Zoom Giappone 04

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CULTURA

VIAGGIO

Incontro con Yu Miri pag. 19

Un antico borgo marittimo pag. 32

gratuito - numero 4 - gennaio - marzo 2017

www.zoomgiappone.info

È l’ora del tè

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone


ZOOM EDITORIALE

Elemento irrinunciabile fra le abitudini quotidiane dei giapponesi, il tè (cha in giapponese) rappresenta un’importante e antica tradizione. Pur rimanendo una bevanda molto diffusa nell’arcipelago, la sua consumazione diminuisce costantemente. In concorrenza con altre bevande provenienti da altri continenti e da altre culture, il tè è alla ricerca di nuovi spunti per mantenere il suo primato fra le bevande preferite dal popolo nipponico. I suoi difensori cercano di trovarne inedite qualità o di proporre nuovi modi per consumarlo. Il vostro nuovo ZOOM Giappone vi propone così di scoprire l’evoluzione di questa tradizione. Potrete poi partire sulle tracce del grande fotografo Ueda Shoji per scoprire la magnifica regione di Tomo No Ura.

L O SGUARDO DI ERIC RECHSTEINER Quartiere di Shibuya, Tokyo

© Eric Rechsteiner

O-cha desu!

Il kagura è un rituale artistico che consiste in una danza teatrale e affonda nel mito, come suggeriscono le antiche cronache storiche quali il Kojiki. Queste danze furono all’inizio appannaggio esclusivo della corte imperiale, poi ispirarono i sato-kagura (kagura di villaggio) che conobbero una grande popolarità in tutto l’arcipelago. Questa rappresentazione presso il santuario di Hikawa, a Tokyo, ne è l’illustrazione.

LA REDAZIONE redazione@zoomgiappone.info

È la percentuale delle imprese giapponesi che riconoscono che alcuni fra i loro impiegati svolgono più di 80 ore di straordinario ogni mese. Il 12% afferma addirittura che alcuni fra i lavoratori superano le 100 ore di straordinario al mese.

22,7%

Copertina : Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

SESSO

Il paradosso giapponese

POLITICA Una

Secondo uno studio recente, i Giapponesi fra i 18 e i 35 anni hanno sempre meno rapporti sessuali. Effettivamente, il 42% degli uomini e il 44% delle donne compresi in questa fascia di età rivela di essere vergine. Nel 2010, questa condizione riguardava il 36,2% degli uomini e il 38,7% delle donne fra i 18 e i 35 anni. Una situazione assolutamente paradossale in un paese dove l’industria del sesso è seconda solo a quella dell’automobile.

Il principale partito d’opposizione ha appena eletto per la prima volta una donna ai suoi vertici. Murata Renho, 49 anni, avrà la pesante responsabilità di ridare un po’ di dinamicità a una formazione politica che non si è ancora ripresa dalla sconfitta elettorale del 2012. È la terza donna a occupare una carica di importante responsabilità in questi ultimi mesi, dopo Koike Yuriko, nuovo governatore di Tokyo, e Inada Tomomi, eletta a capo della Difesa.

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donna a capo del Partito Democratico



Elodie Hervé per Zoom Giappone

Il tè di Uji è uno dei più rinomati del Giappone. La regione di produzione gode di condizioni climatiche perfette.

All’ombra delle piante da tè… I Giapponesi hanno imparato a degustare il tè. Un apprendimento progressivo che si è trasformato in autentica arte.

C

ome rendere felici gli ospiti con un sorso di tè?”. Si era ostinato per tutta la vita a riflettere su come far sì che il tè fosse bevuto nel modo più piacevole possibile». Questo estratto del romanzo Il segreto di un maestro di tè, firmato Yamamoto Ken’ichi, traduce bene l’aura di suggestioni che circonda questa bevanda, protagonista di un’arte puramente nipponica: la cerimonia del tè (cha no yu), il cui iniziatore fu Sen no Rikyu. La dimensione spirituale, quasi religiosa, della preparazione e della degustazione del tè in Giappone non ci deve far dimenticare che la diffusione di questa bevanda è assai recente. Se gli storici sono oggi concordi nell’affermare che il tè sarebbe stato introdotto nell’arcipelago al periodo Nara (710-794), la gran parte delle opere sul tema parlano dell’anno 805, riferendosi a un episodio specifico: il monaco Saicho di ritorno da un soggiorno in Cina avrebbe portato con sé una pianta di tè, e l’avrebbe fatta

crescere nel giardino di Hiyoshi (Hiyoshi chaen) a Otsu, nella prefettura di Shiga. Dieci anni più tardi, dopo che ebbe assaggiato in un tempio buddista la bevanda estratta dalla pianta, l’imperatore Saga (786-842) ordinò che questo arbusto fosse coltivato nella regione di Kyoto e nella stessa capitale in cui risiedeva. È per questa ragione che le piantagioni in quest’area del Giappone sono ancora oggi le più rinomate del Paese. Fra i luoghi scelti figura la città di Koka, nella prefettura di Shiga, dove si trovano alcuni fra i migliori produttori. Yamamotoen (275-1 Kami Asamiya, Shigarakicho, Koka, www.yamamotoen.co.jp) è uno di questi e una passeggiata in mezzo alle sue coltivazioni di tè ci permette di tornare indietro nel tempo. Questo primo contatto con la bevanda non convinse subito i Giapponesi poiché all’epoca, il modo adottato per prepararlo ne rendeva l’odore poco gradevole. Soltanto tre secoli più tardi, un nuovo metodo di preparazione, importato ancora una volta dalla Cina dal monaco buddista Eisai, fondatore della corrente zen, rivoluziona la consumazione del tè. La cottura al vapore delle foglie, il lasciarle seccare e poi ridurle

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in polvere sono alla base del matcha, che rimane il must fra i tè verdi. Durante lo stesso periodo, Eisai pubblica il Kissa yojoki (Piccolo trattato sulla buona salute grazie al tè) dopo aver curato lo shogun grazie a questa bevanda. Oggi non è più necessario vantarne le virtù, poiché la popolarità della bevanda nei nostri Paesi è dovuta soprattutto alle sue proprietà benefiche e ai suoi principi attivi. Dietro al tè verde, nome generico e pratico, si nascondono numerose varietà di piante (Yutaka midori, Okumidori, Asatsuyu, Kanaya midori, Benifuki, Yabukita, Sae midori, Sayama kaori, Oiwase, Goko) ognuna delle quali in grado di fornire un tè dalle sfumature diverse a seconda della tecnica di lavorazione. In Giappone il tè verde è«non-fermentato». Ciò significa che le foglie sono scaldate (in una fornace o al vapore) per arrestare il processo di fermentazione. Questo permette di valorizzare il carattere di ogni varietà e di procurare così quegli istanti di piacere intenso a chi lo sorseggia. Perché bere il tè in Giappone significa molto di più che spegnere la sete. ODAIRA NAMIHEI


ZOOM INCHIESTA PRODUZIONE

Scommessa vinta per M. Harima

Scegliendo l’agricoltura bio, il produttore di Ujitawara ha rivoluzionato il sistema.

Elodie Hervé per Zoom Giappone

S

otto il solleone di agosto, il verde profondo delle piante di tè contrasta con quello più chiaro delle spighe di riso che ondeggiano dolcemente cullate dal vento. Nel villaggio di Ujitawara, a sud di Kyoto e vicino alla città di Uji, le piantagioni di tè si alternano con quelle di riso a terrazze. Disegnati come onde, questi campi ricoprono i versanti soleggiati delle colline a perdita d’occhio. Harima Yoshiyuki produce tè verde. Senza stancarsi, racconta numerosi aneddoti sugli scambi intrattenuti con delegazioni straniere. Figura principale della coltura di tè verde bio nella regione, Harima ha già accolto, nei suoi laboratori arroccati su una collina vicina, osservatori provenienti da una trentina di paesi. Si reca sovente all’estero per assistere a conferenze sull’agricoltura bio. Quest’anno è stato invitato a Terra Madre al Salone del Gusto, grande evento internazionale consacrato allo slow food, organizzato a Torino nel corso del mese di settembre. “Purtroppo la salute di mia madre non mi ha permesso di partecipare”, sospira l’uomo, 68 anni e un aspetto da professore universitario. Fondata nel 1858, la sua impresa Harimaen produce tuttora tè sotto il prestigioso label di Ujicha (tè di Uji). Importata dalla Cina verso il IX secolo, la consumazione del tè si è diffusa a partire dal XIIIesimo secolo in questa regione vicina all’antica capitale imperiale del Giappone. Le condizioni climatiche proprie a questa regione (terreni ben drenati, pioggia abbondante e escursione termica tra giorno e notte) fanno di questa regione montagnosa un posto ideale per la coltura del tè. Protetta dagli aristocratici di Kyoto, la preparazione e la degustazione di questa polvere verde chiaro diventerà un’arte, elemento essenziale della cultura giapponese. Il tè è così molto di più di una semplice bevanda aromatica. Nelle viuzze della città di Uji, si trovano gelati, ogni sorta di dolce e persino prodotti di bellezza a base di matcha (tè verde in polvere). Se l’iniziativa di Harima Yoshiyuki suscita un tale entusiasmo, c’è un’altra ragione oltre alla storia e alla reputazione dell’Uji-cha. L’esportazione di tè verde segue una curva ascendente da qualche anno. È aumentata del 260% nel corso dell’ultimo decennio mentre la consumazione interna è in caduta libera. Le vendite all’estero costituiscono così la salvezza per i produttori. Diverse campagne promozionali portate avanti da iniziative private e pubbliche sono state lanciate. Fuori questione

HARIMA Yoshiyuki è fiero delle sue piantagioni di tè verde, bio al 100%.

per il governo di lasciar perdere questa manna inattesa. Per beneficiarne però, bisogna aderire a qualche condizione. “L’ostacolo più grande è rappresentato dalla normativa sui pesticidi”, ammette Kiwayama Eiichi, membro dell’associazione di imprese produttrici di tè verde nell’area di Kyoto. Contrariamente all’immagine sana che si ha all’estero circa l’alimentazione giapponese, i livelli autorizzati di concentrazione di residui di pesticidi nei prodotti agricoli sono più elevati, molto più elevati nell’arcipelago nipponico, rispetto alla maggior parte di altri paesi. Il tè verde non fa eccezione. Ad

esempio, la norma giapponese per il tè riguardante l’insetticida acetamiprid, una sostanza della famigerata famiglia neonicotinoide, è 600 volte più elevata rispetto a quella in vigore in Europa. Nel 2014, l’organizzazione ecologista Act Beyond Trust ha identificato una quantità di acetamiprid superiore alle norme europee proprio nel tè verde prodotto nella regione di Kyoto. I produttori si sono così resi conto dell’impatto del problema e delle sue conseguenze sull’esportazione. Per far fronte, “alcuni di loro hanno riservato delle parcelle trattandole secondo le norme straniere”, spiega Kiwayama Eiichi. 

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ZOOM INCHIESTA Un tè può nasconderne molti altri Principali varietà di tè

La produzione di tè nelle varie prefetture, 2015 In tonnellate Kyôto 3 190 (4,2 %)

Altri 10,8 % (8 214 t)

Miyazaki 3 620 (4,7 %)

Mie 6 830 (8,9 %)

produzione totale

Shizuoka

76 354 tonnellate

31 800 (41,6 %)

Kagoshima 22 700 (29,7 %)

Fonte: Ministero dell’Agricoltura, delle Foreste e della Pesca.

Izumo PREFETTURA DI KYÔTO

Sera

Yame

Ureshi

Bata Bata

Tanba Uji

Kyûshû Kumamoto PREFETTURA DI MIYAZAKI

PREFETTURA DE MIE

Awaban Tosa

Yamato Irokawa

Kagoshima PREFETTURA DI KAGOSHIMA

Shikoku

Miyazaki

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Shirakawa-ibi Ômi

Ise

Nishio

S

PR DI


REFETTURA I SHIZUOKA

Hokkaidô

Kuroishi

Hiyama Kesen

Shonaisan Monô Murakami

Honshû Kanuma

Sayama

OkukujiSashima

Okinawa

Ashigara SakuraYachimata

150 km

Cartografia : Aurélie Boissière, www.boiteacartes.fr

Shizuoka

ZOOM INCHIESTA

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Elodie Hervé per Zoom Giappone

ZOOM INCHIESTA

Un quarto della produzione di tè è esportato, soprattutto in Europa dove ha ottenuto un label.

 Ecco perché l’idea di produrre tè verde bio nella

regione di Uji si è tradotta in un autentico successo. Harima Yoshiyuki non poteva immaginare di provocare una tale reazione. La sua storia risale a trent’anni fa. Aveva allora 24 anni. “Appena dopo il passaggio di un tifone, c’era bel tempo e faceva caldo”, si ricorda. Amando da sempre il saké, ne aveva bevuto un po’ coi colleghi prima di uscire per polverizzare dei pesticidi sulle coltivazioni. All’improvviso ha avuto una vertigine ed è svenuto. All’ospedale, il medico gli ha spiegato che questo malore era dovuto a un problema di fegato. “Se vuoi vivere a lungo, devi abbandonare sia il saké, sia i pesticidi!”, lo ha avvertito il dottore. In quel momento Harima Yoshiyuki ha deciso di dedicarsi all’agricoltura bio. “Un modo per assicurare una salute migliore ai miei dipendenti e ai clienti che acquistano i miei prodotti”, confida.

