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Olexandra Matviichuk - Centro di Cooperazione Internazionale per le Libertà Civili, Nobel Peace Prize 2022 La parolaCoverstory
Quegli angeli nel Mare Nostro di Dario Artale
La musica, foresta magica di Elena La Stella Beatles e Rolling Stones di Valeria Verbaro Italia
Anziani insieme, per stare meglio di Maria Teresa Lacroce
Alla ricerca degli arcobaleni di Elena Pomè
Il futuro del lavoro per i giovani di Giulia Moretti
La sostenibilità è servita di Giorgio Brugnoli
L’emozione in tavola di Yamila Ammirata Società
Lo sharenting fa male ai figli di Silvia Stellacci
Esteri
Quell’Oasi di Pace in Israele di Martina Ucci
Isole perdute, ossessione in Argentina di Antonio Cefalù
Il cambiamento climatico e i Fulani di Luisa Barone
Photogallery
I mille colori della primavera di Federica De Lillis
Ambiente
È una questione di vibrazioni di Federica De Lillis
La favola della frequenza magica di Alissa Balocco
Cultura
Sulle note dell’amicizia di Silvia Morrone
Ballo alla ricerca della perfezione di Caterina Di Terlizzi
Se in Iran non è più primavera di Beatrice Offidani
Pistoletto è Infinity di Leonardo Aresi
L’ecumenismo religioso di Silvia Andreozzi
Le prime nozze del mondo di Claudia Bisio
Scrivere a quattro mani di Ludovica Esposito
Il Ring di Chicago di Lorenzo Sangermano Tecnologia
Musica, ora suona l’algoritmo di Enzo Panizio
Le città intelligenti di Silvano D’Angelo
Sport
I Silicon Warriors di Leonardo Pini
Nuoto sincronizzato di Niccolò Ferrero
Moda
Niente regole in amore e nel trucco di Silvia Pollice
La guida di Zeta
Sulle ali dell’armonia di Francesco Di Blasi
Parole e immagini
LOL 3 - Armonia nella
Armonia
Nella pratica musicale, l’armonia si distingue dalla melodia per un elemento fondamentale: il tempo. Nel comporre una melodia, il musicista fa attenzione a porre i suoni gli uni dopo gli altri, in successione. Al contrario, si ha un’armonia quando più note vengono combinate tra loro simultaneamente, le une sopra le altre. A determinare l’armonia, inoltre, concorrono tutta una serie di regole matematiche stabilite e tramandatesi nel corso dei secoli, fondamentali per definire il corretto accordo dei suoni fra loro. L’armonia, per esistere, prevede dunque un plurale. È l’accordo di più parti ed elementi, una sintesi di elementi parziali che concorrono insieme all’elaborazione di uno strumento più complesso. Il primo concetto attraverso cui l’armonia si manifesta è legato all’ordine, alla buona logica: per questo, fin dagli albori della letteratura, con questo termine si è indicato il meccanismo che regola le vite dell’uomo, la matematica del cosmo. La stessa che Dante, nella Divina Commedia, sembra sostenere nella descrizione del movimento dei cieli celesti. È l’armonia che temperi e discerni del Paradiso, espressione sia tecnica che musicale per indicare l’accordare (il temperamento) e il suddividere matematico (discernere) in riferimento
Riotta
Condirettori
Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
Numero 3
Marzo 2023
alla teoria pitagorica. Tali speculazioni filosofiche offrono spunto, ancora oggi, a teorie in ambito fisico – come quella delle stringhe – che descrivono il comportamento delle particelle elementari dell’universo attraverso particolari simmetrie dello spazio. Sul piano terreno, allora, l’umanità dentro di sé ha un moto armonico da scoprire. È ciò che si svela nel perfetto meccanismo dei movimenti degli atleti, o nel giusto accordo di un’orchestra. C’è chi cerca di recuperare l’armonia tra sé e l’universo attraverso i colori, con la cucina, o ancora, per mezzo della natura. Nella società odierna – colpita da nuove guerre e da una pandemia – ricercare l’armonia significa sempre più tendere verso un nuovo equilibrio: tra vita e lavoro, tra produttività e salute, tra Stato e persona. Poiché, essendo consonanza di voci e di suoni, concordia di sentimenti e opinioni, l’armonia si oppone alla dittatura, al comando di un singolo sul tutto: presuppone un ascolto delle parti, il cui reciproco scontrarsi conduca ad esiti solo in positivo. È una questione matematica, pragmatica, più spirituale di quanto si pensi. Cercare l’armonia significa rifiutare il conflitto, se non quando si sa di poter raggiungere qualcosa di più alto. Ovvero quella stessa armonia che Dante vedeva riflessa nel movimento dei cieli celesti: quella dell’universo.
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A R MONIA
geometrico la trama di un cristallo. Non è solo pace, ma la convivenza di elementi sovrapposti in perenne lotta per guadagnare terreno. Dall’acqua alla terra, l’armonia è lo scontro tra confini e radici che scavalcano recinti storici. La capacità e la volontà, questi recinti, di spostarli o addirittura riconoscerli. In viaggio dall’America del Sud, dove l’Argentina riaccende lo scontro sulle Falkland, fino al sud-ovest asiatico, dove tra Israele e Palestina l’unione sembra partire da un piccolo villaggio.
ARMONÌA s. f. [dal lat. harmonĭa]. – 1. a. Consonanza di voci o di strumenti; combinazione di accordi, cioè di suoni simultanei, che produce un’impressione piacevole all’orecchio e all’animo. In senso più tecnico, pratica e teoria della formazione e concatenazione degli accordi musicali. Con sign. più ampio, proporzione, conveniente accordo di più parti o elementi. L’impressione che risulta, nella prosa e nel verso, da un musicale accostamento di suoni, accenti, pause. In architettura, proporzionata corrispondenza tra le parti principali e le secondarie, e tra i singoli membri architettonici e l’intero; in pittura e scultura, disposizione delle figure nell’insieme dell’opera. Accordo, in senso generico. Concordia di sentimenti e di opinioni tra più persone.
L’armonia è la luce dei frammenti che compongono in uno schema
Nel corpo, l’armonia si insinua nei movimenti che scuotono i muscoli a suon di musica. Ne raddrizza le articolazioni, ne studia i punti di pressione e la potenza di rilascio, come fosse un allenatore di pallacanestro. Lo stesso fa immersa nell’acqua, tra danzatori subacquei ricoperti di glitter. A dare il tempo, una musica che si struttura in accordi e melodie dai toni più vari. Tra queste, a specifiche frequenze, l’armonia è in grado di conferire un potere che appare quasi magico. Infatti le piante, come dice il maestro Beppe Vessicchio, di fronte a quel suono sono capaci di crescere ancora più velocemente di quello che la natura permetta. Tutto dipende da poche note, che siano prodotte da musicisti, dal movimento dei pianeti o addirittura dall’intelligenza artificiale poco importa. Quest’ultima, di fronte alla richiesta
di produrre un’immagine che raffiguri l’armonia, sembra avere le idee chiare. In un collage macchie si fondono a fotografie storiche in bianche e nero. Per l’IA l’armonia è sì un equilibrio di forme e di movimenti, ma allo stesso tempo è cio che rimane della storia, passata presente o futura. Nella trama di testimonianze, l’armonia non è altro che il ricordo. Quello del passato, delle ombre sfocate e delle luci abbaglianti. Quello del presente, di una crisi vissuta nella dimensione di un istante. A mancare è il futuro. Che i giorni a venire non conoscano armonia o siano sconosciuti ai circuiti elettronici, può solo rimanere un segreto dell’algoritmo.
Lorenzo Sangermano«Le tue carezze dividono il mio volto in due pareti piene di armonia.
Lo spaccano in due mondi universali»
Alda Merini
Quegli angeli nel Mare Nostro
MIGRANTI
Storie
dall’equipaggio dell’unica
«Dopo esservi commossi dovreste allarmarvi»: è una scritta attaccata con un nastro sopra gli occhi di cinque bambini incazzati, raffigurati dallo street artist Demetrio Di Grado su una facciata dei Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, un ex mobilificio i cui ambienti sono oggi spazi espositivi per le attività teatrali e cinematografiche.
Giorgio la osserva e scatta una foto. È appena arrivato da Roma con il primo volo Ita. Con lui ci sono Aldo, Viviana e Ludovica. Serena – che è arrivata da Barcellona la sera prima – gli corre incontro per abbracciarli. È la segretaria e anima di Mediterranea Saving Humans, l’unica Ong italiana che soccorre i migranti nel Canale di Sicilia, grazie alla nave Mare Ionio, acquistata nell’estate del 2018. «Vi presento i ragazzi di Roma», dice Serena accompagnandoli all’ingresso di una sala conferenze che si presenta come un piccolo anfiteatro in legno.
vano chi da Milano, chi da Atene, chi da Edimburgo. Sono tutti in Sicilia per una tre giorni di formazione e di addestramento, in vista delle prossime missioni di salvataggio in mare. «È prima di tutto un momento per creare dei legami tra di noi, per consolidare dei rapporti di squadra e crearne di nuovi» – esordisce Fabio Gianfrancesco, ricercatore in filosofia e rescue team coordinator di Mediterranea.
Manca solo Iasonas – Iasonas Apostolopulos, per gli amici italiani “Giasone” – il rescue team coordinator ritenuto in patria uno degli attivisti più influenti in materia di diritti umani. Il suo volo da Atene è stato cancellato a causa di uno sciopero. Arriverà comunque a Palermo per le 18, si può cominciare.
di Dario ArtaleDentro ci sono già gli attivisti di Torino, i siciliani e le new entry, che arri-
A Palermo si svolge la prima parte del training voluto dalla Ong per formare gli equipaggi che si alterneranno nelle missioni che partiranno, non appena la Mare Ionio – ferma in cantiere per motivi burocratici – riceverà l’ok dalle autorità navali per tornare a navigare. Per il momento si
trova ormeggiata in porto a Trapani. Gli attivisti di Mediterranea – ricevuti di recente da Papa Francesco in Vaticano – la raggiungeranno solo dopo aver concluso il primo giorno di formazione nel capoluogo. Lezioni e dibattiti sulla storia delle rotte migratorie, la decostruzione di stereotipi sui migranti e le tecniche di soccorso in mare.
Dopo un pranzo consumato in fretta e qualche calice di birra offerto per il gusto di fare amicizia, la giornata riprende, prosegue, finisce. Con l’arrivo di Iasonas tra gli applausi di tutti. Di chi lo ammira, di chi ha condiviso con lui notti di bufera e salvataggi complicati, di chi lo conosce
per la prima volta. Come Max, fotogiornalista milanese che salirà a bordo come soccorritore. «La nave è molto piccola, ci stanno a stento dieci persone – cinque marinai e cinque volontari, compreso un medico – così mi hanno chiesto di non limitarmi al mio ruolo “passivo” di reporter, ma di dare una mano come soccorritore. Ed eccomi qui».
Come lui anche un videoreporter con dei traboccanti capelli rasta arrivato da Edimburgo e molti giovani attivisti “di terra”, pronti per la prima missione in mare. Finita la cena, passata la fame, nella piazzetta dei Cantieri Culturali, il team di Mediterranea – ora vestito in blu dalla testa ai piedi – affronta un controverso punto di discussione: dove andare dopo cena. È venerdì sera, l’aria è tiepida e il Palermo ha battuto il Modena in casa per 5-2. I giovani – torinesi, romani, ateniesi – sono compatti nel proporre un giro per i locali di Ballarò, storico rione del centro dove spazi un tempo autogestiti sono diventati imprese sociali, ostelli della gioventù, locali multietnici. Il risultato, anche qui, è schiacciante. Si va a Ballarò.
Si balla e si brinda, con decine di neolaureati in festa in giro per la città, mentre la notte lentamente riordina le strade di Palermo. Coi netturbini a lavoro e dei giovani che attaccano un manifesto su un muro. Invitano a partecipare a una manifestazione che ricorderà le vittime del naufragio di Cutro. Si terrà il giorno dopo, con centinaia di persone in strada. Poco più avanti c’è una Renault con le quattro frecce accese che li aspetta. Poco dopo è già giorno.
Gli attivisti di Mediterranea si ritrovano nel piazzale della Stazione Centrale di Palermo, diretti al porto di Trapani, dove si svolgeranno le ultime 48 ore del training, quelle pratiche, a bordo della nave. Sulla Mare Ionio li attende Davide, primo ufficiale. Messinese, 34 anni,
di cui la metà trascorsa a navigare. «Prima lavoravo a bordo degli yacht di lusso, compreso quello di Briatore. Poi ho capito che è qui, con voi, su questa nave, che mi sento pienamente me stesso». Ci tiene a dare il benvenuto a bordo a nome dei marinai. Ha fatto di tutto per esserci: nel 2022 ha superato una grave malattia, ora – occhi lucidi, muscoli forti e capelli al vento – vuole solo tornare in mare e addestrare le nuove leve. A lui il team di Mediterranea affida le chiavi del buonumore. E Davide non delude mai.
Iasonas e Fabio sono già a lavoro. Hanno calato le scialuppe in mare e stanno guidando le esercitazioni di salvataggio. La Mare Ionio è un formicaio di volontari giovani e navigati che salgono e scendono dalle lance e si danno un bel da fare. «È bello rivederla così», sussurra commosso Luca all’amico Beppe, sul ponte della nave. Luca Casarini è stato tra gli organizzatori del Genova Social Forum, la rete di movimenti e associazioni no-global che prese parte al tragico G8 del 2001. Oggi, insieme a Beppe Caccia, è tra gli armatori di Mediterranea.
Si va avanti per tutto il giorno con le simulazioni. La regola è quella del “save, do it, repeat”. Si prova tutto, perfino gli abbracci, perché – come sottolinea Iasonas – «da un nostro minimo gesto dipende la vita di decine di persone». A coordinare le operazioni dalla nave c’è Sheila, capo missione palermitana, punto di riferimento per le donne della Mare Ionio e sponda perfetta per Davide in materia di buonumore. Il pomeriggio trascorre sulle scialuppe e il sole si addormenta lentamente dietro l’isola di Favignana. A bordo è ora di cena. Capricciosa, margherita, quattro formaggi. Niente di meglio di una pizzata per affiatare una squadra italiana.
Sono le dieci quando a tavola si aggiunge, a sorpresa, il rapper Ghali. L’artista milanese, di origini tunisine, è salito a bordo per il “battesimo” di Bayna, la scialuppa di salvataggio che ha donato a Mediterranea. Battesimo previsto per il giorno successivo, l’ultimo. Quello dei saluti. Dopo il varo di Bayna, il formicaio galleggiante si scompone. Ci si dirige verso l’aeroporto di Punta Raisi. Il gruppo Whatsapp frigge di saluti. Qualcuno poco prima di decollare scrive “thanks”, con una faccina che piange commossa e un cuoricino rosso.
«Mare nostro che non sei nei cieli, tu sei più giusto della terraferma pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le vite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, abbraccio, bacio in fronte, madre, padre prima di partire»
Erri De Luca, 2021 ■
La musica, foresta magica che si organizza da sola
Il sorriso accogliente si schiude sotto la barba familiare, il tono di voce è pacato, ma lo sguardo attento tradisce un’innata curiosità che ha caratterizzato il Maestro Peppe Vessicchio fin da bambino, quando silenzioso, in un angolo della cameretta, osservava il fratello Pasquale e i suoi amici suonare la chitarra. «Se non ci fosse stata la musica, forse sarei andato verso un’azione neuromuscolare congeniale. Vivevo il calcio con grande passione, poi ho avuto un incidente al ginocchio a 5 anni. Ad oggi sono convinto che sia stata una scelta che la vita ha fatto per me. Mi ha permesso di continuare a sognare il calcio come un’espressione giocosa, ma non mi ha sottratto il tempo necessario a seguire questa pratica».
Nel libro La musica fa crescere i pomodori, Vessicchio racconta la storia della sua vita, le molte collaborazioni con
grandi artisti, ma soprattutto spiega il nesso viscerale che unisce la musica alla fisica. L’ispirazione del suo esperimento nella serra di Copertino, in Puglia – è nata da una notizia che riguardava le vacche del Wisconsin che, sottoposte all’ascolto di Mozart, producevano più latte. Così il Maestro decise di cominciare a studiare il fenomeno e sperimentare gli effetti della musica sulle piante.
La prima scoperta è stata che non era la musica in sé a produrre quel risultato, ma Mozart. La differenza rispetto ad altri compositori risiedeva proprio nella struttura armonica del tutto rispetto alle parti, nell’eliminazione della conflittualità all’interno dell’insieme. «Le parti che lavorano in un’orchestra, spesso si cristallizzano in meccanismi prevedibili, per cui chi partecipa eseguendo piccoli o grandi ruoli, alla fine si ritrova a recitare
di Elena La StellaIl Maestro Peppe Vessicchio parla del legame tra natura, uomo e musica. Dal genio di Mozart alle serre della Puglia
uno schema immaginabile già in partenza. In Mozart, invece, è evidente quanto volesse valorizzare questi ruoli secondari, che diventavano parte attiva di un tutt’uno armonico. Ci sono sempre parti più importanti di altre, ma in questo caso c’è una straordinaria democrazia. Non si può parlare di armonia se gli elementi non stanno insieme in maniera equilibrata». I risultati non si fecero attendere, dopo circa tre settimane «la serra era diventata uno spettacolo di colori, di vita pulsante, di profumi ancestrali».
Il genio innato di Mozart componeva naturalmente musica che fosse in piena sintonia con le leggi della fisica creando, come una foresta che si organizza da sola, un ecosistema in perfetto equilibrio. «Prima del 1600 qualsiasi procedimento l’orecchio trovasse piacevole doveva avere una riprova matematica o geometrica, cioè si dovevano indagare i segreti di tali effetti dal punto di vista della fisica». Nei secoli questa relazione si è persa, lasciando predominare l’estetica sulla struttura fisica della musica: «Come l’architettura deve tener conto delle leggi della gravità per non crollare, così la musica deve essere decifrata da un punto di vista fisico, altrimenti manca la possibilità di valutarla. Ci sono moltissime composizioni che sono palazzi che crollerebbero», continua Vessicchio che, da ragazzo, era studente di Architettura all’università.
Le logiche del mercato e del profitto spazzano via la qualità di una musica che nasce dalle solide basi della ricerca e dello studio, lasciando spazio a una musica seriale, creata per assecondare i gusti degli ascoltatori. «Non faccio musica per vendere, ma mi piace l’idea che possa
essere condivisa. Accetto che possa avere pochi ascoltatori, se sono di più sono contento, ma non è il mio obiettivo. Con il passare del tempo arrivano le risposte, è come se più lavori con te stesso, più incontri gli altri. Deve piacermi, ma non compiacermi. L’armonia non è la complessità, ma è fare meno per avere di più, affinché l’intervento diventi armonico rispetto alla partecipazione di tutti. Non è semplice, ma è un’ispirazione forte. Mi sono sempre opposto al freddo calcolo della musica seriale».
