musei durante i giorni di pioggia. La vita è assente, eppure queste case sono state create per essere abitate. Costituiscono una moltitudine di piccoli elementi vitali della città e il modo di occuparle ci parla del talento e della personalità di chi le abita. La casa giapponese non è soltanto un tetto e quattro mura, è molto di più. Conserva una filosofia di vita che ha subito un’evoluzione continua fino agli anni Novanta, quando si è progressivamente avvicinata agli standard occidentali. Oggi, si torna all’essenziale, ovvero a un desiderio di creare spazi dove gli individui, che finora avevano avuto la tendenza ad allontanarsi gli uni dagli altri, possano ritrovare il piacere dello stare insieme. Questo bisogno ha cominciato a farsi sentire dopo lo scoppio della bolla finanziaria con l’inizio di una sempre maggiore precarietà economica. La tendenza si è rafforzata all’indomani degli
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eventi tragici del marzo 2011. Il progetto definito “Casa per tutti” (Minna no ie) incarna questa tendenza. Zoom fu uno dei partner sostenitori e il progetto ottenne un vasto riconoscimento nel 2012 in occasione della 13esima Esposizione internazionale d’architettura alla Biennale di Venezia. Il progetto ha coinvolto numerosi architetti giapponesi, uniti per immaginare dei luoghi destinati a “creare legami”. Tutti i professionisti che abbiamo incontrato per questo dossier mettono l’accento su questo aspetto che non cesserà di assumere importanza, soprattutto a causa dell’invecchiamento progressivo della popolazione. Possiamo credere dunque che il Giappone potrà essere un efficace laboratorio d’architettura da cui potranno prendere ispirazione gli altri Paesi industrializzati, interessati dallo stesso problema sociale, per trovare soluzioni e insegnamenti utili. Speriamo che dopo la lettura di questo dossier speciale dedicato alla casa giapponese, le nostre conoscenze sull’architettura nipponica possano crescere e il nostro sguardo possa essere meno offuscato dai pregiudizi. ODAIRA NAMIHEI
zoom inCHieSTa PROGETTO
Una questione di equilibrio
Originario di Hiroshima, Maeda Keisuke difende l’idea di un’architettura in armonia col paesaggio.
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
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o UID (acronimo che sta per Universal Innovative Design) è stato fondato dall’architetto Maeda Keisuke dodici anni fa. Il suo primo progetto – una casa privata – ha ottenuto il premio Good Design Award assegnato dal governo. Da allora, egli non ha ricevuto altro che consensi per il suo approccio all’architettura, contemporaneo e al tempo stesso fedele alle radici tradizionali e in armonia con il paesaggio. “In Occidente, si è soliti proteggere lo spazio abitativo con muri e pavimenti mentre l’architettura giapponese cerca una connessione con la natura circostante” spiega Maeda. Come numerosi altri architetti giapponesi contemporanei, immagina forme geometriche che si integrino perfettamente con l’ambiente, creando così degli spazi dalla bellezza poetica, dove le persone possano interagire con la natura. Per ciascuno dei suoi progetti, Maeda intraprende un minuzioso studio topologico. Si interessa anche alla flora e alla fauna al fine di creare una relazione naturale tra l’edificio e l’ambiente. Questo legame è definito dalla coesistenza dei due elementi. “Invece di creare una connessione aprendo banalmente una finestra, cerco di inventare una struttura che possa costituire un elemento del paesaggio, dell’ambiente nel suo insieme” spiega. L’interno non sarà così uno spazio che le pareti isolano dall’esterno, bensì una vera e propria estensione dell’ambiente, uno spazio vitale legato indissolubilmente alla terra. Quando l’architetto si lancia in un nuovo progetto, si fida sempre del suo intuito. “Essere architetto vuol dire creare un ambiente in un determinato luogo. Non è qualcosa che si possa fare semplicemente disegnando dei progetti. Questi servono da guida, ma rimango sempre attento di fronte al carattere unico del posto e tengo puntualmente conto delle decisioni suggerite dal mio intuito nel corso dei lavori. Sono queste intuizioni a condurmi dove voglio, a permettermi di creare un ambiente confortevole. Quando parlo di “decisioni intuitive” si tratta di piccoli o grandi aggiustamenti concepiti in situ per determinare forme e dimensioni, come ho potuto fare durante la costruzione di una scuola materna. Sul posto ho immaginato diverse situazioni che avrebbero avuto luogo, ho immaginato i protagonisti di queste situazioni: i bambini, le insegnanti, le donne incinte che avrebbero avuto accesso alla struttura. Ho pensato alle mamme coi passeggini o coi figlioletti in braccio, ai genitori coi loro bambini per mano e alle baby sitter che sarebbero venute a prendere i piccoli” confida.
Il progetto +node di Maeda Keisuke illustra perfettamente la sua ricerca d’equilibrio con l’ambiente.
“Non cerco per forza di massimizzare il confort e la funzionalità del luogo. Voglio piuttosto creare un ambiente che sia in grado di offrire alle persone un sentimento di benessere in ogni momento del loro quotidiano” aggiunge Maeda. La stretta collaborazione tra lo studio e l’impresa è una parte importante di questo processo, poiché permette all’architetto e alla sua squadra di raggiungere un elevato livello di precisione e di espressione che a sua volta è la condizione necessaria per creare quel nesso armonioso di continuità fra gli spazi interiori ed esteriori. Un esempio ammirevole di questo approccio è dato dal suo +node, una casa famigliare il cui piano superiore termina in
un’estensione alta dieci metri sopra il livello del suolo e forata all’estremità, per permettere a un albero di crescere all’interno della struttura. Molte abitazioni create da Maeda sono il risultato dell’integrazione dei due livelli, quello in cemento che costituisce la base della struttura e quello superiore, aereo, in legno, che si fonde col paesaggio e con la natura circostante. In fin dei conti la principale preoccupazione dell’architetto é quella di organizzare al meglio lo spazio per ottenere un equilibrio ottimale tra la funzionalità, l’ambiente e le relazioni umane. JEAN DEROME
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la capacità di adattamento
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ESPERIENZA
Il nuovo centro dell’EFEO a Kyoto realizzato da Mikan, di cui fa parte Tardits.
Stabilitosi da numerosi anni nell’arcipelago, fra un pensiero formale, un’estetica e la loro trasManuel Tardits ci confida la sua posizione nel mondo reale costellato di obblighi e appassionante esperienza d’architetto. ostacoli? L’immaginazione, di fronte al Giappone “L’immaginazione si arrende o si rafforza quando si confronta con la realtà? ” Victor Ségalen
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uesta citazione di Ségalen, il celebre scrittore orientalista francese, pare anticipare perfettamente il destino di un architetto straniero in Giappone. L’aforisma non soltanto è adatto per definire il senso di spaesamento che ancora oggi l’Estremo Oriente suscita nei viaggiatori, ma è perfetto anche riferito all’universo dell’architettura. Quale scopo insegue l’architetto se non quello di trovare un rapporto armonioso
reale nel quale vivo, insegno, costruisco e scrivo da circa trent’anni, non solo non si arrende ma si rafforza giorno dopo giorno. Non ho un ricordo preciso del momento in cui decisi di venire qui. Erano gli inizi degli anni Ottanta e pensavo di andare all’estero per approfondire gli studi d’architettura compiuti a Parigi. A quell’epoca apprezzavo già parecchio sia la letteratura contemporanea sia il cinema giapponesi, ma avevo una conoscenza limitata degli architetti nipponici. Tuttavia, due esposizioni tenutesi a Parigi sulle residenze private in Giappone, mi hanno colpito e senza dubbio hanno contribuito a spingermi a partire. Le mostre erano quelle dedicate
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a Ando Tadao e a Shinohara Kazuo. Se agli inizi degli Ottanta il primo cominciava a essere conosciuto per le sue abitazioni in cemento apparente, austere, astratte, chiuse su se stesse, il secondo restava un mistero. Malgrado la bellezza insolita delle case di Shinohara, alcune caratterizzate da pavimenti in pendenza, in terra battuta, da vani interrati e da collage di forme particolarmente aggressive, queste continuavano a risultarmi incomprensibili, sebbene potessi scorgere una logica nascosta nel loro esotismo. Una volta che la mia curiosità per il Giappone fu accesa, scoprii in alcune pubblicazioni l’opera attraente e postmoderna di Maki Fumihiko. Quest’ultimo mi avrebbe poi accolto nel 1986, prima come ricercatore, con all’attivo la mia borsa di studio, poi come studente nel master presso il laboratorio da lui diretto all’università di Tokyo. Era qualcosa di tanto insolito quanto appassionante per uno studente francese, soprattutto nel mio caso, interessandomi io tanto alla ricerca quanto alla pratica. Maki invitava i suoi studenti a partecipare ai numerosi concorsi internazionali ai quali era invitato. In queste occasioni, oltre a essere consapevole di partecipare a progetti fuori dal comune sotto la guida di un grande maestro, penso di aver imparato due cose fondamentali: l’amore per i modelli e i plastici e la flessibilità dello spirito. L’arte di creare un plastico, arte che definirei “della precisione”, alla quale in Giappone si consacrano ore e ore, permette di visualizzare perfettamente i progetti e di comunicare così agevolmente le idee. La flessibilità dello spirito consiste invece in questa mia nuova abitudine di non considerare mai alcuna soluzione per forza migliore rispetto a un’altra. Prima di operare una scelta, Maki studiava parallelamente diverse proposte e non privilegiava nulla prima di avere una visualizzazione perfetta delle opzioni. Mia moglie Kamo Kiwako ed io abbiamo realizzato i nostri primi progetti presso l’Agenzia Célavi Associates, da noi creata all’inizio degli anni Novanta. La bolla economica permetteva di costruire a oltranza e dava ai giovani architetti l’occasione di lanciarsi in nuove sfide. Abbiamo così avuto l’opportunità di lavorare per circa dieci anni al rinnovamento in più fasi dell’Istituto Franco-giapponese di Tokyo. Questo edificio emblematico della modernità giapponese del dopoguerra era stato disegnato da un celebre allievo di Le Corbusier, Sakakura Junzo. Mi sono così trovato a percorrere un’odissea simbolica tra Francia e Giappone, dove ritrovavo parecchi dei famosi “punti” propri all’architetto franco-svizzero, appresi durante i miei studi nei libri di storia dell’architettura moderna. La tappa seguente, inattesa, comincia nel 1995 e continua ancora oggi. Siamo quattro collaboratori : Sogabe Masashi, Takeuchi Masayoshi, Kamo Kiwako ed io; siamo tutti usciti dal Tokyo Institute
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Manuel Tardits nella sua Kata House, disegnata a due mani con la moglie Kamo Kiwako.
