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69 Ivi, pag

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edictum”.701 La giustezza del diritto romano non è pertanto soltanto politico-militare, di carattere cioè naturalistico, ma soprattutto di natura trascendente, avendo la passione di Cristo redento anche il diritto di Roma dal suo peccato originale di essere dottrina di uno Stato pagano e idolatrico. L‟unione mistica con il Potere di Cesare fu definita con le parole di Cristo riportate da Giovanni, dove il Redentore annuncia che “ogni cosa è compiuta”, e, come chiosa Dante, “ubi consummatum est, nichil restat agendum”, 702 non c‟è altro da compiere. Il compimento stesso della “punitio” romana a Gesù, non è una semplice “pena iniuriam inferenti”, la ritorsione a un malfatto, ma una sanzione legittima inferta “ab habente iurisdictionem puniendi”.703 Ciò comporta che non ha ragion d‟essere la riprovazione del comportamento romano da parte di “coloro che si fingono figli della Chiesa”, in quanto fu lo stesso Sponsale ad ammetterlo accettandolo dal Potere di Roma dall‟inizio alla fine della sua testimonianza terrena (“militia”).704 Il Libro III è intieramente dedicato alla “inquisitio” circa l‟origine della “auctoritas” di chi “de iure Monarcha mundi est”, ovvero se “immediate a Deo dependeat an ab aliquo Dei vicario vel ministro”.705 Per risolvere la “questio”, Dante intende partire da un “principium” da cui far discendere ogni altra affermazione logica, e lo individua nella “irrefragabilis veritas” per cui “quod nature intentioni repugnat Deus nolit”, da cui consegue che “Deus finem nature vult”, e dunque con l‟esclusione dell‟ipotesi opposta per cui “si finis nature impediri potest – quod potest – de necessitate sequitur quod Deus finem nature non vult” . 706 Il fondamento naturalistico a partire dal quale si dispiega la questione del Potere in Dante, condiziona inevitabilmente l‟argomento in senso prevalentemente razionalistico, assumendosi l‟autorità di Aristotele in vece del pensiero stesso, alla guisa, però stigmatizzata, dei Decretali che anteponevano alla fede in Cristo la tradizione della Chiesa.

701 Ivi, 29-38, pag. 214. 702 Ivi, XI, 16-18, pag. 215. 703 Ivi, 19-21, pag. 215. 704 Ivi, 36-39, pag. 217. 705 Dante, Monarchia, III, I, 24-27, pag. 221. 706 Ivi, III, II, 2-7, 18-19, 28-30, pagg. 221-225. 332

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Si parte dalla individuazione dei possibili obiettori (Papa, teologi, decretalisti),707 per concentrarsi sugli “asserentes auctoritatem Imperii ad auctoritate Ecclesie dependere vult”,708 per poi distinguere chi asserisca il falso per ignoranza, formale o sostanziale, del vero, da chi commetta volontario e consapevole errore dottrinale per proprio vantaggio. Coi primi ci si deve comportare come coi folli che vaneggiano, mentre coi secondi come fossero tiranni usurpatori del bene comune.709 Ora, la Chiesa e l‟Impero, afferma Dante non possono essere paragonati a due astri, come vorrebbero i fautori dell‟allegorica rappresentazione del sole e della luna di cui il Genesi, in quanto i due poteri (“regimina”) sono stati concepiti come indicatori (“directiva”) per conseguire determinati fini, la cui direzione non sarebbe stata necessaria se l‟uomo fosse stato innocente, e dunque vanno considerati come “remedia contra infirmitatem peccati”, 710 né può avere alcun senso accostare il regno spirituale alla “luce” del sole e questa alla “autorità” papale, essendo “res diverse subiecto et ratione”.711 Ed eliminate altre allegorie, quali la filiazone di Levi e Giuda da Giacobbe,712 l‟investitura e la deposizione di Saul,

713 l‟offerta dei Magi,714 il potere conferito da Cristo a Pietro, secondo Matteo e Giovanni, di legare e sciogliere in terra come in cielo,715 giunge al testo del Vangelo di Luca dove si tratta delle “due spade” che Pietro ha offerto a Cristo. Di fronte al testo letterale, altrove esaltato come base imprescindibile di ogni disquisizione, Dante, non potendolo negare, cerca di sminuirne il senso allegorico più evidente e diretto, opponendo alla sua credibilità il carattere “de more” irriflessivo dell‟Apostolo (“festina et inpremeditata presumptio”), attestato a suo dire “non solum fidei sinceritas”, ma anche dalla sua “puritas et simplicitas naturalis”, per cui,