Nella vita del Maestro Vessicchio, la ricerca di armonia non è stata limitata all’ambito lavorativo ma, come un faro, ha guidato le sue scelte. «Vivo il mio successo con un senso di responsabilità: più le persone mi mostrano affetto e più mi sento responsabile di rispondere a questo affetto. Anche nella ricerca di armonia cerco di essere io a muovermi verso gli altri. Poi, mi rendo conto che quando elasticamente cedo su una posizione, di riflesso, cedono anche gli altri: è contagioso. La coerenza per me è un elemento fondamentale perché è coerente la persona che cerca di allineare pensiero e azione». Sebbene fosse nel mondo della musica da molti anni, la sua popolarità è esplosa nel 2017 con l’hashtag #UsciteVessicchio riferito al Festival di Sanremo. Ma il mondo della televisione non è mai stato l’obiettivo del Maestro che, al contrario, lo ha sempre vissuto come effetto collaterale della musica. «Non desidero stare in televisione se non per fare musica».
La musica è coerenza e linguaggio universale e, in molti casi, precede le azioni dell’uomo indicando una via per-
corribile per la risoluzione di tematiche di natura tutt’altro che artistica.
Un parallelismo più che calzante si riscontra nel poter paragonare l’accoglienza dei suoni dissonanti in un insieme armonico a tematiche sociali e attuali. «Noi abbiamo una nota chiamata radice da cui nascono altri suoni. Quando ne vengono aggiunte altre, devono avere una possibilità di convivenza con la prima. Per quanto complesso possa essere l’insieme, una nota fuori posto crea disturbo, si chiama dissonanza. Per poterla ammettere basta preparare il sistema: è la preparazione della dissonanza. Ecco nella musica c’è la soluzione per l’accoglienza di chi è altro da noi, un immigrato per esempio. Anche in questo caso, per evitare una dissonanza, basta preparare l’ambiente ad accoglierlo. La dissonanza è l’elemento più utile per l’evoluzione: chi si occupa di intelligenza genetica sostiene che coloro che hanno la somma di geni, gli incroci genetici, sono più intelligenti. La dissonanza è un vero arricchimento per il genere umano. Mozart, che ancora una volta precorreva i tempi, scrisse Il quartetto delle dissonanze».
Nella musica si trova anche un’interpretazione del conflitto fra Oriente e Occidente. La differenza culturale che divide il mondo a metà, trova una risoluzione proprio nella bellezza e nella necessità delle opposizioni. «Nella mitologia latina Armonia è figlia di Venere e di Marte, la dea dell’amore e il dio della guerra. L’armonia non può prescindere da due polarità, non può prescindere da battere e levare, da pausa e suono, da acuto e grave. È il gioco degli opposti che devono trovare il loro equilibrio. Nel linguaggio musicale ci sono risposte a tantissime cose».■
Beatles e Rolling Stones pensarli insieme non è così strano
Chi sognava una collaborazione storica fra due dei gruppi musicali più importanti di sempre, rimarrà soddisfatto a metà. È confermato da fonti statunitensi (Variety, Entertainment Weekly) che Paul McCartney abbia già registrato in studio la linea di basso di un nuovo singolo degli Stones, parte di un progetto ancora senza titolo che sarà il primo lavoro inedito da A Bigger Bang del 2005 e dalla morte dello storico batterista Charlie Watts, avvenuta nel 2021.
È dal 1993 - trent’anni - che i Rolling Stones non hanno un unico bassista fisso in formazione, da quando Bill Wyman, nella band dal 1962, abbandonò il gruppo per motivi personali. L’atto di ospitare il bassista più celebre della musica contemporanea, McCartney, nel nuovo album che segna un ritorno importante degli Stones è un gesto anche simbolico, che sembra voler mettere fine alla rivalità costruita fra le due band dagli anni Sessanta a oggi.
di Valeria VerbaroDa sempre contrapposti, Paul McCartney e Mick Jagger preparano un ritorno comune sulla scena musicale
Non è però un gesto isolato, se si possono contare come precedenti tutte le occasioni in cui Mick Jagger, secondo fonti della testata Rolling Stone, ha assistito alle registrazioni dei Quattro di Liverpool, da All You Need is Love all’album Revolver, fino alla sessione in studio della celebre parte orchestrata di A Day in the Life.
È questo un quadro, tuttavia, che vede spesso protagonisti due soli attori, McCartney e Jagger, e in cui manca un elemento fondamentale per parlare di evento storico e irripetibile: Ringo Starr. Il batterista, secondo e unico altro membro vivente dei Beatles, sullo sfondo rispetto agli altri compagni, non si è ancora ritirato dalle scene e prosegue la sua carriera come solista, ma né Variety né altre testate americane confermano la sua presenza nel nuovo album degli Stones. Sia perché restio di per sé, sia perché “sostituire” il compianto Watts, anche solo per un brano, sarebbe troppo anche per una reunion storica.
Charlie Watts, batterista jazz prestato ai grandi palchi, era il collante invisibile della musica degli Stones, sempre più vicina al blues che al pop-rock. Proprio il genere musicale è stato uno dei motivi su cui le due band, o meglio McCartney e Jagger, hanno più volte discusso in pubblico, usando i media e le interviste come armi. L’ultima volta risale soltanto al 2021, quando durante la promozione del colossale documentario Get Back di Peter Jackson (otto ore dedicate alla storia della band di Liverpool), McCartney ha fatto riferimento agli Stones come una «cover band blues» attaccando in modo indiretto anche l’originalità dei testi, delle musiche e del lavoro autoriale di Mick Jagger e Keith Richards.
Un’accusa che si specchia in quella più celebre dei primi anni Settanta, quando John Lennon additò Their Satanic Majesties Request come un’imitazione fin troppo esplicita di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Entrambi gli album escono infatti nello stesso anno, il 1967, con la stessa influenza musicale del pop-rock psichedelico, scegliendo anche lo stesso fotografo per la copertina, Michael Cooper.
e la storia dei Rolling Stones è proseguita ben oltre il 1970, anno dello scioglimento dei Beatles. Per alcuni critici musicali, come Ernesto Assante, il confronto non è nemmeno necessario: «Beatles e Rolling Stones nascono dalla stessa matrice, che sono gli anni Sessanta. Pensarli insieme è coerente con le loro identità, per ciò che rappresentano per quel periodo».
Più che un ingenuo tentativo di copia, tuttavia, quella degli Stones è una sfida: nella copertina originale, un ologramma in cui i cinque Stones (c’è ancora Brian Jones) sono immersi in un coloratissimo paesaggio di fantasia, nascosti fra gli oggetti intorno a loro si notano i volti di John, Paul, George e Ringo.
Un’onesta sfida che è proseguita nel tempo, tanto da spingere Mick Jagger – in un’intervista di Howard Stern - a rispondere alle affermazioni di McCartney con una frase lapidaria, che rimarrà impressa soprattutto adesso che i due progettano un ritorno comune sulla scena musicale: «I Rolling Stones sono una band fatta per i grandi concerti. Quando c’erano i Beatles non esistevano nemmeno i tour come li intendiamo oggi. La grande differenza è che un gruppo è incredibilmente fortunato perché suona ancora negli stadi, mentre l’altro non esiste più».
Per Jagger non esiste più un possibile paragone, perché il contesto è cambiato
Certo, i primi con il loro aspetto pulito, almeno quello degli anni del debutto, ingannano gli adulti, sembrano innocui rispetto ai più trasgressivi e sessualizzati Stones. Intimoriscono di meno, ma sono portatori dello stesso messaggio rivoluzionario, quello che fa nascere la coscienza stessa dell’essere giovane, ossia una nuova categoria sociale nell’Occidente del boom economico.
E se gli Stones sconvolgono per la loro Pietà per il Diavolo, i Beatles lo fanno con un semplice Yee-Yee nel ritornello di She Loves You, come ricorda Assante. In un caso o nell’altro lasciano un segno e parlano alla stessa generazione, alle stesse persone che si divertono a dividersi in fazioni contrapposte di fan ma, proprio come McCartney e Jagger, condividono lo stesso linguaggio e sono due parti indivisibili dello stesso fenomeno.
I Beatles quindi non suoneranno con i Rolling Stones, nemmeno questa volta, o almeno non come lo si poteva immaginare. Quando inizierà a farsi largo la linea di basso di Paul fra i versi di Mick, sarà in ogni caso una nuova pagina della storia della musica da ricordare, con la speranza di vederli insieme presto anche su un grande palco. ■
«Nascono dalla stessa matrice, che sono gli anni Sessanta»
Anziani insieme, per stare meglio
«Qui c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno. Le persone sono bellissime, mi trovo molto bene. Quando ci vediamo si nota che abbiamo una luce negli occhi, è perché stiamo bene». Anna ha 70 anni e al Centro Anziani Trastevere di Roma ha trovato una seconda casa. Frequenta i corsi di ballo sociale, nuoto e informatica e, nei ritagli di tempo, si prende cura dell’orto insieme ad altri iscritti tra cui Mario. Ha 80 anni, frequenta il centro anziani insieme alla moglie e mentre lei segue le lezioni di ballo, lui si assicura che la rughetta e le piantine di pomodoro crescano bene. «Chi vuole la verdura, la chiede e la raccoglie. Siamo tutti amici e ci divertiamo» racconta Mario. C’è tanto verde nel giardino del centro anziani di viale Trastevere: ci sono le erbe aromatiche, lo zenzero, le violette, i gerani e i ciclamini.
Le piante hanno dato una nuova vita a un posto che era in uno stato di semi abbandono, riqualificandolo. «Un am-
biente bello ti aiuta a stare meglio» spiega Gianfranco Caldarelli, direttore del Centro Anziani Trastevere dal 2017. «Prima era un centro anziani tradizionale in cui si giocava a carte, si chiacchierava e la domenica si ballava con la musica di un cd. Il posto però aveva un potenziale inespresso. Così ho deciso di cambiare strategia e di trasformare il centro anziani in un centro culturale per la terza età offrendo diverse possibilità di attività: si fa teatro, ci sono i corsi di acquerello, acquagym, inglese, informatica e uso del cellulare. Inoltre, si lavora la ceramica, c’è un coro e anche una scuola di scacchi. Le persone che non sono interessate al classico gioco delle carte, qui trovano tante altre cose da fare».
Una vera e propria rivoluzione quella portata avanti da Caldarelli: nel giro di pochi anni, gli iscritti del Centro Anziani Trastevere sono passati da 137 a 730, di cui la maggior parte donne. L’età media è compresa tra i 70 e i 79 anni, ma c’è anche chi di anni ne ha ben 98 e continua a frequentare regolarmente il Centro e chi, come Ezio, ne compirà 67 il prossimo luglio. È iscritto da poco, ma si è già integrato molto bene: «Io sono un tipo un po' chiuso, ora riesco ad aprirmi di più con le altre persone». Ezio frequenta il centro anziani insieme alla moglie: entrambi praticano il ballo sociale, uno tra i corsi più frequentati. «Il ballo sociale è un ballo di aggregazione e già questo allontana solitudine, ansia e depressione. Poi ci sono la musica che fa bene alla mente e i movimenti dolci che aiutano a contrastare osteoporosi, artrite e artrosi. Il fulcro di tutto è il divertimento. Qui non si fanno le gare, si passa un’ora o anche due in compagnia, e si va via col sorriso. Il ballo sociale è questo» spiega Efisio Pandino, insegnante di ballo sociale del centro anziani.
Un vero e proprio centro culturale quindi, in cui gli anziani non trascorrono il tempo passivamente, ma hanno un ruolo attivo. «Ci sono tante persone che amano il teatro e il cinema, ma non avevano occasione di mettere in pratica questa loro passione. Ora c'è un gruppo che li frequenta insieme. Un altro gruppo si riunisce per le camminate della salute: da soli non avrebbero svolto queste attività. C'è anche una sala espositiva in cui organizziamo delle mostre fotografiche con le immagini scattate dagli iscritti. È un centro culturale come non ce ne sono altri nel nostro territorio, è unico nel suo genere» spiega Gianfranco Caldarelli.
Le camminate della salute si svolgono ogni lunedì e «sono guidate da una
di Maria Teresa LacroceA Roma il centro che incentiva e valorizza le potenzialità dei propri iscritti, allontanando solitudine e depressione
nostra iscritta che fa la guida turistica: accompagna il gruppo gratuitamente e durante il cammino racconta loro tanti particolari storici, artistici e culturali della città» continua Caldarelli.
Ma c’è anche un gruppo di lettura in cui i partecipanti leggono e discutono di libri, una scuola di bridge e un corso di uncinetto che Maria Pia frequenta dallo scorso gennaio. «L’uncinetto non era la mia passione: da ragazza non ho mai frequentato corsi, quindi per me è stato tutto nuovo, sto imparando. Ho già realizzato una borsa con il cordonetto e adesso sto lavorando a una cappa da indossare durante l’estate. Abbiamo fatto anche una raccolta di lavori all’uncinetto: cappottini, cappelli e sciarpe per bambini e alcune cose per gli adulti. Abbiamo consegnato tutto alla Basilica di Santa Sofia per mandarli in Ucraina in beneficenza» racconta Maria Pia. Il corso di uncinetto è tra le attività proposte direttamente dagli iscritti: «Io mi sono inventato poco: ho ascoltato le persone e ho organizzato quello che tutti loro volevano fare» aggiunge il direttore Caldarelli. Myriam invece canta nel coro del Centro Anziani Trastevere. Ha 78 anni e, grazie al corso di acquerello tenuto dall’insegnante Leandro Vattani, sta riscoprendo la passione per la pittura accantonata in gioventù.
Forte anche la collaborazione tra il centro anziani e alcune associazioni del territorio come Trastevere Attiva con cui, nel periodo precedente alla pandemia, è stato organizzato un torneo di scacchi tra bambini e anziani. «È stato bellissi-
mo vedere i piccoli che giocavano con gli anziani a scacchi preoccupandosi di non farli perdere» ricorda il direttore Caldarelli. Attualmente, bambini e anziani lavorano insieme la ceramica nel laboratorio del Centro di viale Trastevere.
Molte delle creazioni realizzate durante i corsi di acquerello, uncinetto e ceramica vengono esposte nella “Bottega del Cuore”, uno spazio allestito all’interno di una graziosa casetta in legno posta nel giardino del centro anziani. Il ricavato proveniente dalle vendite e dalle donazioni aiuta i ragazzi in difficoltà
dell’Ospedale Regina Margherita. «Con l’associazione Trastevere Attiva abbiamo riqualificato il cortile dell’ospedale e abbiamo creato un piccolo orto. Così gli anziani aiutano i giovani e i ragazzi si tengono occupati in attività salutari che li spingono a sentirsi attivi». ■
«Quando ci vediamo si nota che abbiamo una luce negli occhi, è perchè stiamo bene»
Alla ricerca degli arcobaleni
Quando un figlio non arriva: il viaggio di Veronica e Juan nella procreazione medicalmente assistita
Gli occhi scuri della piccola Sol, le guance arrossate dalle fredde folate di vento, osservano con meraviglia le lancette dorate dell’orologio astronomico nel centro di Praga. Il tempo misura la felicità della bambina, appartata nel passeggino dopo giorni di favole senza né principi né principesse, ma intessute di onde di scivoli colorati, carillon di giostre scintillanti, boccioli di fiori tropicali e danze di animali esotici.
di Elena PomèA soli due anni e mezzo il viaggio in macchina dall’Italia alla Repubblica Ceca per realizzare il sogno di avere un fratellino o una sorellina, finora nascosto nel fagotto di una cicogna maldestra, stupisce come un giro sulla ruota panoramica. Mamma Veronica Calilli e papà Juan Surraco hanno comprato il biglietto
per l’attrazione della procreazione medicalmente assistita, che oscilla tra intense boccate d’aria in cima e brusche discese nell’oscurità. «Una donna che intraprende questo percorso non è incinta solo per nove mesi, ma per anni, perché tutto ha inizio molto prima della gravidanza» spiega Veronica. «Prima di afferrare gli arcobaleni, cioè i nostri quattro figli, io e mio marito abbiamo vissuto grandi avventure ostacolate da tempeste e mari in burrasca. Non è stata una passeggiata, ma dopo ogni caduta ci siamo rialzati e ora, grazie ai sorrisi di Sol e degli ultimi arrivati, i tre gemelli Celeste, Elvis e Miguel, abbiamo raggiunto la nostra armonia familiare».
Il primo incontro tra Veronica, istruttrice torinese di subacquea sotto il sole di
Sharm El-Sheik, e Juan, calciatore uruguayano nella squadra del Torino, è avvenuto dieci anni fa in una festa all’ombra della Mole Antonelliana. Rincasata tra le acque della barriera corallina, Veronica ha rigettato la prospettiva di una vita solitaria, perché «io e Juan ci siamo resi conto che insieme stavamo molto bene, e io ho sempre desiderato una famiglia, il che non significa necessariamente avere bambini, ma anche un animale, amici, un compagno, insomma un amore che ti circonda». Da lì la scelta di accorciare le distanze e di convivere prima in Italia e poi in Uruguay.
tecnica della fecondazione in vitro, che per stimolare la produzione di ovociti richiede «innumerevoli punture, una costante assimilazione di ormoni e continui esami del sangue». L’incontro tra l’ovulo e lo spermatozoo avviene poi all’esterno dell’utero, e dal successivo trasferimento nel corpo della donna dell’embrione allo stadio di blastocisti, definita da Veronica «un fagiolino che ha una manina per aggrapparsi a te», decorrono quattordici giorni di attesa, «come se arrivasse la luce eterna dal cielo, per la chiamata che confermerà o meno la gravidanza».
Oltreoceano, però, gli ingranaggi della coppia hanno scricchiolato e la separazione ha riportato Veronica nella terra delle piramidi, finché Juan non le ha proposto con un anello di trascorrere la vita insieme. Volata tra i vicoli barocchi di Lecce, la giovane coppia ha espresso il desiderio di allargare la famiglia: «Abbiamo provato il concepimento naturale per quattro anni, ma nessun tentativo ha funzionato. Prima eravamo ragazzini, non ci davamo troppo peso perché eravamo convinti che un figlio sarebbe arrivato, ma dopo abbiamo drizzato le antenne. Da allora, la vita ci ha messi a dura prova».
Nonostante le prime visite e i primi accertamenti abbiano lasciato Veronica e Juan senza risposte, «non ci siamo abbattuti nemmeno nei momenti di sconforto, perché non abbiamo mai smesso di sperare. Juan, poi, mi ha sempre sostenuta con le parole giuste». A Firenze i futuri genitori hanno intrapreso una strada tortuosa, fatta di tornanti di pastiglie per le cure ormonali e di impervi terreni di inseminazione intrauterina, una tecnica che consiste «nel prelievo e nel successivo inserimento dello sperma nel corpo della donna con l’aiuto di un piccolo catetere, per favorire l’approdo del seme nella “casa del bambino”», ma in entrambi i casi, «ovviamente, nebbia in Val Padana».
Così, «ci siamo catapultati nel tunnel della fecondazione assistita» con la
La vita può fare capolino tra le crepe dell’asfalto, tra le fessure dei ghiacciai, e anche dallo squillo di un telefono. Nel ricordare il momento della scoperta di essere mamma di Sol, la voce allegra di Veronica trema, le lacrime offuscano gli occhi azzurri e un riso nervoso si infrange tra le labbra. «Ero incredula. Non si può spiegare, è un’emozione indicibile, chi non lo vive non può saperlo» racconta. «Il percorso per raggiungere il risultato è allucinante, e molte donne non riescono ad affrontarlo fino in fondo perché la fatica è infinita. Diventi un colabrodo, non solo a livello fisico per le quotidiane punture a intermittenza nella pancia e nel sedere, ma anche a livello psicologico per l’effetto degli ormoni. Molte coppie si separano perché non riescono a sopportare il dolore».