Non è stata una scelta facile. Il clima umido della zona favorisce il proliferare degli insetti e delle erbacce. “In molti non capivano la mia iniziativa”, si ricorda. All’epoca, produrre tè bio era semplicemente impensabile, al punto che uno dei suoi vicini, anche lui produttore, gli chiese di smettere. “Il tuo sistema attira gli insetti nocivi”, gli avrebbe detto. Aiutato da un amico che da tempo coltivava tè verde senza pesticidi e senza concimi chimici, si è tuttavia lanciato nell’impresa, affittando una parte dei campi appartenenti a suo padre. Durante i primi due anni i raccolti sono stati disastrosi. Durante il terzo anno, le cose sono migliorate. Senza pesticidi, i famosi “insetti nocivi” sono tornati, ma sono tornati anche i loro predatori. In questo modo le coccinelle, le mante religiose e i ragni hanno fatto ritorno nei campi. Il ristabilirsi di questo equilibrio naturale ha fatto sì che il ren-

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dimento fosse decisamente migliore. “Dal terzo anno in poi, abbiamo sempre avuto un raccolto migliore del precedente”, ama ricordare. Si è anche reso conto che la coltura bio gli costava molto di meno, visto che non spendeva più nulla in erbicidi e pesticidi. Non solo gli insetti hanno rifatto capolino. “Cinque o sei anni dopo aver iniziato a coltivare bio, i fiumi si sono ripopolati di pesci, li credevamo scomparsi”, aggiunge Harima sorridendo. Nel 2009 ha ottenuto il label dell’agricoltura biologica dell’Unione Europea su consiglio di un amico italiano che voleva commercializzare in Italia il suo tè. Visto che “la regolamentazione giapponese per ottenere il label all’epoca non era così rigorosa come quella europea”, ha accettato volentieri la proposta. È dunque diventato il primo agricoltore bio giapponese ad essere riconosciuto dall’Europa. Questo gli ha valso la visita di numerosi osservatori. “Arrivano qui molti stranieri, ma anche produttori giapponesi curiosi di conoscere il nostro savoirfaire”, assicura sorridendo. Non è difficile capire la curiosità di questi produttori. Poiché è con il suo label, messo in evidenza sul suo sito internet, che Harima Yoshiyuki ha affrontato il mercato estero, europeo soprattutto. Un quarto delle venti tonnellate di tè prodotte è esportato all’estero. La coltura bio appare dunque come una soluzione per uscire dall’impasse creatasi con la caduta delle vendite all’interno del paese e con le norme sui pesticidi, una situazione delicata affrontata da numerosi agricoltori locali. L’iniziativa di Harima Yoshiyuki non poteva cominciare in un momento più propizio. Dopo aver conquistato il mercato americano, principale importatore di tè verde giapponese, la bevanda ha cominciato a sedurre il Vecchio Continente. Apprezzato per i suoi effetti benefici sulla salute anti-age, anti-stress -, il tè verde giapponese riscuote un ottimo successo, in particolare in Francia. Sempre più bar servono tè verde. Al punto che il primo “Matcha bar” ha aperto le porte in primavera nella capitale francese . Con uno sviluppo simile della consumazione, anche se certi prodotti derivati come i dolci al tè rimangono poco conosciuti, tutto sembra indicare che la sfida di Harima Yoshiyuki avrà un esito sempre migliore. “Non avrei mai immaginato che un giorno il mio tè sarebbe stato esportato in Europa” ammette, ancora incredulo. I suoi recenti successi commerciali gli hanno permesso di comprare nuovi terreni, lasciati all’abbandono da altri produttori a causa della loro età e della mancanza di eredi. Con 600 ettari di piantagioni al suo attivo, ossia il triplo rispetto ai tempi in cui non era ancora cominciata l’avventura bio, colui che aveva dovuto convincer il padre recalcitrante per tentare questa via, sembra ora più che fiducioso nella scelta operata trent’anni fa. YAGISHITA YUTA


ZOOM INCHIESTA

Un affare di buon gusto

Stéphane Danton si è lanciato undici anni fa a Tokyo, nella vendita di tè. Un’autentica avventura.

I

lettori di lunga data di Zoom Japon conoscono già Stéphane Danton, questo «mercante di tè giapponese» che abbiamo incontrato per uno dei nostri primi numeri. Cinque anni sono passati dalla prima intervista e la boutique di Danton, Ocharaka, esiste ancora, sebbene abbia recentemente lasciato la periferia di Tokyo per trasferirsi nel cuore della capitale, nel quartiere di Nihonbashi. Quando arriviamo nel negozio situato nel seminterrato del nuovo centro commerciale Coredo, il proprietario sempre occupatissimo non è ancora lì, ma facciamo conoscenza col vicedirettore di Ocharaka, Benoît Kara, incaricato di spiegare i dettagli della fabbricazione del tè e di presentare alla clientela, numerosa e eterogenea, le diverse varietà in vendita. Ocharaka ha costruito la sua reputazione sulle sue originali creazioni aromatizzate. Abbiamo quindi chiesto al signor Kara di impartirci un corso intensivo sul tè giapponese. “Il nostro stock di miscele originali si divide in tre gruppi: il tè verde, il tè torrefatto e il tè nero”, spiega. “Sono tutti originari del Giappone, compreso il tè nero che è assai raro poiché la maggior parte degli agricoltori locali produce soprattutto tè verde. Ogni tipo di tè è combinato con sapori differenti. Il tè verde, ad esempio, va molto bene con sapori fruttati, arancia e limone, passando dalla pesca, la pera o la fragola. In questo momento il mandarino ha il vento in poppa. Ovviamente la base di tè verde varia. Utilizziamo molto tè proveniente dalle montagne di Shirakawa, nella prefettura di Gifu, e un’altra varietà che viene da Kyushu, nel sud dell’arcipelago. La differenza tra i due è sottile ma riveste una grande importanza quando si debbono aggiungere altri sapori alla miscela. Il melone, ad esempio, si sposa benissimo col tè verde del sud grazie alla sua dolcezza, mentre il tè di Shirakawa completa perfettamente il gusto amaro del mandarino. In Giappone si usa dire che un tè è ronyaku nannyo, ovvero conviene agli uomini e alle donne di qualsiasi età”, assicura Benoît Kara. Quando passiamo all’hojicha, o tè torrefatto, incontriamo una gamma molto varia di sapori dolci come il caramello, la patata dolce, la zucca o il cioccolato-banana che bene si sposano con l’aroma forte dell’hojicha. Anche in questo caso, la base del tè varia a seconda della miscela desiderata. La differenza principale sta nel tempo impiegato per fare tostare le foglie, il metodo asa-iri (torrefazione breve) o fuka-iri (torrefazione lunga). Un punto

positivo dell’hojicha è il suo debole tenore in caffeina, assorbita dalla torrefazione. Così, le persone che non possono bere caffè, possono ricorrere all’hojicha aromatizzato al moka e gustare una bevanda sana con un buon profumo di caffè. Last but not least, si trova una piccola quantità di tè neri giapponesi. In generale, sono più delicati rispetto ai tè neri provenienti dall’India o dallo

Sri Lanka. Fra questi, Ocharaka propone il popolare Earl Grey alla pesca bianca, e un tè speziato che ricorda il panpepato. Ne hanno ugualmente uno al litchi, che con quello al mango e quello al frutto della passione fa parte dei tè particolarmente apprezzati dalla clientela del sud-est asiatico. A destra dei tè aromatizzati troviamo i tè nature. Su ogni scatola si possono trovare tutte le informazioni

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

DISTRIBUZIONE

Stéphane Danton ha trasferito la sua boutique nel cuore della capitale, a Nihonbashi. gennaio - marzo 2017 Anno I - N. 4 ZOOM GIAPPONE 9


Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

ZOOM INCHIESTA

Per fare in modo che i suoi clienti, soprattutto stranieri, apprezzino il tè verde, Ocharaka propone di scoprire delle miscele aromatizzate, molto apprezzate dal pubblico.

indispensabili: dalla zona di produzione al grado di shibumi (astringenza) e di umami (intensità del sapore). Il tè preferito di Benoît Kara è quello di Shirakawa, che l’esperto non si stanca di raccomandare alla clientela. “Non solo è eccellente, ma è fabbricato dai rari produttori che cercano di attirare una clientela straniera”, spiega. “La gran parte di produttori di tè locali si preoccupano soltanto del mercato nipponico, ma quelli di Shirakawa cercano di far passare il messaggio, traducendo in altre lingue le spiegazioni dettagliate sulle proprietà dei loro tè che si trovano sulle scatole”. Finalmente arriva Stéphane Danton. Un grumo di energia pura che non riesce a stare fermo e continua ad aggirarsi nel negozio per verificare che tutto sia perfetto. Ha una riunione su Skype fra 15 minuti, ma ci accorda gentilmente qualche istante. “Mi fornisco da sette piccoli agricoltori ripartiti un po’ in tutto il paese”, racconta. “Il tè del nord, ad esempio, quello che viene da Saitama o da Gifu, è più amaro di quello del sud, principalmente proveniente dalla prefettura di Kagoshima, molto più dolce. Non mi rivolgo ai grandi produttori, perché hanno metodi molto rigorosi e ci tengo a fare le cose a modo mio. Preferisco esplorare il mercato e scoprire nuove possibilità. Si tratta dello stesso approccio che avevo in passato col vino, quando

lavoravo come sommelier. Voglio saperne il più possibile sul tè che metto in vendita. Chi sono gli agricoltori? Quale storia si nasconde dietro ogni tè? Le mie conoscenze sui tè non provengono dai libri ma dal mio contatto diretto coi produttori”. Essere venditori di tè in Giappone, specialmente se stranieri, non è cosa semplice, data la natura del mercato e la chiusura che lo caratterizza. Ma la storia d’amore tra Stéphane Danton e il tè non ha motivazioni particolarmente venali. “Avrei potuto avere una vita più facile se avessi continuato col vino”, assicura. “Se avessi aperto un wine bar qui, nuoterei nell’oro. Ma l’attrazione per il mondo del tè è stata molto importante e ho finito col seguire il mio istinto”. Dopo aver aperto il suo negozio, undici anni fa, a Kichijoji, ha accettato la proposta di trasferirsi nel centro di Tokyo nel 2014. “L’inizio dell’avventura è stato molto difficile perché nessuno aveva fiducia in me”, si ricorda Stéphane. “In molti si aspettavano un flop, ma come vedete, sono ancora qui. Trovavano strano che mescolassi il tè verde con sapori diversi. Non capivano che i clienti stranieri alle prese per la prima volta col tè verde e col suo sapore particolare non l’apprezzavano immediatamente. Il tè aromatizzato, al contrario, è un’ eccellente maniera per attirare nuovi amatori. Cominciano con le nostre miscele

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originali e poi arrivano al tè verde di alta qualità”. Benoît Kara spiega di essere stato fra quelli che sono passati attraverso questo processo. Quando ha incontrato Stéphane Danton come cliente, comprava esclusivamente tè aromatizzato (il suo preferito era il cioccolato e menta) ma in seguito ha scoperto il tè verde nature. “Ora bevo tè aromatizzato solo occasionalmente”, dice. “Per me, solo il tè verde ha valore. Molta gente non riesce a cominciare la giornata senza una tazza di caffè. Io devo avere la mia tazza di tè verde.” Il prossimo obiettivo di Stéphane Danton è quello di estendere le sue attività all’estero. Nell’ottobre scorso, ha aperto una succursale a Singapore. “Laggiù sono sempre alla ricerca di novità, mentre in Giappone, dopo undici anni, anche se tutti ormai mi conoscono, continuo ad avere problemi con il settore locale. È un mondo chiuso. Ma io lavoro per i miei clienti e finché questi ultimi saranno soddisfatti, va tutto bene!”. JEAN DEROME

INFORMAZIONI PRATICHE Ocharaka Coredo Muromachi, 2-2-1 Nihonbashi Muromachi, Chuo-ku, Tokyo 103-022 Tel. 03-6262-1505 - www.ocharaka.co.jp Uscita A6 della stazione Mitsukoshimae sulla linea di metropolitana Ginza.


ZOOM INCHIESTA ESPERIENZA

Una miscela di nuovo e di antico

Appassionato di tè verde, Sakurai Shin’ya invita la sua clientela a scoprire la ricchezza culturale di questa bevanda.