707 Ivi, III, III, pag. 224-231. 708 Ivi, III, IV, 1-2, pag. 231. 709 Ivi, III, IV, 45- 50, pag. 236. 710 Ivi, III, IV, 67- 71, pagg. 237-238. 711 Ibidem, 91-100, pagg. 239-240. 712 Ivi, III, V, 1- 23, pagg. 240-242. 713 Ivi, III, VI, 1- 32, pagg. 242-245. 714 Ivi, III, VII, 1- 32, pagg. 245-247. 715 Ivi, III, VIII, 1- 47, pagg. 248-251.

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conclude liquidatoriamente, “cum de duobus gladiis loquebatur, intentione simplici respondebat ad Cristum”.716 Tesi debole quanto blasfema, che antepone alla fiducia di Cristo una supposta superiore consapevolezza umana sulle qualità del primo Apostolo, ma soprattutto fuorviante, in quanto elude la questione essenziale. Infatti, la premessa adotta da Dante a giustificazione dei due poteri, li pone sullo stesso piano valoriale, per cui “sicut Ecclesia suum habet fundamentum, sic et Imperium suum”, così che se il fondamento della Chiesa è Gesù Cristo, “Imperii vero fundamentum ius humanum est”, 717 rendendo non solo extra legem ma anche extra ordinem l‟evento cristico nelle vicende umane, il cui senso escatologico è di manifestare la finitezza di ogni ordinamento umano fondato su rapporti naturali, si tratti della famiglia o dell‟Impero, che sono forme di socialità guidate dal mero principio della conservazione, ossia dal criterio intrascendibile della potenza () o affermazione di sé (voluntas), che è l‟ambito proprio regolato dallo ius humanum, razionalizzazione di quello naturalis. La ragione umana, informata al pricipio della conservazione del mondo da essa edificato, mira alla immortalità mnestica delle gesta eroiche o della politeia, ma non agisce al fine della salvezza dell‟anima, della santità, che assume a criterio di azione e di pensiero la realtà eterna, e quindi il fondamento divino che sostiene tutte le cose, compreso il Potere di Cesare. La questione essenziale è se la Chiesa di Cristo sia una istituzione storica, transeunte come ogni altra edificata dall‟uomo, ovvero sia il luogo simbolico di una socialità umana non informata al criterio di potenza e di auto-conservazione, ma a al principio della carità fraterna e dell‟amore di Dio in nome di Cristo, la cui affermazione implica il “gladium” riferito da Matteo (X, 34-35), ossia la tensione con l‟altro principio, quello naturalistico rappresentato dal Potere. In considerazione di tale alterità, le “spade” storicamente sono “due”, come duplice è la natura divino-umana dell‟Uomo. Ora, “Imperium est iurisdictio omnem temporalem iurisdictionem ambitu suo comprehendens”, e dunque l‟Imperatore che la detiene in sua funzione “permutare non potest”, ovvero “non può trasferirla ad altri” senza venir meno al suo ufficio, che è la sua stessa

