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Livio Zamboni: La passione per la montagna

PERSONE, LUOGHI E MESTIERI

Intervista a Livio Zamboni

Guida alpina ed esperto soccorritore, a Vipiteno ha appassionato alla montagna un’intera generazione.

Livio Zamboni non era per niente convinto di voler comparire in un articolo sull’Erker. D’altra parte, proprio perché non ama “farsi pubblicità” non a tutti è noto, per lo meno non ai più giovani, per essere stato uno degli alpinisti vipitenesi più competenti e impegnati del comprensorio tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Novanta.

Livio è nato a Erbé, Verona, nel 1933 ed è arrivato a Vipiteno con la sua famiglia nel 1941. Per lui la montagna è stata come una folgorazione e, appena ha potuto, ha cominciato a sciare e a fare escursioni con il CAI. È diventato guida alpina nel 1955 ed è entrato nel soccorso alpino fin dagli inizi, con i fratelli Bovo. Nel 1969 è stato premiato con una medaglia d’oro al valore civile per il suo impegno nel corpo del soccorso alpino e, insieme al presidente del CAI Vipiteno Piero Rossi (1961-2000) e al presidente del CAI Alto Adige Alberto Kaswalder (1985-2000), ha avuto un ruolo fondamentale nel recupero dei rifugi della zona. Nel CAI Livio ha inoltre promosso importanti iniziative per diffondere la conoscenza della montagna, soprattutto tra i giovani, organizzando corsi di roccia e di sci-alpinismo.

Come e quando ha maturato la passione per la montagna?

La passione è nata quando avevo 16 anni, quando sono entrato nel CAI Vipiteno, e da lì è continuata. Quando sono andato a fare il militare volevo entrare nei paracadutisti alpini ma il comandante mi ha detto che avevo i requisiti giusti per inserirmi nel soccorso alpino. Perciò sono finito in Pusteria, semLivio Zamboni

pre aggregato alle compagnie che andavano in montagna, e durante il servizio militare mi sono preparato per dare gli esami per diventare guida alpina. Poi al consorzio delle guide alpine di Bolzano mi hanno mandato in Svizzera a fare anche i corsi di addestramento per i cani da valanga, al Kleine Scheidegg. Lì erano all’avanguardia nell’addestramento delle unità cinofile e all’epoca i cani erano indispensabili nelle squadre di soccorso alpino, perché naturalmente non esistevano ancora gli ARVA. Per un anno mi hanno anche affidato l’incarico di direttore della scuola per cani da valanga a Solda, dove c’era il centro nazionale. Una volta è venuto anche Luis Trenker a girare delle scene per un suo documentario, per mostrare come un cane lavora sulla valanga alla ricerca del sepolto. Era un grande alpinista e io avevo letto tutti i suoi libri, ma devo dire che mi piacevano anche quelli di Cesare Maestri e di Tita Piaz.

Fuori dalla nostra zona quali sono le cime che ha risalito?

Ho fatto corsi d’aggiornamento in giro per tutte le Alpi, sono stato sul Pizzo Bernina, Monte Bianco, Dente del Gigante, Breithorn, Monte Rosa, sempre d’estate. Sul Monte Rosa, ad esempio, il CAI di Verona mi ha chiesto di fargli da guida fino alla Capanna Regina Margherita.

Ha fatto da guida alpina per molti gruppi fuori provincia?

Oltre al CAI di Verona ho portato in giro il CAI di Bologna qui in Val di Vizze, all’Europa e al Gran Pilastro, poi con il CAI di Vicenza siamo andati anche al Pan di Zucchero. Portare in montagna i gruppi era la fatica più grande, più che altro per il peso della responsabilità che avevo. Quando portavo su i gruppi di militari o di finanzieri era diverso, non ne ero responsabile io. Ho accompagnato anche una cinquantina di alpini alla volta, quando facevano le traversate sui ghiacciai, ad esempio, dovevano prendere una guida civile e chiamavano me. Io l’ho fatto sempre in modo gratuito, perché poi gli alpini collaboravano con noi del CAI, se c’era bisogno. Qui intorno ho lavorato spesso anche con l’AVS. Per cinque anni ho portato un gruppo di giovani del CAI Vipiteno a fare il corso di roccia attorno al Tribulaun, era una bellissima esperienza per loro e anche per me, ma a volte era difficile, per fortuna non ero da solo perché venivano con me un paio di ragazzi del soccorso alpino della guardia di finanza.

Ai corsi di roccia portava con sé anche i suoi figli?

