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Orfeo ed Euridice
from A spasso tra i Miti
Nel bosco era tutto un fruscio di rami mossi dal vento. La ninfa Euridice coglieva dei narcisi sulla riva di un ruscello. La vide Orfeo e la portò nel suo palazzo per sposarla.
Euridice era felice in quel magnifico palazzo, ma ogni tanto si stancava della vita di corte. Allora fuggiva nei prati per incontrare le altre ninfe.
Ai piedi degli imponenti castagni, raccontava della sua vita fra case di pietra e vie lastricate, dove le persone andavano e venivano. Al posto della pace dei campi, pieni di fiordalisi e papaveri, c’era sempre un gran chiasso in quelle strade e lei, allora, provava molta nostalgia per la quiete della campagna.
Spesso anche Orfeo desiderava riposarsi sotto i verdi rami di querce e faggi. Ascoltava insieme alla moglie il mormorio del ruscello e suonava la lira. Le ninfe cantavano e ballavano al suono dalla sua musica.
Altre volte, Euridice passeggiava da sola per i sentieri che serpeggiavano lungo i fianchi della montagna.
In inverno, le piaceva guardare gli arabeschi che la brina ricamava sui rami degli alberi, ma come giungeva la primavera si divertiva a cogliere i fiori dei campi. D’estate, invece, segui-
va ammirata i balzi di caprioli e stambecchi.
Un giorno, stava osservando un cerbiatto che pascolava in un verde prato.
D’improvviso, la bestiola rizzò le orecchie e fuggì via. Ad un tratto uscì dal bosco un uomo alto con arco e frecce in spalla. La raggiunse e subito le parlò: – Devi essere una ninfa, sei talmente bella.
Euridice arrossì. Teneva gli occhi bassi e non vedeva l’ora che il cacciatore se ne andasse. Aveva uno sguardo crudele e proprio non le piaceva.
Euridice prese a sistemare i fiori e i frutti nel cestino che aveva portato con sé. In verità, li aveva già messi in ordine: un tripudio di tinte. Alle rosse more seguivano i neri mirtilli, poi c’erano le fragoline di bosco, di un rosso vivo, con attorno foglie di felce verde scuro. Margherite gialle e lillà viola completavano l’insieme. Spostava fiori e frutti, Euridice, e si chiedeva se non fosse il caso di scappare come aveva fatto il cerbiatto. – Sei di poche parole, vedo – esclamò l’estraneo.
Euridice non gli rispose.
Lontano si udì il richiamo
del cuculo e un gruppo di gazze attraversò in volo il cielo. Ali nere e chiazze bianche su dorso e collo, le bestiole stridevano per la gioia di sentirsi addosso la forza del vento e il calore del sole.
L’uomo osservò la scena e annunciò deciso: – Non me ne andrò finché non mi dirai da che parte è scappato il cerbiatto. – Quale cerbiatto? – chiese Euridice. Aveva deciso di proteggere l’animale. “Troppo grazioso e gentile per finire ucciso da quell’energumeno” rifletté la ninfa.
– Non puoi non averlo visto, lo stavo inseguendo ed è passato di qui… – l’uomo aveva allungato il braccio per afferrarla, ma Euridice con un balzo già fuggiva per il prato.
Correva e correva, la poverina. Il cacciatore la inseguì urlando: – Non sfuggirai a un dio!
Euridice aveva ormai raggiunto il bosco. I rami degli alberi si chiusero sopra di lei mentre l’uomo gridava: – Sono Aristeo, il dio dei cacciatori. Non mi sfuggirai!
La ninfa aumentò la corsa nonostante i cespugli la ferissero e
le strappassero le vesti. Ogni tanto Euridice si voltava e scorgeva in basso Aristeo che guadagnava terreno. Però era lento ad attraversare i ruscelli. Così Euridice se ne lasciò un paio alle spalle e salì su per il costone roccioso. Sulle rocce non rimanevano le impronte dei suoi piedi: Aristeo la perse di vista e rinunciò all’inseguimento. Con il cuore in gola, infine, Euridice si lasciò cadere su una roccia. Sotto di lei vedeva le chiome verdi dei pini e degli abeti. Il sole era caldo, il cielo di un azzurro cobalto con bianchi fiocchi di nuvole. Vinta dalla stanchezza, Euridice si addormentò.