of Technology dove insegnò a lungo proprio l’architetto Shinohara. Diamo vita a un lavoro di gruppo dove è necessario tener conto delle idee degli altri, in un collettivo solidale e a lunga durata, cosa più rara di ciò che si possa credere in Giappone, dove nel campo creativo, gli egocentrismi degli uni e degli altri entrano facilmente in competizione. Il progetto Mikan nacque nel 1995 da una serie di circostanze che ci portarono a unire le forze in vista di un concorso lanciato dalla NHK (tv nazionale) e finalizzato alla costruzione di una nuova antenna regionale a Nagano, necessaria per la copertura mediatica delle Olimpiadi invernali previste per il 1998. Vincemmo il concorso e questo ci galvanizzò anche perché era eccezionalmente aperto a tutte le categorie di architetti. Il Giappone, purtroppo, non è il paradiso dei creativi che molti occidentali, per ignoranza, ci invidiano. Lo statuto d’architetto non è affatto protetto e i grandi studi immobiliari monopolizzano l’accesso agli appalti dei cantieri più importanti. Ogni architetto che lavora qui poi, si trova un giorno ad affrontare la nozione ormai svilita e confusa di “giapponesità”. Questo termine, legato al “giapponismo”, parola inventata nella seconda metà del XIX secolo, caratterizza in origine lo shock culturale generato dall’incontro tra Giappone e Occidente, dopo la chiusura bicentenaria dell’arcipelago. Oggi la questione fa tergiversare, irrita persino. Sejima Kazuyo
vi risponderà che lei crea architettura giapponese semplicemente perché è giapponese! Non si potrebbe essere più lapidari. Un architetto, che sia giapponese o meno, si vede innanzitutto come un creativo di opere originali. Si chiede per caso a un architetto francese cosa costituisce la sua “francesità”? Quasi mai. Per noi, quando si parla di “giapponesità” si tratta prima di tutto di rispondere in maniera contestuale a un ambiente culturale, storico e fisico particolare. La scelta dei riferimenti, delle materie, delle proporzioni e delle tecnologie ha quindi un ruolo importante. Poniamo attenzione a tutto: al vento, alla luce pomeridiana, agli alberi, alle stagioni, ai costumi del posto, alle abitudini dei vicini, ai suoni del circondario, che siano quelli delle cicale o quelli dell’autostrada vicina. I nostri progetti hanno tante sfaccettature quanti sono i contesti e le persone con cui lavoriamo. Aiutati da giovani carpentieri abbiamo disegnato e realizzato da soli un salone temporaneo per la cerimonia del tè, ispirato al famoso Jo-an realizzato nel 1618 da Oda Uraku, sulle montagne che circondano Kobe. Abbiamo costruito recentemente il nuovo centro della Scuola francese d’Estremo oriente a Kyoto, con una struttura in legno basata su un incrocio tradizionale di travi misurate in ken/ma (unità di misura giapponese nata in epoca medievale, ndt) , seguendo i principi di uno sviluppo eco-sostenibile. A Tokyo, stiamo costruendo abitazioni in cemento
e metallo. Ecco qui cosa costituisce la nostra “giapponesità”. Quando poi si parla di contesto fisico, non bisogna dimenticare la città: il Giappone è uno dei paesi più urbanizzati al mondo e Tokyo una delle metropoli più grandi del pianeta con i suoi 15 milioni di abitanti. Se l’architettura di Shinohara mi aveva intrigato, lasciandomi intravvedere una logica nascosta, non potevo accettare di vedere in Tokyo, la mia città, in apparenza così caotica, l’assenza totale di una logica architettonica, e ho continuato così a cercarla. In me echeggiava la bella frase di Georges Perec: “Non c’è niente di inumano in una città, a parte la nostra umanità”. Il risultato di questo interesse, maturato grazie alle osservazioni sviluppate nel corso dei miei diversi cantieri, dei miei spostamenti, dei miei traslochi e delle pazienti ricerche portate avanti nel tempo, ha dato vita al libro Tokyo, Portraits et Fictions (in Francia pubblicato dalle edizioni Le Gac Presse, 2011). Maki, il mio vecchio maestro, commentando il libro mi fece uno dei complimenti più arguti: “penso sia un bene che lei non abbia cercato per forza una conclusione chiara al suo studio” mi disse. Esprimersi chiaramente sì, ma mai affermare con certezza. Lasciare che la risposta rimanga sospesa. Maki mi confortava così nella verità del “dubbio creativo” o, parlando di architettura, del “dubbio costruttivo”. MANUEL TARDITS
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zoom inCHieSTa INTERVISTA
il futuro dell'architettura
A colloquio con l’acuta esploratrice Hasegawa Yuko sulla relazione fra arte, design e architettura.
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Yasuyo Takahashi
ercare di parlare a Yuko Hasegawa è un po’ come correre dietro al Coniglio Bianco di Alice nel paese delle Meraviglie: quando pensi di averla presa in trappola, lei salta su un aereo e vola in uno dei tanti Paesi in cui viene spesso invitata a curare una mostra o a partecipare a un simposio internazionale. Acuta esploratrice delle fitte trame che legano i disparati mondi dell’arte contemporanea, il suo vero capolavoro l’ha però fatto resuscitando il moribondo Museo di Arte
Contemporanea di Tokyo (MOT) – di cui dal 2006 è la principale curatrice – e trasformandolo in un laboratorio di ricerca che spesso mette in luce i legami sempre più stretti fra arte, architettura e design. Ed è proprio di questo che abbiamo parlato quando siamo finalmente riusciti a intrappolarla nel suo ufficio. Il paragone con il famoso Coniglio di Lewis Carroll non è un caso visto che uno dei recenti progetti di Hasegawa al MOT si chiama appunto “Bunny Smash: Design to Touch the World”. “Il Coniglio Bianco è una figura che sento vicina perché fa a pezzi la logica convenzionale e porta alla scoperta di mondi nuovi”, spiega lei con una pacatezza e
Yuko Hasegawa teorizza un approccio interdisciplinare all’architettura. 8 zoom Giappone Anno I - N. 2 maggio - settembre 2016
un pragmatismo più da amministratore delegato che da Cappellaio Matto. “Quella mostra – e altre che ho curato in passato – voleva mostrare futuri alternativi nel campo delle varie discipline attraverso diversi metodi di intervento nello spazio. Le nuove tendenze dell’architettura, in particolare, sotto l’influenza delle tecnologie informatiche e della realtà virtuale, abbracciano sempre più spesso tutti e cinque i sensi. È importante trasformare l’architettura in una pratica che metta in discussione il nostro rapporto con la società, la natura e tutto ciò che ci circonda. Con la scomparsa delle grandi ideologie e il dominio assoluto del mercato, è sempre più necessario espandere il proprio raggio d’azione in modo da abbracciare nuovi principi etici ed estetici”. La divisione dell’arte che ha avuto origine nell’800 ha creato da una parte le cosiddette belle arti e dall’altra le arti applicate (architettura, moda, grafica, ecc.). Questa classificazione si basa su una struttura che sostiene il sistema di produzione e consumo del prodotto. Secondo Hasegawa anche in Giappone i creativi d’oggi cercano di scavalcare questa rigida separazione in favore di un approccio interdisciplinare che stimoli l’immaginazione del fruitore. “In campi come l’architettura e il disegno grafico”, continua Hasegawa, “pur tenendo conto dei desideri del cliente e dei principi di mercato, si sta sviluppando una nuova relazione fra creatore e consumatore. In particolare sempre più architetti non pensano più solo in termini di architettura – cioè non si limitano a considerare l’edificio – ma affrontano i loro progetti in termini di space design con un approccio che abbraccia tutti gli elementi, dall’arredamento interno al rapporto dell’edificio con l’ambiente che lo circonda”. Da più parti si dice che le varie branche dell’arte contemporanea sono diventate sempre più autoreferenziali. Hasegawa interpreta il rapporto più stretto che si è creato fra queste discipline e la vita quotidiana a partire dagli anni ’90 come uno sviluppo positivo che riavvicina i creativi ad un pubblico più vasto. “È un po’ un ritorno all’approccio dei movimenti storici del XX secolo che pur avendo una visione nuova, d’avanguardia, attingevano a piene mani dalla vita quotidiana. In Giappone, per esempio, il movimento Metabolista degli anni ’60 ha influenzato enormemente il modo di intendere l’architettura e il suo posto nella società. Il nome stesso, di derivazione biologica, voleva dare dell’architettura e delle città un’immagine simile a quella di un organismo vivente capace di crescere, riprodursi e trasformarsi a seconda dell’ambiente in cui si trovava. Architetti come Kurokawa Kisho, Kikutake Kiyonori e Maki Fumihiko (a loro volta influenzati dal maestro Tange Kenzo) credevano che lo sviluppo
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Fra i suoi successi, Yuko Hasegawa annovera quello di esser riuscita a rilanciare il dimenticato Museo di Arte Contemporanea di Tokyo (MOT).
di una comunità di persone passasse attraverso la creazione di città ideali”. Hasegawa sottolinea anche come i Metabolisti, anticipando gli sviluppi interdisciplinari di oggi, siano andati oltre l’architettura e la pianificazione urbana per interessarsi di arte e design. “Basta pensare a una mostra come “Dallo spazio all’ambiente” del 1966, per non parlare dell’Expo ’70 di Osaka, che hanno integrato generi e discipline molto diverse all’insegna della creazione di un nuovo tipo di ambiente a dimensione umana. “L’arte, il design e l’architettura sono diventate linguaggi interdisciplinari che aspirano a cambiare il modo della gente di rapportarsi alle cose e alla realtà attraverso la creazione di oggetti che grazie alle loro forme funzionali riescono a infiltrare gli spazi di vita quotidiana. Si tratta a volte di prototipi di un’utopia il cui scopo è quello di ispirare l’immaginazione di chi le vede.” Da diversi anni Hasegawa ha uno stretto rapporto con l’Italia. Nel 2003 ha curato il padiglione giapponese alla 50° Biennale di Venezia mentre due anni fa è stata consulente artistico alla 12° Biennale di Architettura sempre nel capoluogo veneto. “Molti architetti e designer non sono più legati alla convenzionalità delle ideologie tradizionali, come l’umanesimo, bensì osservano attentamente gli sviluppi della società umana e si comportano di conseguenza. La stessa cosa succede anche in Giappone. I giovani creativi giapponesi mostrano un’attitudine verso l’acquisizione di informazioni che è allo stesso tempo astorica e non gerarchica”. Questo essere in-
between è un po’ come una zona di nessuno dal paesaggio variabile, in cui esiste un costante passaggio dal reale al concettuale e viceversa. “Quando le persone si concentrano su una sola disciplina”, spiega Hasegawa, “finiscono a volte con il perdere di vista dettagli importanti o non venire a conoscenza di idee altrettanto valide provenienti da ambiti diversi. Le cose al giorno d’oggi cambiano così in fretta che il momento collaborativo diventa di importanza fondamentale”. Le scienze e la tecnologia partecipano a questo gioco di scambi non solo perchè forniscono spunti da sviluppare a livello tematico, ma anche e soprattutto per l’apporto che danno allo scambio di informazioni. “Adesso è facilissimo condividere informazioni, e naturalmente questo approccio può essere applicato anche al sistema produttivo con la creazione di nuovi canali di distribuzione”. Hasegawa ribadisce che tutte queste attività non esistono in un vuoto esistenziale, ma devono fare i conti con l’ambiente umano e sociale in cui sono immerse. “Sia l’architettura che le altre discipline sono strettamente legate al desiderio umano. Noi produciamo queste cose perché esiste un bisogno a monte. Oggi però è più che mai importante non perdere di vista l’impatto che le nostre attività hanno sull’ambiente in modo da non abusare delle risorse naturali. Molti architetti, ad esempio, si interessano esclusivamente agli edifici che vogliono costruire, mentre dobbiamo fare più attenzione alla relazione di queste strutture con l’ambiente che le circonda, il dentro e il fuori, il naturale e l’artificiale
– o se preferisci il materiale e lo spirituale”. Prima di scappare a prendere l’ennesimo aereo per l’Europa, Hasegawa mi lascia con una considerazione sull’Italia. “Il mondo attuale è molto diverso da quello di una volta e la realtà virtuale ha preso posto accanto a quella fisica. Quindi è naturale che anche i gusti delle persone siano cambiati. Lo stile italiano è sempre stato apprezzato per la sua autenticità e personalmente lo amo molto. Visti i recenti sviluppi, a volte può sembrare un po’ sorpassato, ma è difficile stilare classifiche secondo i parametri tradizionali. Alla fin fine è una questione di gusti personali”. JEAN DEROME
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uesto 2016 ricco di eventi dedicati al Giappone riserverà due spazi importanti anche all’architettura del Sol Levante. Il primo, il Padiglione del Giappone alla Biennale d’Architettura di Venezia (28 maggio-27 novembre), sarà dedicato quest’anno al concetto di en, legame, connessione. Il MAXXI di Roma ospiterà invece da ottobre a gennaio la mostra “L’architettura residenziale giapponese dal Dopoguerra ad oggi”, offrendo una panoramica sull’evoluzione di questa “arte al servizio degli uomini” in parallelo alle profonde trasformazioni storiche e sociali vissute dal Giappone negli ultimi settant’anni.
