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FOOD
ALIMENTAZIONE
La metafisica del cibo1
Roberto Rizzo - Filippo Pavesi
Esergo introduttivo
“La tecnica è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello Spirito sulla materia.”
S.S. Benedetto XVI - Papa emerito Enciclica «Caritas in Veritate»
Analisi storica introduttiva
In tutti gli animali sociali, compreso l’uomo, la collaborazione e l’unità di gruppo hanno qualche fondamento nell’istinto2 .
Stanno a dimostrarlo le formiche e le api, creature assolutamente semplici che non deflettono mai dalla loro devozione al formicaio o all’alveare e non si sentono mai tentate di compiere azioni antisociali. Ma bisogna considerare che la loro vita sociale è meccanica, precisa e statica, incapace ad indurle a produrre opere d’arte, a fare scoperte scientifiche o a strutturare dottrine religiose. È da considerare, d’altro canto, che l’uomo primitivo era una specie debole e rara, la cui sopravvivenza era, per certi versi, assai precaria e miracolosamente in equilibrio tra l’essere e il non esserci più.
Sir Arthur Keit calcolò che l’uomo primitivo avesse bisogno, individualmente, di quasi 4 km2 di territorio per provvedersi di cibi e svolgere attività di moto fisiologicamente indispensabili.
La sopravvivenza gli fu garantita dalla circostanza di vivere in gruppi, non molto più ampi della famiglia, che comprendevano da 50 a 100 individui. Forse ciascun gruppo occupava con continuità, ma solo per un tempo limitato, quel territorio e il contatto con altri gruppi avveniva solo occasio-
1 La Metafisica, secondo Henri Bergson, differisce radicalmente da quanto la tradizione filosofica comunemente ha inteso e coltivato sotto questo termine: essa è, piuttosto, il campo di applicazione dell’intenzione, quale atto di conoscenza rivolto all’interiorità ed il cui vero oggetto è il divenire dell’essere. Alberto Peratoner. 2 Cfr. Bertrand Russel. “Autorità ed individuo”.
nalmente alla frontiera del territorio occupato.
Questa situazione perdurò alcune migliaia di anni, confermando che l’uomo è istintivamente un “animale sociale” che riesce a vivere meglio in gruppo, ma anche che è un animale istintuale, molto geloso della sua individualità di pensiero e di azione, governato da un’innata creatività concreta e immaginifica e da un connaturato desiderio di possesso.
Queste due esigenze, socialità ed individualità si contemperarono agevolmente finché i gruppi si mantennero di dimensioni molto piccole, ovvero formati da soli congiunti, organizzati prima in famiglie e poi in tribù. È ipotizzabile, infatti, che questi nostri lontanissimi antenati nello sviluppo delle loro elementari strutture sociali – famiglia e tribù – siano stati mossi, per un verso, dal duplice meccanismo istintuale della solidarietà entro la tribù e dell’ostilità verso tutti gli altri, e per un altro verso siano stati agevolati dalla naturale lunga durabilità della famiglia imposta ai genitori dalla prolungata infanzia dei nati.
Conseguenza diretta della lunga durabilità della famiglia fu che la madre dei piccoli infanti si trovava in uno stato di grande disagio e di inferiorità nel lavoro occorrente per raccogliere il cibo: ad esso doveva quindi provvedere il padre.
Si realizzò così un ancestrale principio della divisione del lavoro, secondo il quale gli uomini andavano a procacciare il cibo, essenzialmente costituito da cacciagione e pesca, mentre le donne, al più, raccoglievano erbaggi e si occupavano prevalentemente delle svariate attività casalinghe tra cui il governo del focolare.
Lo sviluppo delle strutture sociali: il ruolo del cibo
Probabilmente la socializzazione si estese dalla famiglia consanguinea alla tribù perché la ricerca del cibo, e segnatamente la caccia, poteva essere più efficiente e redditizia se cooperativa. Inoltre, la coesione della tribù diveniva una cogente necessità accresciuta e sviluppata dai conflitti
L’essere umano: L’uomo è componente spirituale + componente mentale + componente fisica: è manifestamente fatto per pensare, è qui tutta la sua dignità. che immancabilmente si verificavano con le tribù confinanti.
