EDITORIA
Rifugi, i crocevia del mondo Incontri fatti durante la tappa piemontese del Sentiero Italia CAI: perché camminare in montagna non è solo osservare la natura, ma anche catturare storie che rendono unico ogni percorso di Franco Faggiani
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ercorrere il Sentiero Italia Cai non è solo osservare la natura, riscoprire borghi defilati, attraversare valli e creste. È fare incontri, ascoltare storie dalla vita corta, pronte a disperdersi subito nell’aria rarefatta. Per questo bisogna poterle catturare, farle nostre e raccontarle. Un paesaggio sorprendente, un colle da raggiungere, un bosco in cui “perdersi” saranno sempre al loro posto. Gli incontri, o meglio, certi incontri, si fanno invece una volta sola, sono dovuti alla fortuna, durano il tempo di un tratto di sentiero percorso insieme, di quattro chiacchiere che partono dalle solite domande (Dove vai? Da dove vieni?), di un rifugio da raggiungere dove uno sosta e l’altro prosegue e la storia finisce. Dal Rifugio Truc, a picco sulla città di Susa e punto di partenza della tappa piemontese che porta dopo sette ore al Lago di Malciaussia (nella valle di Viù, la prima delle tre valli di Lanzo seguendo il SiCai), costeggio i fianchi del Rocciamelone, 3538 metri. La montagna della fede (sulla vetta c’è il più alto santuario d’Europa), la montagna evanescente (la sua punta aguzza spesso si rende invisibile tra le nuvole) e, per secoli, anche la montagna più alta dell’arco alpino (almeno per i pellegrini della sottostante Via Francigena). Oltre una curva del sentiero mi aggancio a una giovane coppia che aveva rallentato il passo: Stefania Bosisio e Viorel Dimofte. Lei veterinaria torinese, lui pastore rumeno, anche se da quasi un anno ha lasciato il gregge per fare il giardiniere in città. Salgono fino alla Capanna Aurelio Ravetto, con i cui
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gestori Viorel ha fatto anche volontarie operazioni di soccorso. Il loro cammino è una specie di pellegrinaggio; entrambi, sebbene siano passati pochi mesi dall’ultimo alpeggio, hanno nostalgia della montagna, del silenzio e della solitudine, dello scorrere del tempo che qui è più lungo e al tempo stesso più lento, perché è scandito dalle medesime azioni, dagli stessi gesti, con un occhio rivolto al movimento delle nuvole e l’altro a quello degli animali. Lassù, all’Alpe Arcella, Viorel è salito per sette anni di fila con quattro cani e 1500 pecore. Camminando li ascolto e li osservo. Niente capi o attrezzi tecnici, ma una tuta da ginnastica, uno zaino floscio con una pagnotta appesa fuori, in un sacchetto, un bastone per dettare il ritmo. Sembrano andare piano ma il loro passo fa più strada del mio. Viorel fa deviazioni, si ferma sui dossi, scruta, annusa i luoghi a lui familiari. Rimpiange quella vita, me lo
dice chiaramente, anche se adesso ha uno stipendio sicuro e non deve dipendere da un padrone per avere almeno il cibo. Mi porta a vedere la sua malga, ormai in rovina. «Qui avevo fatto un bagno da hotel a cinque stelle, lì il barbecue; i cani stavano là, ognuno rivolto verso un versante differente della montagna, per tener d’occhio i lupi». I lupi ci sono. Più avanti scopriamo una dozzina di pecore morte e un “forestale” che le fotografa, per dare testimonianza a un futuro risarcimento. Dove ci sono animali morti c’è vita: «Eccoli», dice Viorel alzando la punta del bastone. Sopra le nostre teste, volteggiano una dozzina di grifoni. Arriviamo alla Capanna Ravetto. Abbracci virtuali, per via del Covid, ma sentiti. Il gestore mi dice: «Peccato che sei arrivato solo oggi. Ieri sono passati di qui due con un mulo; tornavano a casa, in Francia. Erano per le montagne da cinque anni». I rifugi, in fondo, sono i crocevia del mondo. Ÿ