N

on è facile essere un elemento culturale tradizionale nel Giappone attuale. Prendete il sumo, ad esempio. Anche se viene presentato come sport nazionale, da molto tempo è stato messo da parte dalla passione del pubblico per il baseball e per il calcio. Si può dire la stessa cosa a proposito del tè verde. Agli occhi di molti Occidentali, rimane la bevanda nazionale (non alcolica) in quanto complemento indispensabile della cucina giapponese ma in verità, come il sumo, è stato rimpiazzato nel suo primato da prodotti venuti dall’estero: il tè all’inglese e il caffè. Si trovano caffè e sale da tè ad ogni angolo. Trovare un luogo dedicato al tè giapponese, invece, si rivela una vera sfida. Fortunatamente, per gli appassionati di ryokucha, il maestro di tè Sakurai Shin’ya ha trasferito di recente la sua boutique Souen nel centro di Tokyo, a Minami Aoyama, il quartiere di tendenza nella capitale. Zoom Giap-

pone è andato alla scoperta di questo nuovo locale. Dopo essere stato barman, Sakurai Shin’ya si è lasciato conquistare dal fascino del mondo del tè ed è diventato responsabile del negozio di tè Higashiya, oltre che del ristorante Yakumo Saryo, entrambi creati dal designer Ogata Shin'ichiro. “Oltre ad imparare i segreti della cucina e della pasticceria giapponesi, ho cominciato a conoscere numerose varietà di tè”, spiega. “Sono stato sorpreso dalla ricchezza e dalla varietà dei sapori e ho iniziato ad apprezzare il lavoro intenso e paziente che questa tradizione esige. Mi sono occorsi dodici anni per destreggiarmi perfettamente nell’arte di preparare il tè”. Nel 2014 ha deciso di diventare indipendente e ha aperto Souen a Nishi Azabu, prima di trasferirsi a Minami Aoyama a luglio. Nel corso di questi anni, Sakurai Shin’ya ha sviluppato ciò che può definirsi come una cerimonia del tè in tempi moderni. Il suo modello d’ispirazione è Baisao, un monaco buddista del periodo Edo diventato famoso per aver reso popolare il tè verde e aver diffuso attraverso tutti gli strati sociali la cerimonia

del tè, fino ad allora appannaggio esclusivo dell’aristocrazia. Nel corso di questo processo, ha sostituito il matcha (tè verde in polvere) con il sencha (foglie di tè intere). Seguendo i principi rivoluzionari di Baisao, Sakurai Shin'ya non lavora sul tatami. Si sistema bensì dietro al bancone e prepara il tè alternando gesti tradizionali e movimenti da barman. Verifica prima di tutto la temperatura dell’acqua, prima di versarla da una tazza all’altra per raffreddarla. Procedendo in questo modo, ottiene la temperatura ideale per preparare il nostro tè: il gyokuro. “Perla di rosa” in italiano, è uno dei tè verdi giapponesi di maggiore qualità. A differenza di un ordinario sencha, il gyokuro “perla di rosa” è un tè che cresce nella penombra, il che gli conferisce un sapore raffinato unico. È meno amaro rispetto al tè coltivato in piena luce e contiene un alto livello di umami (sapore). Sakurai Shin'ya realizza tre infusioni differenti, ognuna un po’ meno concentrata della precedente. Serve la terza come cocktail ghiacciato (la sua esperienza di barman torna utile!) con un’infusione di shiso e lime.

Sakurai Shin’ya mette a frutto la sua esperienza di barman per esplorare nuove vie nella preparazione del tè. gennaio - marzo 2017 Anno I - N. 4 ZOOM GIAPPONE 11


A luglio si è trasferito nel quartiere trendy di Minami Aoyama.

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Da Souen, si possono anche provare bevande più forti quali il tè infuso con rhum e vodka, una specialità di Sakurai Shin’ya. “A Souen mi piace innovare, appoggiandomi però sempre alla tradizione giapponese del tè e cerco di sensibilizzare il maggior numero di persone portandole ad apprezzare come si deve questa bevanda”, spiega. “L’altro nome di Souen è Sakurai Baisen Kenkyujo che significa letteralmente: “il laboratorio di tè tostato di Sakurai”. La traduzione inglese scelta è più raffinata: Sakurai Japanese Tea Experience. “Ci siamo specializzati nell’hojicha (tè tostato), ma con un valore aggiunto. Pratichiamo noi stessi la torrefazione, un po’ come per il caffè, poi aggiungiamo erbe e frutti giapponesi come lo yuzu, il sansho (pepe giapponese) e il shiso al fine di aggiungere una nota distinta delle quattro stagioni giapponesi”, spiega. L’hojicha è una bevanda semplice, senza pretese, ma è un tè che si adatta facilmente alla sperimentazione. Sakurai Shin'ya sa sfruttare perfettamente le sue caratteristiche grazie a una torrefazione variabile e a differenti quantità di foglie e di steli. Uno dei risultati più interessanti è l’hojicha tencha kuki (hojicha realizzato con gli steli del tencha). Le foglie di tencha utilizzate generalmente per fare il matcha subiscono la torrefazione prima di essere minuziosamente macinate a bassa temperatura, il che permette di ottenere un tè di una delicatezza unica. Quando gli si chiede come mai abbia deciso di consacrare la sua vita al tè giapponese, Sakurai Shin'ya spiega che la preparazione del tè è un elemento importante della cultura giapponese e vuole che gli altri ne possano goderne. “Bere del tè è un qualcosa che i Giapponesi considerano come scontato perché fa parte del quotidiano. Cresciamo osservando nostra madre che lo prepara, ma non comprendiamo realmente la portata culturale di questa bevanda. È solo quando ci si immerge in questa cultura che si impara la storia del tè con le sue sfaccettature, i diversi metodi per prepararlo. Ad esempio, a seconda della temperatura dell’acqua e delle diverse maniere di versarlo nella teiera, otterrete dei gusti molto differenti. Oggi potete trovare il tè in diverse forme, persino in bottiglie di plastica vendute nei supermercati o nei negozi di quartiere, ma il metodo base per prepararlo non è mutato. Il mio primo scopo è educare le persone ai requisiti di un buon tè. Poi, se si dimostrano interessate, mostro loro gli utensili che possono utilizzare per ottenere un buon tè, e li aiuto a scegliere i marchi migliori”, aggiunge. Ecco dunque i suoi consigli per godere al meglio della propria tazza di tè: • Quando acquistate il tè, idealmente dovrete consumarlo nelle due settimane che seguono l’apertura del pacchetto, un mese al massimo. Le foglie del tè sono molto sensibili alla luce e al caldo, dovete così conservarlo in scatole ermetiche,

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

ZOOM INCHIESTA

La sua ambizione consiste nel far ritrovare ai clienti il senso autentico della degustazione del tè.

in un luogo fresco e all’ombra. Le foglie di tè sono capaci di assorbire altri aromi. Evitate dunque di metterle vicino a prodotti dall’odore intenso. • Esistono numerosi tipi di tè e le loro differenze si rafforzano in funzione della zona di produzione. Detto questo, non vi sono regole precise per scegliere una varietà rispetto ad un’altra. Ciò dipende essenzialmente dal vostro gusto personale. Quando siete nel dubbio, spiegate al venditore quali sono le vostre preferenze e il vostro budget perché vi aiuti a scegliere il più adatto a voi. Se ad esempio siete soliti consumare del tè durante i pasti, sappiate che il tè verde si accompagna bene con gli antipasti mentre il bancha (una varietà comune di tè) si sposa meglio con un piatto di portata a base di carne o pesce.

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• Lo stesso tè avrà un gusto differente a seconda di come lo preparate, in particolare a seconda della temperatura dell’acqua. Un’acqua molto calda (circa 90 gradi) mette in rilievo la componente amara del vostro tè. È ideale al mattino se avete bisogno di qualcosa di forte. Se desiderate un gusto meno pronunciato, conviene mantenere la temperatura dell’acqua attorno ai 70-80 gradi. J. D.

INFORMAZIONI PRATICHE Sakurai Baisen Kenkyujo 5F Spiral Bldg. 5-6-23 Minami Aoyama, Minato-ku, Tokyo 107-0062 Tel. 03-6451-1539 - www.sakurai-tea.jp Dal lunedì al venerdì , dalle 11 alle 23. Uscita B1, stazione di Omotesando.



ZOOM CULTURA INCONTRI Japan

Nights

Dal 7 ottobre al 3 marzo la libreria Bookbank di Piacenza propone un nuovo ciclo di incontri sul Giappone, dopo il successo riscosso da simili iniziative negli ultimi due anni. Le cinque serate (un venerdì al mese) sono curate da Andrea Pancini, docente di giapponese alla Scuola di Lingue e Culture Orientali di Milano, e sono dedicate a vari aspetti della cultura letteraria giapponese. Nei tre incontri rimanenti si parlerà di fantasmi (gennaio), di geisha (febbraio) e dei due autori contemporanei più conosciuti in Italia: Yoshimoto Banana e Murakami Haruki (marzo). Ogni serata prevede una lettura commentata di racconti e altri testi. Il costo di iscrizione è di 18 euro comprensivi di lezione, dispense e spuntino. Bookbank, via San Giovanni 4, Piacenza. www.bookbankpiacenza.it/japannights-bookbank

MOSTRA

Architettura invisibile

MOSTRA

Dal 18 gennaio al 26 marzo la Fondazione Italia Giappone organizza a Roma “Architettura invisibile”, un'analisi dei movimenti degli architetti italiani e giapponesi degli anni ’60 e ‘70 e la loro influenza sulle tendenze dell’architettura contemporanea. La mostra, tenuta presso il Museo Carlo Bilotti all’Arancera di Villa Borghese, intende presentare in una nuova chiave di lettura le sorprendenti corrispondenze esistenti tra le avanguardie radicali italiane e giapponesi degli anni Sessanta e Settanta e le contemporanee soluzioni progettuali portate avanti dai loro eredi ideali, gli affermati architetti del XXI Secolo, sia nipponici che italiani. www.italiagiappone.it

Immagini dal mondo fluttuante

Dal 27 ottobre al 27 agosto è possibile ammirare presso il Museo Archeologico Nazionale di Muro Lucano alcune delle opere più distintive del Giappone medioevale, quando si sviluppò a Tokyo (allora chiamata Edo) una nuova cultura urbana definita “mondo fluttuante”. Nella mostra sono esposte dieci stampe provenienti dalla collezione della famiglia Yasunami di Tokyo che compendiano il percorso artistico nel periodo Edo (16031868) in Giappone. Sono presenti opere di alcuni fra i più famosi artisti dell’epoca come Ando Hirosige, Kitagawa

Utamaro,Toshusai Sharaku, Suzuki Harunobu e Torii Kiyonaga. Le opere sono state donate al Centro Culturale Franco-Italiano di Muro Lucano che da più di venti anni intrattiene relazioni culturali e di amicizia con il Giappone. L’anniversario dei 150 anni delle relazioni tra i due Paesi, con eventi in Italia e Giappone, è stata l’occasione per organizzare la mostra. www.basilicata.beniculturali.it/immagini-delmondo-fluttuante

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LIBRI Ozu e il cinema Un vero e proprio evento editoriale per gli amanti del cinema: Donzelli pubblica per la prima volta in Italia una ricca selezione di scritti di Ozu Yasujiro, uno dei grandi del maestri cinema. Questi saggi, concepiti in un arco di circa trent’anni, dal 1931 al 1962, aiutano a fare chiarezza sulle basi teoriche e i principi etici di colui che è stato definito “il più giapponese dei registi giapponesi”, autore di quel Viaggio a Tokyo che in un recente sondaggio della prestigiosa rivista inglese Sight & Sound è stato votato da 358 registi di tutto il mondo come il più bel film di tutti i tempi. Nel libro si trovano pagine intense, segnate da un amore incondizionato per il cinema, inteso come ragione di vita, che consentono di percorrere dall’interno la personalità del regista. Sono testi che coinvolgono a distanza di decenni e offrono spunti e commenti inediti sui suoi film, le tecniche e le teorie del cinema, il cinema americano degli anni ’30 e ‘40, la tragedia del conflitto sino-giapponese vissuta in prima persona come soldato al fronte, la dicotomia tra finzione e documentario. Nella loro pacata raffinatezza, le “non storie” di Ozu raccontano la vita così com’è, senza utilizzare accadimenti particolari. Il suo cinema va alla costante ricerca di armonia nei rapporti umani, pur tuttavia cosciente della loro eventuale disgregazione e dell’ineluttabilità dei cambiamenti. Come ha detto Wim Wenders, autore di un famoso omaggio cinematografico al regista, “mai prima di lui e mai dopo di lui il cinema è stato così prossimo alla sua essenza e al suo scopo ultimo”. Ozu Yasujirō, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi. Prefazione di Dario Tomasi, Donzelli, 20,80 euro.