Testimonianze inoppugnabili di tali conflitti ci vengono offerte dai resti umani ritrovati in varie regioni e continenti, risalenti a circa un milione di anni addietro, periodo il cui tratto distintivo umano è la dimensione del cranio, che pressappoco ha la capacità ed il volume degli uomini attuali.
È da osservare a tal proposito che, per un periodo di alcune centinaia di migliaia di anni, l’uomo ha migliorato la sua conoscenza, ha accresciuto le sue capacità pratiche, è progredito nell’organizzazione sociale, senza tuttavia accrescere la sua capacità intellettiva congenita.
Perciò è da supporre, con elevato grado di fiducia, che la nostra dotazione mentale congenita, in contrapposto a tutto ciò che apprendiamo ed elaboriamo anche attualmente, non sia affatto diversa da quella dell’uomo paleolitico3 .
La coesione sociale, che si era iniziata con la fedeltà e che era poi stata rafforzata dalla paura dei nemici, è cresciuta in seguito grazie a processi in parte naturali e in parte indotti dal crescente bisogno di beni materiali. Tale coesione si è concretizzata nei vasti agglomerati attuali che genericamente vanno sotto il nome di Confederazioni di Stati (Stati Uniti, Unione Europea, Russia …).
Parallelamente però alla coesione sociale ha avuto compimento un ulteriore sviluppo della comunità umana, con profili nettamente introspettivi, che
3 I cambiamenti nel modo di vivere degli uomini sembrano ascrivibili essenzialmente ad un fondamento primitivo dell’istinto, frammisto ad un sentimento egoistico collettivo, quasi, inconsapevolmente sociale.
ha dato luogo ad insanabili e lunghi conflitti, sicché le guerre, che inizialmente erano guerre di sterminio, si sono evolute in guerre di sopraffazione: il vinto non viene messo a morte, ma è costretto a lavorare per i suoi vincitori. Talché in una stessa comunità coesistono almeno due classi di persone: i componenti originari, che sono liberi e depositari dello spirito e della cultura di fondo delle tribù originarie, ed i componenti assimilati, ossia coloro che hanno inizialmente accettato, e poi condiviso, lo spirito e la cultura dei componenti originari.
Questo, probabilmente, spiega la tendenza, anche nei tempi moderni, ad un divisionismo strisciante tra i vari strati sociali all’interno di una stessa nazione, pur se governata da regole comuni.
C’è però da dire che tale divisionismo è stato tenuto sotto controllo a partire dal secolo XVI soprattutto grazie all’identità di credenza: in tale secolo la fedeltà teologica a livello di nazioni e di gruppi omogenei di Stati dimostrò di avere un peso maggiore della fedeltà nazionale.
Nella contemporaneità, tuttavia, la fedeltà teologica, soprattutto per spinte razionalistiche, ha perso gran parte della sua forza di presa, mentre è andata affermandosi la ragione della concretezza.
La natura umana congenita, insomma, non è molto cambiata dal tempo in cui gli uomini cominciarono ad avere un cervello delle stesse dimensioni che noi abbiamo oggi, sicché in modo istintivo, tentiamo ancora oggi a dividere l’umanità in amici e nemici: amici verso i quali sentiamo l’impulso morale della collaborazione; nemici verso i quali sentiamo quello avverso della competizione.
Dimensionalmente, con riferimento al numero degli individui, questa suddivisione è molto fluida: in un determinato momen-
to un uomo detesta ed odia il suo concorrente in commercio, ma se entrambi sono minacciati da uno stesso pericolo esterno, incomincia a guardarlo come un fratello, secondo la regola che è il nemico esterno che fornisce la forza coesiva4 . Eppure la religione, la morale, l’etica, il soggettivismo economico e persino il semplice perseguimento della sopravvivenza biologica sono tutti motivi incontestabili in favore di una collaborazione mondiale; ma quei vecchi istinti tribali, trasmessici dai nostri antenati, che si sono affidati alla tribù per poter sopravvivere nei momenti di pericolo, si ridestano in noi, suggerendoci prepotentemente che in un mondo nel quale non si combatta per affermare le proprie necessità ed esigenze, grandi o piccole che esse siano, non valga la pena di vivere5 .