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dall’individuo alla comunità
Per Kawamoto Atsushi e Mayumi, la reinterpretazione della tradizione è il principio più importante del loro lavoro.
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awamoto Atsushi e Mayumi hanno fondato il mA-style Studio nel 2004. Si sono stabiliti nella tranquilla prefettura di Shizuoka e questa serenità si ritrova facilmente nel loro approccio all’architettura. Secondo la loro filosofia, la cosa più importante da realizzare quando si comincia a lavorare su un progetto, è trovare il modo di integrare la struttura nell’ambiente nel quale sarà costruita. “Immaginando ogni modulo come una vera e propria casa, gli spazi vuoti fra i moduli possono essere considerati come sentieri o piccole piazze che ci danno l’idea di una città in miniatura avvolta dalla luce” spiega Kawamoto Atsushi. “Gli spazi vuoti che determinano la distanza fra le persone qui costituiscono delle dimensioni intermediarie per gli abitanti e degli elementi di legame tra interno ed esterno”. “Gli esseri umani devono essere capaci di far fronte alla natura che li circonda. Poco importa il luogo dove viviamo, dovremo essere capaci di interagire con la natura come si deve. Certo, molte persone vorrebbero cambiare la natura, trasformarla, per poter vivere sempre nel confort, ma non siamo in grado di fare ciò, dobbiamo adattarci ad ogni ambiente e alle sue particolarità” aggiunge la moglie, Mayumi. Il ruolo attribuito al posto è importante perché ogni luogo ha un’autentica influenza sul fatto che uno stile architettonico prevalga su un altro. “Siamo estremamente interessati all’architettura tradizionale giapponese” spiega Atsushi. “Non tanto per l’immagine, quanto per il concetto di spazio che sta alla base di queste forme. Nell’architettura tradizionale nipponica, i muri spessi non esistono. Ci sono invece tutta una gamma di muri e pareti sottili per controllare la distanza tra interno ed esterno, per proteggere o per aprire. Possiamo scegliere di volta in volta lo strato che resta permanente, correggere il livello di protezione e di intimità domestica a seconda delle situazioni e delle stagioni. . Tutto questo è basato sull’interazione fra architettura, natura e persone. Sono concetti interessanti che siamo in grado di reinterpretare in maniera contemporanea e moderna. Una delle caratteristiche dell’architettura giapponese è la semplicità. A volte è fin troppo minimalista, ma al tempo stesso questa semplicità è radicata nella cultura tradizionale locale. L’architettura giapponese è a volte anche molto concettuale. Questo può rappresentare tanto un punto di forza, quanto
Uno spazio dove la luce naturale è valorizzata e sfruttata al meglio
di debolezza, poiché viene capita in maniera limitata” aggiunge. Il legame con la tradizione influenza l’idea che i Kawamoto hanno dell’originalità. “Penso che ispirarsi in maniera superficiale non sia interessante. Trovando ispirazione in maniera profonda
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e reinterpretando questo spirito in maniera nuova, grazie a nuove forme, ci si dimostra creativi. È in questo tipo di reinterpretazioni che si scorge l’originalità”, riflette l’architetto. Mentre numerosi architetti occidentali accordano una grande attenzione all’aspetto esteriore di
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una struttura e al modo in cui questa si integra con gli edifici circostanti, i Kawamoto, come molti altri colleghi giapponesi, concepiscono la casa in maniera opposta. “Invece di rivolgere il nostro sguardo verso l’esterno, verso l’immensità dello spazio, preferiamo concentrarci verso l’interno per creare degli ambienti sereni in cui vivere, probabilmente difficili da apprezzare dagli occidentali al primo colpo d’occhio”. La coppia crede profondamente nell’importanza di creare case funzionali, pensate specialmente per gli abitanti che si muovono al loro interno. “Tutto ciò che concepiamo è concentrato sulle attività delle persone” spiega Atsushi. “Ci interessa sapere ciò che la gente vuole fare all’interno dell’edificio”. Riguardo al ruolo sociale dell’architettura, i Kawamoto pensano che oggi il ruolo dell’architetto non sia quello di dar vita a strutture razionali influenzate dalla realtà economica o politica, bensì quello di creare spazi di vita quotidiana che stimolino la sensibilità di ognuno. “In fin dei conti, cerchiamo costantemente di creare un ponte tra l’architettura per l’individuo e quella per la comunità .” J. D.
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“Invece di rivolgere il nostro sguardo verso l’esterno e l’immensità dello spazio, preferiamo concentrarci verso l’interno” spiegano gli architetti di mA-style.
Una casa funzionale per tutti i suoi abitanti
Un uso intelligente dello spazio
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Sugawara, costruttore connesso
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
Cosciente delle sfide che la nostra società deve affrontare, Sugawara ci confida la sua visione dell’architettura. La sua percezione dell’architettura è cambiata dopo il sisma del marzo 2011? Sugawara Daisuke: La tragedia non ha sconvolto il mio modo di pensare, al contrario mi sono convinto della correttezza del mio punto di vista. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria agli inizi degli anni Novanta, ho l’impressione che abbiamo avuto la tendenza a considerare l’architettura come un gioco, in particolare se ci riferiamo alla concorrenza frenetica a cui gli architetti si sono lasciati andare per trovare nuove forme e concetti. Nel mondo dell’architettura giapponese, la mia filosofia era ben diversa. Si trattava di “creare un edificio per vivere”, e questo non aveva nulla a che fare col gioco competitivo intrapreso dagli altri. Parlando di “habitat”, era indispensabile creare un’architettura che permettesse agli abitanti di queste regioni di viverci. Il terremoto non ha scosso il mio modo di vedere le cose. Al contrario, mi ha rassicurato sulla bontà del mio approccio. Fra le numerose sfide con le quali il Giappone deve confrontarsi, l’invecchiamento della popolazione è uno dei temi più spinosi. Qual è la risposta che l’architettura deve fornire, secondo lei? S. D.: Uno dei problemi di una società che invecchia è l’esistenza di quella che viene definita “la persona anziana isolata”. Vivendo spesso lontano dalla famiglia ed avendo perso la cerchia amicale, le sue possibilità di uscire sono limitate, anche in caso di problemi di salute e malattie. Si può morire a casa propria senza essere scoperti. Per prevenire questo problema è possibile concepire una casa connessa con la comunità locale: credo che l’architettura debba giocare un ruolo importante in questo. Durante l’epoca di forte crescita economica, la gente ha sviluppato una sorta di odio, di distacco verso la famiglia e verso i valori tradizionali. Ciò ha portato alla costruzione di case monofamigliari chiuse al resto della società. Ora però che l’economia e gli artifici del boom economico hanno perso vigore, le persone, non soltanto gli anziani, provano una certa angoscia che le porta a cercare il contatto con gli altri. Lo sviluppo dei social network come Twitter o Facebook rappresentano bene questo fenomeno. Se è dunque possibile aprire la casa o una parte di essa verso l’esterno e la comunità, le persone, e non solo quelle più deboli e sole, potranno costruire una società dove sarà facile creare legami fra gli individui.
Nel contesto dell’invecchiamento della popolazione, è un buon modo di promuovere una vita sana e favorire le relazioni fra le “persone anziane isolate” e le autorità locali. Si ritrova in parte questo approccio architettonico nel progetto dei lotti provvisori di Rikuzentakata al quale ho partecipato.
persone e le cose. D’altra parte, possiamo notare come gli appalti siano organizzati principalmente dalle collettività locali e dalle piccole imprese piuttosto che dallo Stato o dalle grandi società. Questi stessi appalti riguardano oggi sempre meno i grandi edifici cittadini. Vengono preferite piccole strutture in provincia o opere di rinnovamento. Su quali progetti sta lavorando? S. D.: Lavoro attualmente con dei professionisti addetti allo sviluppo delle aree locali su un progetto residenziale chiamato “La casa connessa”. Non si tratta di immaginare casa per casa, ma di concepire lo spazio tra ogni nucleo abitativo per elaborare le vie e i sentieri che saranno condivisi dagli occupanti del lotto. In una cittadina della prefettura di Akita, mi sto occupando di un progetto di restauro di edifici tradizionali destinati a essere trasformati in caffè e centri sociali. Il progetto è ambizioso: non si tratta di lavorare solo sugli edifici, ma di favorire gli scambi creando un legame solido tra i luoghi oggetto del restauro e il resto della città. Per svilupparli ho quindi l’incarico di curarne l’immagine. Infine, a Yamanakako, nella prefettura di Yamanashi, dove gli spostamenti in autobus sono molto utilizzati, mi occupo della creazione di nuove pensiline destinate a valorizzare il territorio creando un legame tra il luogo e i passeggeri.
Sugawara Daisuke, gennaio 2013.