Dopo l’arrivo del raggio di sole, due ombre hanno però offuscato l’entusiasmo dei neogenitori: prima l’insuccesso di un nuovo transfer, «un camion in faccia che non ci aspettavamo, perché con
la nostra prima figlia era andato tutto liscio», poi la perdita di due gemelli. «Una donna Pma, però, cade e si rialza. Ho cercato subito un piano B, ma la dottoressa che mi aveva seguita non ha mostrato disponibilità. Mi sono sentita abbandonata e mi sono arrabbiata con me stessa per aver dato la mia vita in mano a chi mi stava trattando solo come un numero». Con pazienza, però, la sconfitta si è trasformata in una vittoria. In una nuova struttura a Bologna, Veronica ha ricevuto l’attesa diagnosi della scarsa qualità degli ovuli, «tipica di una menopausa precoce. Posso rimanere incinta naturalmente, ma è un evento raro come scovare il numero fortunato al gratta e vinci», mentre in una clinica di fecondazione assistita a Praga ha cercato con Juan un altro figlio.
«Quanti ne volevate?». L’ecografia ha svelato in grembo non una sola creatura, ma tre. Juan, incredulo, ha tirato giù il cappellino dalla testa. Veronica, invece, aveva presagito le imprevedibilità del calcolo delle probabilità. La terapia intensiva ha però assorbito i primi vagiti dei gemelli Celeste, Elvis e Miguel, nati prematuri. «Non è stato semplice vedere la parte più importante di noi attaccata alle macchine, sentire l’incessante suono dei monitor, avere paura di tutto» racconta Veronica. Oggi, nella casa di Pistoia, la musica rallegra le giornate e la famiglia sorride. «I gemelli hanno riempito la vita di Sol, che è una splendida sorella maggiore e una grande aiutante. La bambina non vede l’ora di partire a bordo del van Celestino per giocare sulla spiaggia o nel parco di divertimenti di Disneyland con noi, i piccoli e il cagnolone Shark». ■
«Una donna che intraprende questo percorso non è incinta solo per nove mesi, ma per anni, perché tutto ha inizio molto prima della gravidanza»
Dalla frustrazione all’armonia il futuro del lavoro per i giovani
Precarietà e sfruttamento attanagliano gli under35. Dalla crisi, però, può scaturire un nuovo modo di intendere il lavoro e riequilibrare vita personale e lavorativa
«Ho studiato design per 3 anni, in un istituto privato, investendo diversi soldi e formandomi. Ora sono costretto ad accettare un contratto di lavoro con uno stipendio che sarà di 600 euro per 3 anni, significa una retribuzione oraria di 2,75 euro».
Riccardo è un giovane lavoratore di 23 anni, alto, capelli e occhi scuri. Racconta la sua storia con lo sguardo tri-
ste e la voce che si incrina a tratti per il dispiacere, a tratti per la rabbia.
«Sono sempre stato un ragazzo molto attivo, ho fatto volontariato, allenato bambini a pallavolo da quando avevo 17 anni. Il primo lavoro serio che ho trovato è stato quello di cameriere, che è un lavoro che non rifarei mai più perché sono stati nove mesi di tortura, non
tanto per lo sforzo fisico, a me piace stare a contatto con le persone, ma per il carico mentale a cui sono stato sottoposto». Dopo una lunga ricerca, Riccardo riesce a trovare lavoro in un pub.
«All’inizio mi sono trovato bene, poi le cose sono cambiate. È stato assunto un ragazzo che si occupava della gestione dei camerieri e gli stavo antipatico.
di Giulia MorettiMi ha reso la vita difficile sperando che io mi dimettessi, ma ho tenuto duro fino a quando non è arrivata la pandemia».
Nella conferenza stampa dell'8 marzo 2020, il premier Giuseppe Conte annuncia che dal giorno successivo inizierà il lockdown. Riccardo, dopo i primi giorni, ritrova l’equilibrio e inizia a pensare a cosa ne sarà del suo lavoro quando le porte delle case inizieranno a riaprirsi e le strade e i locali a popolarsi di gente. Chiede ai suoi datori di lavoro se è il caso che si cerchi un nuovo lavoro, ma loro gli dicono di pazientare. Arriva giugno 2020, con la riapertura dei locali dopo i mesi di chiusura: «Non mi hanno più richiamato, li ho rivisti soltanto quando sono tornato per prendere dei soldi arretrati, che sono riuscito ad avere nonostante nell’ultimo periodo lavorassi a nero. Questa cosa l’ho scoperta da poco facendo richiesta del mio quadro lavorativo all’Inps. Questa vicenda mi ha veramente scosso perché comunque io ci tenevo a quel posto di lavoro, ero lì quando Conte ha annunciato che dal giorno dopo ci sarebbe stato il primo lockdown e le ultime persone che ho salutato sono stati loro con un grande abbraccio, mentre piangevamo per lo sbigottimento».
compenso che percepisco». Quella di Riccardo non è una storia isolata, nelle sue stesse condizioni vivono migliaia di giovani. Secondo il rapporto Censis-Eudaimon sul Welfare aziendale, quasi 4 giovani lavoratori (tra gli under 35) su 10 hanno contratti a tempo determinato, collaborazioni o part-time non richiesti. Per le giovani, la percentuale aumenta: quasi 1 su 2 deve accettare forme contrattuali di questo genere. Lo stress e la frustrazione che ne derivano hanno effetti dannosi sulla salute mentale, come dimostra una ricerca condotta su 300 ragazzi di età compresa tra 15 e 34 anni secondo cui 4 giovani su 10 si sono rivolti a uno psicologo e almeno 2 stanno pensando di contattarlo. Anche Riccardo ne ha sentito il bisogno. «A me le situazioni che ho affrontato a livello lavorativo hanno causato tantissimo stress mentale e disturbi psicologici per i quali sto andando in terapia. I miei genitori sostengono che ai loro tempi gli psicologi non servivano, ma la loro realtà era diversa».
4 giorni di lavoro al posto dei consueti 5 a retribuzione invariata. L’università di Cambridge in collaborazione con il Boston College ha condotto uno studio che ha coinvolto 61 aziende e 2900 lavoratori che l’hanno sperimentata. Dai risultati è emerso che molti dipendenti sono meno stressati, dormono meglio e trovano più facile bilanciare il lavoro e le responsabilità domestiche. Inoltre, il numero di giorni di malattia è diminuito di circa due terzi e il 57% in meno di personale ha lasciato le aziende partecipanti rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Tuttavia, in Italia la questione è più complessa a causa della presenza di contratti nazionali di riferimento basati sull'orario di lavoro che richiedono una rinegoziazione con le parti sociali per poter ridurre le ore lavorative a parità di stipendio.
Al termine di una lunga ricerca intervallata da lavoretti saltuari, Riccardo viene a conoscenza del fatto che un ufficio di design sta cercando un professionista da inserire nel team. Ha una laurea in design e crede sia arrivata l’occasione che aspettava. «Mi hanno offerto 400 euro al mese e ho accettato perché non vivo più a casa dei miei genitori e dovevo mantenermi in qualche modo. A gennaio 2023 sarebbe dovuto partire il contratto ma ancora non è avvenuto, probabilmente riuscirò a firmarlo a giugno. Credo che i giovani vadano ascoltati, non sfruttati. Quando i clienti vengono in studio io mi rendo conto che ascoltano più me che i miei colleghi che hanno oltre 40 anni. Noi giovani siamo la testimonianza del cambiamento che sta avvenendo, ma i manager non se ne rendono conto» racconta frustrato, e prosegue: «I miei datori di lavoro mi dicono: “Il tempo passa in fretta”. Io però vorrei tornare a casa soddisfatto non solo per il lavoro che faccio, ma anche per il
Del gap generazionale che si crea quando l’argomento di conversazione è il lavoro parla anche Alessandra Ciabuschi, psicologa specializzata in stress managment. «“I giovani non vogliono fare la gavetta” o “sono pigri” sono espressioni che evidenziano l’incapacità di comunicare tra generazioni. Parlano linguaggi diversi, anche perché gli italiani, insieme ai giapponesi, sono i più resistenti a modificare i propri schemi mentali. Questo vale anche quando si parla di aziende. Il gap di integrazione tra generazioni, in Italia, è più negativo anche di quello di genere». Ciò che i giovani rivendicano, racconta Ciabuschi, è «un giusto compenso e l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Prima di loro a richiedercelo però è stata l’Oms, ponendolo come uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 e dichiarando che, se non si interviene sulla questione, i danni anche economici derivanti da stress e ansia sarebbero insostenibili».
Secondo la dottoressa l’evento che ha segnato il giro di boa è stato la pandemia: «Il Covid ci ha fatto vedere una cosa che tutti sappiamo, ma a cui non pensiamo mai: possiamo morire. Questo ha ristabilito la scala delle priorità. Non siamo più disposti a lavorare soltanto, anche perché i dati, da più parti, dimostrano che lavorare di meno non riduce i fatturati, ma anzi aumenta la produttività e il benessere».
Vanno in questo senso le sperimentazioni sul miglioramento del welfare aziendale e sul ribilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Ultima in ordine di tempo quella della settimana corta:
«La settimana di 4 giorni, nei paesi che l’hanno adottata, ha dato risultati più che soddisfacenti. Ma se scegliamo di sperimentarla anche in Italia lo dobbiamo fare nell’ottica di una riduzione effettiva del carico di lavoro, non come accade in alcune aziende che hanno fatto lavorare i dipendenti 12 ore al giorno», commenta Ciabuschi.
Siamo in una situazione generale di crisi, nel senso etimologico del termine, che prepara il terreno alla costruzione di un nuovo modello di rapporti sociali e lavorativi. «Il cambiamento è una costante della storia umana. Chi crede che dopo lo squilibrio causato dalla pandemia si possa tornare alla “normalità”, è destinato a soffrire doppiamente. Non solo ha vissuto la destabilizzazione dello tsunami che si schianta addosso, ma non è neppure capace di tenere ciò che l’onda ha lasciato intatto e ricostruire le cose» conclude Ciabuschi. ■
«Quattro giovani su dieci si sono rivolti a uno psicologo e almeno due stanno pensando di contattarlo»
La sostenibilità è servita Il futuro della ristorazione
Alcuni chef investono nella formazione dei giovani come soluzione alla crisi LAVORO
Il settore della ristorazione in Italia sta attraversando una crisi senza precedenti che, secondo il Rapporto della Federazione Italiana Pubblici Esercizi, ha attestato nel 2020 una perdita di circa 514 mila posti di lavoro nei settori “alloggio e ristorazione”. A dare il colpo di grazia è stata la pandemia, che ha causato l'apertura e la chiusura dei ristoranti a seconda dell'andamento dei contagi, rendendo il lavoro in questo settore precario e poco attraente per i giovani.
La mancanza di personale di sala e di cucina è diventata un problema diffuso tra i ristoranti, con molti chef che lottano per trovare lavoratori stagionali e non. I giovani, infatti, sono spesso scoraggiati dal dedicarsi a un mestiere che percepiscono come instabile e poco sostenibile, con turni di lavoro massacranti e poco tempo libero. Molti nomi noti del settore, come gli
chef Filippo La Mantia e Alessandro Borghese, hanno lamentato l’impossibilità di trovare personale, tanto che a febbraio il primo ha deciso di chiudere momentaneamente il proprio ristorante di Milano.
Per superare questa crisi, alcuni chef e ristoratori stanno scommettendo sulla formazione delle giovani leve e sull'educazione alla sostenibilità umana. L'idea è quella di formare i giovani in modo che credano in questo lavoro e nella professionalità, ma anche di offrire loro un'esistenza sostenibile e adeguata ai tempi moderni. Davide Oldani, chef da due stelle Michelin con il suo D'O, ha inaugurato il Ristorante Didattico, impegnandosi come mentore dell'Istituto Professionale Statale per l'Enogastronomia e l'Ospitalità Alberghiera Olmo. Oldani crede che sia fondamentale adeguare il codice Ateco e la legislazione ai tempi moderni per cre-
are un'opportunità di detassazione del ristorante, aumentando il numero di dipendenti e garantendo loro una vita dignitosa.
Lo chef milanese punta soprattutto all’armonia sul luogo di lavoro. Pochi turni per garantire una prestazione eccellente senza intaccare l’atmosfera lavorativa. Gerarchia ben definita e la chiusura della cucina intorno alle 22.15 sono i punti chiave della strategia. Chi cerca di superare la crisi accusando i giovani di essere troppo esigenti chiude i battenti, mentre chi scommette sull’educazione alla sostenibilità umana primeggia e fa da apripista. La chiave di volta è affrontare la questione del lavoro offrendo opportunità di impiego sostenibile e dignitoso per i giovani che credono in questo mestiere e nella professionalità. ■
Il segreto per portare l’emozione in tavola
Il personal chef Carlo Marrali spiega quali sono le basi per ottenere un’armonia culinaria che unisca la tradizione all’innovazione
di Yamila AmmirataMettere l’amore in ciò che si prepara. Questo è il segreto di Carlo Marrali, il giovane personal chef e tirocinante presso la cucina stellata Zia Restaurant di Roma. Ci racconta che alla base di un piatto buono ci sono sempre l’alta qualità degli ingredienti, la loro stagionalità e le varie tecniche di cottura, ma specifica che «non è necessario avere gli alimenti più ricercati e costosi per ottenere ottimi risultati». Utilizzando ciò che la natura offre nei diversi periodi, si può raggiungere un giusto equilibrio di sapori.
«L’armonia culinaria è tutto ciò che circonda quello che si mangia, fino alla sensazione di benessere e soddisfazione finale» afferma lo chef Marrali. Il suo obiettivo è far provare emozioni a chi assaggia i suoi piatti, e questo può accadere solo mettendo passione in tutto il processo di lavorazione. «Noi chef siamo come degli artisti. Se chi cucina non è in armonia con quello che fa, questo si rifletterà sul risultato finale dell’opera d’arte. Bisogna avere cura nel maneggiare e trasformare gli ingredienti».
La presentazione costituisce il primo impatto che il cliente ha con il cibo, ed è quindi un passaggio fondamentale: «La stessa portata impiattata in due modi diversi fa la differenza da un punto di vista mentale. Un piatto ben presentato fa venire l’acquolina in bocca e suscita il desiderio di mangiarselo già con gli occhi».
Lo chef racconta che esistono infinite preparazioni per ogni singolo piatto: «Si può avere un grande risultato, da quelle che richiedono pochi minuti di cottura a quelle che richiedono ore o persino giorni, come le marinature». Viene sempre tenuta a mente la valorizzazione della materia prima, «come se avesse vita propria», an-
dando a sprecare il meno possibile. Questo modus operandi lo ritrova anche all’interno del suo tirocinio: «Si lavora molto sull’ingrediente in sé. Non ne vengono messi tanti nello stesso piatto e il lavoro sta proprio nel ricavare il massimo del sapore. Tutto è studiato per far sentire sazi alla fine del pasto».
La cucina non ha regole fisse, «o meglio, si possono trattare gli alimenti secondo le proprie regole», ed è proprio questo il fulcro di tutto. La varietà degli ingredienti a disposizione consente una grande libertà di sperimentazione e di innovazione: «Le nuove tecniche di cottura aiutano noi chef, perché danno la possibilità di raggiungere consistenze sempre più ricercate e precise».
La cultura locale ha un’influenza sull’armonia culinaria. «Noi italiani siamo fortunati, perché abbiamo l’ecosistema gastronomico più vario del mondo. In ogni regione esistono migliaia di tradizioni e ingredienti diversi e questa è una particolarità propria del nostro Paese. Abbiamo a disposizione a km 0 tutti gli alimenti, ed è quindi un nostro dovere valorizzarli al massimo». Rimane molto importante essere fedeli alla tradizione così da poter far rievocare ricordi dell’infanzia e far scaturire emozioni ai commensali. «Nel mio lavoro cerco sempre di unire un tocco di innovazione ai piatti classici, così da poter mettere sempre qualcosa di mio» conclude il personal chef Marrali. ■
Boom di foto sui social ma lo sharenting fa male ai figli
La pubblicazione di foto familiari che ritraggono minori è un fenomeno sempre più diffuso, nonostante i rischi per la privacy e la sicurezza online
Sui muri delle città una schiera di poster l’uno dietro l’altro. C’è la foto al mare di quando avevamo due anni, quella del nostro primo bagnetto o della nostra prima pappa, la scuola che abbiamo frequentato e la casa al mare della nostra infanzia. In ogni angolo c’è qualcosa che ci riguarda e che scivola davanti agli occhi di tutti i passanti dal giorno zero, da prima ancora che venissimo al mondo.
il danno è potenzialmente maggiore perché, in mancanza di specifiche impostazioni sulla privacy, i social media rendono i contenuti che pubblichiamo ancor più accessibili a chiunque.
di Silvia StellacciSe fossimo nati negli ultimi dieci anni, questa sarebbe la nostra vita oggi. Costretti a rapportarci con una sovraesposizione pubblica che non abbiamo scelto e alla quale non abbiamo prestato il nostro consenso. Poco importa se le immagini e i video che ci riguardano si trovano sui social network dei nostri genitori e non per le strade delle città. Anzi,
La parola che meglio descrive questo fenomeno è l’inglese sharenting, da share (condividere) e parenting (genitorialità), anche se sarebbe meglio parlare di oversharenting, ossia di un’eccessiva pubblicazione da parte dei genitori di contenuti che ritraggono i propri figli minorenni.
«Alcuni iniziano dal condividere le foto delle ecografie in gravidanza, prima ancora che il bambino possa esprimere alcun tipo di consenso, anche se l’espressione di un consenso per un’esposizione pubblica è di per sé un concetto da
adulti» spiega Brunella Greco, sociologa ed esperta di Save the Children in tema di tutela dei minori online. «Si vive in questa modalità immersiva nel mondo digitale, in cui anche i genitori o parenti fanno fatica a vedere una distinzione e a capire i rischi che si corrono, quando si condividono contenuti che ritraggono una così bella creatura come può essere il proprio figlio o nipote».
Qualche anno fa uno studio inglese di Nominet e Parent Zone ha stimato che, entro i primi cinque anni di età, un bambino appaia in media in 1.500 foto condivise online dai propri genitori, 300 per ogni anno. «Il problema è che l’impatto di questa condivisione è molteplice. Si va da aspetti che riguardano la violazione della privacy, alla tutela dell’immagine, al rischio di adescamento o di creazione di materiale pedopornografico» continua Brunella Greco.
«Tutti i dati che noi condividiamo diventano parte dell’identità digitale del minore. È difficile che si vada poi a rimuovere, sia in termini di rappresentazione pubblica, cioè come gli altri hanno cominciato a vederti fin da piccolo o da piccola, sia in termini di informazioni che le aziende possono utilizzare per influire sulla tua vita». Tra le conseguenze indesiderate dei post pubblicati dai genitori, c’è anche il rischio di esporre il proprio figlio a data broker che raccolgono e vendono dati personali per attività di profilazione, hacking o altro, minacciando la sicurezza e la privacy. La stessa banca inglese Barclays ha previsto che, entro il 2030, lo sharenting potrebbe essere all'origine di 7 milioni di furti d'identità e del furto di oltre 800 milioni di dollari in frodi online.
