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Cantori del Territorio. Donato Bosca ha dato voce alla sua terra

Donato Bosca ha dato voce alla sua terra

Il nuovo libro del docente, ricercatore e cultore delle nostre radici parte dalla sua esperienza di insegnante nelle scuole elementari

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Sotto: Nuto Revelli durante una delle sue interviste alle persone “di tutti i giorni” che hanno fatto da esempio a Donato Bosca. A destra: Bruno Murialdo, legato da ultredecennale amicizia a stima al professor Bosca

Bruno Murialdo

Correva il dicembre 1979, eravamo nella sede della Famija Albèisa per la presentazione del libro “Racconti di masche” di Donato Bosca, Luigi Carbone e il sottoscritto, un volume oggi introvabile, un’icona editoriale che ha fatto storia. Nuto Revelli presentò l’opera come era suo solito: raccontando gli aspetti sociali del mondo contadino, la superstizione, il ruolo della religione e delle credenze popolari, le vite “grame” che avevano condizionato il periodo di selve oscure e di preghiere. Fu l’inizio di un viaggio letterario che Bosca ha mai interrotto. Oggi, a quasi 43 anni da quella pubblicazione, l’autore sorprende ancora con il suo nuovo libro, “Voci dalle Langhe”, edito da Baima & Ronchetti. «È il frutto di un’esperienza che parte da lontano», mi racconta, «da quando dirigevo le scuole elementari di San Donato di Mango e poi ad Alba. Insieme ai docenti di allora sviluppammo l’idea di far incontrare i ragazzi con persone che avevano vissuto la storia di questi luoghi, a iniziare dall’esperienza delle guerre, facendole parlare anche dei sogni che ognuno di esse portava nel cassetto della memoria. Agli

incontri con gli studenti aderirono in molti, tra i tanti la mamma di Beppe Fenoglio, Margherita Faccenda, Placido Canonica, Davide Lajolo, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, benché fosse “forestiero”, e molti altri. Furono momenti importanti che ebbero molto successo, strasformandosi in un grande stimolo alla qualità della didattica. Lo scopo principale era far capire ai giovani il senso del rifiuto della guerra, raccontato da chi l’aveva vissuta e subìta». «Il mio maestro», continua Donato, «è stato, prima di chiunque altro, Nuto Revelli. Da lui ho imparato ad ascoltare le persone, a lavorare con attenzione, a seguire le tracce delle storie individuali con pazienza e rispetto. Era uno scrittore che rischiava, sapeva evidenziare, non mandava a dire le cose, era lui in prima persona a esporsi, a denunciare, a raccogliere le briciole di memoria che altrimenti si sarebbero perse. Grazie a lui mi sono avvicinato alla realtà contadina del sud che non conoscevo, sono stato a Spontone di Catona e a Verbicaro Calabro, cioè nei luoghi dove hanno trovato moglie i nostri contadini. Ho seguito Nuto durante il suo lavoro e fu un’esperienza importante che mi ha convinto a seguire una traccia letteraria ed etica più consona al mio lavoro. Era un intellettuale che metteva il suo sapere al servizio del progresso, senza badare all’interesse personale. La sua era quella cultura disinteressata che cercavo». «Il mio lavoro odierno lo considero mancante di alcune situazioni importanti che non conoscevo e che mi sono sfuggite», confessa il mio interlocutore. «Mi sarebbe piaciuto scandagliare di più il mondo rurale del sud Italia, raccontare la vita agricola delle comunità da dove arrivarono molte delle donne che hanno ripopolato le nostre colline e le nostre montagne. Ho ancora molto lavoro svolto da srotolare dalle pergamene della memoria, è il grande impegno proseguito per decenni, cercherò di renderlo alla comunità, soprattutto ai giovani, perché conoscano le radici della loro storia». Donato tiene a ricordare un altro grande lavoro che realizzammo insieme, quello sull’emigrazione in Argentina: fu un viaggio necessario per noi e per quegli italiani, soprattutto piemontesi, che avevano voglia di raccontare. Girammo in lungo e in largo il Paese latinoamericano e ovunque incontrammo nostalgia. Il professor Bosca si sofferma anche su Cesare Pavese e su Beppe Fenoglio: fra loro è tuttora in corso una “partita” di altissimo livello culturale, in cui nessuno perde e nessuno vince. Il suo commento: «Sono due scrittori della nostra terra straordinari, entrambi venuti a mancare troppo presto. Conosco di più Fenoglio di Pavese, ma sono convinto che, se fossero ancora con noi, sarebbero uniti