ZOOM CULTURA MOSTRA

Omaggio al Giappone

FOTOGRAFIA

Trips with a plastic bottle + Hitohira

Dal 24 novembre al 25 gennaio la fotografa Oki Yasuko è ospite del ristorante giapponese DOOZO con una mostra incentrata su due progetti on going realizzati con la macchina fotografica a foro stenopeico (pinhole), il cui piccolo foro è capace di proiettare la luce come un obiettivo, creando immagini spesso imprevedibili grazie anche alla profondità di campo illimitata. Trips with a Plastic Bottle (2008) presenta immagini colte dal finestrino di un

FOTOGRAFIA

treno in corsa, attraverso una bottiglia di plastica piena d’acqua. In Hitohira (2009), invece, è la natura il tema centrale: Oki fotografa foglie e petali trovati per terra mentre la luce del sole li attraversa. In entrambi i progetti catturare le meraviglie della vita quotidiana diventa un esercizio il cui scopo è quello di suggerire che “possiamo vedere gli aspetti della realtà con occhi diversi”. DOOZO – Art Book & Sushi, via Palermo 51/53, Roma. www.doozo.it/galleria.html

Dal 30 settembre all’8 gennaio il Fondo Malerba per la Fotografia organizza presso il Museo Civico Pier Alessandro Garda di Ivrea una mostra dedicata ai vari aspetti della fotografia giapponese, conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo per

All’ombra del ventaglio

Dal 6 dicembre al 13 gennaio il centro culturale PHOS di Torino partecipa al 150esimo anniversario delle relazioni diplomatiche fra Giappone e Italia con un’interessante fusione di immagini e poesia: gli haiku di tre famosi poeti giapponesi (Matsuo Basho, Kobayashi Issa e Tan Taigi) hanno ispirato le opere visuali di tre artisti italiani: Anna Onesti, Fabio Massimo Fioravanti e Massimo De Orazi. Quest’ultimo ha

reinventato cinque haiku in pura poesia visiva, mentre Fioravanti li ha interpretati con fotografie scattate in Giappone e Anna Onesti con immagini scelte dai suoi dipinti, realizzati su carta washi utilizzando tecniche apprese nei suoi periodi di studio in terra nipponica. PHOS, Via Giambattista Vico 1, Torino www.phosfotografia.com/event/allombra-delventaglio

il suo rigore formale e concettuale. I tre mostri sacri della scena nipponica (Araki Nobuyoshi, Morimura Yasumasa, Moriyama Daido) sono presenti insieme ad altri fotografi di fama internazionale (Hatakeyama Naoya, Shibata Toshio) e ad alcuni nomi meno conosciuti all’estero ma pur sempre degni di attenzione (Hiroto Fujimoto e Kazuko Wakayama). Lo sguardo di questi autori va dalla natura alla città, dall’esperienza personale diretta a quella visionaria e costruita, dalla messa in scena al travestimento. Museo Civico Pier Alessandro Garda, piazza Ottinetti, Ivrea (TO). www.fondomalerba.org/omaggio-algiappone

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ZOOM CULTURA FOTOGRAFIA

Sulle tracce di Ueda Shoji

La migliore specialista francese del celebre fotografo di Tottori ci rivela l’universo che ha ispirato la sua opera.

commerciale ai suoi lavori personali. La sua carriera comincia realmente nel 1937, quando diventa uno dei membri fondatori del Chugoku Shashin Shudan, gruppo amatoriale di fotografi della sua generazione. Lontano dal fermento artistico della capitale, Ueda trae la sua ispirazione sia dalle culture europee, che scopre attraverso le riviste, sia da quella nipponica. Sviluppa rapidamente il proprio stile, lontano dai grandi movimenti della storia della fotografia del dopoguerra, in particolare il foto-giornalismo e il surrealismo. Il suo stile così particolare viene definito Ueda-cho, e se ne vedono i preamboli nell’immagine Shojo shitai (Le ragazze, quattro pose) realizzata nel 1939. In questa fotografia l’autore chiede semplicemente a quattro ragazzine

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© UEDA Shôji

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

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akaiminato, piccola città costiera situata in punta alla penisola di Yumigahama nella prefettura di Tottori, è uno dei principali porti di pesca sul mare del Giappone. La prima impressione che trasmette, tuttavia, è quella di una cittadina dove regna una calma quasi inquietante, con le sue vie prive di passanti e i suoi parcheggi vuoti. Chi si avventura a Sakaiminato, molto meno turistica rispetto alla vicina città termale di Yonago, crede di arrivare alla fine del mondo e deve avere bene in mente ciò che sta cercando. Luogo di nascita di Mizuki Shigeru, celebre autore di manga degli anni Sessanta, qui ha visto la luce anche Ueda Shoji, nel 1913. Figlio di un artigiano - suo padre, Tsunejuro, era fabbricante di tradizionali zoccoli in legno (geta) Ueda era figlio unico. Appassionato di pittura e di poesia, sogna di diventare presto un artista, ma i genitori lo indirizzano verso la fotografia. Questa “arte moderna” presenta, secondo l’opinione dei suoi, il vantaggio di essere una forma di artigianato che può permettere a chi la pratica l’indipendenza economica. Per consolarlo e incoraggiarlo, i genitori offrono al giovane Ueda il suo primo apparecchio fotografico, un VestPocket Kodac, autentico oggetto di lusso, per l’epoca. Il giovane segue i corsi all’Università di Yonago, praticando al tempo stesso la fotografia in modo sempre più regolare. In quel periodo, i club amatoriali diventano via via più numerosi. Nel 1932, si trasferisce a studiare presso la Scuola Orientale di Fotografia di Tokyo. Dopo circa un anno, di ritorno a Sakaiminato, con il suo diploma in tasca, Ueda apre il suo primo studio. Da allora, il giovane fotografo coniuga l’attività

Domon Ken e Asakura, 1949.


Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

ZOOM CULTURA

incontrate sulla spiaggia di posare l’una vicino all’altra. Questa messinscena estemporanea resterà fra le sue immagini più celebri e segna l’inizio di un lavoro sulle dune di Tottori, luogo che gli sarà caro per tutta la vita. Talvolta chiamate «le dune di Ueda», tanto la sua impronta è tangibile, queste montagne di sabbia si trovano a un centinaio di chilometri da Sakaiminato. Ueda porta spesso con sé sua moglie e i suoi bambini, che invita a posare in un ambiente minimalista. Settant’anni più tardi sua figlia Kako, che vive oggi a Tokyo, si ricorda di questi momenti con emozione. Racconta che, malgrado lo spirito conviviale di queste sessioni fotografiche domenicali, suo padre accordava loro una libertà limitata. Ognuno aveva un ruolo ben preciso da

Foto della serie: “Moda fra le dune” (1983-93).

rispettare e Ueda si poneva come un direttore d’orchestra. Nel 1949, la pubblicazione su una rivista della serie Watashi no kazoku (La mia famiglia), risultato di queste messinscene famigliari, fa sensazione. Nelle sue scenette, l’artista non esita a introdurre degli accessori originali quali un cappello o un ombrello, trasformati così nei simboli del suo stile ludico e ironico. Nel corso dello stesso anno partecipa a una sessione commemorativa sulle dune coi colleghi Domon Ken e Midorikawa Yoichi. Appena un anno più tardi, nel 1951, Ueda organizza la sua prima sessione di nudo sulle dune. Durante gli anni Ottanta, dopo il decesso della moglie, che lo affligge profondamente, torna sui luoghi delle sue fotografie

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© UEDA Shôji

I promotori del Museo Ueda Shoji allestito, nel 1995, ai piedi del monte Daisen hanno voluto divertirsi con gli accessori del fotografo.


ZOOM CULTURA

Nel museo, si possono ammirare i suoi apparecchi feticcio

Il vecchio studio di Ueda Shoji si è trasformato in un negozio di macchine fotografiche chiamato Ueda Kamera.

più celebri spinto dal figlio Mitsuru. Ritrovando la magia del posto, inventa una nuova maniera di strutturare lo spazio, con un campo di visione più ampio. Oggi queste stesse dune sono diventate un’autentica attrazione turistica: armati di ombrello durante i giorni di vento e pioggia, i visitatori diventano loro malgrado dei personaggi di Ueda. Se nel corso della sua vita il fotografo ha considerato le dune come il suo studio, così è per tutta la regione. Diceva spesso che il cielo e il mare, elementi principali del paesaggio costiero di Tottori, rappresentavano uno sfondo ideale. Ne ammirava le variazioni di colore durante il susseguirsi delle stagioni, creando una delicata tavolozza di grigi per le sue immagini in bianco e nero, che costituiscono gran parte della sua opera. La sua curiosità e audacia lo spingevano a esplorare i dintorni senza stancarsi mai, trascorrendo un tempo considerevole in questi luoghi. Sovente, osservava i bambini sul cammino della scuola, le loro risate riecheggiavano nelle vie della sua cara borgata di provincia. Afflitto da una cronica timidezza, Ueda era più a suo agio coi bambini, a cui consacrerà la serie Doreki (Il calendario dei piccoli) dal 1955 al 1970, celebrazione onirica del passaggio delle stagioni al ritmo delle festività popolari locali. Dal 1974 al 1985 si rituffa nei suoi archivi accettando l’iniziativa editoriale proposta dal magazine Kamera Mainichi. Il fotografo è invitato a seguire un percorso retrospettivo sviluppando vecchi negativi dimenticati e associandoli a immagini più recenti. Questa serie, Chiisai Denki (Una piccola biografia), è un vagabondaggio nei paesaggi della sua infanzia. Senza alcuna cronologia ma sviluppandosi su diversi anni, quest’opera sottolinea

il forte legame tra la fotografia e il tempo che passa. “Fare foto è molto divertente”, diceva con un’aria sbarazzina, rivelando una delle sue caratteristiche: la fierezza nel rivendicare di essere un fotografo amatoriale. La fotografia per lui era prima di tutto un passatempo, un’arte ludica che gli permetteva di sperimentare. Un colpo d’occhio sulla sua prolifica produzione è sufficiente per rendersi conto che, durante tutta la sua carriera, non ha mai cessato di sperimentare. Che si tratti dei soggetti fotografati, del formato - dal carré al panoramico - o dell’aspetto tecnico del cliché, tutto lo appassionava. Ueda Shoji era molto affezionato alle sue macchine fotografiche, che collezionava in maniera quasi compulsiva. Non è dunque strano che i suoi modelli feticcio, tra i quali il Rolleiflex e l’Hasselblad, siano esposti a fianco delle sue immagini più celebri nel Museo Ueda Shoji, aperto nel 1995 ai piedi del monte Daisen. D’altra parte, il suo vecchio studio è stato trasformato in boutique di macchine fotografiche e chiamato, senza gran sorpresa, Ueda Kamera. Impossibile quindi, una volta giunti qui, sfuggire alla presenza di Ueda-sensei (maestro Ueda), come ancora oggi viene chiamato dagli abitanti di Sakaiminato, con nostalgia. La sua casa, costruita nell’era Meiji (1868-1912), è rimasta intatta. Non si può visitare, d’altra parte il suo interno non è mai stato immortalato, visto il poco tempo che il fotografo vi trascorreva. A partire dagli anni Cinquanta, Ueda comincia a interessarsi alle nature morte composte da oggetti d’uso quotidiano, che il suo animo da collezionista spingeva ad accumulare: un globo, una canna, un cappello. Un trentennio più tardi,

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realizza le sue nature morte più particolari, a colori, trasformando le cose più banali in oggetti surreali grazie agli effetti di sovrapposizione e a una luce degna dei più emblematici dipinti olandesi. Ueda ha costruito un mondo immaginario, sia nel suo studio che nell’immensità dei suoi paesaggi di mare e di sabbia, attingendo soprattutto al suo quotidiano. La mappa della prefettura di Tottori la dice lunga sull’attaccamento dell’artista alla sua regione natale. I luoghi immortalati sono raramente a più di 100 chilometri l’uno dall’altro, con una concentrazione molto forte intorno al triangolo rappresentato dai centri di Sakaiminato, Matsue e Yonago. Ad eccezione di qualche soggiorno a Tokyo e di qualche viaggio in Occidente, Ueda è rimasto sempre piuttosto sedentario. La sua opera attraversa le frontiere per la prima volta nel 1958 grazie ad una mostra al Museo d’Arte Moderna di New York, per iniziativa di Edward Steichen. Nel 1978 e nel 1987 è invitato a partecipare agli incontri Internazionali di Fotografia ad Arles. Durante gli anni successivi, numerose mostre sono organizzate in Giappone e all’estero. Due mostre importantissime hanno luogo in Svizzera al Museo dell’Eliseo e a Parigi presso la Maison Européenne de la Photographie, rispettivamente nel 2007 e nel 2008. Ueda Shoji si è spento nel 2000 all’età di 87 anni. Oggi, in un momento in cui la fotografia giapponese affascina più che mai, non è eccessivo dire che si tratta del fotografo locale più “universale” di sempre. Gli abitanti di Sakaiminato possono dunque esclamare con ragione e fierezza che “Ueda-sensei è famoso in tutto il mondo!”. CÉCILE POIMBOEUF-KOIZUMI


ZOOM CULTURA INTERVISTA

Una coscienza sempre viva

Dopo aver avviato la sua carriera di scrittrice, Yu mio percorso scolastico non aveva alcuna imporMiri non ha mai smesso di interessarsi a coloro tanza. che non hanno nessun posto dove andare.

S

crittrice celebre e insignita del prestigioso premio Akutagawa nel 1997, Yu Miri ha scelto di vivere la propria vita vicino a quelli che soffrono. ZOOM Giappone l’ha incontrata durante il suo recente passaggio a Londra, dove era venuta a parlare del suo lavoro di scrittrice qualche mese dopo la pubblicazione del suo primo romanzo tradotto in inglese. Prima di lanciarsi nella scrittura, ha lavorato come attrice per la troupe Tokyo Kid Brothers. Cosa l’ha portata verso il teatro? Yu Miri: In realtà non ho veramente potuto scegliere cosa avrei voluto fare nella vita. Quando ero alle elementari, ho passato gli esami per entrare alle medie, ma non mi sentivo a mio agio. Non so se fosse l’ambiente o l’idea di imparare cose che non mi interessavano, non saprei dirlo con chiarezza. Fatto sta che ho rifiutato di continuare ad andare a scuola e ho cominciato a consultare uno psichiatra. Ho finito per essere espulsa dall’istituto. Dopo questi eventi, ho trascorso la maggior parte del mio tempo sotto la stretta sorveglianza di mia madre, visto che avevo tentato la fuga più volte e persino tentato il suicidio a più riprese. Data la situazione, non poteva lasciarmi uscire. Abbiamo spinto al massimo i nostri limiti psicologici, al punto che una sera trovai mia madre in piedi di fronte al mio letto, a mezzanotte, con un coltello da cucina in mano. Ricordo anche altri episodi sinistri simili. Una volta mi disse di voler parlare con me, fuori da casa nostra. Siamo partite a bordo della sua moto, ma lei ha provato a farci andare fuori strada e precipitare in mare. Fu un momento estremo, mia madre era pronta a eliminarmi e a uccidersi nello stesso istante. Era assolutamente necessario che lasciassi quella casa. Poco importa dove andassi. Così ha raggiunto la troupe dei Tokyo Kid Brothers… Y. M.: Esatto. Una serie di fortunate circostanze mi ha portato fino a loro. Ero fuggita mentre mia madre stava dormendo, ed ero finita nel quartiere di Harajuku, a Tokyo, dove la troupe si era appena esibita. Avevo sedici anni quando sono entrata a far parte del gruppo, ma questo evento non è stato il frutto di un progetto preciso. Visto che ero stata espulsa dalla scuola, il mio livello culturale era molto debole, al punto che non potevo nemmeno aspirare a un impiego part-time fra i meno qualificati. Di fronte a questa mancanza di scelte possibili, mi sono diretta verso il teatro, dove il

Non pensa che avrebbe potuto continuare a coltivare questa vocazione e diventare celebre come lo è oggi in qualità di scrittrice, dal momento che il teatro corrispondeva bene alla sua personalità? Y. M.: Hmm... A dire il vero, non penso di essere davvero tagliata per il teatro. Dopo il mio ingresso alle medie, ho sempre avuto l’impressione di mantenermi in equilibrio precario, un semplice passo falso avrebbe provocato la mia caduta, sia a casa che a scuola. La scrittura mi è dunque sembrata l’ultima possibilità per rimanere stabile e in equilibrio su questa minuscola piattaforma, dove c’era spazio solo per me e dove potevo stare in piedi.