No, all’epoca erano troppo piccoli. Mio figlio Marco però mi ha seguito nella passione per la roccia e veniva con me anche a fare sci-alpinismo. Una volta, ai primi di novembre, ero andato a controllare il Tribulaun e avevo trovato il laghetto ghiacciato, senza un’increspatura. Dato che a Marco in quel periodo piaceva pattinare e aveva appena comprato un paio di pattini nuovi, dopo un paio di giorni sono tornato su con lui. Il primo giro del laghetto l’ho fatto io, giusto per vedere se il ghiaccio reggeva, poi ci si è messo a pattinare lui. Avrà avuto attorno ai venti-ventidue anni. Dopo l’incidente

Livio Zamboni in un crepaccio del ghiacciaio del Montarso, Fleres 1967

Traversata dal Tribulaun al Cremona con i ragazzi del corso di roccia, 1971

gli amici pensavano che non sarei più tornato in montagna, invece ci andavo il doppio, anche per lui.

Lei è uno di quelli che hanno contribuito concretamente a ripristinare i rifugi della zona

Ho partecipato alla ristrutturazione dei rifugi qui intorno portando su materiali e ho anche aiutato a fare dei lavori nel cantiere, per primo al Cremona e per secondo al Tribulaun. Il Tribulaun lo abbiamo costruito praticamente da zero perché prima c’era solo una baracca, un rifugetto. Poi abbiamo ristrutturato il Pendente, l’Europa, il Bicchiere e per ultimo il Cima Libera. Per il Cremona avevo costruito io una teleferica usando il motore di una Lambretta, perché mi serviva per portare su la roba quando l’abbiamo gestito io e alcuni dei miei fratelli nel 1957. Con l’esperienza che avevo maturato mi hanno chiesto di fare qualche sopralluogo anche per altri rifugi in provincia di Bolzano e ho fatto qualche consulenza per la commissione provinciale dei rifugi. Ad esempio ho collaborato con il CAI Merano quando ha preso in gestione S. Martino di Monteneve.

Quando hanno requisito i rifugi tra il 1961 e il 1972, durante il periodo degli attentati, riusciva a fare il suo lavoro di guida alpina e ad andare in montagna?

Lì si è fermato tutto, non si poteva andare da nessuna parte. Io andavo solo su ogni tanto a controllare i nostri rifugi del CAI e i militari che erano di guardia mi conoscevano. Facevo il carrozziere, perciò un lavoro lo avevo, ma in montagna non ci si poteva andare. Nel 1964 avrei voluto sposarmi con mia moglie al rifugio Regina Elena, cioè al Bicchiere, ma alla fine abbiamo rinunciato perché era troppo rischioso, perciò ci siamo sposati in Val Ridanna.

In quello stesso periodo però è riuscito ad addestrare ragazzini che oggi sono alpinisti esperti o figure di riferimento del CAI e del soccorso alpino.

Dato che non si poteva andare in montagna, negli anni Sessanta avevo organizzato una palestra di roccia su una parete lungo la strada per Pennes e una sotto a Castel Pietra, ma siccome lì passavano le macchine, alla fine avevamo trovato una bella parete sotto a Castel Tono. Nel 1969 con i ragazzi del CAI abbiamo cominciato con un campo-scuola a Montecavallo e, quando finalmente hanno riaperto i rifugi, lo abbiamo fatto sempre a Fleres. L’ultimo anno, nel settembre 1973, gli ho fatto fare una specie di prova finale: abbiamo fatto il solito corso di roccia al Tribulaun, poi il corso di ghiaccio al Cremona e da lì abbiamo fatto la traversata al Pan di Zucchero, abbiamo dormito al Cima Libera e, come ultima lezione, siamo andati sul ghiacciaio di Malavalle.

Le piace l’idea che oggi i rifugi siano aperti a tutti e che le escursioni in montagna siano un’attività sempre più diffusa?

Da un lato mi fa piacere che la montagna appassioni tante più persone, però mi spaventa che si affronti con superficialità, senza il dovuto rispetto e timore. Purtroppo negli anni ho visto andarsene diverse persone, anche sotto una valanga. Uno che va in montagna d’inverno deve sapere bene dove va, deve conoscere bene gli stessi posti anche d’estate e deve sapere quando è il momento di rinunciare a salire. Bisogna essere preparati al massimo. Certo, è anche una questione di fortuna, ma bisogna sempre considerare che la montagna vive e si modifica. Bisogna conoscere i segnali e la cosa più importante rimane sempre il rispetto.

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