È il risveglio in gran parte inconscio, della nostra ferocia primitiva, che bisogna certamente arginare. Essa nei primordi è stata stemperata proprio dalla necessità di cibo, per conquistare il quale, strappandolo alla inclemente natura, gli uomini si sono dovuti associare, hanno dovuto inventarsi e fissare confini certi della legge ed infine hanno dovuto trovare sbocchi innocui alternativi per gli innati istinti di competizione violenta.
Questo è stato e permane davvero un problema non facile. Esso non può essere infatti risolto esaurientemente dalla morale, né completamente dalla religione.
4 È proprio questo atteggiamento che rende difficile trovare un modo che porti alla tanto agognata unità mondiale: infatti uno Stato Mondiale, quand’anche fosse saldamente stabilito, non avrebbe da temere nessun nemico e quindi fatalmente incorrerebbe in una disgregazione per mancanza di una forza coesiva.
Alcune grandi religioni, ed il Cristianesimo in primis, hanno tentato di estendere alla totalità della specie umana quel sentimento di collaborazione che alle origini è stato spontaneo verso i propri compagni di famiglia e di tribù. Ma le difficoltà sono state tante: nella contemporaneità un ostacolo difficilmente superabile è rappresentato dall’impeto della crescita economica, che di volta in volta conferisce ad un singolo Paese o ad un gruppo di Paesi culturalmente omogenei un senso di superiorità mentale e comportamentale rispetto a quelli restati più indietro. 5 Si è anche predicato con insistenza, a volte ossessiva e controproducente, la fratellanza tra gli uomini e si è tentato, usando in maniera impropria la parola fratellanza, di estendere oltre i suoi confini naturali, che sono quelli tribali, un atteggiamento emotivo che nella sua origine è soltanto biologico. Questo nobile tentativo in sé aveva una sua logica, perché esso parte dalla narrazione che siamo tutti figli di Dio e quindi siamo tutti una famiglia; ma coloro che hanno adottato questo credo, hanno quasi sempre appalesato un perverso retropensiero: “chi non condivideva quella fede non era figlio di Dio”.
Il cibo, viceversa, ha certamente dato un decisivo avvio alla soluzione di questa intrigata matassa, che però, per essere ulteriormente dipanata, ha bisogno della ragione individuale e della ragione collettiva. Siamo assoggettati a livello individuale e a livello collettivo ad ogni specie di impulsi aggressivi e di impulsi creativi ai quali anche l’avanzata attuale società con le sue regole ci impedisce di abbandonarci. A poco valgono allo scopo le competizioni alternative che essa può metterci a disposizione, come lo sport, le onorificenze di merito, le cariche al vertice di organizzazioni benemerite e prestigiose per alimentare una sana e credibile competizione a livello individuale e collettivo.
D’altra parte, osserviamo solo che chiunque speri che col tempo sia in qualche modo possibile abolire la guerra autodistruttiva che abbiamo intrapreso, debba preoccuparsi piuttosto del modo di soddisfare in maniera innocua, indolore e vantaggiosa gli istinti primordiali che ereditiamo da lunghissime generazioni di selvaggi…
Una via di uscita importante, almeno sotto l’aspetto materiale l’ha indicata, fin dal nostro esordio sulla scena terrestre, il cibo, che con la sua crescente disponibilità ha arrotondato gli spigoli di incastro del sistema uomo-natura, lasciando intravedere che altri stringenti bisogni non siano lungi dall’essere soddisfatti. Quindi grazie al cibo abbiamo fatto e stiamo facendo un bel tratto di strada.
Tuttavia, rimane fermo il nostro convincimento che gli esseri umani, così come sono stati strutturati, non possano raggiungere un adeguato stato di soddisfazione materiale e spirituale senza che si mantenga viva tra loro una qualche forma di competizione: la competizione fin dalle origini della comparsa dell’umanità è stata lo sprone per l’inizio e il perfezionamento delle sue attività più vantaggiose. La competizione quindi non va abolita, ma incanalata verso le attività umane di primaria necessità, come appunto quella naturale e spontanea di procurarsi e prepararsi il cibo. Estendendo questi stessi concetti anche alle attività di pensiero puro, cioè a quelle che hanno generato l’arte, la tecnica applicata e la ricerca scientifica, il cibo può essere definito a piena ragione “il primo obiettivo esistenziale raggiunto dal genere umano”; quello che è alla base di ogni sviluppo successivo sia di pensiero sia di azione. Ed è qui il vero significato di “Metafisica del cibo”.
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