L’ideatore dell’associazione “Arvàngia”

Donato Bosca nasce a San Donato di Mango l’11 aprile 1951. Le tragedie familiari (due fratelli e due sorelle del padre morti prematuramente di cui uno, Pietrin, alla vigilia del matrimonio), le oscure vicende migratorie, le storie di masche e i problematici rapporti di vicinato e di parentela si imprimono da subito nella sua immaginazione. Laureato con la tesi in storia medievale “Questioni di vita sociale ed economica nei Comuni delle Langhe nei secoli XIV e XV”, grazie a essa vince un premio bandito dalla Famija Albèisa e si appassiona alle piccole sfide della ricerca storica in àmbito locale. Assunto dal Ministero della pubblica istruzione nel febbraio 1975, da quel momento inizia la propria carriera scolastica (la quale lo porterà anche e essere nominato preside del liceo classico “Generale Govone” di Alba) che corre parallela con quella di studioso, ricercatore e scrittore. Il 4 febbraio 1987, con la collaborazione di colleghi e amici del mondo scolastico fonda l’associazione culturale “Arvàngia” (“Rivincita” in piemontese) e così il desiderio di riscatto della marginalità culturale contadina diventa un cammino proseguito nei decenni, dando vita, oltre alla pubblicazione di numerosi libri, a numerose iniziative culturali di ampio respiro.

Un giovane Donato Bosca durante un’intervista effettuata a una piemontese d’Argentina

tra loro. Forse si sono conosciuti o forse no, ma hanno avuto una parte importante all’interno del contesto popolare, Pavese a Santo Stefano Belbo e Fenoglio a San Benedetto Belbo. È difficile arrivare a una conoscenza totale delle opere di uno scrittore, ci sarà sempre qualche cosa che sfugge. Io credo avessero molte più cose in comune di quello che si pensa; si somigliavano molto anche nel carattere. Erano personalità che amavano stare appartate, con convinzioni decise, e nel contempo non mancava a nessuno dei due la voglia di stare in mezzo agli altri. Saranno ancora per molto tempo vivi e attuali attraverso ai loro capolavori, purché non si arrivi a concretizzare quell’obbrobrio di civiltà oggi purtroppo all’orizzonte che dimentica la sua storia e i suoi protagonisti. La bellezza di questi due scrittori era l’attaccamento al proprio paese: Beppe Fenoglio rimane ad Alba, mentre il fratello e la sorella vanno in Germania; a Cesare Pavese erano necessarie le passeggiate con Nuto, i dialoghi con la natura e l’amore verso quella terra, il che ne ha fatto uno scrittore fresco, capace di emozionare generazioni di adolescenti». Donato Bosca termina esprimendo un desiderio, quello di completare e scrivere la genealogia della sua famiglia: «Vorrei lasciare un documento importante che racconti e certifichi la storia della mia esistenza partendo dalle radici, dai miei avi». Dopo questo incontro rimango convinto della grandezza di questo mio taciturno amico che non ha mai cercato la luce della ribalta, un personaggio che meriterebbe molto di più per il lavoro che ha svolto per decenni e per tutto ciò che fa nel nome della cultura, del suo tempo e della sua terra.

Donato Bosca con l’amico fotografo Bruno Murialdo in Argentina cercò vecchi parenti e amici di famiglia emigrati dalle Langhe e nel libro “Io parto per la Merica” (1986) raccontò le speranze, umiliazioni e piccole gioie di un’emigrazione che scelse la nave, l’oceano, la pampa e l’Argentina per sfuggire a miseria e assenza di prospettive Nuto (foto sopra) divenne personaggio pavesiano con la poesia “Fumatori di carta” ed è coprotagonista dell’ultimo romanzo dello scrittore, “La Luna e i falò”

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