Rispetto ai decenni passati, la difficile situazione economica del Giappone pesa sul suo lavoro di architetto? Se sì, in che modo? S. D.: Tenendo conto del declino demografico e dei conseguenti cambiamenti economici, ho l’impressione che ciò che viene richiesto al nostro lavoro d’architetto abbia subito un’evoluzione. Fino ad oggi, per un architetto il successo era rappresentato dal progetto riuscito di un museo, di un teatro, di una biblioteca, o l’ottenimento di un importante appalto pubblico. Si chiedeva all’architetto di progettare opere di una bellezza irreale, con uno stile spettacolare. Oggi, questo genere di edifici non risponde più alle esigenze di un Paese in crisi dove la popolazione decresce. La maggior parte di quegli edifici, d’altra parte, è stata costruita da architetti che oggi hanno più di sessant’anni. Ciò che si domanda ad un giovane architetto non sono più opere ambiziose e ardite, piuttosto gli si chiede di concepire edifici dalle dimensioni ragionevoli che si integrino con l’ambiente circostante e che rispondano alle caratteristiche della regione e della comunità presso le quali vengono costruiti. In altri termini, si è passati a una nuova filosofia che vede il fulcro nella relazione fra le
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Se avesse mezzi tecnici e finanziari illimitati, su quale progetto vorrebbe lavorare? S. D.: L’invecchiamento della popolazione non è un problema che riguarda solo il Giappone. Concerne l’insieme dei Paesi industrializzati. Vorrei dunque impegnarmi nella concezione di nuovi modelli di pianificazione urbana che tengano conto di questo fattore affinché le città conservino il loro fascino. In seguito alla modernizzazione del Paese e al periodo di boom economico, le costruzioni non hanno mai cessato di aumentare. In una società fondata sull’idea di crescita, tutte le tecniche architettoniche disponibili per rispondere a ogni esigenza a seconda del luogo venivano accorpate e integrate le une con le altre in una produzione di massa. In una società in declino, invece, ci si rende conto di come sia più efficace rivedere le tecniche proprie ad ogni identità regionale per reintegrarle al luogo di appartenenza. In un contesto dove viene prodotto solo ciò che è necessario, si debbono valorizzare le tecniche che permettono di produrre costruzioni in quantità sufficiente a livello regionale, abbandonando la produzione di massa. Ecco ciò che mi sta a cuore. È un’idea non si limita solo al Giappone. Può diventare un modello per il resto del mondo. INTERVISTA DI O. N.
zoom inCHieSTa
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
La Chofu House di Sugawara Daisuke è stata pensata per sfruttare il più possibile la luce proveniente dall’esterno.
All’interno stesso della casa, gli abitanti possono avere l’impressione di trovarsi all’esterno. maggio - settembre 2016 Anno I - N. 2 zoom Giappone 13
zoom CUlTUra MOSTRE Capolavori
della fotografia dell’800
Fino al 5 giugno il palazzo del Governatore di parma ospita Giappone segreto, un’interessante mostra sull’epoca pionieristica della fotografia giapponese. le 140 opere esposte coprono gli anni fra il 1860 e il 1910, quando la nuova tecnica fotografica occidentale introdotta da viaggiatori e fotografi itineranti si sposò alla tradizione pittorica locale dando vita alle raffinate stampe a colori della cosiddetta Scuola di Yokohama. la rassegna comprende ritratti di samurai, attori kabuki e scene di vita quotidiana, ma è la paesaggistica a farla da padrona con numerose immagini che illustrano il profondo connubio della gente con la natura. Palazzo del Governatore, piazza Garibaldi, Parma. www.giapponesegreto.it
Cinema giapponese sull’isola Tiberina
FILM
da 22 anni il cinema illumina l’estate romana grazie a l’isola del cinema, il festival che da giugno a settembre si svolge sull’isola Tiberina (e dal 2006 in un cinema di Trastevere). il programma di quest’anno non è stato ancora reso noto ma potete stare certi che anche questa volta, come da sette anni a questa parte, il cinema giapponese sarà protagonista della rassegna internazionale. per aggiornamenti e notizie sul programma di ques’estate non perdete d’occhio il sito del festival. http://isoladelcinema.com
CONFERENZE Cultura giapponese in provincia di modena È attualmente in corso fino al 28 novembre a Maranello un interessante ciclo di conferenze dal titolo Kimi ga yo - Incontri sul Giappone tra tradizione e mutamento. I temi delle sette conferenze spaziano dalla cucina alla letteratura, dall’arte all’architettura, e ogni incontro è seguito da dimostrazioni di professionisti giapponesi. Il MABIC di Maranello, dove si tengono le conferenze, è una scelta particolarmente felice essendo stato progettato dal celebre architetto giapponese Isozaki Arata. La biblioteca di Maranello pre-
FESTIVAL Carpe,
bonsai e giardini a Cesena
la sedicesima edizione dell’italian Koi Show si svolge allo Sport ippodromo di Cesena il 14 e 15 maggio. Come ogni anno gli appassionati di giardinaggio possono ammirare le stupende carpe Koi giapponesi e numerosi esempi di piante bonsai. Fra le attività di
contorno, una esposizione canina di razze giapponesi e gli immancabili manga e cosplayer. Cesena Sport Ippodromo, via Ambrosini 1, Cesena www.italiankoishow.it
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senta infatti richiami ad elementi compositivi dell’architettura tradizionale giapponese (lo sviluppo orizzontale dell’edificio, la particolare divisione degli spazi, il valore dato alla luce e la presenza dell’acqua) rivisitati in chiave moderna. L’iniziativa è realizzata con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano ed è inserita nel programma ufficiale degli eventi per i 150 anni a cura dell’Ambasciata del Giappone in Italia. MABIC (Maranello Biblioteca Cultura) Via Vittorio Veneto 5, Maranello (MO) http://www.visitmodena.it/
zoom CUlTUra FILM Tokyo
love Hotel
È finalmente in arrivo sugli schermi italiani uno dei più interessanti film degli ultimi anni. la Tucker Film – quegli inveterati spacciatori di cinema giapponese – ci porta questa volta Tokyo Love Hotel del regista Hiroki ryuichi. Sfruttando il genere dell’hotel movie, Hiroki ci presenta le vite comiche e disperate di un gruppo di persone che frequentano un alberghetto a ore nel quartiere a luci rosse di Kabukicho,
esplorando il variegato universo dei rapporti umani con sensibilità e sguardo critico, riflettendo al contempo sulle contraddizioni del Giappone contemporaneo.
MOSTRE
Cho Cho san a Torre del lago
OPERA
Come di consueto il Festival pucciniano offre due sontuose rappresentazioni della madama Butterfly. diretto da Vivien Hewitt e con i costumi di regina Schrecker, lo spettacolo si inserisce nel ciclo di eventi per le celebrazioni dei 150 anni di relazioni tra italia e Giappone. nel ruolo di Cho Cho San ci sarà donata d’annunzio lombardi, famosa per la capacità di calarsi nel personaggio della geisha di nagasaki, la quale sarà affiancata da leonardo Caimi il 29 luglio e da Simone di Giulio il 10 agosto. nel celebre allestimento che ha inaugurato il percorso “scolpire l’opera” e che ha visto nel ruolo di scenografi grandi artisti contemporanei, quest’anno lo spettacolo sarà proposto con le scenografie del grande scultore giapponese Yasuda Kan. 29 luglio e 10 agosto, Torre del Lago Puccini, http://www.puccinifestival.it/biglietteria/
ARTE Scultura
religiosa
a roma dal 30 luglio al 4 settembre le Scuderie del Quirinale ospitano per la prima volta in italia straordinari capolavori di scultura buddhista provenienti dai principali musei nazionali e templi del
Giappone. la scultura religiosa è una delle più alte espressioni artistiche della cultura nipponica e i tesori nazionali che verranno presentati a roma ne sono un perfetto esempio. www.scuderiequirinale.it
il maestro del realismo giapponese
domon Ken è uno dei più famosi e rispettati fotografi giapponesi del ‘900. Se non avete il tempo di visitare il museo a lui dedicato dalla natia città di Sakata, la mostra organizzata dal 26 maggio al 18 settembre dal museo dell’ara pacis a roma ne è una degna alternativa. nel secondo dopoguerra, in particolare, domon ha diviso la sua prolifica attività tra
fotogiornalismo a sfondo sociale e frequenti visite ai templi buddhisti da lui immortalati in suggestive serie fotografiche, secondo un rigoroso percorso espressivo in cui ha perseguito la fotografia come missione di vita. per maggiori informazioni: www.arapacis.it Centro di Cultura Giapponese, via Lovanio 8, Milano, ore 19.00. Per prenotare: 338.1642282
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zoom CUlTUra ROMANZO
murakami vola in alto
I due primi romanzi dello scrittore sono arrivati in libreria in Italia, pubblicati da Einaudi.
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opo aver proposto l’anno scorso La strana biblioteca, racconto di Murakami Haruki illustrato da Lorenzo Ceccotti, le edizioni Einaudi presentano a maggio un’opera corposa dello stesso autore, che entusiasmerà i fan. Si tratta dei suoi due primi romanzi, finalmente tradotti in italiano e riuniti in un unico volume. Ne esisteva una traduzione inglese rivolta quasi esclusivamente al mercato giapponese; lo scrittore aveva rifiutato per lungo tempo nuove traduzioni, considerando che queste due opere non fossero adatte ai lettori stranieri. Eppure, Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 costituiscono i primi due romanzi della Trilogia del Ratto, conclusa con Nel segno della pecora (1990) che segna, secondo l’autore, “l’autentico inizio della sua carriera di romanziere”, come è sottolineato nella prefazione. Se il primo romanzo non avesse ricevuto il premio Gunzo, uno dei premi letterari più prestigiosi in Giappone, Murakami riconosce che probabilmente non avrebbe mai scritto altri libri. Ecco perché ha deciso di offrirlo con il secondo ai numerosi lettori che apprezzano il suo stile. Evidentemente abbiamo a che fare con opere giovanili caratterizzate da uno stile acerbo, ancora prive della maturità di romanzi quali L’uccello che girava le viti del mondo o IQ84, ma che possiedono già quel potenziale narrativo che si svilupperà fino a determinare l’inconfondibile “stile Murakami”. Ritroviamo quindi il ritmo che caratterizza la sua scrittura e riconosciamo quel desiderio ancora balbuziente, ma già ben presente, di lasciare da parte i codici della
riFerimenTi VenTo & Flipper di Haruki murakami, einaudi edizioni, 19,50 €
scrittura giapponese. Questo elemento lo distinguerà d’altra parte dall’altro grande Murakami, Ryu, che si afferma nello stesso periodo ma che conserverà nel suo stile un’impronta tipicamente nipponica, a differenza di quello di Haruki, più “universale”. Questo spiega come mai l’autore della Ballata dell’impossibile (1987) sia riuscito a conquistare più facilmente il pubblico del mondo intero rispetto a Ryu e ai suoi Coin Locker Babies (1980). Fin dalle prime pagine di Ascolta la canzone del vento, si avverte la volontà di condurre il lettore in un universo letterario che non ha niente a che vedere col Giappone. Dopotutto, come spiega Murakami stesso, l’autore voleva fuggire dal suo Paese (lo farà, prima viaggiando attraverso l’Europa e poi andando a vivere negli Stati Uniti) e svincolarsi così dalla letteratura giapponese e dal linguaggio letterario nipponico. Ecco spiegata l’invenzione di uno scrittore americano immaginario, Derek Heartfield, o ancora, ecco il perché della scelta dell’assassinio di Kennedy come elemento cronologico chiave piuttosto che di un evento
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proprio alla storia del Giappone. Tuttavia, si avverte come questa tendenza sia ancora esitante in questi debutti letterari: quando evoca JeanChristophe di Romain Rolland come opera di riferimento per Derek Heartfield, suo mentore letterario, il narratore dimentica che questo romanzo è soprattutto apprezzato dai Giapponesi, mentre in Francia è finito purtroppo nell’oblìo. Da questo genere di dettagli, si percepisce con quanto sforzo Murakami dovrà ancora impegnarsi per raggiungere i suoi obiettivi. Flipper, 1973 non fa che confermare questo orientamento, con ancora più forza e convinzione. Vi troviamo il rifiuto del mondo dei “salary-men” giapponesi, mondo di cui Murakami non ha mai fatto parte poiché, prima di diventare scrittore, si è indebitato per aprire un jazz bar. Ecco come mai questi due romanzi brevi rivestono un interesse notevole, permettendo di leggere in prospettiva gli elementi caratteristici del mondo letterario di Murakami, quegli elementi che hanno fatto dello scrittore giapponese un autore di fama internazionale. ODAIRA NAMIHEI
zoom CUlTUra MUSICA
il Giappone a ravenna
Anche quest'anno il Ravenna Festival diventa un ponte privilegiato fra l'Italia e il Giappone.