Un altro aspetto che non va sottovalutato è quello che riguarda i baby influencer, bambine e bambini famosi i cui profili social vengono gestiti dai genitori, che costruiscono l’immagine dei propri figli e guadagnano sulla loro attività. «Con l'avvento dei social network siamo passati ad influencer e celebrity che inseriscono nel loro storytelling quotidiano anche i propri bambini» spiega Filiberto Brozzetti, professore di AI, Diritto ed Etica all'Università Luiss di Roma, in precedenza legal advisor del vice presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
Quando il lavoro di influencer si somma a quello di imprenditore digitale, succede che anche il bambino contribuisca a far crescere l’engagement e il valore economico del profilo del genitore o del
proprio, qualora esista. Si può parlare, in questo caso, di sfruttamento minorile? In Italia, la legge n. 977 del 17 ottobre 1967 disciplina il lavoro di bambini e adolescenti, ad esempio nel mondo dello spettacolo e culturale-artistico. Per quanto riguarda i social, invece, non c’è ancora un quadro normativo chiaro, ma un passo in avanti è stato fatto lo scorso 10 maggio, quando è stata depositata la relazione finale del tavolo tecnico del Ministero della Giustizia (con le tre Autorità: Agcom, Privacy, Infanzia e adolescenza) sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social network, dei servizi e dei prodotti digitali in rete.
«In questa relazione finale, credo che la parte più interessante sia quella che guarda proprio all'esempio francese sui baby influencer, cioè sul riconoscimento di una capacità giuridica del minore e della possibilità per il minore stesso di esercitare una sorta di diritto all’oblio nei confronti dei gestori delle piattaforme» sostiene il professor Brozzetti, facendo riferimento alla legge dell’ottobre 2020 che estende ai baby influencer le tutele già
esistenti per i minorenni impiegati in altri ambiti lavorativi particolari.
Da qualche settimana, nel parlamento francese, si discute anche una proposta di legge per disciplinare il fenomeno dello sharenting. «La Francia intende rendere diritto positivo quello che in Italia è una consolidata conquista della giurisprudenza. Ci sono ormai diverse ordinanze di tribunale che seguono una sentenza della Cassazione del 2017, in cui un minore ottiene la cancellazione, dai social della madre, di tutti i contenuti che lo riguardano. Ora, bisognerebbe puntare sull’anticipare una sorta di capacità giuridica del minore per quanto riguarda la sua esposizione sui social media», conclude il professor Brozzetti.
Se i figli di celebrità o influencer, anziché seguire le orme dei genitori, un giorno volessero fare un altro lavoro, come si farà ad eliminare dalla memoria collettiva chi sono e che cosa hanno fatto da bambini? È qualcosa che vincola le scelte e la vita futura del minore. Forse è il caso di iniziare a pensarci. ■
Quell’Oasi di Pace in Israele luogo di convivenza
STORIE
«Ho deciso di venire a vivere in questo villaggio 21 anni fa perché volevo qualcosa di diverso per i miei figli». A parlare è Samah Salaime, abitante dell’Oasi di Pace. «Già dal nome si capisce su quali basi si fonda questo luogo: Wahat al-Salam - Neve Shalom è un nome doppio, in arabo ed ebraico, che significa proprio “oasi di pace”» ha raccontato Giulia Ceccutti, membro del consiglio direttivo dell’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat-al Salam, che da qui sostiene e cerca di far conoscere questa realtà.
Wahat al-Salam - Neve Shalom è un villaggio situato su una collina circondata dalla valle di Ayalon in cui convivono pacificamente ebrei e palestinesi. Questo villaggio, situato in Israele, è la sola comunità che esiste oggi in cui ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana, vivono insieme per scelta e in armonia.
senta tutt’oggi un modello di pacifica convivenza tra questi due popoli in guerra da decenni, nonché la dimostrazione che un’alternativa è possibile.
di Martina UcciFondato all’inizio degli anni ’70 dall’intuizione di Bruno Hussar, padre domenicano di origine ebraica, rappre -
«Padre Hussar aveva questo sogno: dar vita a un luogo che fosse una scuola per la pace e che avesse anche un taglio di carattere religioso. Un luogo di convivenza delle tre grandi religioni: cristianesimo, ebraismo e islam» racconta Giulia. «Il padre domenicano è riuscito ad ottenere una terra dal monastero di Latrun che si trova lì di fianco. La sua idea è stata seguita da alcune coppie ebree e palestinesi che hanno iniziato a vivere insieme su questa collina. Era un luogo in cui non c’era nulla, all’inizio hanno costruito loro tutto: la strada, le fognature, le condutture elettriche, la rete idrica». Oggi l’Oasi di Pace è come un grosso paese, che si trova equidistante da Gerusalemme e da Tel Aviv, amministrato da una sindaca araba e composto da un’ottantina di famiglie. Esiste una lista d’attesa piuttosto lunga di famiglie che si vorrebbero trasferire lì, per cui è nato un piano di espansione.
Nella terra da decenni divisa dal conflitto, ebrei e palestinesi coabitano in maniera pacifica
«Il motivo per cui io e mio marito ci siamo trasferiti qui è che abbiamo cercato qualcosa di diverso per i nostri figli, non volevamo dovessero conoscere il razzismo e la segregazione in cui siamo cresciuti noi. Mio marito ha sentito parlare di questo villaggio e della scuola mista, ai tempi noi stavamo cercando un’alternativa educativa per il nostro primo figlio. Così ci siamo incuriositi e abbiamo deciso di andare a visitare il villaggio. Ci è piaciuto molto, ci sembrava che le persone fossero felici lì, quindi ci siamo trasferiti. Il mio secondo e terzo figlio sono nati lì. Poi dopo un po’ di tempo siamo diventati veramente attivi nella comunità». Questa è la storia di Samah, una donna palestinese che ha vissuto sulla sua pelle e quella della sua famiglia l’occupazione. Sono ormai 21 anni che Samah vive nell’Oasi con suo marito e i suoi tre figli.
«All’interno del villaggio e in tutte le istituzioni che ne fanno parte è molto importante che ebrei e arabi siano presenti in numero uguale» continua Giulia Ceccutti, che sottolinea come le istituzioni educative che si trovano all’interno del villaggio rispecchino in tutto e per tutto gli ideali su cui è fondata la comunità.
«Nel villaggio vi è un solo luogo di culto: è una cupola circolare che si chiama Dumia-Sakinah e significa “la casa del silenzio”. È uno spazio privo di simboli religiosi, dedicato al silenzio come linguaggio universale per tutte le fedi e anche per chi non professa alcuna religione». Un’altra delle istituzioni di cui l’Oasi si è fatta pioniera è la scuola bilingue e binazionale, in cui i bambini ebrei e palestinesi, che sono sempre in numero uguale, imparano a scrivere e a parlare in entrambe le lingue. «Il fatto di sapersi esprimere bene nella lingua dell’altro e di capirlo è proprio il primo passo per conoscerlo e, per un domani, costruire un dialogo che sia alla pari». Un altro luogo
centrale per la comunità è la Scuola per la pace, uno spazio in cui si svolgono attività e laboratori il cui scopo è affrontare qualunque conflitto attraverso il dialogo e la reciproca comprensione.
«Ci sono stati momenti di tensione, ma sono durati poco perché il nostro metodo è discutere dei conflitti interni, cercando di mantenere sempre un equilibrio» ha raccontato Samah.
«Si chiama Oasi di Pace, ma in realtà è una comunità fortemente calata nel conflitto israelo-palestinese e ci sono anche conflitti quotidiani, complice anche il fatto che è una comunità piccola» ha continuato Giulia, «quindi sì, i conflitti interni ci sono. Uno dei momenti più difficili negli ultimi anni è stato durante l’ultima guerra a Gaza nel 2021 perché chiaramente, pur essendo tutti contro quella guerra, era vissuta in modo diverso da parte degli ebrei e dei palestinesi. Però tutti i conflitti si cerca di affrontarli con il dialogo».
Inoltre, il villaggio è stato periodicamente attaccato negli anni e in vari modi. Non solo atti vandalici, come scritte offensive contro i palestinesi o
gomme bucate, ma l’episodio più grave è stato quando hanno dato fuoco alla Scuola per la pace nel 2020. In questo incendio, in cui non ci sono stati feriti, l’edificio principale è stato distrutto completamente.
«Ci sono altre città miste, come Tel Aviv o Gerusalemme, ma questo villaggio è un modello perché è unico: qui le persone hanno scelto liberamente di venire a vivere in una comunità fondata su un certo tipo di principi». Samah parla con orgoglio della sua scelta e del suo villaggio: «È stato un progetto innovativo e molto coraggioso, soprattutto perché è stato creato più di 40 anni fa. In realtà ad oggi sono molte le persone che vorrebbero replicare questo modello e costruire altri villaggi come questo, ma il governo israeliano glielo impedisce. Noi siamo la prima e l’unica (almeno per ora) comunità di questo tipo e siamo fortunati ad avere una terra che ci ha dato il monastero, altrimenti anche noi probabilmente non esisteremmo oggi. Penso ci vorranno molti anni prima che questo modello possa diventare realtà per tutto il territorio di Israele-Palestina, ma che un giorno, quando cambierà il regime, l’Oasi potrà essere replicata e diventare l’inizio di una nuova pace. Credo sia l’unico modo in cui si possa vivere: in pace, in uguaglianza, all’interno di uno stato democratico fondato sul rispetto e la comprensione reciproca. È sicuramente difficile come progetto ma bisogna crederci e quando il popolo sarà pronto potrà succedere. Noi che viviamo qui siamo persone normali, così come le persone fuori, se lo abbiamo fatto noi lo possono fare tutti». ■
«Quelle isole perdute»
Ossessione in Argentina
Il governo di Alberto Fernández vuole riportare la questione della sovranità delle Falkland davanti alle Nazioni Unite, ma gli isolani si oppongono: «Non siamo una colonia»
di Antonio CefalùCiò che diciamo sugli spalti di uno stadio può raccontare una società molto più di quel che si possa immaginare. Prendiamo un coro dedicato alla nazionale di calcio: visto che è un Paese intero a doverlo cantare, deve mettere d’accordo proprio tutti. Riassumere, insomma, quei due-tre significati di nazione che scaldino il cuore delle masse e dai quali nessuno si senta escluso.
Quando gli argentini si sono chiesti cosa cantare insieme per il Mondiale in Qatar, e dunque cosa inserire nel minimo comun denominatore di ciò che ci rende una nazione, per il coro Muchachos hanno scelto questi tre concetti: 1) siamo la terra di Maradona, 2) siamo la terra di Messi, 3) non dimenticheremo mai i ragazzi delle Malvinas, ovvero i giovani caduti nella guerra che, nel 1982, su ordine della dittatura militare, tentò senza successo di occupare l’arcipelago dell’Atlantico del Sud sul quale vige tuttora il controllo del Regno Unito.
Non c’è nulla che unisca gli argentini come la nazionale di calcio e la rivendicazione di sovranità sulle Malvinas, che considerano proprie nonostante siano sotto la corona britannica dal 1833, prima della costituzione definitiva dello Stato argentino, motivo per cui sono meglio note come Isole Falkland. L’effetto della popolarità di questo tema, manco a dirlo, tocca anche la politica, che della disputa Falkland/Malvinas ha continuato a farne uso non solo come strumento di politica estera, ma anche di costruzione di consenso interno.
Negli ultimi tempi, il governo argentino del peronista Alberto Fernández è tornato con forza sulla questione, riprendendo una politica aggressiva dopo anni di rapporti più distesi con il Regno Unito. Al G20 di Nuova Delhi dello scorso marzo, il ministro degli Esteri Santiago Cafiero ha infatti sollecitato all’omologo inglese James Cleverly «di riprendere i negoziati per la sovranità» richieden-
do per questo «una riunione nella sede delle Nazioni Unite». Già un anno prima Fernández aveva dichiarato che riprendersi le isole fosse tornato «un obiettivo irrinunciabile» per il Paese.
Per dimostrare di fare sul serio, nella stessa occasione Cafiero ha notificato la cancellazione del patto ForadoriDuncan, un accordo non vincolante di cooperazione fra Argentina e UK firmato nel 2016 dal precedente governo, guidato da Mauricio Macri. Con esso i due Paesi avevano iniziato a collaborare nelle Falkland/Malvinas su temi di sfruttamento di risorse naturali e di ricerca e sviluppo. Agli argentini, inoltre, era stato concesso di lavorare per identificare i corpi dei caduti nell’82, un tema sensibile proprio per l’affezione popolare verso i giovani chiamati nell’esercito per affrontare la guerra e mai tornati a casa.
«La politica argentina verso le Malvinas storicamente è cambiata a se-
conda della posizione del presidente di turno. Menem negli anni ’90 e Macri più recentemente avevano avuto un atteggiamento occidentalista. Con questa sferzata, Fernández è tornato alla politica autonomista che aveva già intrapreso Néstor Kirchner nei primi anni 2000» nota Martín Diéguez, esperto del tema e professore dell’Università di San Andrés (Buenos Aires). «Il suo scopo è portare il Regno Unito a negoziare sulla sovranità delle isole attraverso una politica dura, implacabile. L’idea di fondo è che più gli abitanti delle Malvinas saranno isolati e in difficoltà, più gli inglesi saranno indotti a trattare» continua. Tuttavia, è da poco prima della guerra, nell’82, che il Regno Unito non si siede al tavolo negoziale con l’Argentina. L’obiettivo reale, infatti, potrebbe essere diverso. «Ciò che porta avanti il governo non è altro che un trucco pubblicitario» riflette Diéguez. All’orizzonte, in effetti, ci sono le elezioni di fine anno e non è improbabile che dietro queste mosse ci sia un intento propagandistico. «Pare un tentativo di differenziazione con altri settori politici argentini piuttosto che una misura di politica estera che possa portare un guadagno al Paese» gli fa eco Sergio Suppo, autore del libro Malvinas, il luogo più amato e sconosciuto dagli argentini
«Ciò che sorprende è che, nonostante il tema delle Malvinas faccia così parte della causa nazionale, questo non significa che gli argentini sappiano cosa succeda sulle isole o come la pensi chi ci abiti. Anzi, tutto il contrario» continua Suppo. Argentina e Falkland, infatti, sono due mondi che non comunicano, anche perché i voli da e per il continente sono stati ridotti all’osso per isolare
economicamente e socialmente i kelpers, come vengono chiamati gli isolani, con i collegamenti che sono diminuiti dopo l’ultimo cambio di governo. La versione argentina ignora spesso, fra l’altro, che gli abitanti delle Falkland ripudino l’idea di cambiare bandiera. In un referendum del 2013 il 98,8% dei 3.500 abitanti si è detto favorevole a rimanere così come stanno oggi: sotto controllo britannico, ma gestiti da un governo autonomo. Per i rioplatensi non sono però fatti rilevanti. Le richieste di autodeterminazione dei kelpers non entrano nel dibattito argentino perché, spiega Diéguez, «l’idea dominante è che siano un popolo ‘trapiantato’, non di indigeni, ma portato lì dalla colonizzazione britannica nell’800» e, dunque, non possano avere voce in capitolo sulla sovranità del territorio.
Per gli isolani, tuttavia, «questa visione è pura spazzatura. Io sono falklander di settima generazione e non credo che molti argentini possano dire lo stesso» controbatte in un accento posh britan-
nico Teslyn Barkman, una degli otto rappresentanti eletti al congresso delle Falkland. «Nel 1800 la maggior parte del Sudamerica era inabitato e le Falkland non avevano popolazioni indigene. La storia della mia famiglia risale a quegli anni e noi siamo gli unici mai stati qui» sostiene. «Se vogliamo prendere un certo tipo di posizioni — continua — potremmo sostenere che l’Uruguay abbia diritti sul territorio argentino, ad esempio».
«È nel loro interesse parlare delle Falkland come se non esistessero, come fossero un mucchio di rocce che possono essere comprate e vendute, trattando gli abitanti come oggetti» denuncia Barkman. «Con il governo Macri c’era stato un piccolo impegno per eliminare alcune delle sanzioni economiche illegali che ci sono state imposte. Parlo di bloccare il nostro spazio aereo, non lasciare entrare navi nel nostro mare, cercare di cancellare la nostra storia, sostenere che non esistiamo o che non dovremmo aver diritto a un’economia aperta. Il patto ForadoriDuncan era un modo per sfidare questa visione. Non capiamo perché oggi si sia tornati indietro». Mentre l’Argentina ritorna all’attacco del proprio simbolo nazionale, dunque, la soluzione isolana è remare in senso opposto: «Se la gente lì sapesse davvero quello che significa vivere da 40 anni sotto costante attacco, militare e diplomatico, la penserebbe diversamente. Va fatto capire che le rivendicazioni del governo argentino non fanno parte del mondo moderno e che noi non siamo più una colonia. Certo, loro vogliono continuare a trattarci come se lo fossimo, perché se siamo una colonia britannica, allora possiamo tranquillamente essere una colonia argentina. Non mi sembra un atteggiamento progressista, per usare un eufemismo». ■
Il cambiamento climatico mina la sopravvivenza dei Fulani
L'esasperazione economica si intreccia ai conflitti etnico-religiosi e si registra un aumento dei casi di violenza armata da parte dei gruppi fulani
di Luisa Barone«La vita ruota intorno a quella degli animali». Seni e Alshara sono fratelli e appartengono alla nuova generazione di Fulani che con il tempo ha deciso di stabilizzarsi e abbandonare le tratte migratorie lungo i percorsi che conducono ai terreni più verdi. Noti per la grande armonia con cui convivono con il bestiame di cui si prendono cura per tutta la loro vita, i Fulani sono un popolo nomade dell'Africa occidentale che «per secoli ha viaggiato con i pascoli attraverso le regioni del Sahel, affidandosi alla natura per la loro sopravvivenza» .
Abituato a muoversi, il popolo fulano vive da sempre in diversi stati, dalla Nigeria, al Mali e al Senegal. Dunque, seppur di religione musulmana, ha vissuto diverse influenze culturali e religiose, «con un percorso abbastanza recente di radicalizzazione dovuto alla desertificazione e alla siccità di molti territori dove i pastori hanno sempre vissuto con i loro pascoli».
Beatrice Nicolini, professoressa all'Università Cattolica di Storia e Istituzioni dell'Africa, racconta di un popolo «costretto a spostarsi in realtà urbane e in villaggi dove ci sono sia missionari cristiani impegnati in percorsi di evangelizzazione che popolazioni a maggioranza religiosa cristiana». Ma il fenomeno della violenza religiosa da parte dei Fulani nei confronti di altre popolazioni in Africa occidentale non è una violenza legata unicamente alla differenza culturale e religiosa, bensì è originata «da una situazione dramatica che li costringe alla violenza e alla radicalizzazione». Perciò, il motivo per aggredire i missionari cristiani risiede nelle macchine, nei soldi e nella possibilità di richidere riscatti per i rapimenti piuttosto che nella fede. Al problema del cambiamento climatico si aggiunge una «fortissima fragilità politica» delle leadership dei diversi governi coinvolti.
Soprattutto in Nigeria, dove l'ex presidente apparteneva al gruppo etnico dei Fulani, gli attacchi sono resi ancora più feroci perchè i Fulani sono consapevoli dell'impunità. Nei casi più estremi si registrano anche affiliazioni a gruppi terroristici come quello dei Boko Haram, «ma se anche la vetrina di questo tipo di alleanze rimane religiosa, non si tratta degli stessi fenomeni di violenza che si possono trovare in Arabia Saudita o in Iran, dove le culture culturali e religiose non sono così commiste tra loro come invece accade in Africa».