Neko no ouchi [La casa dei gatti, inedito in italiano], Edizioni Kawade Shobo Shinsha, 2016, ¥1620

Perché, nella scrittura, ha preferito i romanzi? Y. M.: Ho scritto una decina di pièces teatrali e persino ottenuto un premio, il Kishida Kunio. Tuttavia, la scrittura per il teatro è un lungo processo creativo dove si redige lo script, poi lo si dà allo sceneggiatore e infine lo si passa agli attori. Ho sentito a poco a poco la necessità di svincolarmi da questo ciclo in cui il risultato finale dipendeva dalla qualità di questo processo. Volevo comunicare direttamente col lettore, maturare una relazione più personale con esso. È per questo che ho cominciato a scrivere romanzi e continuo ancora oggi. Questo non significa che abbia messo un termine definitivo alla scrittura di pièce teatrali. A questo proposito penso di scriverne una a breve.

Che genere di pièce amerebbe scrivere oggi? Y. M.: Vivo a Minami Soma, nella prefettura di Fukushima. Lavoro alla radio, dove produco qualche trasmissione per la stazione dedicata alle urgenze. È un’emittente che comunica in caso di catastrofi importanti, quando le vie di comunicazione sono bloccate, e fornisce una serie di informazioni pratiche e utili. Non è quindi una stazione radio che trasmette in permanenza, ma soltanto quando gli effetti di una catastrofe si fanno sentire. Minami Soma si trova in prossimità della centrale di Fukushima-Dai-ichi, dove ebbe luogo l’incidente, e numerose persone vivono ancora lì in alloggi provvisori. Prima dell’11 marzo 2011, la popolazione era superiore a 70.000 abitanti, oggi ne rimangono appena 50.000. Evidentemente molte persone sono decedute, ma molti abitanti sono stati evacuati fuori dalla città e vivono ancora oggi come rifugiati. Ispirandomi a questo contesto presento ogni settimana una trasmissione di 30 minuti, nel corso della quale raccontiamo la storia di queste persone, invitando ogni volta un paio di loro a parlare. Abbiamo ospitato diverse «coppie»: marito e moglie, coppie di amici, uno studente col suo professore, colleghi di lavoro, fratello e sorella, persino commercianti coi loro clienti. In totale, 420 persone sono passate dallo studio di registrazione. Mi sono chiesta se avrei potuto trasformare queste testimonianze e questo lavoro in pièce teatrale. Tutte queste persone sono reduci del terremoto del 2011 e continuano a patirne le conseguenze. In parte sono passive, poiché ricevono degli aiuti. Credo sarebbe bene poterli aiutare a esprimersi in maniera più diretta, con le loro proprie voci. Vorrei ricorrere a persone ordinarie per interpretare i ruoli, piuttosto che rivolgermi ad attori professionisti. I dialoghi non sarebbero in giapponese standard, ma in dialetto locale. Poiché vive a Minami Soma e si interessa ai problemi sociali e politici, molte persone la considerano un’autrice impegnata. Ha la stessa opinione di se stessa? Y. M.: Non faccio tutto questo perché desidero impegnarmi politicamente. Il fatto è che la centrale incriminata si chiama «Fukushima» ma, in realtà, è una struttura creata da Tokyo Electric Power Company (Tepco) e l’elettricità prodotta non era destinata alla popolazione della prefettura di Fukushima, ma interamente a quella della regione di Tokyo. Quando ho cominciato a rendermi conto di questo, ho capito che la catastrofe non era accaduta nella lontana prefettura di Fukushima. Ho cominciato a capire che, in quanto individuo che aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza nella capitale, anch’io avevo una parte di responsabilità in questa situazione.

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ZOOM CULTURA Cosa l’ha motivata a venire ad abitare qui? Y. M.: Ascoltando le storie delle 420 persone incontrate alla radio, ho potuto considerare il peso delle loro difficoltà quotidiane. Non tanto i problemi legati alla radioattività, quanto quelli legati all’economia locale. In una regione come questa, dipendente essenzialmente dal settore dell’agricoltura, la catastrofe ha reso le coltivazioni impossibili. Anche se i test relativi alle quantità di cesio sono oggi normali, nessuno vuole acquistare i prodotti locali. Certi produttori di latte e di prodotti agricoli, sono stati spinti al suicidio. Le zone costiere di Fukushima poi, sono socialmente molto diverse dalla città: numerose famiglie composte da due o tre generazioni vivono sotto lo stesso tetto. Esistono delle parcelle di terreno attorno alle quali crescono dei micro-villaggi composti da un edificio principale, una dependance, una casa per i genitori anziani che viene chiamata “inkyo”, un capannone, terreni coltivabili, risaie e boschi. Qui vivono decine di famiglie “allargate”, fra le quali esistono legami estremamente forti. Per fornire un esempio, si può vedere un bambino allattato dalla madre, ritrovarsi nella casa di fronte, dove la madre della famiglia vicina non esiterà ad allattarlo al seno a sua volta. Nella regione esiste una specialità chiamata hokki gohan (riso alle vongole). Se una famiglia prepara le vongole, è molto probabile che sarà il vicino a preparare il riso. Esiste quindi una solidarietà fortissima tra di loro, completamente differente dalle relazioni sociali che si sviluppano in città. In seguito alla catastrofe nucleare, tuttavia, i membri più giovani delle famiglie sono stati evacuati, lasciando indietro i genitori anziani. Questa separazione delle famiglie è un autentico dramma. Mi sono dunque detta che se avessi continuato a vivere tranquillamente a Kamakura, a sud di Tokyo, e fossi venuta qui solo per il lavoro alla radio, non sarei stata capace di capire realmente le difficoltà che la gente di qui affronta tutti i giorni. Ecco perché ho deciso di venirci ad abitare. In JR Ueno Eki Koenguchi (Stazione di Ueno, uscita parco. Inedito in Italia) perché ha deciso di scrivere sui senzatetto? Y. M.: Ho cominciato a scrivere romanzi a 18 anni, oggi ne ho 48. Sono trent’anni. Nelle interviste rilasciate nel corso di tutto questo tempo, una delle domande più frequenti è stata: “Per chi scrive?”. Invariabilmente, ho risposto: “Scrivo per le persone che non hanno nessun posto dove andare”. Continuo a farlo perché i miei sentimenti, nel tempo, non sono cambiati. Questo mi porta a chiedermi perché ho cominciato a scrivere, tout court. L’ho fatto perché io stessa non avevo nessun posto dove andare in questo mondo, né a casa, né a scuola. Mi sono messa a scrivere per creare un altro mondo. Voglio dunque continuare a scrivere su quelli che non hanno nulla, che siano i senzatetto o coloro che hanno perso la casa a causa della catastrofe nu-

cleare. Il mio animo non è sereno se non scrivo la storia di questa gente. Il suo ultimo libro, Neko no Ouchi [La Casa dei gatti, inedito in Italia] si basa sulla sua esperienza dopo il trasferimento a Minami Soma? Y. M.: Sì. Per riassumere in breve, penso esista sempre nella vita un cammino per fuggire dalla disperazione. Da quando sto a Minami Soma, ho notato con quale diligenza la gente di qui conduce la propria esistenza. C’è una piccola via piena di negozi vicino a casa mia. Ogni negozio, che sia quello di scarpe, di vestiti, la macelleria, il fiorista o la pescheria, è gestito dai membri di una stessa famiglia. Osservandoli, potrete notare che nessuno di essi si arricchisce davvero. Questo non impedisce loro di essere diligenti e disciplinati nel modo di lavorare. Ad esempio, se vi recate dal calzolaio per far riparare un tacco, lui non si accontenterà di aggiustarlo alla bell’e meglio. Realizzerà un lavoro di qualità. Un giorno ho chiesto a un sarto di trasformare uno dei miei kimono in abito da sera. La fattura presentava una cifra modesta, non certo adeguata all’enorme lavoro richiesto. Idem per il pescivendolo. Altrove, i sashimi sono in genere pre-tagliati e preconfezionati per la vendita. A Minami Soma, i clienti fanno la coda fuori dalle pescherie con il loro piatto in mano. Chiedono del tonno o del bonito e il pescivendolo taglia e sistema sul piatto, sotto il loro sguardo attento. Il tutto per un prezzo economico. Un giorno nel corso della mia trasmissione in radio ho intervistato un pescivendolo. Gi ho chiesto se non fosse troppo pesante tutto questo lavoro. Mi ha risposto di no, aggiungendo che i suoi clienti apprezzavano la differenza. È così che vive la gente di qui. Tutto si svolge all’interno di una comunità dove ognuno si prodiga in sforzi. Mi innervosisce vedere come questa gente, che vive ai margini del nostro cinismo economico, sia danneggiata così duramente dagli effetti nefasti di una centrale nucleare, simbolo e incarnazione di quel cinismo e di quel sistema economico. Nello stesso tempo, sono stata molto colpita nel vederli condurre la loro esistenza in modo umile, malgrado le difficoltà e il cordoglio per la perdita dei cari. È la ragione per cui ho scelto di descrivere in maniera sincera le scene di vita quotidiana che appaiono nel romanzo. Più di cinque anni dopo la tragedia del 2011, qual è la situazione attuale? Y. M.: Direi che questa gente è stata dimenticata. Immediatamente dopo la catastrofe, i media sono arrivati numerosi nella regione, alla ricerca di immagini forti. I giornalisti chiedevano alle persone scampate se sarebbero state d’accordo a lasciar fotografare la propria casa. Se qualcuno rispondeva che la propria casa era stata risparmiata dallo tsunami, i reporter non nascondevano la delusione! Una tragedia simile, malgrado il dolore per le

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persone colpite, non rappresenta che un prodotto commerciale per i media. Chi lavora in tv o nella stampa non finisce più di dire che i reportage sui terremoti non hanno più audience e i libri su questi temi non vendono. A Tokyo, oggi, gli sguardi sono rivolti ai prossimi Giochi Olimpici, tutti sembrano pensare solo a questo. I numerosi progetti di ricostruzione hanno così visto ridurre i finanziamenti e subiscono ritardi a causa dell’innalzamento dei prezzi dei materiali edili per via dell’appuntamento olimpico. A causa di tutto questo, molte vittime della catastrofe vivono ancora in alloggi di fortuna. Nella mia trasmissione, una persona ha espresso questo commento amaro, dopo aver sentito che Tokyo era stata scelta per i Giochi: “Per la gente della capitale, Tokyo è un elefante e Minami Soma una minuscola formica. Non gliene importa nulla di noi, se sarà necessario, ci schiacceranno”. È chiaro che gli eventi tragici del 2011 sono già stati dimenticati nella capitale e le popolazioni locali sono ferite da questo oblio. Ha quindi l’intenzione di scrivere qualcosa sulle Olimpiadi del 2020? Y. M.: Il mio romanzo JR Ueno Eki Koenguchi racconta le vicende di persone provenienti dalla poverissima regione di Tohoku. Queste persone hanno lasciato le loro case per lavorare alla preparazione dei primi Giochi Olimpici organizzati a Tokyo, nel 1964. Questi lavoratori sono stati sfruttati e poi abbandonati, diventando così dei senzatetto. Oggi, molti fra quelli che lavorano sui cantieri edili nel Tohoku, sono attratti dai siti olimpici per via dei salari più alti. A causa di ciò, ci sono carenze di manodopera per la ricostruzione e per la decontaminazione della regione. Si è dunque obbligati ad assumere manodopera proveniente da regioni dove gli stipendi sono ancora più bassi come a Nishinari (Osaka) o a Okinawa. È probabile che molti fra questi lavoratori, non assicurati, privi di un appoggio famigliare o indeboliti da una salute precaria diventeranno in futuro dei senzatetto. A Minami Soma, oggi, non è raro vedere questi lavoratori migranti varcare la soglia di un ospedale per un consulto, e fuggire quando è ora di pagare la prestazione medica. Molti cadono nella spirale dell’alcolismo e questo compromette l’ordine pubblico. È un male per la regione, ma al tempo stesso non posso impedirmi di essere triste per questi uomini. Alcuni muoiono sul lavoro. Quando accade, nessuno viene per reclamare le ceneri dopo la cremazione. C’è un tempio vicino a casa mia che è diventato, come altri templi di Minami Soma, l’ultimo luogo di riposo per questi lavoratori migranti, i più poveri del paese. Voglio scrivere su questo argomento, dopotutto fa parte del corollario ben reale dei prossimi Giochi Olimpici. INTERVISTA REALIZZATA DA HARA SATOMI


ZOOM CULTURA

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ZOOM CULTURA INCONTRO

Un ponte tra il Giappone e l’Italia

Giorgio Amitrano dirige l’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo. Ci spiega la sua missione e il suo interesse per il Giappone.