Aristeo non era riuscito a raggiungerla, ma lì ai suoi piedi un nemico ben più terribile strisciava nell’ombra. Con la lingua biforcuta fuori dalla bocca, una grossa vipera avanzava sui massi. Infine, trovò un ostacolo: la gamba di Euridice. Sibilò e morse il polpaccio. Ci volle poco perché il veleno facesse effetto.
Scesa la notte, tutti nel palazzo di Orfeo iniziarono a chiedersi come mai Euridice non fosse ancora tornata. Se lo domandava soprattutto lui, Orfeo. Dopo averla aspettata a lungo,
decise di cercarla nei boschi assieme alle guardie, ma vane furono le sue ricerche.
Più il tempo passava, più nessun conforto gli davano le parole di parenti e amici. Finché un giorno decise di andare a riprenderla scendendo nel regno dei morti per riportarla in vita. – Sei pazzo! – esclamò il padre quando Orfeo gli comunicò la sua decisione. – Non puoi cambiare il destino e il volere degli dei. Chi entra nell’aldilà non può più tornare indietro.
Orfeo non lo ascoltò. Partì con la lira sotto il braccio. Si diresse a Nord finché non raggiunse il fiume Stige che scorre tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Un vecchio spaventoso sopra una barca lo fermò con la mano alzata: – Dove vuoi andare, qui non c’è posto per te – e allargò il braccio, indicando una schiera di uomini e donne in lacrime che gremivano i sedili dell’imbarcazione.
Orfeo, che voleva essere traghettato sull’altra sponda, prese la lira e iniziò a suonare. Sapeva bene che pochi erano in grado di resistere alla dolcezza di quella musica. Infatti, il viso di Caronte, così si chiamava l’orribile vecchio, si illuminò di un lieve sorriso. – Non posso negarti un passaggio, accompagnami con la tua musica durante il viaggio.
Anche il cane mostruoso, Cerbero, il custode dell’altra sponda, non seppe resistere a quell’armonia e lo lasciò passare.
E persino Persefone, la regina di quel regno di morti, non rimase indifferente a quella musica. Disse commossa: – Orfeo, l’amore ti ha portato qui e l’amore ti ridarà la tua sposa. Ma a un patto: non devi voltarti a guardarla prima di aver raggiunto la luce. Se ti volterai, lei ritornerà per sempre in questo mondo.
Euridice arrivò raggiante di gioia. Si abbracciarono a lungo, lei e Orfeo. Poi Persefone li invitò a partire. Non ebbero problemi gli sposi ad attraversare il fiume Stige. Non rimaneva che lo stretto passaggio fino alla superficie della Terra. Orfeo era davanti e mai si era voltato perché sentiva dietro di sé i passi leggeri della bella Euridice. La gioia gli invadeva il petto: presto avrebbero ancora vissuto giorni e giorni felici. Li aspettavano tante ore serene. Insieme avrebbero camminato per i giardini in fiore o lungo gli argini scintillanti di freschi ruscelli. Insieme avrebbero condiviso tutti i momenti che la vita avrebbe loro offerto.
Orfeo arrivò alla fine del cunicolo, il sole quasi l’accecò e la gioia lo tradì. Infatti, fu così forte da fargli dimenticare che non doveva voltarsi, invece per abbracciare Euridice si volse.
Ma lei non era ancora uscita dalle tenebre, apparteneva ancora al mondo dei morti. Orfeo la vide allungare le braccia verso di lui, il viso stretto in una morsa di dolore. Cercò di afferrarla, ma strinse solo l’ombra. Euridice era scomparsa e persa per sempre.
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