Nel caso dei Fulani la violenza è du-
plice. Se da una parte il cambiamento climatico e la siccità alterano il loro stile di vita, dall'altra il movimento che li contraddistingue rappresenta «una minccia difficile da controllare per i governi. Così per propaganda o campagna elettorale, questa popolazione finisce per essere perseguitata dalle forze governative».
Secondo la professoressa Nicolini il maggiore problema nell'affrontare questo tipo di fenomeno sta nelle leadership politiche «che non si rendono conto che questo tipo di fenomeni non possono essere affrontati se non in una sinergia tra stati. I governi dei singoli paesi non possono pensare di intervenire sui problemi di una popolazione che vive oltre i confini territoriali coinvolgendo più realtà politiche».■
«Le leadership politiche non si rendono conto che non è possibile intervenire sui problemi di una popolazione che vive oltre i confini territoriali se non agendo in una sinergia tra stati»
I mille colori della primavera
Nell'Orto Botanico di Roma, la natura si evolve sinuosa in un equilibrio cromatico
È una questione di vibrazioni
Da oltre un decennio, un’azienda agricola abruzzese utilizza un’innovativa tecnica di coltivazione che mette insieme passione e una selezionata playlist
SUONI
L’idea delle “serre musicali” è nata «leggendo alcuni studi pubblicati tra il 2007 e il 2010, secondo cui alcune note possono favorire lo sviluppo delle piante, alimentare la biosintesi, oltre a inibire il volo di alcuni insetti e lo sviluppo di certi tipi di funghi» racconta Alfredo D’Eusanio, proprietario di un’azienda agricola in Abruzzo, nelle colline del Riccio sul lato nord di Ortona.
Inizia così un esperimento che oggi è diventato pratica consolidata: far ascoltare tutti i giorni musica classica a ortaggi e frutta. «All’inizio abbiamo messo la musica in un semenzaio, poi all’interno della serra. Abbiamo visto miglioramenti rispetto agli anni precedenti. Oggi con la musica coltiviamo i pomodori e, da un paio di anni, ci siamo spostati in aperta campagna, nelle vigne».
La playlist selezionata non è mai casuale. Mozart e Bach sono quelli che la letteratura scientifica sul tema considera i migliori da utilizzare, ma sempre tenendo conto di un preciso schema. «La musica deve essere fatta ascoltare per pochissimo tempo, dai dieci ai trenta minuti al giorno, nelle ore più fresche della giornata, la mattina o la sera. Nei momenti più caldi le piante entrano in una fase di stasi, con la musica rischiamo di danneggiarle» continua Alfredo, che spiega il modo in cui le piante “ascoltano” i brani.
«È un discorso ‘vibrazionale’: quando
l’amminoacido della pianta si riproduce, si crea una certa vibrazione e riproducendo quella vibrazione noi possiamo incentivare la riproduzione cellulare o anche rallentarla. Per questo la musica deve essere riprodotta a una determinata frequenza: 432 hertz».
Dopo aver installato diverse casse alimentate con l’energia solare nei pressi delle coltivazioni, il produttore ha notato lenti ma progressivi cambiamenti, non solo sulle piante, come nel caso delle viti che sembrano avere «foglie più grandi rispetto a quelle della stessa zona. Le vigne sono più resistenti alle malattie e hanno frutti più buoni», ma la musica ha effetti positivi anche su chi si prende cura delle piante stesse, secondo una filosofia che sottende tutto il lavoro dell’azienda. «Secondo me siamo tutti interconnessi. L’universo è partito da una vibrazione e la vibrazione è la chiave che unisce. Chi coltiva è fondamentale, è un pezzo del tutto, si avvicina alla pianta con una certa carica vibrazionale».
Anche se l’utilizzo della serra musicale, che spesso consente di evitare l’utilizzo di alcuni prodotti chimici per stimolare la crescita delle piante e proteggere i frutti dai parassiti, non è molto diffusa, D’Eusanio si augura che un giorno arrivi «un mondo in cui andando a fare una passeggiata in campagna, oltre ad ammirare il bello, si possa ascoltare anche buona musica». ■
432 Hz, la favola della frequenza magica
Per più di un secolo, all’evoluzione del diapason delle orchestre si sono affiancate credenze pseudoscientifiche prive di alcun fondamento
È il suono che conquista ancora prima che l’orchestra inizi a suonare: si tratta del La intonato dal primo violino, in ambito musicale anche noto come diapason o corista. Il suo scopo è indicare la giusta altezza sulla quale tutti gli strumenti devono accordarsi affinché possano suonare insieme. Di solito, questa altezza è fissata a 440 Hz: per chi non avesse dimestichezza in teoria musicale significa che, suonando il La centrale del pianoforte, vengono emesse 440 vibrazioni al secondo.
In Italia, l’affermazione del diapason a 440 Hz è una conquista relativamente recente: il nostro paese lo ha ratificato solo con una legge del 1989, dopo più di un secolo di tentativi e modifiche. Ma perché, ad un certo punto, si è sentita l’esigenza di definire uno standard per l’accordatura delle orchestre? «Ci sono tre motivi» spiega Renato Meucci, organologo e musicologo. «Primo, la necessità di porre un freno all’innalzamento del La, che nella seconda metà dell’Ottocento si era spinto oltre i 440 Hz. Seguono due ulteriori esi-
genze: uniformare l’esecuzione musicale delle bande da Nord a Sud del paese dopo l’unificazione d’Italia e permettere così anche alle orchestre di confrontarsi con le compagini militari».
A partire dal 1859 si era infatti assistito a «una corsa verso l’acuto» motivata dall’adozione di nuovi strumenti a fiato, prima in Austria e poi in Italia, nelle bande militari. Infatti, «più si suonava con un diapason alto, più il suono dei fiati era brillante». Ciò, però, diventata controproducente per i cantanti, che troppo spesso si trovavano a fare i conti con altezze impossibili da raggiungere vocalmente: naturale che a battersi per l’abbassamento del diapason si trovi allora anche Giuseppe Verdi, l’operista italiano per eccellenza. «Il compositore approvò, nel 1881, la scelta del Congresso dei musicisti italiani di abbassare il La a 432 Hz, nonostante lui fosse più propenso per il modello francese di 435 Hz».
La proposta di un tale corista arrivava
dal musicista Bartolomeo Grassi-Landi, influenzato da alcune congetture che sostenevano il 432 Hz come l’accordatura perfetta sulla base di calcoli matematici. È una credenza che non ha mai smesso di essere presente nel pensiero esoterico e teosofico novecentesco: secondo tali teorie, il 432 Hz non solo risulta essere più gradevole all’orecchio, ma ha anche effetti benefici sull’animo umano, poiché lo rende più felice e lo connette in armonia con l’universo. La giustificazione? Un riscontro matematico che collegherebbe il 432 Hz al numero di giri di rotazione della Terra, al suo battito, e alla nostra frequenza cardiaca. Ma che, oltre ad essere al limite del forzato, non trova alcun fondamento scientifico.
«Nulla di più lontano dal povero Verdi, che aveva a cuore l'unità del diapason e la salvaguardia dei cantanti» sospira Meucci. Il compositore sapeva benissimo che tre Hz di differenza sono assolutamente impercettibili all’orecchio umano: un La a 432 Hz in Italia sarebbe rimasto comunque un La a Parigi, anche se questo era a 435 Hz. Ad influenzare la scelta dell’accordatura, che ad oggi è ancora variabile e può arrivare fino i 444 Hz della filarmonica di Berlino, ci sono ben altre condizioni: culturali, preferenze del direttore e, in ambito più piccolo, umidità e temperatura dei contesti in cui gli strumenti suoneranno. Entrando in una sala da concerto, non c’è pericolo di diventare più riottosi e violenti se il primo violino intona un La a 440 Hz invece che a 432 Hz. L’orchestra di oggi suona Mozart quasi un semitono sopra di come lui aveva sentito la sua musica al fortepiano: non per questo, ci commuove di meno. ■
di Alissa Balocco MUSICASulle note dell’amicizia «In piedi con un esercito accanto»
Dopo il conflitto, ritorna l’armonia. Ci sono tracce di questa esperienza fin dall’antichità
When I’m with you, I’m standing with an army. Il ritornello di Army, la canzone della cantante e compositrice britannica Ellie Goulding, restituisce il significato del sentimento dell’amicizia. Quando sono con te, sono in piedi con un esercito accanto. Con la presenza di un amico, qualcosa dentro di noi cambia e ci sentiamo forti, invincibili. Diventiamo dei ‘guerrieri’ disposti a combattere per la persona a cui teniamo.
La canzone sembra spalancare una finestra sul passato. «Nell’antichità era naturale fare qualcosa contro sé stessi, com-
battere per aiutare l’altro. I personaggi hanno sempre rinunciato a qualcosa o a qualcuno per favorire l’amico. È il sacrificio per il bene supremo: l’amicizia». Il critico letterario, storico della letteratura e saggista italiano Giulio Ferroni parte da un esempio di altruismo: l’Orlando Furioso, il poema di Ludovico Ariosto.
«Due personaggi combattono l’uno contro l’altro, ma poi si accorgono del loro valore reciproco. Ruggiero rinuncia all’amore per Bradamante e combatte in un duello, soltanto per conquistare la donna e poi cederla all’amico Leone».
Con un sorriso, il professore ricorda anche la novella di Tito e Gisippo, sottolineando come «lo schema narrativo è sempre lo stesso e non si perde nel tempo. Nel Decameron di Giovanni Boccaccio, Gisippo rinuncia all’amore di Sofronia per il suo amico. Nel contempo Tito si autoaccusa dell’omicidio imputato all’amico. Il paradosso è che la rinuncia crea una frattura e, poi, l’armonia viene ristabilita quando Gisippo sposa la sorella del suo amico. Nei racconti tradizionali il sentimento è vissuto in maniera differente. Pensiamo all’Amica Geniale di Elena Ferrante. È il racconto di due migliori amiche che, alla fine, si separano». Sembra che per Ferroni la storia trasportata nel passato avrebbe avuto un finale diverso. «Prima si ricuciva tutto. Adesso l’amicizia si proietta in un universo di comunicazione, dove le fratture sono infinite perché siamo molto influenzati dalla società».
Così il ritorno alla propria individualità, al proprio tribunale interiore può ristabilire il contatto con l’altro. Il professore Vincenzo Caretti, psicologo clinico dell’Università Lumsa di Roma, esperto in psicologia dinamica e psicopatologia, richiama la «competenza narrativa, comunicativa. Dobbiamo rintracciare dentro di noi un principio di autonomia che è in grado di spingerci al confronto, al chiarimento con il nostro amico. Non dobbiamo inseguire una relazione idealizzata, senza rotture, perchè non esiste e si soffre soltanto. L’amicizia non è mai paritetica».
Anche il professore Antonino Tamburello, psichiatra romano, fondatore e direttore dal 1973 dell'Istituto Skinner di Roma, scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e comportamentale, chiarisce che «è possibile riparare i danni ma ci vuole impegno per riscrivere una relazione. Ricordo di un mio ormai ex amico. Stavamo sempre insieme, ci vedevamo a pranzo almeno quattro volte a settimana. Un giorno mi dice: ‘tra cinque minuti sono lì al ristorante’. Una volta arrivato, si è seduto con altre persone. Io ero solo a tavola. La cosa assurda è che lui vedeva che ero lì da solo, ma non ha fatto nulla. Dopo il pranzo, si è avvicinato, voleva darmi la mano. Io gli ho detto: ‘Questa mano non la puoi più stringere. La puoi stringere alle persone con le quali sei stato fino ad ora, forse loro hanno più elementi di affinità con te’. È un anno che non parliamo, lui non ha fatto niente per potere recuperare. È finita così».
Tamburello chiarisce che «i presupposti, le travi che devono reggere l’edifi-
cio di un rapporto, devono essere solide e robuste. L’amicizia parte per una ispirazione naturale, per simpatia, per affinità. È una sintesi che fa il nostro cervello e l’anima dà il permesso. È esigente come l’amore. Un mio paziente mi ha riferito che ha interrotto la relazione con la sua fidanzata quando questa ha preso contatti con altre persone per motivi di lavoro, senza informarlo. Nel racconto l’uomo è stato spietato, giudicando le azioni della sua ex. ‘Delle sue parole non me ne faccio nulla, questo non ripara niente’. Quando arriva una lacerazione di un rapporto, la parte lesa deve avere volontà di aiutare l’altro a leggere quello che non ha visto. Spesso le ferite sono involontarie. Non si deve giudicare l’azione, ma la si deve indicare, senza aggettivarla».
Il professore conclude spiegando che alla «descrizione dell’effetto prodotto nella nostra anima» deve seguire una «reciprocità», una volontà dinamica di entrambe le parti di superare e di risolvere il conflitto. «Una persona che offende qualcuno, lacerando un tessuto armonioso di una relazione, è spinta da una forza distruttiva ospitata nell’ambiente della stessa persona. Il danno è la conseguenza di quello che ha imparato. Per produrre danni devi avere avuto danni».
Il dott. Federico Fiori Nastro, psichiatra del servizio di ascolto e counseling per gli studenti dell’Università di Tor Vergata di Roma, si inserisce partendo dall’impatto del lockdown sugli studen-
ti, causato dalla pandemia da Covid-19. L’isolamento ha stabilito una disarmonia tra i ragazzi, portando anche ad una disgregazione delle amicizie.
Lo psichiatra sembra riprendere il fenomeno del relationship funnelling, ‘l’incanalamento delle relazioni’. È l’alterazione delle amicizie che può avvenire in soli tre mesi per l’allontanamento.
«Un gruppo di studenti mi ha colpito. Ognuno di loro viveva una condizione di tristezza, paura, difficoltà di concentrazione. I ragazzi hanno deciso di andare a vivere tutti insieme, sfruttando la passione comune per la cucina. Ora gli studenti non hanno più bisogno del supporto del counseling. È un’unione che ha generato benessere, armonia» termina Fiori Nastro.
Il mantenimento di questo legame, chiude il professor Caretti, non può che «passare dalla tolleranza della rabbia, del punto di vista dell’altro, anche quando non lo si condivide. Bisogna parlare, comprendendo gli intenti, evitando di evitarsi. Alle parole, alla competenza narrativa, deve seguire quella somatica che si realizza quando un gesto, uno sguardo, un abbraccio ricelebra l’unione con l’amico». Così si ritorna ad essere in piedi con un esercito accanto ■
Ballo alla ricerca
della perfezione
Dalla danza classica alla televisione. Il racconto dell’armonia tra corpo e ritmo
«Le ninfee di Monet, colorate d’azzurro, rosa e verde, dipinte con la tecnica di pennelli piatti trascinati sulla tela, portano chi le guarda a provare armonia e desiderio». Massimiliano Petrangeli, ballerino di danza classica, moderna e contemporanea e performer televisivo paragona le più grandi opere d’arte ai movimenti fluidi del corpo: «Li si guarda e ci si rende conto che tutto è perfetto» racconta dal suo studio tra una piroetta e un pliè.
Il ballo non solo è una delle forme d’arte più antiche del mondo, ma ha radici profonde nella cultura umana, ed è stato
utilizzato fin dall’antichità come efficace mezzo di comunicazione, espressione e celebrazione. «La qualità più importante della danza è l’armonia perché è ciò che la rende così bella ed espressiva. Bisogna fondere la creatività alla tecnica e quando ci si riesce l’equilibrio che si crea è perfetto. È necessaria anche una scrupolosa attenzione all’espressività facciale, ai gesti delle mani e dei piedi, guai a risultare goffi e pesanti» spiega Petrangeli, ricordandosi anche che il cervello gioca un ruolo fondamentale nella coordinazione dei movimenti: «Solo chi saprà unire la mente e il corpo all’estremo sacrificio sarà in grado di ballare, solo così il fisico diventerà soave e fluido. Si ricerca l’eleganza, la delicatezza e la leggerezza» racconta.
La tenacia è un tratto caratteriale di Massimiliano, che da bambino imitava «i ballerini davanti alla televisione» nella sua cameretta di Roma. Oggi Petrangeli non balla più fuori dalla tv, ma ci è dentro e si esibisce per i più grandi programmi televisivi italiani: «Sarò sempre grato a mia
sorella che mi portò a vedere Flashdance. Lì decisi di voler ballare per sempre e così ho fatto», dalla classica, alla moderna, al passionale tango, poi il flamenco e il tiptap.
L’armonia nel ballo si manifesta in diversi modi: tra il movimento e la musica, strettamente intrecciati, il corpo deve seguire il ritmo. Tra il danzatore e il pubblico, durante l’esibizione l’obiettivo del ballerino è comunicare allo spettatore uno stato d’animo, una storia, un’emozione o un’idea che lo coinvolga, che gli faccia vivere un’esperienza indimenticabile.
Per i balli di gruppo, invece, la simmetria è indispensabile. Si cerca la coordinazione perfetta, bisogna portare il corpo di ballo a diventare un’entità unica e questa è una sfida per Massimiliano, che è anche insegnante di danza moderna, classica e contemporanea alla Scuola IALS di Roma. «Creare armonie tra i corpi è difficilissimo, cerco di portare tutti i miei allievi a raggiungere la fluidità. In classe ci sono persone che hanno preparazioni differenti, il mio obiettivo è raggiungere l’armonia e quando ci riesco... mi sento di aver vinto».
L’ultimo elemento riguarda la connessione profonda tra il danzatore e il suo corpo. «Quando il ballerino raggiunge un’armonia con il suo corpo è in grado di eseguire movimenti che sembrano quasi sospesi nell’aria, creando una bellezza senza tempo» conclude Massimiliano e, prima di volare alla prossima lezione, ci ricorda che «quando tutti questi elementi si uniscono, la danza diventa un’esperienza magica e indimenticabile per chi la esegue e chi la osserva». ■
Se in Iran non è più primavera
Fuggita a 20 anni a Roma per diventare una ballerina professionista, Andishe spera di poter tornare presto a casa sua
di Beatrice OffidaniOgni anno Andishe aspetta il Nowruz, la festa di primavera per il nuovo anno persiano, come quando era bambina e colorava i gusci delle uova con le tempere. Quest’anno la ricorrenza cade il 20 marzo ed è in ritardo per la festa. Lei e i suoi amici hanno deciso di ritrovarsi in casa, invece che in discoteca o in giardino come gli altri anni. È il primo Nowruz da quando Mahsa Amini è stata uccisa il 16 settembre 2022 e, per molti degli iraniani che vivono in Italia, la festa non porta con sé la stessa allegria di sempre. Andishe non vede l’ora di ballare stasera.
«Volevo essere una danzatrice, è stato l’unico motivo che mi ha spinto ad andarmene dall’Iran e venire a studiare qui a Roma. Sono arrivata pagando moltissimo un visto in ambasciata, dopo aver fatto per mesi un corso di italiano. I miei genitori
mi hanno permesso di farlo perché hanno una mentalità molto aperta, nonostante tutto. Potevo accettare di non poter bere, di dover tornare presto, a differenza dei miei fratelli e cugini maschi che avevano il permesso di stare fuori tutta la sera, ma non ero disposta a scendere a compromessi sulla danza». La scoperta del Teatro Danza di Pina Bausch, navigando con la rete VPN in modo da aggirare la censura e accedere a YouTube, è stato un punto di svolta. Prima Andishe aveva potuto fare solo qualche lezione nella palestra della sua città.