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i sono 83 Istituti Italiani di Cultura nel mondo. Pochi possono vantare una sede dalla facciata vistosa (rosso fuoco) come quella dell’Istituto di Tokyo (opera dell’architetto Gae Aulenti) e solo sette di essi (compreso quello di Tokyo) sono destinati a figure cosiddette di “chiara fama” cioè prese dal mondo della cultura. Non sempre queste nomine sono ben viste ma nel caso della capitale giapponese l’ultima scelta del Ministro degli Affari Esteri è stata sicuramente azzeccata. L’attuale direttore, infatti, è Giorgio Amitrano, famoso in Italia soprattutto per le sue traduzioni di libri giapponesi. Negli ultimi quattro anni ha lavorato in modo eccellente per consolidare i legami culturali fra i due paesi. Il mandato di Amitrano scadrà a gennaio ma prima di tornare in Italia ha trovato il tempo di parlare della sua esperienza di vita e di lavoro in Giappone e della sua attività di traduttore. Questa naturalmente non è stata la prima volta che ha vissuto in Giappone. Giorgio Amitrano: Infatti sono stato qui per cinque anni nel 1984-89. Nel 1984 sono venuto a Tokyo con una borsa di studio ma dopo un anno sono andato a Osaka dove per quattro anni ho insegnato italiano all’università. Dopo questa esperienza sono tornato qui per sei mesi e in ogni caso tutti gli anni sono tornato una o due volte l’anno. Quindi ha anche imparato il dialetto di Osaka! G. A.: Ho imparato a capirlo. I giapponesi poi con i gaijin (stranieri) tendono a usare la lingua standard ma in quei quattro anni ho imparato a capirlo piuttosto bene. Adesso ho dimenticato molte cose ma se mi capita di vedere un film in dialetto lo capisco abbastanza. Invece non ho mai imparato veramente a parlarlo ma a dire il vero non so parlare neanche il napoletano che è il dialetto della città in cui sono cresciuto. In un’altra intervista ha detto che quando è venuto in Giappone per la prima volta, negli anni ’80, ha capito che la scelta del Giappone non era stata poi così casuale e che in un certo senso faceva parte del suo percorso esistenziale. Che cosa intendeva dire con questo? G. A.: Io da giovane ho deciso di iscrivermi all’università e imparare il giapponese senza avere una forte motivazione e una vera coscienza delle ragioni per cui lo facevo. L’ho fatto – come fanno

Giorgio Amitrano

spesso i giovani – un po’ in maniera avventata. Quando però sono venuto la prima volta – ancora prima di laurearmi – ho avuto una forte sensazione di felicità o forse più esattamente la sensazione di sentirmi a mio agio in questo paese, più di quanto mi fosse mai successo in Italia. Questo piccolo momento di satori - volendo usare una parola un po’ esagerata - mi ha fatto capire che in realtà questa scelta che a me era sembrata casuale era stata dettata da qualcosa di più profondo (i giapponesi usano l’espressione “en ga aru”, cioè “era nel mio destino”) e quindi avevo in modo del tutto intuitivo scelto il paese che faceva per me. Ormai sono passati più di 35 anni da quella volta, ma questa è una cosa che continuo a sentire ancora adesso. Detto ciò non è che io voglia idealizzare il Giappone come se fosse il Paese delle Meraviglie. Capisco che come tutti i paesi del mondo ha i suoi difetti e i suoi problemi. Tuttavia lo sento adatto a me e lo amo molto. Vorrei aggiungere, poi, che a prescindere dal mio caso personale trovo che il Giappone sia un paese che risponde meglio di altri alle esigenze della vita contemporanea. Intanto ha un basso livello di criminalità; poi la burocrazia è piuttosto “gentile” nei confronti del cittadino, in generale tante cose

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funzionano bene e la vita quotidiana scorre senza grandi intoppi nonostante l’enorme folla delle grandi città. Tutti questi fattori sono sempre stati importanti ma lo sono a maggior ragione adesso che la vita è diventata così frenetica. Naturalmente non sono cose che garantiscono la felicità ma aiutano a vivere senza scontrarsi continuamente con i problemi delle grandi città e della modernità. Quindi secondo lei un giapponese che va in Italia ha un impatto più difficile con la nostra realtà quotidiana? G. A.: In parte sì, questo è vero. Però quasi sempre si adattano bene alla vita nel nostro paese e sono contenti, perché probabilmente da noi godono di maggiore libertà e trovano a livello umano certe cose che mancano in Giappone. Guardando un po’ indietro alle sue esperienze passate, è cambiata la sua visione del Giappone? G. A.: La mia opinione non è cambiata però ho notato delle differenze, dei cambiamenti, sia in positivo che in negativo. In positivo c’è una maggiore scioltezza delle persone nei comportamenti. Le coppie che oggi si tengono per mano e hanno atteggiamenti affettuosi in pubblico una


ZOOM CULTURA volta non esistevano. Un’altra cosa che ho notato sono i rapporti fra padri e figli. Prima era molto raro che un padre si occupasse dei bambini e ci giocasse in pubblico mentre adesso è molto più comune. Si vede che c’è stato un cambiamento in positivo all’interno della famiglia. Al contrario, però, una volta i Giapponesi erano famosi per la loro gentilezza e cortesia. Questo aspetto non è più così scontato. Rispetto all’Italia è ancora un paradiso, ma sono aumentati quegli episodi di scortesia nei rapporti umani, ad esempio da parte dei negozianti, atteggiamenti a cui siamo purtroppo ogni tanto abituati in Italia, ma che in Giappone un tempo erano veramente rarissimi. Forse è il prezzo da pagare per avere un po’ più di libertà. E poi c’è questo uso ossessivo dello smart phone per cui tutti, sui mezzi pubblici o camminando per strada, sono talmente presi da questo strumento che hanno con esso un rapporto ossessivo. Una volta in metropolitana tutti leggevano – giornali, libri, manga – ma l’esperienza della lettura non crea quel tipo di isolamento che è invece tipico dello smart phone. Questo trovo sia un peggioramento. In questi quattro anni lei è stato sicuramente molto occupato con il suo lavoro all’Istituto. Ha avuto tempo di fare altre cose e godersi questa trasferta a Tokyo? G. A.: Sfortunatamente ho avuto pochissimo tempo libero perché questo è un lavoro molto impegnativo. Pensi che quando ho saputo di essere stato nominato direttore dell’Istituto ho gioito al pensiero di tornare finalmente a vivere in Giappone e invece mai come questa volta il Giappone l’ho visto poco. Ad esempio, qui siamo vicinissimi a Jinbocho, il quartiere delle librerie d’antiquariato e dell’usato. Prima quando visitavo Tokyo anche solo per una settimana o dieci giorni ci andavo spesso e passavo ore a sfogliare libri. Adesso che è a due passi, non ho letteralmente il tempo di andarci. Anche al cinema, che io amo molto, andrò forse una volta ogni due mesi. L’Istituto è aperto anche il sabato e la domenica e ci sono sempre cose da fare, eventi da organizzare. Quindi presumo che in questi quattro anni abbia dovuto accantonare anche le traduzioni. G. A.: Sì, la mia ultima traduzione – un libro di Banana Yoshimoto – l’ho completata qui a Tokyo, seppure con molta difficoltà, ma la maggior parte l’avevo fatta in Italia prima di partire. Sono anche riuscito a scrivere – non so nemmeno come – alcuni articoli per delle riviste accademiche. Le traduzioni però sono più impegnative e quindi le ho dovute temporaneamente sospendere. Tuttavia ho già preso degli impegni con delle case editrici e così appena torno in Italia l’anno prossimo ricomincerò a tradurre. Mi piacerebbe soprattutto raccogliere delle cose che ho scritto in passato per

pubblicarle. E poi vorrei riprendere dei progetti di scrittura che avevo lasciato in sospeso. Lei è diventato traduttore quasi per caso, mi pare. G. A.: In effetti i primi racconti li ho tradotti per la mia tesi di laurea senza pensare a una loro eventuale pubblicazione. Poi mi hanno chiesto di pubblicarli su una rivista universitaria. La responsabile di una collana della Marsilio li ha visti e mi ha proposto di realizzare un libro, uscito intorno al 1984-85. Quindi sono passati più di 30 anni dal primo libro tradotto. In questi 30 anni è cambiato il mondo delle traduzioni in Italia? G. A.: Il rapporto fra case editrici e traduttori non credo sia cambiato. Ancora adesso gli editori – con qualche eccezione – non danno grande importanza al ruolo del traduttore. Alcuni redattori sono più sensibili da questo punto di vista ma in generale i traduttori sono considerati intercambiabili. Inoltre è un lavoro sottopagato: i traduttori vengono remunerati un tanto a pagina e di solito non hanno una percentuale sulle vendite – cosa che invece in Giappone è data per scontata. Qui i traduttori ricevono percentuali piuttosto alte: è un fatto che, soprattutto quando i libri hanno successo, cambia sensibilmente la condizione economica di chi fa questo lavoro. Com’è l’atteggiamento dell’editoria italiana nei confronti della letteratura giapponese? G. A.: È decisamente migliorato. Un tempo era difficilissimo convincere gli editori a pubblicare libri giapponesi. Adesso, in confronto, si pubblica molto di più. C’è più curiosità e anche più aspettativa. Chiedo scusa se cito un libro che ho tradotto io, ma credo che il successo di Kitchen di Banana Yoshimoto abbia contribuito a migliorare la situazione. Fra l’altro questo è stato il primo libro ad essere tradotto prima in Italia e poi in altri paesi ad avere un enorme quanto inaspettato successo. Dopo Kitchen tutti gli editori avrebbero voluto tradurre solo Banana e infatti ho faticato tantissimo a far pubblicare Norwegian Wood di Murakami Haruki (inizialmente tradotto con il titolo Tokyo Blues). Murakami in quel periodo non era ancora conosciuto e la maggior parte delle 7.000 copie stampate sono andate al macero. Invece adesso ogni suo nuovo libro vende anche 100-150.000 copie, che per il mercato italiano sono moltissime, e c’è soprattutto da parte degli editori la consapevolezza che un libro giapponese può diventare un best-seller. Parlando di Murakami e Yoshimoto, forse i due autori più popolari da Lei tradotti, mi pare che abbia confidato che Murakami non è difficile da tradurre mentre Yoshimoto, pur avendo una

scrittura apparentemente semplice, in realtà presenta diverse difficoltà. G. A.: Il fatto è che leggere e tradurre sono due cose molto diverse. Per uno che conosca il giapponese, leggere i libri di Yoshimoto in originale non è difficile. Kitchen, ad esempio, ricordo di averlo letto in poche ore. Invece si è rivelato inaspettatamente difficile da tradurre e la cosa si è ripetuta con tutti i suoi libri. Quando si leggono le sue storie si ha la sensazione di capire tutto, ma quando poi si traducono ci sono dei passaggi poco chiari in cui spesso ci si blocca. A volte mi è capitato di chiedere il significato di certe frasi ad amici giapponesi e anche loro non erano sicuri sull’interpretazione. Mentre Murakami è più logico e la sua prosa è molto lucida e razionale, la prosa di Yoshimoto è molto impressionistica e visuale (in questo ricorda un po’ i manga) e l’ambiguità delle sue immagini può essere difficile da analizzare. In questo senso è molto giapponese. Ricorda un po’ Kawabata Yasunari in questo giocare su tinte sfumate. Cosa ne pensa del Nobel a Murakami e delle aspettative che ogni anno alimenta in Giappone? G. A.: Penso che tutte queste chiacchiere gli portino sfortuna, perché l’Accademia Svedese che sceglie i vincitori vuole sorprendere con le sue scelte. Se si osservano la maggior parte dei premi assegnati negli ultimi anni, non sono mai stati dati a chi ci si aspettava di veder primeggiare. Quindi il fatto che Murakami ogni anno sia dato fra i favoriti gioca a suo sfavore. Personalmente penso lo meriterebbe. Si tratta di un grande scrittore che dà voce a una sensibilità che non conosce frontiere. Forse è un po’ pop per i gusti dell’Accademia, ma visto che quest’anno hanno premiato Bob Dylan, forse in futuro... Come vede l’attuale scena letteraria giapponese? G. A.: Premetto che in questi quattro anni ho potuto leggere meno del solito. Detto questo, mi sembra che sia molto vitale e che ci siano cose interessanti e scrittori che hanno molto da dire. Matayoshi Naoki ad esempio, un comico che l’anno scorso ha vinto il prestigioso Premio Akutagawa, ha un notevole talento di narratore. Poi ci sono Yoshida Shuichi, Kawakami Mieko, Furukawa Hideo. Sono tutti scrittori molto validi, anche se forse non ci sono figure di grande spicco come sono stati in passato i vari Kawabata e Tanizaki, o come lo sono adesso i due Murakami, Ryu e Haruki. Io intanto quando tornerò in Italia mi cimenterò per la prima volta con Mishima Yukio. È una cosa che mi incuriosisce e che farò molto volentieri. INTERVISTA REALIZZATA DA JEAN DEROME

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ZOOM CULTURA ARCHITETTURA

Sguardi a confronto sul mondo

Sejima Kazuyo e Aldo Cibic, la cui fama oltrepassa le rispettive frontiere, difendono la visione di un’architettura “felice”.