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al 1990 il Ravenna Festival è un immancabile appuntamento estivo per tutti gli appassionati di opera e musica classica. Fondato da Cristina Mazzavillani (moglie del direttore d'orchestra Riccardo Muti), si avvale del prestigio del grande maestro (che vive e dirige spesso nella città romagnola) per attirare ogni anno un incredibile gruppo di musicisti e performer da tutto il mondo. Naturalmente a noi di Zoom Giappone interessano soprattutto gli ospiti del Sol Levante e l’edizione di quest’anno, che si terrà dal 13 maggio al 13 luglio, presenta tre chicche imperdibili. Innanzitutto Uchida Mitsuko, la più importante
Il Festival di Ravenna durante l’edizione 2015
pianista classica giapponese, che il 1 giugno eseguirà musiche di Mozart e Schubert (di cui è una delle massime interpreti). La leggendaria pianista è famosa per la profonda intelligenza con cui affronta ogni composizione, impegnata nella continua ricerca di verità e bellezza. Partendo da un nucleo classico/operistico, il Ravenna Festival si è allargato con gli anni fino a comprendere non solo altri generi musicali ma anche le arti performative. Il 14 giugno, infatti, sarà di scena Sankai Juku, lo storico gruppo di danza Butoh fondato nel 1975 da Amagatsu Ushio. Nato dalle ceneri di Hiroshima, ancora oggi il Butoh rimane un’arte tanto aliena quanto affascinante che confonde continuamente le aspettative degli spettatori occidentali (e di molti giapponesi) e premia invece un approccio disinibito che rifiuta le regole della danza tradi-
zionale. Visceralmente corporale, il Butoh va al di là della semplice tecnica per scavare nelle profondità della condizione umana alla ricerca di un valore universale. Come da tradizione i danzatori (tutti maschi) sono completamente rasati e hanno il corpo dipinto di bianco in modo da assumere un’apparenza quasi spettrale. Le loro performance sono caratterizzate da movimenti lenti e ipnotici, a volte quasi impercettibili, che spesso si concentrano su una sola parte del corpo come i piedi o le dita, mentre in altri passaggi i corpi e i volti si contorcono in modo innaturale al fine di esprimere di volta in volta estasi o dolore. La musica e altri effetti sonori, spesso usati in modo ripetitivo, naturalmente ricoprono un ruolo importante e vanno dal jazz alle percussioni, fino a semplici suoni naturali. Altrettanto importante però è il silenzio, che insieme alle scenografie tutto attorno e ad una suggestiva illuminazione di scena contribuisce a creare quelle atmosfere eteree per le quali il Butoh è famoso. L’opera che verrà presentata a Ravenna si chiama Utsushi (copia, duplicato) e costituisce un’ideale introduzione al genere, essendo un’antologia di pezzi tratti dal quarantennale repertorio della compagnia. Sotto molti aspetti il clou della presenza giapponese a Ravenna – e di tutta la rassegna – è però il concerto che Muti dirigerà il 3 luglio. Le Vie dell’amicizia è un evento speciale che ogni anno dal 1997 celebra l’amicizia e la cooperazione fra i popoli, promuovendo i valori di pace e tolleranza. Si tratta di concerti di beneficenza organizzati in città e territori segnati da drammatiche emergenze umanitarie e situazioni di conflitto. Dopo l’esordio a Sarajevo, all’epoca appena uscita dalla tragica esperienza dell’assedio durante la guerra in Bosnia, questa serie di concerti annuali ha toccato città quali Beirut, Mosca,
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zoom CUlTUra Damasco e Gerusalemme, e quest’anno è giunta a Tokyo dove Muti, il 16 e 17 marzo (pochi giorni dopo il quinto anniversario del terremoto del Tohoku), ha diretto un’orchestra mista di giovani musicisti formata dalla Tokyo Harusai Festival Orchestra e dall’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, creata dallo stesso Muti nel 2004. Questo scambio vuole celebrare l'universalità del linguaggio musicale e rientra inoltre nel quadro del 150° anniversario delle relazioni Italia-Giappone (l'Ambasciata del Giappone in Italia e la Fondazione Italia-Giappone sono sponsor dei tre spettacoli nipponici a Ravenna), che a Tokyo ha visto succedersi mostre dedicate a Botticelli, Leonardo e Caravaggio. Da molti anni Muti, ambasciatore della cultura italiana nel mondo, ha uno stretto rapporto con il Giappone che ha visitato ripetutamente, in particolare con l’Orchestra Filarmonica di Vienna. Oltre al prologo del Mefistofele di Arrigo Boito, il concerto di quest’anno si concentrerà su Giuseppe Verdi, le cui musiche sono un po’ il simbolo dell’italianità. Il programma scelto da Muti è un grande affresco sinfonico-corale tratteggiato da alcune delle pagine più celebri e più amate del compositore emiliano. In apertura il Nabucco con l’Ouverture e il possente coro “Gli arredi festivi”, seguiti dall’aria “Mentre gonfiarsi l’anima” di Attila, e ancora i ballabili del terzo atto da Macbeth e la sinfonia de La Forza del destino, per finire con il coro della processione “Gerusalem... Gerusalem... la grande” da I Lombardi alla prima crociata. Sul fronte vocale è da sottolineare la presenza del basso Ildar Abdrazakov e dei due cori del Teatro Petruzzelli di Bari e del Friuli Venezia Giulia. MARIO BATTAGLIA
inFormazioni praTiCHe raVenna FeSTiVal l’edizione 2016 si svolge dal 13 maggio al 13 lugio in diversi luoghi cardine del centro storico ravennate, ma abbraccia anche altre località romagnole quali Forlì, russi, Comacchio... il programma dettagliato sul sito http://www.ravennafestival.org/
LIBRO
mi ricordo...
Igort narra le sue avventure nella fabbrica di sogni a fumetti più grande del mondo.
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l Giappone, luogo “esotico” per antonomasia, ha da sempre attratto numerosi artisti, scrittori e creativi di ogni tipo, affascinati dalla sua diversità e da una cultura che spesso sentono come aliena. Tuttavia in alcuni casi l’incontro con il Giappone rappresenta una sorta di ritorno a casa, come se il viaggiatore straniero ritrovasse nel paese ospite delle cose che (magari senza saperlo) aveva già dentro di sé. È quanto è successo a Igor Tuveri, fumettista cagliaritano meglio conosciuto agli appassionati italiani e stranieri come Igort, protagonista degli anni ’80 con la rivista Il Pinguino e il gruppo Valvoline, e fondatore nel 2000 di Coconino Press, una delle più importanti case editrici di fumetti d’autore. Nella sua lunga carriera Igort ha lavorato, viaggiato e pubblicato libri su diversi paesi (Francia, Ucraina, Russia) ma l’esperienza di vita e di lavoro in Giappone lo ha segnato particolarmente, come testimoniano i bellissimi Quaderni giapponesi (2015). Nonostante il titolo indichi una parentela con i precedenti Quaderni ucraini (2010, 2014) e russi (2011), si tratta di un’opera molto diversa. “Quelli erano dei documentari a fumetti e la voce narrante era quella delle persone che ho incontrato in quei luoghi”, racconta Igort. “Io mi sono limitato a registrare quello che mi hanno detto, mettendolo sotto forma di racconto. I Quaderni giapponesi, invece, parlano di me e della mia esperienza personale; i luoghi e i sapori che ho scoperto, come quello del tofu fresco. È ciò che in Francia si chiamerebbe un memoire ma anche un libro di viaggio, un reportage e un saggio sulla cultura grafica del Giappone, il suo cinema, il teatro e la letteratura attraverso gli autori che ho scoperto
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o addirittura conosciuto e frequentato.” Pur essendo uscito solo l’anno scorso, questo libro è il risultato di un cammino che in realtà prosegue dal 1991 – da quando, cioè, Igort venne invitato (uno dei primi fumettisti occidentali, se non il primo) a lavorare per delle riviste giapponesi. “Spesso mi chiedono come nascono i miei disegni e le mie storie. I Quaderni giapponesi, come tutti gli altri, del resto, nascono da una serie di idee, situazioni, intuizioni. Ci sono decine di block notes nei quali gli appunti vengono messi a fuoco. Questo per dire, alla maniera orientale, che il foglio bianco non è che il capolinea di un lungo cammino creativo. Il disegnare in sé non è un problema, ma non sarebbe possibile nessuna tavola senza un processo di sedimentazione. Si vive con le storie per anni, anche decenni, e queste crescono dentro di te in modo organico. Si tratta di una vera e propria gestazione”. Nel lavoro di Igort ci sono sempre stati diversi segnali di interesse per la cultura nipponica. Lui stesso dice (e non si sa fino a che punto scherzi) che probabilmente in una vita precedente era stato giapponese. Così, quando la Kodansha (una delle maggiori case editrici dell’Arcipelago) gli propose un contratto dalle condizioni favorevoli, non esitò a volare a Tokyo. “Sono stato fortunato perché non mi è stato chiesto di simulare lo stile giapponese. Volevano semplicemente lavorare con me e farmi raccontare le mie storie a modo mio. L'esperienza è stata naturalmente molto positiva. Fortunatamente il mio lavoro è stato molto apprezzato dal pubblico locale che, malgrado quello che si pensa, è molto caldo e ti scrive delle bellissime lettere”. Igort ricorda ancora con affetto il primo importante soggiorno a Tokyo, quando si stabilì a Sendagi, un quartiere tradizionale della capitale. “Era ed è tutt’oggi una zona antica in cui il tempo sembra essersi fermato. Molto propizia per chi,
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Estratto di Quaderni giapponesi. Un viaggio nell’impero dei segni
come me, racconta storie. Ogni mattina mi alzavo presto e andavo verso Yanaka, a piedi, per le mie sessioni di zazen (meditazione buddhista). Il quartiere lo esplorai da cima a fondo, in lunghe camminate quotidiane. C’erano scuole e parchi vicino a casa mia. La zona antica è tuttora una delle mie preferite di Tokyo, ci torno tutti gli anni. E vedo che malgrado i cambiamenti inevitabili per una città in perenne movimento, l’atmosfera sospesa nel tempo rimane immutata”. All’inizio degli anni ’90 il fumetto giapponese si era già affermato in Occidente grazie a opere come Akira di Otomo Katsuhiro, che avevano stupefatto i lettori non solo per la loro qualità artistica ma anche per la lunghezza e complessità delle loro storie. “Per me la cosa più interessante era il lavoro di equipe sul quale si reggevano queste saghe interminabili. In questo senso il Mishroom Studio di Otomo era radicalmente diverso dalla visione individualista dell’arte che c’è in Occidente. In Giappone ancora oggi c’è l’autore che scrive e disegna, ma è molto importante il suo editor che