«Avevo scoperto che nella palestra di Mashhad, che è uno dei luoghi più religiosi dell’Iran, si tenevano delle lezioni di danza clandestine. Una donna, che in Europa aveva imparato alcuni rudimenti di repertorio classico, aveva iniziato a insegnare la danza occidentale e non più solo quella tradizionale. Provavamo e riprovavamo i passi, ma non avremmo mai potuto esibirci». Le regole del regime teocratico iraniano, infatti, prescrivono il divieto di ballare in pubblico per le donne. «La cosa più assurda per un’artista è non poter mostrare a nessuno il proprio talento». Prima di scoprire la danza, Andishe aveva provato a recitare. In teatro non si poteva muovere. Si esibiva coperta da un lungo velo che le lasciava scoperto solo il viso. Ora tiene i capelli ricci e neris-
simi raccolti in un nastro rosa. «Esistono delle vere e proprie figure professionali, come dei controllori, che si occupano di valutare se quello che succede sul palco è appropriato e rispetta le leggi della Repubblica Islamica. Durante le ispezioni restavo quasi impalata e muovevo le mani in maniera quasi impercettibile. Quando poi se ne andavano potevo muovermi più liberamente».
«Vivo in Italia da tre anni ma non avevo mai trovato il coraggio di iscrivermi a una scuola di danza prima, era come se fossi bloccata. Il motivo che mi ha spinto a iniziare qui a Roma è stata la morte di Mahsa Amini. Anche se ora l’opinione pubblica sembra interessarsi meno alla nostra causa, le manifestazioni vanno avanti. Sono certa che la rivoluzione avverrà e che potrò tornare in Iran per aprire una scuola tutta mia. Il mio sogno è vedere sul palco quelle bambine a cui avevo iniziato a insegnare a mia volta».
La ballerina sfoglia, con un po’ di nostalgia, le foto salvate sul telefono delle tradizioni di casa sua, con la tavola coloratissima imbandita per il Nowruz, le uova e gli altri ingredienti disposti insieme ai fiori, ogni ingrediente col suo significato. Domani, quando si siederà a dipingere le uova, su tutte scriverà: “Donna, Vita, Libertà!”. ■
Memoria nella città eterna Pistoletto è Infinity
MOSTRA
Le opere del maestro
dell'Arte Povera al Chiostro del Bramante
di Leonardo AresiL’Amazzonia al centro di Roma. Negli spazi rinascimentali del Chiostro del Bramante risuonano le percussioni di Bandão: è l’inaugurazione di Infinity, l’arte contemporanea senza limiti di Michelangelo Pistoletto. L’energia sprigionata dai cinquanta musicisti dell’orchestra di strada immerge gli spettatori in una trance mistica. Il ritmo travolgente della samba elettrizza i loro sguardi: un suono primordiale rimbomba nel portico sotto i quattro archi avvinghiandosi come un’edera fino al loggiato superiore. Rullo di tamburi.
«Infinity è un grande autoritratto. Se è vero che quel che si vede nello specchio non può essere falsificato, la mostra
rende palpabile il meccanismo di riflessione illimitata dell’arte, coinvolgendo il visitatore in un’esperienza sensoriale che sfida i limiti. Così dalla Venere degli stracci, icona enigmatica dell’Arte Povera, al semplice tratto del Terzo Paradiso, capace di creare connessione e armonia fra estremi, i visitatori partecipano attivamente all’opera ricreando una nuova realtà». Laura, Giulia e Natalia De Marco, le tre sorelle responsabili dello spazio espositivo, presentano così nel catalogo la collettiva personale del maestro piemontese che potrà essere esplorata dal 18 marzo al 15 ottobre 2023.
Muoversi lungo i corridoi del Chiostro oggi è complicato. Ci addentriamo nel labirinto di marmo, diventato un formicaio. Le voci dei primi visitatori si sovrastano confondendosi tra loro. Eccitamento e confusione rimbalzano da una parete all’altra. Non c’è pace e di Pistoletto neanche l’ombra: l'artista siede in uno studio situato al piano di sopra, lontano dal caos.
Intanto gli spettatori, sala dopo sala, ripercorrono un viaggio artistico durato sessant’anni: la carriera dell’esponente dell’Arte Povera è iniziata negli anni '60 con Quadri specchianti, Metrocubo di Infinito e la coppia Venere degli stracci, Orchestra di stracci. «Gli stracci sono il consumo consumato che continua a consumarsi: l’ultimo stadio di un sistema. La Venere è un’opera di sostenibilità perché fisicamente sostiene gli stracci e idealmente li rigenera. Rappresenta il sostegno esteso a tutta quell’umanità che è ridotta a uno stato di estrema miseria».
In dialogo con Danilo Eccher, curatore di Infinity, Pistoletto nelle pagine del catalogo racconta di sé e della sua arte. «Gli stracci erano nello studio per una funzione pratica, mi servivano per ripulire i quadri specchianti dalle vernici che andavano eliminate. Un giorno passando per strada mi fermo davanti a uno di quei negozi che vendono oggetti da giardino, dai pupazzi di Biancaneve e i sette nani ai vasi di terracotta. Vedo una Venere di
cemento che doveva forse servire come fontanella e istintivamente, perché è anche nell’istinto che il possibile lavora, il mio possibile ha acchiappato questa Venere. Chissà, forse c’era ancora, c’era sempre, nel profondo, un desiderio di scultura che balzava fuori» racconta il maestro.
La sua produzione continua negli anni '70 con L’Etrusco e la serie delle porte Segno Arte insieme ad Autoritratto di Stelle fino a lavori più recenti come Quadri specchianti, Love Difference senza dimenticare Mar Mediterraneo e Terzo Paradiso. «L’immagine dei tre cerchi consecutivi costituisce la formula trinamica della creazione, da cui deriva il simbolo del Terzo Paradiso. Questo simbolo rappresenta il conflitto tra natura (primo paradiso) e artificio (secondo paradiso), identificati nei cerchi opposti. Il cerchio centrale rappresenta l’incontro pacifico, equilibrato e armonico tra i due diversi paradisi. C’è il giardino naturale, quello artificiale, e poi c’è il giardino centrale che nasce dalla volontà degli esseri umani di sopravvivere su questo pianeta conciliando natura e artificio. Si dice che l’uomo sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Ma non Dio, bensì l’uomo ha creato l’immagine» spiega Pistoletto.
degli stracci, in Mar Mediterraneo l’artista biellese compie un atto politico.
«Intorno al tavolo specchiante che disegna il Mar Mediterraneo ho posto le sedie di ciascuno dei paesi che lo contornano. Ogni sedia rappresenta una cultura, una religione, un clima e un’economia diversi; e sono differenze vissute nel contrasto più tremendo, che si sta ripetendo. Ho messo intorno al tavolo le sedie rappresentative di tutti i paesi che circondano questo mare per creare un parlamento ideale. Le differenze, le contrapposizioni e i contrasti mondiali possono trasfor-
marsi in una comune armonia prendendo posto nelle sedute intorno al tavolo». I tamburi cessano di battere. Il frastuono del Chiostro svanisce nella notte. Le persone si disperdono nelle strade del centro. L’incantesimo si è spezzato ma le tracce restano vive nella memoria. Pistoletto è Infinity. ■
1. Venere degli stracci, M. Pistoletto, 1967
2. Dettaglio della Grande sfera di giornali, 19662023 (M. Pistoletto, prodotto da DART)
3. Love Difference - Mar Mediterraneo, 2003-2005 (M. Pistoletto)
Armonia e contrasto: sono queste le colonne portanti della ricerca artistica pistolettiana. «L’artificio è immagine della realtà, come anche la parola scritta. Immagini, segni, parole e suoni diventano la memoria di ciò che sta accadendo oggi: nell’universo tutto si trasforma in memoria. Le persone consegnano la propria vita alla memoria che la tramanda sopravvivendo all'effimera durata della vita fisica. Come? Un tempo lo si faceva a voce, oggi invece come strumento abbiamo tecnologie più avanzate che ci portano verso quel desiderio di oltre, di meta».
Il creatore di Cittadellarte è proiettato all’eternità, ma fa i conti con le sfide del presente. Come nel caso della Venere
«Gli stracci sono il consumo consumato che continua a consumarsi: l'ultimo stadio di un sistema. La Venere è un'opera di sostenibilità perché fisicamente sostiene gli stracci e li rigenera»
L’ecumenismo religioso diventa pratica attiva
FEDE
Secondo Guido Dotti, monaco di Bose, l'unità delle diverse comunità è il futuro del cristianesimo. Il movimento, però, deve essere capace di aperture formali
di Silvia AndreozziChe momento sta attraversando l’ecumenismo religioso? Sorride Guido Dotti, monaco della comunità di Bose, nel rispondere che il movimento che unisce le diverse chiese cristiane si trova a vivere «un momento non facile». Del resto «nella sua storia l’ecumenismo non ha mai conosciuto periodi particolarmente favorevoli». La differenza contemporanea sta piuttosto nell’estensione mondiale che ha ormai conquistato, che costringe chi si fa promotore dell’unione tra i cristiani a fare i conti con le situazioni di conflitto che segnano il mondo.
Questa crisi perpetua, però, non dice niente sul futuro dell’ecumenismo. Anzi. Il mondo religioso va verso un’unità che, secondo Dotti, è inevitabile. «Si sta perdendo, soprattutto in Italia, la commistione che c’è sempre stata tra cristianità e socialità, questo porterà naturalmente le chiese a unirsi».
La loro divisione, del resto, è percepita più internamente che dall’esterno. «Lo si vede bene dove i cristiani sono perseguitati. È in quei luoghi che le diverse comunità insistono meno sulle proprie differenze. Lì e nella realizzazione delle opere di carità. Questi contesti aiutano ad affermare un’identità che è prima cristiana e poi confessionale». Superando la complessità teolo -
gica l’ecumenismo si può ridurre proprio a questo, alla semplicità di una domanda che trascende il problema dell’incontro tra i cristiani e riguarda, in generale, quello tra tutte le diversità. «Si tratta di decidere se la nostra identità viene ampliata, persino costruita, dall’incontro con l’altro, oppure se da questo incontro viene messa in pericolo».
Nel caso dei cristiani l’unione è facilitata dall’origine comune, temporale e dottrinale, che si fa concreta e attuale anche nell’esperienza delle comunità ecumeniche. Come Bose, la congregazione fondata da Enzo Bianchi nel 1965, di cui Guido Dotti fa parte. La comunità, che si è andata formando intorno alla piccola cascina situata nel comune di Magnano, è sempre stata composta da «fratelli e sorelle appartenenti a diverse chiese cristiane». I momenti di preghiera sono stati costruiti di conseguenza, adattando la preghiera ordinaria a un modello comune. Ma non c’è stata difficoltà. «L’importante è stato far riferimento alla parola di Dio, averla come fonte, risalire a essa come punto sorgivo. Si è solo fatto lo sforzo di comprendere che la tradizione dell’altro è un modo diverso di rimanere fedele al Vangelo».
È fondamentale, però, che il futuro ecumenico della cristianità non si riduca a
un inevitabile decorso, ma che il suo tragitto da un certo punto di vista necessario sia visto come un’opportunità. «Le condizioni esterne obbligano a fare quello che le diverse fedi avrebbero dovuto già fare spontaneamente».
Dall’unità visibile i cristiani hanno da guadagnare la credibilità del messaggio che vogliono far arrivare all’esterno. Non è un caso che il movimento ecumenico sia nato proprio dalle contraddizioni in terra missionaria, quando diverse congregazioni si trovavano in competizione tra loro nel promuovere il proprio messaggio evangelico depotenziandolo agli occhi di coloro che avrebbero dovuto riceverlo.
In generale, però, bisogna che «l’ecumenismo non rimanga una nicchia di addetti ai lavori, ma che diventi un modo di porsi. Che non sia una materia tra tante. È importante poi, che i rapporti tra i singoli che promuovono il movimento si trasformino in rapporti tra le comunità».
Un tempo a spingere questo percorso c’erano figure carismatiche, persone che «andavano controcorrente ma erano spinte da un’intima convinzione». Oggi, ammette Guido Dotti, questa particolarità si sta perdendo, ma il monaco dichiara una convinzione. «La vita è più forte». La nostra società non è mai stata così multiculturale, la presenza di chiese diverse è cresciuta sul territorio italiano. «La quotidianità del reale contribuirà a restituire al vissuto ordinario qualcosa che avrebbe dovuto sempre esserne parte. L’ecumenismo non è mai appartenuto alle accademie». ■
Le prime nozze del mondo
Il mito di Armonia, figlia di Ares e Afrodite e sposa di Cadmo, nel romanzo dello scrittore Roberto Calasso
Armonia è un personaggio della mitologia greca e la sua storia viene raccontata da Esiodo nella Teogonia. Figlia di Ares e Afrodite, è nota anche come la dea dell’amore romantico, dell’armonia e della concordia. Secondo Esiodo, Armonia venne data in sposa a Cadmo, fondatore di Tebe, da Zeus. Tutti gli dèi scesero a Tebe dall’Olimpo per celebrare il matrimonio che, secondo il mito, sono le prime nozze della storia.
Tra i doni recati dagli invitati, la collana forgiata da Efesto che Afrodite mise al collo della sposa avrà un ruolo centrale per lo sviluppo della storia della divinità e del suo mito. Il Dio del fuoco e della metallurgia, infatti, dotò il gioiello del potere d’eterna giovinezza e bellezza per chiunque la indossasse. Armonia ebbe da Cadmo quattro figlie, Agave, Autonoe, Ino e Semèle ed un figlio, Polidoro.
Quando Semèle morì folgorata da
Zeus, suo marito, e seguì la distruzione da parte del dio Dioniso, loro figlio, dalla casa reale di Penteo (il nipote), Armonia e Cadmo lasciarono Tebe assieme alla figlia Agave. Il tutto viene narrato ne Le baccanti di Euripide. Il trono, lasciato vuoto, andò a Laio, nipote del figlio di Polidoro, padre di Edipo e marito di Giocasta. Questo portò altre sventure ad abbattersi sulla città. Giunti a destinazione, Armonia e Cadmo concepirono un altro figlio, Illirio, che diventerà il capostipite degli Illiri.
Cadmo, ormai vecchio, divenne re degli Illiri ma per sfuggire alla morte (non essendo lui un dio ma un semplice mortale) fu trasformato dagli dèi in un serpente. Armonia, piegata dal dolore, pregò Cadmo di tornare da lei e, mentre si abbracciavano, gli dèi trasformarono anche lei in un serpente. Quando morirono, Ares, il padre di Armonia, li portò entrambi sull’Olimpo dove vissero insieme agli altri dèi.
Questo mito è stato raccontato da Roberto Calasso ne Le nozze di Cadmo e Armonia. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1988, è basato sulla mitologia greca e racconta la storia del matrimonio tra Cadmo, il fondatore di Tebe, e Armonia, la figlia di Ares e Afrodite. Il romanzo esplora temi come la creazione del mondo e include anche una serie di storie mitologiche che si intrecciano con la narrazione principale. Le nozze di Cadmo
e Armonia è considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura italiana contemporanea. Il libro, scritto in modo fluido e coinvolgente, racconta la storia di Cadmo e Armonia, ma non solo: attraverso le vicende dei personaggi, Calasso ci guida in un'immersione totale nel mondo mitologico, offrendo al lettore una panoramica completa dei miti e delle leggende della cultura greca. La scrittura di Calasso è ricca di immagini evocative che riescono a trasportare il lettore nel cuore dell'azione. Il libro non è solo una raccolta di storie, ma un insieme di riflessioni e considerazioni sulla vita, sulla morte, sull'amore e sulla creazione del mondo. ■
Scrivere a quattro mani, quando ogni parola è condivisa
Le autrici Amanda
Foody e Charlie Lynn Herman
raccontano il loro processo di scrittura congiunto della dilogia Noi i cattivi
«E se lo scrivessimo insieme?» È la domanda che si sono fatte Amanda Foody e Charlie Lynn Herman quando, sei anni fa, hanno avuto l’idea per il romanzo Noi i cattivi (Mondadori, 2023). «Stavamo conversando sui tropi che amiamo e abbiamo iniziato a parlare di tornei mortali, ma nessuna di noi due era abbastanza coraggiosa da scriverne da sola. Sinceramente, non ricordo chi di noi fece la proposta, ma poi l’idea si è sviluppata davvero molto velocemente e, alla fine della giornata, avevamo i nomi dei personaggi principali» racconta Charlie, sostenuta da Amanda: «Penso che i tornei mortali intimidiscano perché autori di libri molto famosi ne hanno scritto. Non credo che nessuna di noi fosse abbastanza coraggiosa da farlo
da sola, abbiamo avuto il coraggio solo perché l’abbiamo scritto insieme».
La storia ideata dalle due autrici è ambientata a Ilvernath, una città fittizia di un mondo simile a quello reale ma in cui esiste la magia. Ad ogni generazione, le sette famiglie più importanti mandano un loro erede a competere in un torneo all’ultimo sangue: chi vince ottiene il controllo assoluto sull’alta magia, la tipologia più potente, esaurita nel resto del mondo, fino alla prossima competizione. I narratori sono quattro dei sette giovani campioni. «Li abbiamo divisi a metà, io ne ho raccontati due e Charlie due» spiega Amanda. «È così che abbiamo abbozzato il libro, ma poi il lavoro è andato avanti e modificavamo
tutto il romanzo, l’una agiva sullo scritto dell’altra. La divisione ci ha solo aiutate a rimanere organizzate all’inizio, alla fine ogni parola del libro appartiene a entrambe». Charlie concorda: «Un ottimo riassunto. Abbiamo scritto il libro su Google docs perché è praticamente l’unico programma che consente a due collaboratori di essere nel documento contemporaneamente e di scrivere qualcosa di così lungo, non abbiamo ancora trovato uno strumento migliore».
«Non credo che nessuna di noi due fosse abbastanza coraggiosa da scrivere di tornei all’ultimo sangue da sola, abbiamo avuto il coraggio solo perché l’abbiamo scritto insieme»
Il primo volume della dilogia in inglese è uscito nel 2021, ma la sua stesura era iniziata nel 2017, quindi le autrici avrebbero potuto abbozzarlo insieme, prima di essere divise dalla pandemia. «In realtà, ne abbiamo scritto la maggior parte in posti separati. A me piace stare da sola quando scrivo» confessa Charlie, «ma quando siamo arrivate alla fase di line editing, cioè quando si controlla il libro riga per riga, modificando i piccoli dettagli e non i problemi grandi, l’abbiamo fatta insieme, sedute nella stessa stanza, fissando il testo messo su uno schermo televisivo». Amanda specifica che «anche se abitassimo vicine, potremmo fare tutto al telefono se ce ne fosse bisogno. È molto facile al giorno d’oggi».
Le due autrici hanno pubblicato diversi libri da sole e hanno un metodo personale di lavoro, «ma trattandosi di co-scrittura dovevamo assicurarci di essere sulla stessa lunghezza d’onda, perché se una avesse portato la storia in una direzione su cui l’altra non era d’accordo, le cose sarebbero potute diventare un po’ complicate. Pertanto abbiamo dovuto assicurarci che all’inizio condividessimo la stessa identica visione di dove volevamo che la storia andasse a finire» spiega Amanda.
Il romanzo coniuga azione, amore, tradimenti e morte: «È un libro complicato, indifferentemente dal fatto che lo scrivano una o due persone, quindi fare una scaletta era
Il libro Noi i cattivi
Amanda Foody
Charlie Lynn Herman
Mondadori
pp. 396
euro 22
necessario per capire chi era dove, a che ora e cosa stava facendo, chi stava sviluppando quale parte della trama» spiega Charlie. «Ci abbiamo lavorato tre anni prima che arrivasse all’editore, non consecutivamente perché avevamo entrambe altri progetti e scadenze. In quel tempo, la storia è cambiata molto e siamo cambiate anche noi come scrittrici, si è evoluta con noi, siamo entrambe molto fiere di dove è arrivata alla fine».