I

n che modo l’architettura “costruita” dialoga con lo spazio circostante e la natura? È possibile ampliare il concetto di design fino a scoprire nuovi modi per immaginare il futuro e ripensare al significato della felicità? Questi sono i temi principali toccati da Sejima Kazuyo e Aldo Cibic nel corso dell’incontro organizzato il 4 novembre a Tokyo dall’Istituto Italiano di Cultura. Sejima Kazuyo fa parte dell’elite dell’architettura giapponese contemporanea. Nel 1995 ha fondato insieme a Nishizawa Ryue lo studio SANAA con cui ha progettato il 21st Century Musem di Kanazawa, Dior Omotesando (Tokyo) e il New Museum (New York). Nel 2010 ha diretto la 12esima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. È stata insignita, tra gli altri, del premio dell'Istituto di Architettura del Giappone, del Leone d'Oro della Biennale di Venezia e soprattutto del Priztker Prize considerato un vero e proprio Premio Nobel per l’architettura. Aldo Cibic ha iniziato a lavorare nel 1977 con Ettore Sottsass, diventandone partner nel 1980. L'anno successivo hanno fondato insieme Memphis, un collettivo italiano di architettura e design. Nel 1989 ha aperto a Milano il proprio studio con il quale opera a livello internazionale su progetti che indagano la dimensione urbana, il rapporto dell’uomo con l’ambiente e la collettività. Fra i vari progetti illustrati durante la conferenza, ha destato particolare interesse l’opera di rivitalizzazione che Sejima sta conducendo a Inujima, una piccola isola nel Mare Interno del Giappone non lontana da Naoshima, a sua volta famosa come “isola d’arte” per i suoi molti musei di arte contemporanea. Come si è sviluppato il progetto di Inujima? Sejima: Quest’isola in passato ha raggiunto una popolazione massima di 5000 persone, ma adesso ne sono rimaste solo una trentina. Ci sono due centri “abitati” (per modo di dire) con una grande quantità di case abbandonate che ho pensato di rinnovare e trasformare in diversi modi, cercando naturalmente di mantenere intatto il loro ambiente naturale. Quando il progetto sarà completato, l’intero centro diventerà un vero e proprio museo e la gente potrà passeggiare per le sue stradine e visitare le varie costruzioni che ospitano mostre e ins-

Sejima Kazuyo.

tallazioni di vario tipo. L’area è piuttosto piccola e può essere visitata a piedi in 30-40 minuti. Fra l’altro, qui le macchine non circolano, ma l’isola è talmente piccola (ha una circonferenza di 3 km) che la si può girare in un’ora. Ho trovato molte abitazioni in condizioni abbastanza buone e le ho potute utilizzare così com’erano. In altri casi ho conservato la loro base in pietra aggiungendovi altri materiali in parte trovati sul luogo ed in parte portati da fuori. È un lavoro che richiede molto tempo, anche perché ogni casa viene letteralmente smontata per controllare quali parti sono ancora utilizzabili e quali vanno sostituite. Inoltre bisogna ripulire i sistemi di scolo e tutta la zona dalle erbacce. Cibic: Sono rimasto molto colpito da questo lavoro e lo sento molto vicino perché, proprio alla Biennale del 2010 curata da Sejima, avevo proposto dei progetti di spirito simile. Sarebbe bello poter fare le stesse cose in Italia. È interessante vedere come si possano presentare delle alternative al nostro vivere quotidiano. Da noi il corrispettivo di quest’isoletta potrebbe essere la vita in campagna che da una parte ha il vantaggio di offrire un ambiente sotto certi aspetti più umano, meno stressante e con un costo della vita ridotto ma in cui certi limiti di una volta, come l’isolamento, sono oggi ridotti dalla connessione online.

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Sejima-san, lei è riuscita ad applicare con successo in tutto il mondo le sue idee sull’architettura. Pensa che i suoi lavori riflettano in qualche modo la cultura orientale? Sejima: Quando cominciamo a lavorare a un nuovo progetto non cerchiamo mai di introdurre consciamente riferimenti all’architettura asiatica o giapponese. Tuttavia la relazione di continuità fra interno ed esterno, che è un po’ una costante del nostro lavoro, è sempre stata un elemento importante dell’architettura giapponese. Da noi, per esempio, si considera sempre il fattore climatico (in estate c’è molta umidità) mentre la percezione degli spazi dipende anche dall’ora del giorno, cioè dall’angolo con cui il sole illumina le superfici. Cibic: Girando per Tokyo in questi giorni mi ha fatto una grande impressione il fatto che questa città è piena di colori. La cultura popolare è molto colorata ma quando si arriva ad un design più raffinato il colore sparisce. Ed infatti anche in Italia, o in Occidente, abbiamo un’immagine più rarefatta del Giappone, più poetica. In questo credo che Sejima sia molto giapponese visto che le piace molto usare il bianco nei suoi lavori. Al contrario ci sono designer come Kuramata, Kita e Umeda che lavorano molto con il colore. Quest’ultimo ha lavorato anche con Sottsass e quindi mi viene da pensare che forse il frequentare l’Italia li abbia influenzati in questo senso.


ZOOM CULTURA Sejima: È vero che nel mio lavoro il colore di per sé non compare molto. Da una parte ho progettato molti musei – luoghi in cui di regola il bianco abbonda – e poi una superficie bianca dà molta libertà perchè lascia aperte molte opzioni. In altri casi, come a Inujima, più che applicare il colore io stessa, mi piace che le cose riflettano i colori circostanti. In certi casi ho usato anche degli specchi in modo che l’ambiente circostante riflesso divenisse parte integrante di mostre e installazioni. Oppure mi piace progettare costruzioni i cui muri esterni siano trasparenti, come la Shibaura House a Tokyo. Il vetro a seconda dei casi riflette la luce e permette sia a chi sta fuori di vedere gli interni sia a chi sta dentro di vedere l’ambiente circostante. Come avrà notato, signor Cibic, questo Istituto di Cultura ha una facciata rosso fuoco che a suo tempo non è stata molto ben accolta e anzi ha sollevato molte polemiche perché non si armonizza con l’ambiente circostante. Memphis è un progetto molto colorato che ha preso idee da diverse culture come quella indiana e messicana. Cosa pensa dell’uso del colore? Cibic: Non so sinceramente come sia nato in me quest’amore per il colore. Se penso ai colori delle città italiane, per me in qualche modo rappresentano un’idea di vitalità e sensualità più istintiva e se vogliamo più popolare dell’essenzialità giapponese che è invece più rituale. In questi giorni sono stato in diversi uffici qui a Tokyo e come anche in Italia sono sempre posti anonimi. Qualche anno fa, ad esempio, ho fatto la nuova sede della rivista Abitare. Il direttore, Italo Lupi, avrebbe voluto un design super minimalista e senza tanti colori. Questo è piuttosto normale quando si tratta di ambienti di lavoro. Le scuole al confronto sono più colorate perchè ci sono i bambini e forse il mio amore per il colore è dovuto in parte alla mia natura infantile. Ma ci sono anche molti studi che spiegano quali siano gli effetti benefici del colore. Per me il colore è portatore di vita, il che non va confuso con il caos, ma una vita senza colori è una vita meno ricca. Il progetto di Cibic “Rethinking Happiness” è una ricerca in costante evoluzione sulla natura e sul design di modelli di vita del mondo contemporaneo. In che modo secondo voi il design e l’architettura possono contribuire alla felicità dell’uomo? Cibic: Il focus di questo progetto è quello di interpretare in modo più allargato il concetto di design attraverso il coinvolgimento attivo nel processo progettuale. In altre parole noi vogliamo sapere dalle persone – la cosiddetta intelligenza collettiva – quali sono le loro paure, i problemi che gli stanno più a cuore e come pos-

Aldo Cibic.

siamo risolverli. Nelle città, ad esempio, sta venendo meno il senso di comunità. Ecco, solo attraverso questo coinvolgimento un designer non tradizionale può agire rispetto alle problematiche del suo tempo. Sejima: Avendo lavorato a molti progetti di architettura pubblica mi chiedo sempre quali siano gli elementi chiave che possono spingere la gente ad usare un luogo pubblico invece di starsene a casa a navigare su Internet. Secondo me è molto importante l’atmosfera generale che si respira. Questa a sua volta è determinata dalla struttura del luogo, la sua posizione e funzione pratica. Lo scopo finale, comunque, è sempre quello di organizzare spazi che facilitino la comunicazione fra le persone. Cibic: L’architetto danese e studioso di storia urbana Jan Gehl dice che una bella città è come un bel party: la gente ci sta più a lungo e più volentieri perché si diverte. La questione anche qui è individuare i problemi e trovare i modi per ovviare a essi. Quindi bisogna convincere sia gli amministratori pubblici sia gli urbanisti che sono le azioni delle persone che generano l’anima di un luogo e non viceversa. Che cos’è la casa per voi? Come la interpretate e com’è la vostra casa ideale? Sejima: La casa è un luogo privato ma allo stesso tempo non è isolato perchè fa parte del quartiere, di una comunità di persone ognuna delle quali fa un lavoro diverso e ha un diverso stile di vita. Esistono quindi una relazione e una continuità fra questi due ambienti. La casa

è un luogo fatto di odori e rumori in cui si vivono diverse esperienze. Allo stesso tempo le esperienze di chi ci abita la trasformano in un contenitore di ricordi. Cibic: Mi riconosco in quello che ha detto Sejima. In questo momento mi interessa di più la comunità che ho intorno, che non deve essere però una comunità settoriale come un gruppo di intellettuali. Ho bisogno più semplicemente di sentire intorno a me il calore delle persone. Non potrei mai vivere in una grande villa in campagna. Da qui nasce la necessità di creare luoghi in cui la gente vuole vivere; in cui la gente sta bene. C’è un mobile a cui non rinuncereste mai? Sejima: Personalmente non ho bisogno di molti mobili, soprattutto il mobile come oggetto concreto e fisso che si impone sull’ambiente. Mi piace andare a casa di amici e ammirare il loro arredamento ma in Giappone le case sono così piccole che preferisco qualcosa di più funzionale che posso eventualmente spostare e riarrangiare. Sicuramente per lavorare e fare tante altre cose ho bisogno di una superficie piana, come un tavolo, e poi una sedia. Penso che queste due cose siano sufficienti. Cibic: Il mio sogno è quello di avere un mio spazio personale molto piccolo con poche cose. Anche il tavolo è importante fino a un certo punto perché essendo pigro lavoro meglio su un divano o addirittura a letto. Per me una casa deve essere accogliente come una pantofola. INTERVISTA REALIZZATA DA J. D.

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ZOOM CUCINA QUOTIDIANO

L’altro regno del pane

Haruyo ci fa scoprire qualche specialità dei panettieri giapponesi che hanno trovato in Francia la loro ispirazione.

La panetteria Shinshindo ha quattro indirizzi a Kyoto. www.shinshindo.jp/eng/

sono «le petit bâtard» e la «baguette rétro», fine e saporita. I «petits bâtards» si trasformano in sozai pan se li si fa cuocere col bacon, ad esempio. Ideali a mezzogiorno, o per accompagnare un aperitivo. In questi ultimi tempi, la tendenza presso i panettieri è quella di utilizzare pane non dolce per fare i sozai pan. Anche le pagnotte al burro salato sono molto alla moda. Per i giapponesi il pane quotidiano è il shoku pan, un pane di mollica chiamato kakushoku quando è ben rettangolare e yamashoku se la parte alta è rigonfia. È venduto intero o a fette di cui si può scegliere lo spessore. Shinshindo propone diverse varietà di un pane dolce chiamato kashi pan, detto anche «panino per la merenda». Si trovano dei classici come

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il melon pan, a forma di melone tagliato in due e ricoperto di una pasta briochée zuccherata, e poi gli immancabili krapfen fritti. Quest’autunno la panetteria espone il suo originale an pan, farcito stavolta da castagne, patate dolci e un tocco di arancia. Non ci sono dolciumi nelle pasticcerie giapponesi, tanto la varietà delle brioche è ampia. Tsuzuki Hajimu, il proprietario, ha come scopo quello di far crescere il suo negozio come panetteria-pasticceria alla francese. D’altra parte, è il solo indirizzo in Giappone dove si possano trovare macarons di otto centimetri di diametro! La prossima volta che vi recherete in Giappone, non esitate ad entrare in una di queste numerose panetterie giapponesi! MAEDA Haruyo

MAEDA Haruyo

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el 2016, il Giappone conta più di mille panetterie. Esse continuano a svilupparsi per attirare un numero crescente di consumatori. Esistono diversi tipi di panetteria, ma la maggior parte ha scelto il sistema di vendita self service. All’entrata del negozio si trovano vassoi e pinze a disposizione della clientela. Oggi ho scelto di presentarvi una panetteria di Kyoto dove ogni tanto do dei corsi di pasticceria. Si trova ogni sorta di pane e brioches come quelle che si vedono quotidianamente in Francia, i croissants o le brioche con l’uvetta. Il pane più tipico dell’arcipelago è il sozai pan, un pane farcito con ingredienti salati che può sostituire un sandwich a mezzogiorno. I più richiesti sono il pane farcito con salsiccia e ketchup, il pane-pizza, il pane con uova e maionese, o ancora il pane al curry. Sono considerati dei “classici” al punto che ogni panetteria ha il suo pane al curry fatto artigianalmente. Vi consiglio una piccola variante di questi piaceri gastronomici: un pirojki alla giapponese. Farcito di carne bianca arrostita, è costituito di pane bianco e morbido, leggermente zuccherato, simile al pane al latte. Lo troverete alla Bakery Shinshindo. Quest’ultima ha aperto i battenti nel 1913, grazie a Tsuzuki Hitoshi, conosciuto come il primo giapponese ad aver imparato il mestiere di fornaio in Francia. Ha studiato anche la Bibbia e la filosofia moderna. Praticando correttamente la lingua di Molière, era già sensibile alla letteratura francese. Forse per questa ragione le sue baguettes sono così ricercate dai Francesi che vivono qui. I più popolari



ZOOM CUCINA L A RICETTA DI HARUYO

SAKE NO SAIKYOYAKI (Salmone al miso)

INGREDIENTI (per 2 persone) 2 bei pezzi di salmone 100 g di miso bianco 2 cucchiai da minestra di mirin 2 cucchiai da minestra di zucchero

Consiglio : Il miso bianco è raccomandato per il suo gusto più delicato. Evitate la cottura a fuoco vivo.