assiste al “parto” e dice la sua, e poi uno staff di assistenti che solitamente disegnano e inchiostrano le tavole che non comprendono i personaggi principali. In pratica è come se l’autore (mi riferisco naturalmente ad autori importanti che possono permettersi queste cose) fosse come un regista cinematografico”. Ogni volta che Igort ritorna col pensiero a quegli anni straordinari non può fare a meno di soffermarsi su colui che chiama “la mia ombra”, ovvero Tatsumi-san, il suo editor personale che lo aiutò a capire come funzionava “la fabbrica di sogni a fumetti e cartoons più grande del mondo”. “Quando partii per il Giapppone odiavo l’idea dell’editor perché mi sembrava un intralcio al processo creativo. Ma capii subito che Tatsumi era molto competente. Il suo era un sistema di lavora-
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zione quasi socratico nel senso che non mi imponeva niente; mi poneva una serie di domande e in questo modo mi faceva da specchio. Ad esempio poteva chiedermi cose molto specifiche sull’uso del montaggio per vedere quanto fossi in grado di controllare la macchina racconto. Si parlava di fumetti ma in totale libertà, con una mancanza di pregiudizi che invece mancava in Europa”. Parlando di diversità, Igort ricorda ancora con un misto di terrore e nostalgia l’impatto scioccante con i ritmi forsennati dell’industria dei fumetti giapponesi. “Era il 1996 e Yuri, la mia seconda serie, era già uscita sul settimanale a fumetti Comic Morning. Ero appena arrivato dall’Italia e tra il fuso orario e la mancanza di sonno ero stanchissimo. Ma Tsutsumi arrivò al mio albergo e mi mise subito al lavoro: per due settimane dovetti creare ogni giorno una storia di 16 tavole, disegni e testi, da far tradurre e consegnare il mattino dopo. Questo era il suo modo di vedere se sarei stato in grado di reggere i loro ritmi, per noi impensabili. Confesso che fui sul punto di mollare tutto e tornare in Italia. Un’altra volta rimasi colpito nell’incontrare l’autore di Gamma, the Iron Man, che mi disse «Sto bene; dormo quasi cinque notti su sette». La prospettiva che questa potesse diventare la mia vita mi atterriva. Poi una sera, a una festa, incontrai Kawaguchi, un autore di best seller della Kodansha, e lo invitai a trascorrere un paio di settimane di vacanza da me in Sardegna. Fui preso da parte dai miei editor che mi chiesero se fossi impazzito: «Non capisci che se lui va in vacanza la nostra rivista perde circa trecentomila lettori alla settimana?». In Giappone in un certo senso avere successo vuol dire diventare schiavi del proprio lavoro. Quindi, ad esempio, niente viaggi”. Un altro aneddoto che Igort racconta raramente (forse per
pietà) riguarda la dedizione che gli editor di fumetti hanno per il loro lavoro. “Io avevo una scrivania nella redazione della Kodansha. Quando arrivavo vedevo sempre delle scatole di cartone sfasciate che stonavano nell'economia di una redazione così operosa e precisa. Io chiedevo perché nessuno le buttasse via ma loro si rifiutavano di rispondermi. Poi una volta, dopo avere bevuto qualche bicchiere hanno abbassato la guardia. Io sono tornato alla carica e così mi hanno detto: «Ma insomma, sei qui da tanti mesi e non l'hai ancora capito? Ci dormono gli editor»”. Questa esperienza professionale a volte estrema ha finito con l’influenzare sia lo stile che il modo di lavorare di Igort. “Per me è stato l'inizio di una nuova vita perché ho capito molto di più di me stesso in quelle prime due settimane passate in Giappone che nei diciotto anni di professione in Europa. Quando devo iniziare una nuova storia di solito trovo tutti i modi per distrarmi: vado a prendere un libro, devo farmi un caffè. Lì ho scoperto che potevo disegnare sedici pagine e scrivere soggetto e sceneggiatura di una storia in un giorno”. Al di là dei ritmi di lavoro forsennati, Igort ribadisce la fondamentale alterità del fumetto giapponese rispetto a quello occidentale. “Sono stati proprio editor come Tatsumi a farmi capire che se volevo lavorare in Giappone dovevo conoscere la grammatica del manga, perché era evidente che se anche in apparenza poteva somigliare al nostro fumetto, era in realtà totalmente diversa. Il disegnatore argentino José Muñoz, ad esempio, diceva che il silenzio nei moderni romanzi grafici è un lusso che non possiamo concederci perchè è la mancanza di tempo ad imporre il ritmo alla storia. A me invece interessa raccontare la vita, non il ritmo, e la cultura giapponese ha sicuramente avuto un forte peso nell’importanza che attribuisco al silenzio. Pensa ad esempio ad un regista come Ozu. Lui usava mettere delle inquadrature che
Fabrizio Marchesi
zoom CUlTUra
Igor Tuveri.
non avevano un vero e proprio scopo narrativo, ma fungevano da intervallo; delle piccole pause qua e là per far respirare il racconto, dilatandolo e modificandone la lettura. Questo elemento è stato molto importante per il mio lavoro. Se la mancanza di tempo impone una narrazione scandita dal ritmo, io cerco invece di andare nella direzione opposta”. Visto che Igort è in procinto di ripartire per il Giappone, gli chiediamo come è cambiato secondo lui il paese in questi 25 anni (a parte il fatto che la gente sui treni e in metropolitana non legge più fumetti, libri e giornali ma passa invece il tempo a navigare su Internet). “Sarebbe un discorso molto lungo. Sono cambiate moltissime cose. In generale mi pare che il Giappone si sia aperto maggiormente all’Occidente. Negli anni ‘90 era molto difficile muoversi se non conoscevi il giapponese e anche parlando la lingua ricordo l’espressione di stupore misto a timidezza della gente quando chiedevo
delle informazioni. Oggi forse il rischio è che il Giappone, specie nelle metropoli, perda il suo carattere e si occidentalizzi troppo”. Un’ultima domanda prima di lasciarci: che consiglio darebbe a un fumettista che aspirasse a lavorare nell’industria giapponese? “Occorre molta devozione nei confronti del lavoro e sapere ascoltare, perché gli editor giapponesi molto spesso sono degli esperti di storytelling. Serve dunque molta forza per conoscere il proprio universo e le proprie qualità e al tempo stesso essere disponibili ad accogliere commenti e osservazioni di chi lavora nella fabbrica dei sogni disegnati”. JEAN DEROME
riFerimenTi QUaderni GiapponeSi. Un ViaGGio nell’impero dei SeGni di igort, Coconino press, 19 €
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zoom CUCina TENDENZA
l'impero del ramen
La storia dei noodles in brodo procede parallelamente all'evoluzione del Paese.
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
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onsapevole dell'importanza assunta dalla cultura popolare nelle relazioni commerciali e nella diffusione dell'immagine del Paese, il governo giapponese sta raddoppiando gli sforzi per promuovere i manga, la letteratura, i cartoni animati e la cucina dietro lo slogan ormai celebre di Cool Japan. Il sushi e il sashimi sono diventati i simboli nel mondo intero della raffinatezza della cucina giapponese. Tuttavia, la gastronomia nipponica non si riassume al pesce crudo o alla cucina kaiseki servita nei ristoranti di lusso. Esiste una cucina popolare e conviviale che si può provare in migliaia di ristoranti sparsi nel Paese. Molti Giapponesi sono pronti a fare centinaia di chilometri per gustare in un certo ristorante il ramen, la deliziosa pasta in brodo che da sola incarna il carattere cool della cucina giapponese. La storia di questo piatto è d'altra parte ricca di insegnamenti. L'apertura al resto del mondo e in particolare alla Cina ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione della pasta nell'arcipelago. “È all'inizio dell'era Meiji, nel momento in cui il Giappone usciva dal suo isolamento, che la cucina fondata sui noodles è apparsa nel quartiere cinese di Yokohama. All'epoca, si trattava di shio ramen, ovvero ramen a base di sale. I Giapponesi vi hanno aggiunto la loro salsa di soia in brodo, creando gli shoyu ramen, che si sono diffusi progressivamente nell'arcipelago. Nel corso di questo processo di diffusione, si sono viste apparire diverse varianti locali. Ecco perché esistono attualmente circa quaranta tipi di ramen. In un Paese dove la cultura locale è molto sviluppata in particolare in cucina, solo i noodles sono riusciti a conquistare l'insieme del territorio”, ricorda il critico gastronomico Hantsu Endo. A partire dagli anni Venti si sono sviluppati un po' ovunque nelle città dei ristorantini di ramen.
I prezzi economici attirano soprattutto le classi popolari che possono così pagarsi un piatto caldo. La maggior parte dei ristoranti di questo tipo aprono non lontano dalle stazioni o delle gallerie commerciali (shotengai) nel centro città. “In occidente, il ramen è piuttosto caro rispetto ai prezzi della cucina ordinaria. In Giappone è il contrario: nel nostro Paese, se si prende come riferimento un biglietto da 1000 yen (9,30 euro), qualunque piatto che costa meno di questa somma rientra nella categoria B (Bikyu
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gurume), ovvero rappresenta una cucina semplice. Una scodella di ramen costa tra i 600 e i 900 yen. Questo ha senza dubbio contribuito a farne un piatto molto popolare. La seconda ragione riposa sul fatto che il ramen si integra perfettamente alle abitudini alimentari dei Giapponesi. Da molto tempo queste si riassumono in “riso, pietanza e brodo di miso”. Esiste d'altra parte un'espressione in giapponese, shushoku purasu ichiju issai (un piatto consistente, più uno liquido, più un
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zoom CUCina
contorno), che corrisponde perfettamente all'equilibrio nutrizionale dei Giapponesi. Il ramen è il solo piatto che concentra questo principio in un solo recipiente”, prosegue Hantsu Endo. Il ramen conquistò l'insieme della popolazione all'indomani della Seconda Guerra Mondiale. Nel film di Ozu Yasujiro, Il sapore del riso al tèverde (Ochazuke no aji), uscito nel 1952, una scena illustra molto bene la scoperta del ramen di una parte della popolazione, più abituata ad altri alimenti. Si vede una giovane donna che entra per la prima volta in un ristorante di ramen per essere "iniziata" dai suoi amici. «È caldo», dice lei portando alla bocca la scodella riempita di brodo. «È per questo che è buono», risponde
lui laconicamente. I gesti un po' maldestri della ragazza contrastano con la scioltezza del ragazzo, perfettamente a suo agio in questo posto dove si mangia “bene e a buon mercato”. “Nel corso degli anni la popolarità del ramen cresce e si moltiplica anche grazie al lancio dei primi noodles istantanei (insutanto ramen) da parte della casa Nissin nel 1958. Il successo è immediato. Quando nel 1971 la stessa società propone i suoi cup noodles, il ramen diventa la risposta giapponese all'americana Mac Donald's, che arriva nell'arcipelago durante lo stesso anno. Il film di Itami Juzo, Tampopo (1985) finisce per nobilitare questo piatto diventato indissociabile dalla cultura culinaria e popolare giapponese.