La collaborazione tra le due autrici non si conclude con questa dilogia. Per il 2024 hanno annunciato l’uscita in inglese del primo libro di una nuova serie, A Fate So Cold. La futura pubblicazione sarà ambientata in un mondo fantasy ma con aspetti moderni e si baserà su una coppia di predestinati innamorati che devono salvare il mondo uccidendosi. «Quando ci abbiamo iniziato a lavorare, ci siamo dette di semplificare la scrittura della storia, non sono sicura ci siamo riuscite ma ci abbiamo provato» dice Amanda e Charlie ribatte: «Potrei sostenere che A Fate So Cold è perfino più complicato».
«Nei tre anni in cui ci abbiamo lavorato, il romanzo è cambiato molto e siamo cambiate anche noi come scrittrici. La storia si è evoluta con noi, siamo entrambe molto fiere di dove è arrivata alla fine»
In Italia, la prossima pubblicazione in programma delle autrici è Noi gli sconfitti (Mondadori), seguito e conclusione di
Noi i cattivi. Con tre libri ideati insieme all’attivo, Amanda commenta che il loro processo di scrittura «non è cambiato molto, ma abbiamo capito in cosa siamo brave e come rimanere organizzate e non deviare dai binari del lavoro che abbiamo programmato. Mi piace pensare che ormai siamo diventate delle professioniste a scrivere insieme». ■
Il Ring di Chicago, un ko a colpi di ironia
SUONO
Dai campi di baseball delle periferie dell’Illinois alle redazioni editoriali, al giornalista Lardner sembra di rintracciare un’assenza comune, quella dell’armonia
di Lorenzo SangermanoTra una redazione giornalistica e un bus carico di giocatori di baseball, per Ring Lardner, non c’è molta differenza. Il fumo di sigaretta si dirada tra le urla di uno scoop o dell’ennesima partita. Accendini e macchine da scrivere fanno da sottofondo a parole di lingue inventate, storpiate, cresciute nei sobborghi di Chicago o nelle colonne editoriali. È alla prima battuta, quando le dita si stringono nei guantoni e gli stampi imprimono piccoli segni grafici sulla carta, che della confusione non se ne ha più traccia. Tutto ciò che resta «è solo armonia», dice il giornalista americano Ring Lardner.
Per lui fama e ricchezza non hanno mai convissuto. La prima gli faceva compagnia fino ai primi anni delle cronache delle partite di baseball del Mid-West e dei racconti satirici sulle pagine del Chicago Tribune. La seconda invece arriva nel 1930 con la scrittura del musical di Brodway June Moon.
Nato a Niles in Michigan nel 1885, Ring Lardner è il figlio più giovane di nove. La famiglia, di origine piccoloborghese, gli consente una vita piuttosto agiata. Con i piedi a mollo nel lago Michigan, l’adolescenza trascorre con gli occhi puntati verso la sponda opposta: Chicago. Un semestre nell’università privata Illinois Institute of Technology lo porta alla città che era sempre stata la sua destinazione. La bancarotta del padre e la perdita di gran parte della loro ricchezza costringe Lardner ad abbandonare la scuola per dedicarsi a lavoretti saltuari. È nel 1905 che, con l’ingresso nella redazione del South Bend Times dell’Indiana, dà avvio alla sua carriera giornalistica.
Il suo taglio umoristico e pungente fa
presto colpo sugli appassionati di sport. A determinare la sua ascesa un pensiero tanto semplice quanto destabilizzante per l’epoca: ogni elemento della società, dal matrimonio fino al baseball, può essere raccontato con la serietà con cui è vissuto, ma è nell’armonia tra sarcasmo e realismo che ha origine la vera immagine degli Stati Uniti. Di quei sobborghi in cui la vita si compone di storture, slang e disavventure. Di quella lingua che Virginia Woolf, leggendo le parole di Lardner, fatica a definire “inglese”. E di quei pullman ricolmi di star del baseball, tanto acclamate dal pubblico e acute nel gioco quanto misere nella loro povertà e ingenue nella loro esistenza.
Con la pubblicazione nel 1916 di You Know me Al, raccolta di finte lettere scritte da un cronista sportivo, Ring Lardner conosce la fama anche nel mondo letterario. Imitandone lo stile ed in particolare l’arte dei dialoghi, un giovane Ernest Hemingway pubblica sul giornale del suo liceo articoli con lo pseudonimo di Ring Lardner Jr. Ne Il giovane Holden, lo scrittore americano J.D. Salinger lo nomina
come il secondo scrittore preferito del protagonista. A compiere il ritratto definitivo di Lardner sarà poi Francis Scott Fitzgerald, suo amico intimo, utilizzando il giornalista come ispirazione per il personaggio di Abe North nel suo ultimo libro Tenera è la notte.
Nel 1915 appare sul McLure’s Magazine un suo racconto dal titolo Armonia. In poche pagine Lardner decide di non mettere in scena il giornalismo, ma il giornalista. La pagina del giornale in stampa è ancora bianca e una storia deve essere scritta. In mancanza di idee, il narratore decide di voler scoprire il processo di selezione di Waldron, un lanciatore sconosciuto che ha portato la squadra locale al primo posto della classifica. Ryan, un giornalista della redazione, ne racconta la sua versione, fonte di passaparola e voci di corridoio. A scioccare il narratore è però un dettaglio: come ha fatto il recruiter Art Graham a notare la dote di Waldron senza però averlo mai visto giocare? Nessun lancio, nemmeno un piccolo swing del braccio.
È Bill Cole, un secondo collega, a rivelargli la verità: poco importava delle doti sportive di Waldron perché a convincere per la sua selezione era stata la sua voce da tenore. Proprio quella che a Graham mancava all’interno del suo quartetto di canto, la sua più grande passione ben più del baseball. Per lui quattro voci componevano un’unione essenziale e ristabilirla, dopo la perdita di un membro, era una necessità impellente. La squadra di baseball vinceva, ma l’alone di Waldron metteva in ombra gli altri giocatori e li faceva sembrare solo dei figuranti in suo aiuto. In quello che da campo di baseball si tramuta in redazione giornalistica, fatta di false star e comparse dimenticate, a Ring Lardner pare di vedere solo una cosa: «Sembra esserci una mancanza di armonia».
A 48 anni, nel 1933 Ring Lardner muore per un infarto. Forse causato dalla tubercolosi, o più probabilmente, per quelle nottate in compagnia di Francis e Zelda Fitzgerald, suoi vicini di casa a Long Island, in preda all’odio verso il mondo e al disgusto per la società.
Una sensazione che si portava dietro fin dall’inizio degli anni Venti, alla vista degli Stati Uniti e di ciò che stavano diventando, e che per lui aveva sempre significato solo una cosa: a volte una mancanza di armonia, a volte alcolismo. ■
«È alla prima battuta, quando le dita si stringono nei guantoni, che della confusione non se ne ha più traccia. Tutto ciò che resta è solo armonia»
Musica, ora suona l ’algoritmo
il numero che per la qualità delle produzioni. Da Hello, world dell’avanguardista francese Skygge, a Wind Down di James Blake (primo disco costruito con l’AI a essere pubblicato da una grande casa discografica), passando dal visionario Proto di Holly Herndon, un’innovativa artista statunitense che è stata la prima a utilizzare le reti neurali per il canto e che di recente, grazie all’AI, ha creato Holly+, un suo clone vocale disponibile online, in modo che tutti possano sperimentare. Il compositore e ricercatore Oded Ben-Tal, invece, è riuscito a creare un software in grado di suonare contemporaneamente a un pianista, ascoltando la musica e accompagnandolo, improvvisando le note come farebbe una persona in carne e ossa.
«Fino a pochi anni fa, tutto questo era inimmaginabile» riprende Andrea Chenna. Quando hanno eseguito Lili in pubblico e ha detto come era stata creata «in tanti non ci credevano. Il che è buffo. Di solito la gente fa il contrario, cioè si fa fare le cose dalle macchine e poi dice che è roba sua. Io dico che è fatta dalle macchine e non mi credono. Dicono, “non è possibile, c'è troppa anima, troppa sensibilità”». Il punto sta proprio nell’interazione, secondo il compositore. La ballata era comunque suonata da musicisti reali e lo stesso processo creativo è ibrido. Era lui che sceglieva quali passaggi inventati dall’algoritmo potevano essere interessanti e chiedeva di svilupparli meglio. «Il bello della macchina è che non ha pregiudizi, ti manda fuori delle cose stupefacenti, un po’come fanno i bambini. Il suo contributo è la purezza, ma l’intuito resta quello umano».
L’intelligenza artificiale produce e genera interi album. Il futuro della composizione è ibrido
INNOVAZIONE
oboista e compositore appassionato di machine learning, si tratta semplicemente di un nuovo mezzo con cui fare i conti. «L’interazione tra uomo e macchina nel produrre musica è esaltante», dice Chenna, che l’ha sperimentata con una sonata digitale creata da un algoritmo su sue indicazioni. Lili, così si chiama la composizione, è stata poi suonata da musicisti reali in diversi spettacoli e il pubblico «non riusciva a credere che quella musica fosse stata scritta da un calcolatore».
La musica sta cambiando. Dopo la rivoluzione delle piattaforme di streaming, che hanno portato l’intero mercato a reinventarsi e le canzoni a slegarsi dai supporti fisici, il settore musicale sta facendo i conti con l’intelligenza artificiale generativa. Melodie, voci e jingle creati da macchine stanno popolando le piattaforme, e si moltiplicano gli esperimenti. Molti artisti la vedono come un’opportunità, molti altri come una minaccia. Per Andrea Chenna,
L’incontro tra musica e intelligenza artificiale, in realtà, è storia vecchia. Già alla fine degli anni Cinquanta il compositore americano Lejaren Hiller Jr. e il matematico Leonard Isaacson pubblicarono il primo libro sull’argomento intitolato Experimental Music: Composition with an Electronic Computer. Con il progresso tecnologico degli ultimi anni i tentativi hanno raggiunto livelli mai visti prima, sia per
A pochi mesi dall’esperimento di Chenna il panorama è già cambiato radicalmente. Ora l’intelligenza artificiale genera intere tracce musicali partendo da semplici descrizioni testuali. La qualità è ancora lontana da quella umana, ma molti artisti sono preoccupati che il loro lavoro venga copiato o soppiantato. «Si tratta di cose brevi, brani ripetitivi e un po’ banali. Forse è perché il mercato ha bisogno di questo, per videogame o musica da mettere nei video o nei social. È possibile che migliorerà come accaduto per gli algoritmi degli scacchi che hanno di gran lunga superato l’uomo. Eppure alle persone continuano a interessare le partite tra i giocatori più forti al mondo, non quelle tra i computer». A dover temere di perdere il lavoro semmai «sono i mediocri, chi fa cose ripetitive o di qualità scadente». Ai veri creativi, invece, è probabile che il futuro riservi di suonare a quattro mani con le macchine. ■
Le città intelligenti
di Silvano D'Angelo«Ma questo semaforo non lo vede che non passa nessuno?». Una battuta che almeno una volta nella vita è venuta da fare a tutti quando ci siamo trovati, di notte, fermi col semaforo rosso ad attendere nel traffico che non c’era. Tutti abbiamo desiderato che quel semaforo, anzi che la nostra città fosse un po’ più intelligente. Un desiderio che potrebbe essere molto più vicino alla realtà di quanto pensiamo. «Una smart city si serve di una serie di dispositivi che permettono di gestire in maniera intelligente e centralizzata diversi asset e funzioni, in particolare i servizi legati al traffico, alle infrastrutture di trasporto e a tutti i sistemi energivori, tra cui l’illuminazione» spiega l’architetto Sergio Grimaldi, socio fondatore dello studio A3S di Pescara. «Nella smart city tutti i servizi sono integrati in un unico sistema». Un’idea magnifica. Ma nel concreto cosa significa? «Significa ad esempio poter gestire l’illuminazione a seconda di quanto è frequentata una zona, far scattare i semafori in base al traffico, regolare gli accessi a una determinata area per organizzare al meglio la raccolta dei rifiuti».
Tutto questo è già realtà in alcune città. A Livorno dei sistemi statistici regolano l’illuminazione e i semafori servendosi di sensori che contano il numero di veicoli che transitano. «Oltre a questo abbiamo realizzato un sistema integrato di videosorveglianza collegato al sistema ospedaliero» spiega Grimaldi. «Questo fa sì che un’ambulanza con un paziente a bordo possa trovare un percorso di soli semafori verdi mentre i veicoli nelle strade confluenti troveranno il rosso». Per ora tra le grandi città italiane solo Torino è all’avanguardia in questo settore, seguita da Milano. A Venezia hanno migliorato la raccolta dei rifiuti sfruttando la videosorveglianza, a Roma invece non ci sono stati interventi in questo senso. Il prossimo passo sarà creare delle amministrazioni con sistemi di questo tipo guidati da software di Intelligenza Artificiale in grado di dare un unico coordinamento a tutte le funzioni e offrire la massima efficienza.
Una parte cruciale della smart city è la gestione dell’illuminazione pubblica, settore di cui lo studio di Grimaldi si occupa nello specifico. L’obiettivo è quello di azzerare gli sprechi in modo da ridurre sia il consumo di energia sia l’inquinamento
luminoso. «Il nostro focus è la sostituzione dei vecchi lampioni a luce diffusa, che consumano molto e mandano fasci di luce verso l’alto: si tratta di energia sprecata, qualcosa che in questo periodo storico non possiamo assolutamente permetterci, e di inutile inquinamento luminoso che ci impedisce di apprezzare la volta celeste». Con le nuove luci a led di tipo “cut off”, i raggi sono concentrati verso il basso e si risparmia fino al 70% dell’energia. Soluzioni simili stanno prendendo sempre più piede perché la gestione di questi servizi non fa più capo alle amministrazioni comunali, ma viene data in gestione attraverso delle gare: il gestore si intesta le bollette mentre il comune gli paga un canone fisso, quindi il suo guadagno dipende dall’efficientamento del servizio.
Un occhio all’ambiente e uno al portafoglio, senza dimenticare l’estetica. In questo senso il ruolo dell’architetto è fondamentale, perché anche attraverso l’intensità e il colore dell’illuminazione si possono valorizzare i diversi edifici e spazi urbani. Ma non solo. «Oggi per realizzare questi lavori occorre una struttura multidisciplinare, che includa settori diversi, dall’elettricista al lighting designer all’informatico. L’architetto assume un ruolo di coordinamento, perché con la sua formazione umanistica e tecnica allo stesso tempo è in grado gestire tanto le figure ingegneristiche quanto gli aspetti formali».
La strada è tracciata e le tecnologie per realizzare una smart city migliorano ogni giorno. Magari, la prossima volta che diremo al semaforo «guarda che non passa nessuno», saprà cosa risponderci. ■
In una smart city la gestione centralizzata dei servizi permette di evitare gli sprechi e ridurre l’inquinamento ambientale e luminoso
Capitalisti di ventura e parquet i Silicon Warriors
Tra CEO e successi sul campo, il viaggio della franchigia NBA è andato di pari passo con quello delle grandi aziende tecnologiche della California
BASKET
Spike Lee e Chris Rock, o Jack Nicholson e Adam Levine? Quando ci si domanda chi abbia la platea più chic della NBA, le scelte sembrano cadere sempre sui New York Knicks e sui Los Angeles Lakers. Lee, eclettico regista vincitore di un Oscar alla carriera nel 2016, è abbonato dal 1991: posti in prima fila sedili 14 e 15. A Los Angeles, invece, i posti accanto al tavolo dei commentatori sono riservati per l’attore di Shining anche quando non c’è.
co passa esattamente tutto da lì.
di Leonardo PiniSe da Los Angeles si percorre la Pacific Highway in direzione nord, dove le riserve naturali californiane confinano con le coste dell’Oceano Pacifico, tra San Josè e San Francisco, la Silicon Valley si staglia con aura mistica su tutti gli Stati Uniti, illuminando il mondo con il proprio genio. Nonostante il crollo della Silicon Valley Bank ne abbia minato l’autorevolezza, il processo innovativo in ambito tecnologi-
In quella parte di America esistono due culti pagani: i San Francisco 49ers della National Football League (NFL) e i Golden State Warriors della National Basketball Association (NBA). Dal 2010, quando i Warriors sono stati acquistati dall’imprenditore Joe Lacob, la Oracle Arena prima e il Chase Center poi sono stati presi d’assalto dai CEO delle aziende che danno forma al futuro degli Stati Uniti. Inaugurando un legame iniziato con dei tragici punti bassi e culminato con la costruzione di una delle squadre più forti mai viste su un campo da basket.
Quando alla fine degli anni ’60 è costretto a lasciare New Bedford, nel Massachussets, per andare ad Anaheim, in California, il giovane Joe Lacob non sa ancora che la scelta fatta dal padre sarà propizia
per la sua vita professionale.
Nel 1978 arriva il primo diploma in Scienze Biologiche, poi un master alla UCLA in Epidemiologia, prima di terminare gli studi con un’altra laurea in Scienze Mediche alla Stanford University. La carriera accademica di Lacob non sa su che terreni lo porterà, ma gli instilla una passione per la statistica con cui si diverte a monitorare i suoi sportivi di riferimento. Qualche anno dopo, nel 1987, diventa partner della società di investimento Kleiner Perkins, con sede a Menlo Park, con cui decide di puntare su progetti di ricerca nel campo della medicina.
La possibilità di entrare nel business sportivo ancora non lo sfiora: lo farà solo all’inizio dei primi anni Duemila. Un passaggio nella lega di basket femminile e nel 2010 la grande occasione. Il proprietario dei Warriors, Chris Cohan, decide di vendere la franchigia e Lacob, insieme al socio di sempre, Peter Gruber, decide di rilevarla per 450 milioni di dollari.
Portare la Silicon Valley e con essa l’ambiente informale, creativo, che lascia spazio alle persone di farsi ispirare, è una questione culturale. Come cambiare le sorti di una squadra che prima del 2010 ha disputato i playoff una sola volta in quindici anni? Nessuno viene licenziato nei primi sei-otto mesi della nuova gestione, si crea una squadra dirigenziale all’altezza e si inizia ad investire nella tecnologia.
Far entrare la Valle del Silicio nel front office dei Warriors significa ridisegnare la mentalità esistita sulla riva della Baia di Oakland fino a quel momento. Come assistente General Manager (GM) viene scelto Bob Myers, un procuratore di giocatori, scartato da diverse franchigie perché considerato non in grado di comprendere le dinamiche di una società di pallacanestro. Lacob ha un approccio più laterale: Myers
è giovane e ha vissuto le stesse situazioni di un GM, ma dalla parte opposta della scrivania. Sarà lui a non scambiare Steph Curry quando le sue caviglie inizieranno a sembrare fragili, è lui che aiuta a scegliere Klay Thompson e Draymond Green. È sempre lui a portare ad Oakland Andre Iguodala prima e Kevin Durant qualche anno più tardi.