PREPARAZIONE

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1 - Mescolare in una ciotola il miso bianco, il mirin (saké dolce) e lo zucchero. 2 - Intingervi i pezzi di salmone e poi lasciar riposare per almeno due ore in frigorifero. 3 - Prima della cottura, togliere l’eccesso di salsa quindi cuocere in padella su uno strato di carta forno. 4 - Coprire e lasciar cuocere per 8 minuti 5 - Servire caldo.

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lingue

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2017

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Angeles Marin Cabello per Zoom Giappone

“La più bella vista del Giappone”. Con questi termini un emissario coreano ha descritto nel 1711 il paesaggio che si ammira dalla finestra del Taichoro.

LA NOSTRA SCELTA

Un tesoro chiamato Tomo

La prefettura di Hiroshima nasconde numerosi luoghi eccezionali. Fra essi, l’affascinante porto di Tomo-no-ura.

S

eduto, le gambe incrociate su un cuscino nella sala di ricevimento Taichoro, il sacerdote del tempio Fukuzen-ji, spiega l’importanza dell’incredibile vista che appare alla finestra. Circondate dal mare color zaffiro, si scorgono le isolette di Sensui e Benten. Su quest’ultima, una pagoda color arancione vivace si distingue dalla coltre di conifere scure, come una fiamma, mentre un piccolo torii sulla riva indica ai visitatori che si tratta di un luogo sacro. Nel 1711, l’emissario coreano I Pan-on, ha presentato questo scorcio come «la più

bella vista del Giappone». Ma, come prosegue il sacerdote, non si tratta solo di una bella vista. Per interi secoli, questo luogo ha avuto la funzione di calendario cosmico. “La posizione delle stelle e dei pianeti rispetto a queste isole permetteva di determinare i momenti in cui si celebravano il solstizio, l’equinozio, la luna d’ottobre e il nuovo anno”, racconta. Tira fuori una scatola piena di vecchie reliquie: meridiane, lanterne, pergamene. Un insieme di souvenir provenienti da secoli diversi. Ogni oggetto possiede la sua storia e il sacerdote sembra pronto a raccontarle. Ma la guida si inchina profondamente, la sua testa sfiora quasi il tatami. Presenta le sue scuse, dicendo che il suo piccolo gruppo di visitatori è

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molto in ritardo e deve affrettarsi a raggiungere la prossima tappa del viaggio. Il religioso lo osserva con uno sguardo interrogatore, poi alza le spalle con buonumore. Assomiglia vagamente al Dalai Lama. Il tempo? Sbrigarsi? Dei concetti assolutamente estranei al suo universo. Fuori, il sole accecante del mattino brilla sulle acque della baia di Tomo-no Ura. Tomo è un piccolo e affascinante borgo di pescatori sulla punta della penisola di Numakuma, a 14 chilometri a sud di Fukuyama, nella prefettura di Hiroshima. Taichoro è un monumento storico nazionale, costruito nel 1690 come annesso al tempio Fukuzen-ji. Veniva utilizzato come dimora per gli ospiti, per accogliere gli emissari in visita. La storia del calendario celeste


COME ARRIVARE IN AEREO: I voli fra Tokyo e Hiroshima (1h15) sono frequenti. All’aeroporto, prendete il Limousine Bus fino alla stazione di Fukuyama (1h), poi un bus Tomotetsu fino a Tomo-noura (30 mn). IN TRENO: In shinkansen fino a Fukuyama (3h40), poi un bus Tomotetsu fino a Tomo-no-ura (30 mn).

Tomo-no-ura deve la sua popolarità a una posizione ideale

zona portuale, a realizzare una discarica di 4,6 ettari e un gigantesco parcheggio. Il progetto avrebbe evidentemente sfigurato questo paesaggio favoloso. Malgrado l’opposizione ostinata degli abitanti, Tomo sembrava destinata a perdere i suoi tesori. Per fortuna, le sue sorti attirarono l’attenzione di più di 45 organismi per la conservazione del patrimonio, nazionali e internazionali, fra i quali il World Monument Fund (WMF) e il Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti (ICOMOS). Il WMF ha persino messo a disposizione dei fondi per restaurare una delle antiche abitazioni di mercanti di Tomo, grazie all’aiuto di American Express. La casa è oggi un centro informazioni e una pensione. Nell’aprile del 2007, circa 160 residenti hanno depositato una denuncia presso il tribunale di Hiroshima per impedire al governatore della prefettura di rilasciare un primo permesso di costruzione. Questo non ha potuto evitare che le autorità locali richiedessero, un anno dopo, un’autorizzazione per cominciare i lavori. È stato necessario aspettare otto-

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è solo uno fra i mille affascinanti racconti che riguardano la cittadella. Raccolto nel cuore della baia a mezzaluna che si affaccia sul parco nazionale del Mare interiore, Tomo è stata fonte di ispirazione per poeti e artisti nel corso dei secoli. Mille anni prima dell’arrivo del coreano I Pan-on, il Manyoshu (antologia di poemi dell’VIII secolo) comprendeva otto poemi dedicati a Tomo, compreso quello di Otomo Tabito: «Ogni volta che scorgo il ginepro sulla spiaggia di rocce di Tomo-no-ura, mi ricordo di mia moglie che aveva l’abitudine di venire ad ammirare l’albero con me. Come potrei dimenticarlo?» Nel 1929, il paesaggio di Tomo ha ispirato il maestro di koto Miyagi Michio (1894-1956) per comporre il suo celebre pezzo Haru no Umi (Mare di primavera). Miyazaki Hayao l’ha scelto, nel 2008, come set per il suo film d’animazione Ponyo sulla scogliera dopo aver trascorso due mesi in una casa sul porto. Più recentemente, nel settembre del 2012, il regista americano James Mangold, in compagnia dell’attore Hugh Jackman e del resto del cast, è venuto in città per girare alcune scene del suo Wolverine. Il regista ha scelto Tomo fra più di cinquanta altri borghi giapponesi, poiché evocava in lui l’antico Giappone che aveva scoperto attraverso i film di Ozu Yasujiro. Quanto a Hugh Jackman, ha pescato nella baia e twittato dei selfie davanti all’emblematico Joyato, il faro di pietra di Tomo che risale al XVII secolo. 1300 anni dopo il poema di Otomo, il paesaggio senza tempo di questo villaggio continua a emozionare tutti quelli che lo contemplano. O almeno, quasi tutti. Nel 1983, questo tesoro inestimabile è stato minacciato dalle autorità locali intenzionate a costruire un ponte di 180 metri proprio di fronte all’antica

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Joyato, uno dei tesori della città portuale.

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Il famoso negozio di Ken-chan dove l’attore americano Hugh Jackman ha assaggiato delle sardine essiccate.

Si trova ancora qualche produttore di homeishu, la specialità locale, dalle molteplici virtù.

bre 2009, quando il tribunale ha pronunciato una sentenza storica, bloccando il progetto e riconoscendo agli abitanti il diritto di proteggere il loro

paesaggio urbano. Le autorità locali hanno deciso di ricorrere in appello. Per fortuna, nel giugno 2012, dopo ben tre

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decenni di lotta intensa, il nuovo governatore Yuzaki Hidehiko ha deciso di sotterrare definitivamente il progetto del ponte e si è impegnato a preservare la zona dell’antico porto. Una grande vittoria sul cemento, tanto rara da meritare di essere sottolineata. “È un enorme passo avanti e una buona cosa per il futuro del Giappone, e non soltanto per Tomo-noUra”, ha commentato, congratulandosi, Miyazaki Hayao. Cosa ha potuto ispirare una resistenza così tenace? In verità, Tomo dispone ben più della sua vista meravigliosa. Prima di tutto è il solo porto giapponese dell’era Edo (1603-1867) ancora attivo, con circa 80 edifici d’epoca. La sua importanza storica si spinge però più lontano. Le correnti provenienti da est e da ovest si incontrano qui. Nell’antichità, le navi aspettavano in queste acque che la marea cambiasse, e questo ha valso alla località di essere soprannominata shio no minato (il porto dove si attendono le maree). Altre navi venivano nella baia a rifugiarsi in attesa della fine della tempesta. Durante l’era Edo, Tomo ha conosciuto la prosperità grazie ai commerci con l’Asia continentale. Si dice che i suoi negozi fossero talmente frequentati da restare aperti giorno e notte, mentre gli emissari coreani e olandesi tessevano lodi sulla sua bellezza. Si dice anche che il poeta ed erudito Rai Sanyo (1780-1832) avesse lavorato sulla sua importante Nihon Gaishi (Storia del Giappone) a Tomo-noUra e che Sakamoto Ryoma, il famoso dirigente favorevole al rovesciamento del sistema degli shogun di Tokugawa, si sarebbe nascosto qui dopo il naufragio della sua imbarcazione, l’Irohamaru, nel 1867. Il relitto è stato ritrovato cento anni più tardi. È attualmente esposto al museo Irohamaru, situato vicino al faro Joyato. Questo ricco patrimonio storico impregna il labirinto composto dalle sue vie strette, dai suoi vecchi templi, dai suoi vicoli spazzati dal vento, dove ogni edificio è un tesoro nazionale. Potete verificarlo osservando il legno antico delle vecchie case di mercanti. Come nella residenza Ota, un antico luogo dove veniva fabbricato e venduto l’homeishu (un


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vino di riso a base di sedici piante, la specialità locale). È famosa non soltanto perché i suoi primi proprietari avevano ottenuto il diritto esclusivo di produrre la bevanda, ma anche perché qui, Sanetomi Sanjo e sei nobili della corte diretti a Choshu (oggi Yamaguchi) vennero arrestati durante il sollevamento dei militari pro-imperatore, il 30 settembre 1863. Esiste anche la leggenda del ponte dei sospiri, la storia di Romeo e Giulietta in versione locale. Durante il regno del leggendario imperatore Ojin Tenno (270-310), due amanti erano soliti darsi appuntamento in segreto ogni sera ai piedi del ponte. L’uomo si chiamava Watari Takenouchi no-omi. Era incaricato di ricevere gli emissari della Corea. La donna era un’albergatrice di nome Enoura. Il pettegolezzo si diffuse in tutta la città e i due amanti

sparirono misteriosamente in mare. Oggi il ponte è solo un modesto dosso in mezzo alla strada, ma come resistere a un tale racconto romantico pieno di misteri? Tomo, in ogni caso, non è semplicemente una città-museo. Il suo porto è sempre attivo. Basta alzare la testa e vedere le stuoie su cui sono fatti seccare al sole i pesci e i polipi. Le sue vie tranquille celano ancora vecchie boutique dove si possono trovare kimono, rami, lanterne. Qualche artigiano produce ancora il tradizionale homeishu, che si dice, combatta la fatica e favorisca la longevità. Nuovi ricordi hanno rimpiazzato gli antichi. I visitatori possono ormai seguire la “via Wolverine” grazie alla quale scopriranno l’immancabile negozio di Kenchan dove l’attore Hugh Jackman ha fatto una sosta per gustare delle sardine essiccate, o ancora il tunnel

che compare in Ponyo sulla scogliera: altro luogo che Fukushima Rila, attrice star di Wolverine, ha reso celebre immortalandosi in un selfie diffuso su Twitter. Tomo ha poi un legame col gruppo AKB48, da quando uno dei suoi membri, Iwasa Misaki, ha ottenuto un grande successo nel 2014 col brano Tomono-ura Bojo. Nel video-clip, si ritrovano tutti i luoghi che hanno rappresentato la gloria di Tomo, compresa la famosa vista dal Taichoro. È un privilegio poter ancora contemplare questo scenario senza tempo scampato alla costruzione di quel nuovo orrendo ponte. Dopotutto, non è tutti i giorni che si può ammirare “la più bella vista del Giappone”. STEVE JOHN POWELL & ANGELES MARIN CABELLO

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