L'idea di fare del ramen il soggetto principale del film, non solo ha contribuito a rafforzarne la popolarità, ma anche a migliorarne l’immagine. I ristoranti di ramen hanno quindi visto il loro status elevarsi. Fino all'uscita di questo film, la maggior parte dei Giapponesi non aveva una buona opinione del lavoro nei ristoranti di ramen. Tampopo ha cambiato completamente questa percezione negativa. Oggi certi proprietari di ristoranti sono diventati celebri e la professione figura fra le più onorate”, conferma Hantsu Endo. Per convincersene, basta recarsi nelle librerie dove gli scaffali consacrati al ramen traboccano di volumi. GABRIEL BERNARD
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zoom CUCina L A RICETTA DI HARUYO Torre di pancakes (per i golosi!) Il pancake, chiamato hotcake in Giappone, ha guadagnato sempre più popolarità tra i Giapponesi negli ultimi anni, come molti altri dolci tipicamente occidentali. Questa torre è semplice da preparare e ha per protagonista il frutto di maggio per eccellenza, le fragole.
PREPARAZIONE Per i pancakes 1 - In una ciotola capiente, sbattere con una frusta le uova con lo zucchero. 2 - Aggiungere il lievito setacciato con la farina e mescolare con una spatola. 3 - Incorporare il latte e l’estratto di vaniglia. 4 - Ungere appena una padella e farla scaldare. 5 - Versare la pastella con l’aiuto di un mestolo e far cuocere due o tre minuti per lato, quindi tenere da parte i pancakes ottenuti. Per la farcitura 1 - Ottenere la crema chantilly montando la panna con lo zucchero. 2 - Lavare e mondare le fragole, quindi tagliarle a metà. 3 - Disporre la crema sul pancake più grande con l’ausilio di un sac à poche, aggiungere le fragole e coprire con il pancake di grandezza appena inferiore. 4 - Ripetere fino ad esaurimento degli ingredienti. 5 - Servire subito o conservare in frigorifero. Nota Quando le fragole non sono di stagione si possono sostituire con lamponi, mirtilli, banana, mela… Meglio tuttavia non scegliere frutta troppo succosa.
INGREDIENTI (per 4 persone) Per la pastella 2 uova 80 g di zucchero 70 g di farina 1 cucchiaino da caffè di lievito chimico in polvere 3 cucchiai di latte estratto di vaniglia q. b.
Per farcire 200 ml di panna fresca liquida 20 g di zucchero Fragole q. b.
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Il tempio Shoraku-ji rivendica la paternità del sakè, come sostiene l’iscrizione di questa stele all’ingresso.
Kansai per gourmet Le due antiche capitali imperiali vantano numerosi siti storici e una solida tradizione gastronomica.
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ara e Kyoto rappresentano destinazioni imperdibili per chi viaggia in Giappone; le due antiche capitali imperiali nascondono innumerevoli tesori. I templi, i santuari, i giardini zen e gli edifici storici sono in gran numero e le pagine delle guide turistiche vantano il fascino e l'importanza di questi monumenti da vedere assolutamente.
Il celebre Padiglione d'Oro o lo straordinario Kiyomizu-dera a Kyoto non mancano di attrattive, così come il Todai-ji o il Kasuga-taisha a Nara, e non è possibile passare attraverso queste due città, che hanno avuto un ruolo cruciale nella storia del Giappone, senza fare una sosta in questi luoghi così carichi di significato. Oltre alle ricchezze architettoniche e storiche, le due città dispongono di altre attrattive che non lasceranno indifferenti gli esploratori del gusto. Così come i turisti italiani e francesi si avventurano lungo le vie dei vini in Europa per scoprire i vitigni e le cucine regionali, è possibile
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in Giappone intraprendere un viaggio a Kyoto e a Nara seguendo la stessa idea. Le due città costituiscono due bastioni della gastronomia nipponica e propongono una cucina ricca e varia quanto la storia inscritta nei numerosi monumenti. Inoltre, i due centri nascondono diversi produttori di sakè, bevanda degli dei che si sposa benissimo con i piatti saporiti serviti negli innumerevoli ristoranti presenti nelle città storiche. Per cominciare questo itinerario storico-gastronomico, prendiamo la direzione di “Nara dai colori squillanti, come i fiori che si aprono profumati, nel
pieno della sua beltà”, così come è descritta in questo poema del Man’yoshu, la prima antologia di poesia giapponese risalente all’VIII secolo. Capitale imperiale dal 710 al 784, Nara ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo di certi elementi caratteristici della cultura giapponese, il sakè in particolare. Basta recarsi al tempio di Shoraku-ji, fondato nel 989, per rendersene conto. Qui i monaci buddisti hanno messo a punto il primo moto, ovvero l'elemento senza il quale la fermentazione non può cominciare. Prima di entrare in questo piccolo complesso monastico che occupava un tempo un vasto territorio, il visitatore si trova di fronte una stele su cui sta scritto che questo è il luogo dove è nato il sakè. “Disponiamo di un'acqua purissima. Questo ha contribuito allo sviluppo della produzione di sakè”, racconta Ohara Koshin, direttore del tempio. Questo legame con l'universo religioso non è sorprendente poiché il sakè era prima di tutto una bevanda sacra all'epoca. La sua consumazione serviva al tempo stesso a relazionarsi con la dimensione divina e a tessere legami sociali. Il sakè occupava uno spazio fondamentale nei riti, i quali rappresentavano a loro volta la ragion d'essere dello Stato. Ai giorni nostri, la consumazione di questa bevanda ha oltrepassato le frontiere del sacro anche se rimane intimamente legata alle numerose cerimonie rituali che si svolgono in diversi momenti dell'anno. “Per contribuire alla rivitalizzazione della città, in questi ultimi anni abbiamo investito parecchio nella ricerca degli elementi che ci avevano permesso di essere dei precursori. Abbiamo raggiunto importanti obiettivi e forniamo il nostro moto a nove produttori locali”, confida il monaco, orgoglioso di presentare qualche bottiglia in vendita sul posto. “Se il buon senso, per rispetto verso i religiosi, non autorizza che si gusti un po' di questo nettare delizioso contemplando il magnifico giardino dello Shoraku-ji, è al contrario possibile e addirittura consigliato stappare una buona bottiglia di sakè e approfittare pienamente della comunione con la natura se trascorrerete la notte nel magnifico albergo Tsukihi-tei, situato a dieci minuti appena
Lo Tsukihi-tei per passare una notte straordinaria
dal santuario Kasuga-taisha e dal tempio Todai-ji. Costruito nel 1903 per accogliere gli ospiti del governatore della prefettura di Nara, questo albergo si trova in una zona sacra. Viene servita una cucina raffinata e le camere in stile giapponese - ce ne sono soltanto tre - offrono una splendida vista sulla foresta di Kasugayama, iscritta nel Patrimonio mondiale dell'Umanità. Se siete tentati dall'idea di passare la notte in un luogo isolato dall'agitazione del centro, potete poi optare per il Mikasa, un hotel sulla collina che domina la città imperiale con una vista impareggiabile sul Todaj-ji. Alcune camere, ce ne sono sia in stile giapponese che occidentale, propongono dei bagni termali all'esterno (rotenburo). Per quanto riguarda il lato gastronomico, il Mikasa mantiene l'alto livello della struttura e i gourmet saranno più che soddisfatti, in particolare durante la cena, dopo una lunga passeggiata nella città. Poter rilassarsi in un bagno caldo, indossare uno yukata (kimono leggero in cotone) e così vestiti recarsi a cena è una delle piacevoli possibilità offerte dal Misaka, a dif-
ferenza della maggior parte degli altri hotel dagli standard più classici. Fra i numerosi siti che bisogna assolutamente visitare in quest'antica città figura senza dubbio il Naramachi, ovvero il centro antico. L'intreccio di stradine riserva una miniera di soprese. Gli edifici costruiti nelle diverse epoche storiche celano ogni tipo di commercio, dalle farmacie tradizionali ai droghieri, passando poi per l'incredibile ufficio postale in cemento di Nara Gango-ji, in prossimità del tempio omonimo. Questi luoghi sono permeati di fascino e, se il bel tempo è dalla vostra parte, trascorrerete ore a fotografare ogni angolo. Per saperne di più su questo quartiere, l'appuntamento è alla Naramachi Nigiwai no ie, un edificio destinato al commercio costruito nel 1917 e perfettamente conservato, visitabile tutto l'anno. Oltre a un meraviglioso giardino e a belle stanze in tatami, questa splendida costruzione dispone di una cucina tradizionale (kamado) dove è possibile gustare del riso cucinato secondo tecniche ancestrali e seguire corsi di cucina. Non è un semplice museo. La Naramachi Nigiwai no ie è un centro di promozione della cultura locale, vi vengono organizzate conferenze, corsi, concerti e altri eventi. Non lontano si trova il Shika no fune, un piccolo complesso turistico creato da un antico magazzino trasformato in galleria d'arte, da una casa di inizio Novecento cui si può accedere per consultare dei libri o assistere a conferenze, di un ristorante dall'architettura contemporanea ma dove vengono preparati piatti a base di ricette antiche e infine di un caffè dove fare una sosta piacevole in un ambiente moderno. Per il suo ideatore, che lavora in stretto contatto con la municipalità, questo centro rappresenta un nuovo modo di avvicinarsi ai turisti e di far loro scoprire in un unico posto diversi aspetti della città. A capo della società Kurumi no ki, gestore del complesso Shika no fune, Kubo Toshihiro è convinto che questa nuova forma di servizio permetterà alla sua città di attirare un numero maggiore di visitatori, sfruttando al massimo il potenziale turistico del luogo.
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Il “cuoco della terra” propone alla sua clientela una cucina semplice e essenziale.
Per questa ragione, ha aperto nel ristorante una piccola boutique dove si trovano soltanto prodotti locali, per incrementare la vendita delle specialità del posto. Una delle specialità più rare ha per nome narazuke o condimenti di Nara. Il loro colore e aspetto - spesso sono neri come carbone - possono risultare dissuasivi e non proprio invitanti, rispetto agli tsukemono serviti abitualmente durante i pasti giapponesi. Il colore scuro è dovuto all'uso della vinaccia di fermentazione del sakè per la macerazione degli ingredienti (cetriolo, melanzana, rape, ecc.) al posto del sale, dell'aceto o della salsa di soia. Generalmente, il narazuke è lasciato maturare da sei mesi a un anno e assume un colore ambrato. Uno dei più anziani produttori di narazuke ancora in attività, Imanishi Honten, ha sviluppato un periodo di maturazione molto più lungo, dai tre ai sedici anni, il che dà agli alimenti un colore ancora più scuro, nero pece. Il metodo permette di eliminare il sale e l'umidità degli alimenti e fa sì che possano essere conservati più a lungo, fino a due anni dopo l'apertura. Passando dalla boutique di Honten, il visitatore può scoprire la varietà degli ingredienti utilizzati e i prezzi talvolta straordinariamente alti di qualche prodotto, dovuti alla loro rarità. Possono essere regali originali da offire anche perché la tecnica impiegata da Imanishi Honten elimina l'odore caratteristico di salamoia proprio ai narazuke. Ciò permette di degustarli ad esempio con del formaggio.
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Come andare
Per accompagnare il suo sushi, Onishi Toshiya propone dei rari ed eccellenti sakè.