L’armonia tra la Valley e i Warriors è un fatto culturale. LA ha gli attori, New York ha gli stockbroker, Golden State ha i CEO di Apple, Rakuten e Youtube. Il matrimonio tra tecnologia e parquet avviene in maniera istantanea. Seguendo le orme di squadre come gli Houston Rockets, i San Antonio Spurs e gli Oklahoma City Thunder, Lacob decide di far installare delle telecamere SportsVu di ultima generazione in cima al soffitto della Oracle Arena. Le attrezzature sono in grado di analizzare ogni singolo movimento compiuto da un giocatore: angolatura del braccio al momento del tir, parabola della traiettoria e via dicendo. Tutti dati da gettare in pasto al folto gruppo di data analyst che lavorano per i Warriors.
Da quel momento la franchigia di Lacob non si è più guardata indietro. I problemi da poter risolvere con la tecnologia sono infiniti e non si limitano al parquet. Come è possibile rendere migliore l’esperienza di un tifoso che si presenta al palazzetto? Facile, le nuove camere ideate da Zoom che mostrano i replay in 4D. E sul parquet? Quali sono le prossime strade da asfaltare? Dopo le Finals del 2019, quando Golden State si ritrovò a dover fare a meno di Kevin Durant e Klay Thompson per infortunio, il dibattito si è incentrato su come i dati possano aiutare a prevenire e curare gli acciacchi. Una stregoneria? «Non riusciremo a prevenire tutti gli infortuni, ma possiamo iniziare a cercare di prevedere quando un giocatore è a rischio» disse Lacob con convinzione dopo la sconfitta contro Toronto.
Il rapporto con la Silicon Valley ha avuto un effetto balsamico anche sui giocatori, che hanno costantemente la possibilità di confrontarsi con le migliori menti del XXI secolo. Non è un caso che Steph Curry sia azionista della Palm Tech, o che Kevin Durant, dopo aver conosciuto il CEO di Youtube, abbia aperto una sua azienda d’informazione che produce il suo podcast, o che Andre Iguodala sia stato visto più volte a presenziare dei panel sulla tecnologia.
Contaminazione, radicamento sul territorio e apertura a tutte le novità che il mondo della tecnologia offre allo sport. Se i Lakers e i Knicks han sempre puntato sul glam, i Warriors hanno scelto la strada dei nerd. E hanno avuto ragione.■
Nuoto sincronizzato la rivoluzione al maschile
Dal 2015 è permesso anche agli uomini partecipare ai Mondiali di nuoto sincronizzato, ma in Italia solo venti ragazzi praticano questo sport
Nel 1984 il Saturday Night Live manda in onda un lungo sketch parodistico in cui un ragazzo con la passione per il nuoto sincronizzato prova a esibirsi con scarsi risultati. Un sogno considerato ridicolo, ma soprattutto irrealizzabile. Quarant’anni dopo, alle Olimpiadi di Parigi 2024, per la prima volta nella storia olimpica gli uomini potranno gareggiare nella prova a squadre.
«Siamo molto indietro rispetto alle altre nazioni europee perché scontiamo ancora un pregiudizio culturale, che accomunava anche i danzatori classici, ovvero che chi pratica questo sport è un effeminato o un omosessuale» spiega il Commissario Tecnico della nazionale italiana Patrizia Giallombardo. «In Italia ci sono solo venti ragazzi che lo praticano». Eppure, nonostante i pochi atleti, ai mondiali del 2022 l’Italia ha vinto l’oro in entrambe le gare del duo misto grazie alla coppia composta da Lucrezia Ruggiero e Giorgio Minisini, che a 26 anni è tra i migliori al mondo.
Minisini ha deciso di praticare questo sport a nove anni dopo aver visto un’esibizione di Bill May, il pioniere del nuoto sincronizzato maschile. May nonostante sia considerato il più grande nella storia di questo sport ha potuto partecipare a poche gare internazionali a causa del regolamento. Quando nel 2015, a dieci anni dal suo ritiro, sono state inserite le gare miste ai mondiali, è tornato a gareggiare ed è diventato il primo uomo a vincere un oro mondiale. «Si è realizzato un sogno impossibile» ha detto May dopo aver saputo che gli uomini potranno gareggiare alle Olimpiadi.
Sotto la guida del CT Giallombardo la nazionale italiana ha ottenuto otto medaglie alla Coppa Europa, quattro ori nel duo misto e l’oro ai mondiali di Budapest nel 2017. Patrizia Giallombardo a sedici anni era una promessa del nuoto tradizionale che ha deciso di abbandonare per assecondare il suo lato artistico: «Bisogna saper danzare, nuotare e stare in apnea. Occorre la muscolatura dei pallanuotisti e la destrezza dei tuffatori, ma soprattutto il talento artistico, il senso della musica e una capacità interpretativa teatrale. Lavoro di squadra, fiducia negli altri, complicità, in una parola: armonia».
Oltre all’inclusione degli atleti maschi, il nuoto sincronizzato sta vivendo una rivoluzione negli ultimi anni a partire dal nome che dal 2017 è diventato ufficialmente “nuoto artistico”. Una scelta fatta per associare la pratica a quella della
ginnastica artistica, nel tentativo di renderla più popolare. Non è stato un cambio del tutto accettato, visto che ancora oggi molte federazioni, tra cui quella italiana, continuano a parlare di nuoto sincronizzato e continuano a definire "sincronette” le atlete.
È stato approvato un nuovo regolamento «in cui gli atleti devono dichiarare le difficoltà degli esercizi e questo permette una valutazione oggettiva» spiega Giallombardo.
«Bisogna saper danzare, nuotare e stare in apnea. Lavoro di squadra, fiducia negli altri, complicità, in una parola: armonia»
Gli atleti sono sottoposti a una preparazione ferrea che ricorda quella della ginnastica ritmica. La Federazione Italiana, però, ha introdotto alcune regole affinché non si verifichino casi di violenza fisica e psicologica sugli atleti: «è vietato agli allenatori pesare gli atleti, in quanto si tratta di un’attività svolta dai medici e non ci sono stati casi di ragazzi che hanno denunciato episodi di maltrattamenti, come nel caso della ginnastica» spiega il Commissario Tecnico.
Gli specialisti, messi a disposizione dalla Federazione, lavorano in sintonia, ma ciascuno nel proprio settore: medici, psicologi, allenatori di nuoto, di apnea e di danza. Nonostante i successi di Minisi-
ni non è detto che l’Italia riesca a portare una squadra di nuotatori maschile a Parigi 2024.
Manca ormai meno di un anno e mezzo e la nazionale potrebbe non trovare il modo e il tempo di mettere in squadra due atleti maschi. Sarà comunque l’allenatrice Patrizia Giallombardo a dover compiere questa scelta storica. ■
Niente regole in amore e nel trucco
Nonostante il grande successo sui social, l’armocromia viene vista con scetticismo da uno dei make-up artist più in voga tra le celebrità
di Silvia Pollice«L’armocromia è una banale “teoria” dettata sui social perché i concetti di fenotipo e di scelta dei colori più adatti alla propria immagine sono sempre esistiti. Insomma, l’armocromia non è né una scienza né tantomeno una novità» commenta Simone Belli, make-up artist di fama internazionale e fondatore nel 2010 della Simone Belli Academy, vicino alla meravigliosa Villa Doria Pamphilij a Roma.
Dopo aver collaborato a lungo come consulente per i brand più famosi del settore, da Givenchy a Dior, passando per L’Oréal Paris e Armani Beauty, nel 2018 Simone ha lanciato una sua linea di cosmetici, AK Simone Belli. Ma è
conosciuto anche per aver valorizzato i volti delle attrici, nazionali ed internazionali, che hanno sfilato sui red carpet dei principali Festival del Cinema: Helen Mirren, Laetitia Casta e Matilde Gioli sono solo alcune tra le donne che sono passate sotto i pennelli di Simone, affidando a lui la cura della loro bellezza.
Qualche anno dopo aver fondato la sua scuola di make-up, Simone si è ritagliato anche degli spazi televisivi dove dispensare preziosi consigli a tutte le donne che lo seguono, come quello su Sky Arte. Sebbene anche sui social abbia riscosso molto successo, guadagnando più di 260.000 followers su Instagram, Simone si tiene ben lontano dalle tendenze che nascono, spopolano e muoiono tra un reel e l’altro, rimanendo fedele agli insegnamenti base che distinguono un truccatore professionista da un influencer.
«Quando si parla di fenotipo, ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche morfologiche e non solo di un individuo. Se volessimo utilizzare un termine in voga, diremmo armocromia, che si sofferma solo sull’aspetto cromatico, tralasciando quello morfologico. Ciò che oggi viene spacciato come “tendenza” altro non è che la base accademica di un make-up artist e viene affrontato senza una vera esperienza alle spalle: la scelta dei colori e delle stagioni di appartenenza non è legata soltanto al nostro tono e sottotono, ma anche alla personalità e alla morfologia. Perciò, non sempre la teoria corrisponde alla realtà: è qui che l’esperienza diventa indispensabile per qualsiasi valutazione» afferma Simone, riferendosi a chi ha fatto dell’armocromia la sua gallina dalle uova d’oro.
Tra questi spicca l’ultimo romanzo best seller pubblicato nel 2019 dall’imprenditrice e consulente d’immagine Rossella Migliaccio, Armocromia: il metodo dei colori amici che rivoluziona la vita e non solo l'immagine, in cui l’armocromia viene presentata appunto come un metodo scientifico che, analizzando la composizione cutanea di una persona, intende valorizzarne la bellezza attraverso il giusto abbinamento di colori nel trucco e nell’abbigliamento, in armonia con la stagione che rappresenta i colori di un incarnato.
Una teoria che Simone smonta sostenendo che «esistono sicuramente dei colori che possono esaltare di più il volto di una donna rispetto ad altri, ma la scelta del make-up non è determinata da nessuna stagione. Nel valorizzare l’incarnato di una donna, io faccio delle valutazioni ben lontane da questi concetti: ad esempio, uno dei colori più complessi da abbinare è l’azzurro, a prescindere dalla nostra stagione. Credo sia più corretto parlare di colori che valorizzano ed altri che per finish (finitura o effetto finale che il prodotto avrà una volta applicato sulla pelle, ndr) e intensità possono incupire, irrigidire o invecchiare. Se è vero che è molto complesso scegliere make-up e abbigliamento in base a tono, sottotono e sovratono, allo stesso modo tale scelta non può essere riassumibile in blandi e approssimativi giochi con cartoncini colorati o foulard per determinarne i parametri».
Uno degli elementi più difficili da definire per un truccatore è il colore del fondotinta perché bisogna tenere conto non solo del tono, del sottotono e del sovratono della pelle, ma anche di altre sue caratteristiche come il livello di idratazione e la sua oleosità. «Spesso, nella scelta del colore del fondotinta, basarsi solo sulla teoria porta a gravi errori finali come facce rosa porcellino o grigie come un cadavere» commenta Simone, aggiungendo che non è tanto il colore degli occhi ad influenzare la scelta delle tinte più adatte ad un incarnato, quanto piuttosto la loro forma.
Stesso discorso vale anche per la bocca, in cui entrano in gioco parametri come la forma delle labbra e dei denti, che influenzano a loro volta la scelta della giusta tonalità. Uno dei colori più democratici della palette labbra è proprio il rosso, che «ha la capacità di donare luminosità, freschezza e glamour ad ogni donna. Ad esempio, un rossetto finish mat (a finitura opaca, ndr) è adatto a tutte perché più facile da indossare,
mentre per quanto riguarda la sfumatura si fa una valutazione su quale tonalità sia più valorizzante» rivela il make-up artist.
Se da un lato l’armocromia e i look proposti dalle influencer sui social hanno ottenuto comunque un buon successo, venendo imitate soprattutto dalle ragazze più giovani, dall’altro è vero anche che «le donne oggi amano scegliere a prescindere da cosa sia indicato come di tendenza» conclude Simone, enfatizzando l’importanza di prodotti di qualità in termini di tenuta, trasparenza e cura.■
«Il rosso ha la capacità di donare luminosità, freschezza e glamour ad ogni donna»1. Matilde Gioli 2. Laetitia Casta 3. Helen Mirren
La Guida di Zeta
BlasiSulle ali dell'armonia
Sinonimo di equilibrio e cooperazione tra elementi, il tema universale permea differenti culture. Dalla filosofia taoista al motto dell'Unione Europea e alla musica di Pitagora
fēng šhui «vento» e «acqua» | yin e yang «nero» e «bianco»
Il filosofo taoista Zhuangzi racconta la storia di Zhuang Zhou, che una volta sognò di essere una farfalla felice di svolazzare e di fare quello che voleva. Zhuang Zhou, nella forma di farfalla, non sapeva di essere Zhuang Zhou. Quando si svegliò, all'improvviso, scoprì di essere un solido e pesante essere umano. Zhuang Zhou però si rese conto di non sapere se fosse lui ad aver sognato di essere una farfalla o se fosse una farfalla ad avere sognato di essere Zhuang Zhou.
Questa storia illustra la convinzione taoista che tutto sia interconnesso e che non esista un confine netto tra sé e il resto. È il concetto dello yin e dello yang. Forze opposte, ma complementari, dal cui bilanciamento si fonda l’armonia dell’universo.
Un esempio di questa filosofia in azione è l'antica pratica cinese del fēng šhui, che consiste nel disporre gli spazi abitativi al fine di promuovere l'armonia e l'equilibrio. È dal bilanciamento o dal disordine degli elementi nello spazio che deriva l’equilibrio o la disarmonia della società.
Il mais, i fagioli e la zucca, sono come tre sorelle che vivono e lavorano insieme in armonia. Il mais rappresenta la sorella maggiore, che si erge alta e forte al centro dell'orto. I fagioli sono la seconda sorella, che si arrampica sul gambo del mais per avere sostegno e fornire nutrienti al terreno. La zucca è la sorella più giovane, che si allarga e copre il terreno, facendo ombra e trattenendo l'umidità. Insieme, queste tre sorelle lavorano in armonia per sostenersi a vicenda e per promuovere la salute e l'equilibrio dell'orto.
La storia delle tre sorelle è una metafora tradizionale dei nativi americani legata al concetto di armonia, in quanto evidenzia l'importanza dell'equilibrio e della cooperazione in natura. Molte culture indigene nel mondo considerano l'armonia come un principio legato all’equilibrio con il mondo naturale.
Uno dei concetti culturali chiave nella popolazione polinesiana dei Maori, ad esempio, è il kaitiakitanga, che indica la tutela e l’amministrazione della natura affinché anche le generazioni future possano trarne beneficio.
Nel libro Sulla libertà, John Stuart Mill sostiene che gli individui dovrebbero essere liberi di fare ciò che vogliono, purché le loro azioni non danneggino gli altri. In questo senso una società armoniosa è quella in cui gli individui sono liberi di perseguire i propri obiettivi senza violare i diritti degli altri. L'approccio filosofico occidentale all'armonia enfatizza la necessità di un equilibrio tra società e individuo.
La musica accompagna e condiziona l’ideale occidentale di armonia. Nel mondo antico Pitagora scopre la progressione armonica dei suoni osservando come la suddivisione di una corda tesa e divisa in parti uguali e consecutive produca suoni gradevoli all'orecchio. Una relazione che per Pitagora descrive anche il “suono” non udibile dei pianeti. Teoria, quest'ultima, che la scolastica medievale rielaborerà per parlare di musica celeste e cori angelici.
Più note singole dunque, per produrre una musica, così come più strumenti singoli fanno un’orchestra. Concordanza tra elementi diversi che provoca piacere e, nello specifico, concordanza di suoni, assonanza di voci. In varietate concordia è il motto dell’Unione Europea. “Unità nella diversità”, la concordanza tra elementi diversi che provoca armonia.
«Le tre sorelle» e il «kaitiakitanga»Immagini generate dall'AI MidjourneyI
Parole e immagini
La terza stagione di LOL – chi ride è fuori arriva sulla piattaforma streaming Prime Video. Il format, ormai amatissimo, prende ispirazione dalla serie comica giapponese Documental che è poi stata declinata in varie parti del mondo. Sono 10 i comici in gara che dovranno resistere 6 ore di fila senza ridere per potersi aggiudicare la vittoria: 10.000 euro da donare in beneficenza.
Una risata, un’ammonizione. Come ogni anno è Fedez il giudice imparziale che supervisiona dalla control room i concorrenti.
Con lui due grandi ritorni: Frank Matano e Maccio Capatonda, star rispettivamente della prima e della seconda stagione, sono i disturbatori pronti ad intervenire per infiammare la gara.
Il cast della terza stagione vede comici della vecchia e nuova generazione a confronto: dal grandissimo Nino Frassica, “campione morale” di questa stagione, ad Herbert Ballerina, grande collaboratore di Maccio
Capatonda e “l’usciere”, da Brenda Lodigiani, a Paolo Cevoli, dall’attore Cristiano Caccamo a Marina Massironi, da Fabio Balsamo dei The Jackal a Marta Filippi, la celebre mamma di Roma Nord su TikTok, per finire con lo storico duo comico Luca e Paolo.
Provare a paragonare la nuova stagione di LOL con le precedenti sembrerebbe un azzardo, non solo perché la prima edizione è un miraggio lontano di comicità impareggiabile, ma anche perché la terza edizione risulta con un cast molto più debole e con troppe ripetizioni e cliché. Poche le gag e i tormentoni memorabili.
Promosso a pieni voti il campione della risata Nino Frassica, “Corrado Guzzanti” di questa nuova edizione, che riesce a far ridere anche da fermo con uno sguardo o un applauso (che ama far durare tantissimo). I suoi quizzoni sono stati letali per concorrenti e spettatori, ma, purtroppo, anche per sé stesso, causandogli un’autoeliminazione.
Divertente, ma a tratti ripetitivo e stereotipato, il campione dei The Jackal Fabio Balsamo, che si è cimentato in alcuni dei suoi tormentoni come “lo psicologo” o i versi della zampogna e del cinghiale. Indubbia la sua simpatia e la capacità di avere la battuta sempre pronta, ma da un attore che proviene dal mondo del teatro ci si sarebbe aspettata qualche performance in più.
Bravi anche Luca e Paolo che, nonostante gareggiassero da soli, mostravano la loro innegabile e storica intesa. Herbert Ballerina sembrava il concorrente più duro da far cadere: poker face e giochi di parole a bruciapelo, Herbert è stato lo spara battute più veloce di LOL
Meno brillante il resto del cast: Paolo Cevoli, Brenda Lodigiani e Marina Massironi, nonostante gli anni di esperienza, non hanno mai brillato, mentre gli inesperti Cristiano Caccamo e Marta Filippi hanno tentato ostinatamente di provocare una risata, risultando spesso
incompresi e vittima delle loro stesse battute.
Ad ogni modo LOL resta un format riuscito e piacevole che continua a dare uno spazio giusto e meritato al mondo della comicità italiana, facendo incontrare vecchi e nuovi mondi a confronto: dai grandi della televisione italiana alle nuove star dei social.
Un finale, quello della terza stagione, inatteso e all’insegna dell’armonia: quella, tutti insieme, nella risata.
Luiss Data Lab
Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione
Partners: ZetaLuiss, MediaFutures, Leveraging Argument Technology for Impartial Fact-checking, Catchy, CNR, Commissione Europea, Social Observatory for Disinformation and Social Media Analysis, Adapt, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School
Show, don’t tell
Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale
Lectures: Oleksandra Matviichuk (Nobel Peace Prize), Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Carlo Bonini, Jeremy Caplan, Maurizio Molinari, Virginia Stagni, Giuseppe Tornatore, Paolo Gentiloni, Agnese Pini
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