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Se vi trovate a Tokyo, basta prendere il Tokaido Shinkansen per Kyoto, ci sono più partenze ogni ora. Si cambia, passando alla linea Kintetsu, nella stessa stazione che vi porterà a nara. Se siete a osaka, i treni della compagnia Kintetsu in partenza dalle stazioni di namba o Ueomachi vi portano fino a nara o Kyoto. Se rimanete uno o due giorni in queste città, procuratevi un pass valido un paio di giorni (1500 e 2000 yen) che vi permetterà di prendere tutti i treni della compagnia e i bus della linea nara Kotsu.
zoom ViaGGio Okuda Masaaki, proprietario del ristorante Kawanami, non propone questo genere di sposalizio gustativo. Presentandosi come “un cuoco della terra” (tsuchi no ryorinin), mette in risalto una cucina che ha come protagoniste verdure biologiche coltivate dallo chef stesso e servite in ciotole di terracotta, anche queste da lui realizzate. Il suo piccolo locale aperto da mezzogiorno alle 14h00 e dalle 17h00 alle 21h00 (prenotazione obbligatoria la sera telefonando allo 0742-35-1873) ha un aspetto qualunque, ma la cura che porta alla realizzazione dei piatti e la qualità dei prodotti ne fanno un posto unico e immancabile, tanto più che si trova sulla strada che coduce alla stazione Kintetsu ShinOmiya, sulla linea Kintetsu Nara, con la quale è molto pratico raggiungere Kyoto, seconda tappa del nostro itinerario storico-gastronomico. Su questa linea particolarmente frequentata tra le due antiche capitali imperiali, circolano diversi treni. Fra questi, potete prendere il Shimakaze, un treno fuori dal comune che offre un confort straordinario grazie al quale il passeggero può godersi il paesaggio seduto su poltrone soffici. Il Shimakaze serve la regione di Ise-shima partendo da Osaka, Kyoto e Nagoya. Il servizio è rivolto soprattutto ai viaggiatori che ricercano un livello di confort elevato per effetttuare le tre ore di viaggio circa che li separano dal capolinea, ma merita almeno che lo si prenda per la tratta di trenta minuti tra Nara e Kyoto, per farsi un'idea della qualità del servizio e delle prestazioni proposte da questo convoglio ribattezzato giustamente Premium Express. Ciò permette di mettersi nelle migliori condizioni per partire alla scoperta di Kyoto e della sua ricchezza gastronomica. Il primo contatto con la città è l'immensa stazione. Nel 2017 si celebrerà il ventesimo anniversario del suo completo rinnovamento ad opera del talentuoso Hara Hiroshi. L'architetto ha creato un insieme innovativo di 238 000 metri quadrati, dove gli impianti ferroviari non occupano che 12 000 metri quadrati. Questo gigantesco complesso vale il viaggio. Ma torniamo alle nostre mete gastronomiche. Nonostante la stazione offra numerosi ristoranti, questi si rivolgono soprattutto a
viaggiatori frettolosi. La cucina è quasi sempre di buon livello, ma quando si viene a Kyoto per la prima volta, bisogna puntare su quei ristoranti dove la qualità dei piatti sarà all'altezza del prestigio di una città che ha segnato la storia del Paese e che rimane uno fra i gioielli architettonici del Giappone. Iscritta nella lista del Patrimonio Mondiale dell'Unesco, la città di Kyoto vanta numerosi locali che rendono omaggio alla gastronomia giapponese, anch'essa registrata all'Unesco come Patrimonio Immateriale dell'Umanità. A una decina di minuti dall'uscita principale della stazione, si trova Sushi Iwa, il ristorante tenuto da venticinque anni da Onishi Toshiya. Nel suo locale, che ricorda certe piccole trattorie dei quartieri popolari di Tokyo, il maestro sushi propone una cucina raffinata dove la varietà e la qualità del pesce creano la differenza rispetto a un ristorante ordinario di pesce crudo. Se avete la fortuna di essere seduti al bancone, potrete vedere con quale destrezza lo chef taglia e sistema il pesce su magnifici piatti in porcellana che valgono da soli lo sforzo di recarsi qui. Sempre sorridente, il cuoco parla inglese e risponde volentieri a tutte le domande che il cliente poco esperto pone sul pesce servito, e ha sempre degli eccellenti consigli in materia di sakè. Proprio la “bevanda degli dei” è l'altro punto forte di questo ristorante, dove è gradita la prenotazione (tel. 075-371-9303, dalle 11h00 alle 22h30, chiuso il lunedì). Dietro la postazione dello chef fanno bella mostra di sé decine di bottiglie di sakè, alcune sprovviste di etichetta distintiva. Anche se la possedessero, bisognerebbe essere davvero un provetto intenditore per ritrovarsi in mezzo a questa scelta incredibile. Onishi Toshiya è un appassionato e un esperto conoscitore di sakè; per lui “la degustazione di un buon pesce crudo non può esimersi dall'essere accompagnata da un sakè eccellente”. Se non è lui stesso a proporlo, non esitate a chiedergli di assaggiare il Matsumoto, ne possiede qualche bottiglia. Questo raro sakè è disponibile solo in pochissimi ristoranti della città fra cui proprio il Sushi Iwa.
Una meraviglia assoluta che si sposa perfettamente con la cucina di questo chef gioviale grazie al quale l'idea preconcetta che i Kyotoiti siano altezzosi nei confronti dei turisti, si vanifica completamente. Secondo l'ora del giorno o della notte in cui uscirete da questo affascinante locale, potrete sia camminare verso il vostro hotel, se questo non è troppo lontano, oppure fare una passeggiata in direzione del Palazzo Imperiale, esplorando le stradine che celano ancora antiche botteghe artigiane e curiosi negozietti. “Per creare Kyoto, non sono solo state necessarie generazioni di imperatori esteti, di architetti, di costruttori, di giardinieri, di cesellatori, di poeti, di orefici, di appassionati, di smaltatori, di filosofi, di urbanisti, di artigiani e di artisti, ma è stato anche necessario
CarneT di indirizzi Shoraku-ji 157 Bodaisen-cho, nara 630-8413 Tel. 0742-62-9569 - ingresso: 400 yen Tsukihi-tei 158 Kasugano-cho, nara 630-8212 Tel. 0742-26-2021 a partire da 28 080 yen a testa mikasa 728-10 Kawakami-cho, nara 630-8202 Tel. 0742-22-5471 - www.naramikasa.com a partire da 14 000 yen a testa imanishi Honten 31 Kami Sanjo-cho, nara 630-8228 Tel. 0742-22-2415 Kawanami Sawai Bldg. 101, 4-6-14 Shibatsuji-cho, nara 630-8114 Tel. 0742-35-1873 - www.nara-kawanami.jp Sushi iwa Shimojuzuyamachi-dori ainomachi nishiiru, Shimogyo-ku, Kyoto 600-8155 Tel. 075-371-9303 - www.sushiiwa.jp mankamero 387 ebisu-cho, Kamigyo-ku, Kyoto 602-8118 Tel. 075-441–5020 - www.mankamerou.com Hyotei 35 Kusakawa-cho, nanzenji, Sakyo-ku, Kyoto 606-8437 Tel. 075-771-4116 - www.hyotei.co.jp/en/
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Nel passato, la cerimonia dello shikibocho era esclusivamente riservata all’imperatore.
che la città fosse così pura, così perfetta da spingere i soldati e i signori della guerra senza scrupoli a compiere sempre un passo indietro davanti ad essa, risparmiandole la distruzione”, ricordava il giornalista Marcel Giuglaris nel suo libro Visto per il Giappone, pubblicato nel 1958. Basta una tranquilla passeggiata per comprenderlo. La forza di attrazione della città, coi suoi 1600 templi buddisti, i suoi quattrocento santuari shintoisti e i suoi tesori inestimabili, è stata sempre potente e lo è ancora oggi. “Kyoto è la sola città al mondo dove il passato e il presente si intrecciano così naturalmente. A Tokyo, i luoghi antichi si sono completamente trasformati e sono irriconoscibili. Qui, ogni pietra, ogni albero, ogni rumore, ogni animale, tutto è rimasto identico”, è stato scritto a proposito di questa forma di continuità col passato che si ritrova nella moltitudine di luoghi da visitare. Questa continuità è presente anche nella cucina e la nostra prossima tappa gastronomica ne è una delle migliori illustrazioni. Il Mankamero (dalle 17h00 alle 23h00, preno-
tazione consigliata) si inserisce perfettamente in questa tradizione culinaria di cui Kyoto è uno dei grandi centri storici. Il luogo stesso ricorda quegli alberghi che si vedono spesso nei film di samurai. Se ci si va quando cala la sera, l'atmosfera è misteriosa e intrigante. Cosa può nascondersi dietro il grande noren (tenda di tessuto sulla quale compare il nome del locale) che protegge l'ingresso del ristorante? Di sicuro una lunga esperienza incarnata splendidamente da Ikama Masayasu. Egli è il ventinovesimo membro della dinastia di commercianti che hanno gestito il Mankamero, la cui fondazione risale al 1722. È uno dei rari chef giapponesi a poter eseguire la cerimonia del shikibocho, che consiste nell'intagliare un pesce per farne una sorta di scultura. Risalente al XIV secolo, questa cerimonia era riservata all'imperatore. Oggi rimane un privilegio ma ogni cliente può assistervi in questo ristorante specializzato nella cucina yusoku, ovvero preparata per i membri della famiglia imperiale. Il conto, al termine del pasto, è piuttosto salato.
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La raffinatezza dei piatti e dell'ambiente si pagano cari, bisogna prevedere tra 10 000 e 30 000 yen per persona a seconda del menù scelto. L'originalità del posto e la sua lunga storia ne fanno comunque sempre un must per i gourmet. Se non avete la "fibra aristocratica" e volete malgrado tutto scoprire un monumento della cucina locale, non perdetevi Hyotei (aperto dalle 11h00 alle 19h30, chiuso il secondo e quarto martedì di ogni mese, l'annesso è chiuso il giovedì) creato circa quattrocento anni fa. All'epoca era soltanto una casa da tè dove i pellegrini diretti al tempio Nanzen-ji si fermavano per riposarsi un po'. Venivano serviti, oltre al tè e ai pasticcini, delle uova il cui segreto di cottura non ha mai oltrepassato le mura del locale. Le famose uova di Hyotei sono ancora una delle specialità nella cucina kaiseki. Come il Mankamero, lo Hyotei è un luogo carico di storia, con le sue piccole case da tè dove si servono pasti composti da una moltitudine di piatti, uno più raffinato dell'altro. Il piacere sta sia nella presentazione che nel gusto. Se si aggiunge la bellezza del luogo e la serenità emanata dalla natura circostante, tutti i sensi si risvegliano una volta seduti a tavola. I prezzi sono alti (a partire da 23 000 yen a mezzogiorno e 27 000 yen a cena). Si può tuttavia andare nel ristorante annesso che propone dei bento altrettanto gustosi ma a costi decisamente più abbordabili (5400 yen). Marchio di fabbrica della tradizione culinaria di Kyoto, il kaiseki è imperdibile. Tanto vale gustarlo in un luogo così radicato nel passato di questa città. Come scrive Marcel Giuglaris, “non si può descrivere Kyoto, ci si deve lasciare guidare dalla città, e condurre fuori dal tempo” . La cucina costituisce un eccellente mezzo per penetrare nella storia della città. È sufficientemente leggera per non impedirvi di proseguire la visita delle altre ricchezze architettoniche, spirituali, artistiche e storiche di cui il centro trabocca. Non sarete mai lontano da un tempio, da un santuario, da un museo... GABRIEL BERNARD