716 Ivi, III, IX, 40-43, 76-77, pagg. 253 e 255. 717 Ivi, III, X, 29-34,, pag. 258.

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ragion d‟essere, e quindi Costantino non aveva facoltà di trasferirla, per gratitudine al papa Silvestro, “per modum alienationis”, alla Chiesa, la quale peraltro “omnino indisposta erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum” evangelicamente, e quindi “recipere non poterat […] per modum possessionis” . 718 Pertanto, la traslazione dei beni avrebbe potuto interessare una quota patrimoniale dell‟Impero, a favore dei poveri custoditi dalla Chiesa, ma non l‟Impero in quanto tale, “cuius unitas divisionem non patitur”.719 Quanto infine all‟incoronazione di Carlo Magno come imperatore da parte di Adriano, Dante liquida questo inoppugnabile evento storico negandone il significato metaforico, asserendo che “usurpatio iuris non facit ius”. Infatti, anche Ottone depose Benedetto ed elevò a papa Leone, senza che ciò alterasse l‟autorità della Chiesa.720 A questo proposito torna l‟argomento teologico di Peterson, sopra riferito, in quanto la costituzione ontologica trinitaria di Dio contrasta con la logica unitaria della filosofia greca, che presiede l‟argomento filo-imperiale di Dante; la stessa che stabilisce che “omnia que sunt unius generis reducunt ad unum”. Ed infatti, secondo quanto riferisce Aristotele nella Metafisica, quella unità “est mensura omnium que sub illo genere sunt”; e dal momento che “omnes homines sunt unius generis: ergo debent reduci ad unum, tamquam ad mensuram omnium eorum”.721 Orbene, questo costrutto sillogistico, pur potendosi male adattare a trascrivere i dogmi teologici della fede cristiana in senso politico, non costituirebbe, di per sé e in generale, uno strumento concettuale incogruo alla stessa fruizione teologico-politica se non incontrasse un insormontabile ostacolo al suo uso metodologico nella natura non-unitaria, ma duplice, dell‟Uomo. Questi, infatti, diversamente dalla triplice persona divina, non è riducibile, come la Trinità, alla realtà di Dio, proprio perché l‟uomo, diversamente da Dio, non è unicamente essere spirituale, ma anche animale. Ne consegue che la logica unitaria, che tratta razionalmente dell‟animale politico-sociale, non può, alla stessa guisa, considerare la realtà dell‟uomo quale persona spirituale. Solo

718 Ivi, III, X, 46-55, pagg. 258 e 259; ved. Inferno, XXVII, 94-95. 719 Ibidem, 65-66, 71-77, pagg. 259 e 260. 720 Ibidem, 81-93, pagg. 260-261. 721 Ivi, III, XI, 2-5, pag. 261.

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rimuovendo tale natura spirituale dell‟uomo, può applicarsi agli affari umani, la logica unitaria del pensiero filosofico greco, che considera l‟uomo unico non nel senso cristiano della “singolarità” dell‟esistenza personale, ma nel senso idealmente unitario della specie antropologica dello . Diversamente da quella greca, la visione cristiana introduce nell‟orizzonte esistenziale dell‟uomo un‟altra appartenenza da quella politica, il cui referente normativo non è quello naturalistico-sociologico della specie, il cui fine razionale primario, che presiede ogni costrutto etico, è la sopravvivenza biologica, attraverso la sussistenza dello Stato, ma quello spiritualistico-soteriologico della singolare libertà del rapporto con Dio, attraverso la fede in Cristo. Se la forza che presiede alla sussistenza dello Stato è il Potere, con la sua esclusiva ratio politica, la forza che fonda il rapporto con Dio è la fede spirituale in ciò che trascende la dimensione naturale della vita temporale e si trasvaluta di senso eterno. Questo passaggio () dalla dimensione della finitezza, regolata dalle leggi politiche della vita collettiva, a quella dell‟esistenza spirituale della storia singolare di ogni uomo, segna la differenza tra la dipendenza dalla necessità della situazione umana storico-contingente e la libertà della scelta morale nel senso dell‟eterno, la cui legislazione non è punto quella del diritto statuale o storico, ma quella della giustizia divina, regolata secondo criteri sapienziali non determinabii razionalmente a priori, e dunque misteriosi. Ma proprio l‟ammissione del Mistero divino entro le vicende umane rende il ragionamento sillogistico pro-fanum, prescrittivo, ma non veritativo. E la consapevolezza che la verità umana coincida con la realtà del Mistero divino, sposta i termini del ragionamento metafisico dal piano dell‟Essere, proprio del discorso filosofico, che presiede ai costrutti giuridici e alle forme politiche, a quello del Non-Essere, rovesciando così la prospettiva dell‟ontologia greca. In tal senso, se la logica è la tecnica del pensiero onto-logico, non può esserlo di quello teandrico. La logica esclude il diverso, lo coglie come l‟ “altro”, il “nemico”, il “negativo”, mentre invece il pensiero teandrico è inclusivo della diversità, dell‟altro, in quanto rapporta ogni ente fenomenico alla sua origine creaturale, e dunque al Mistero di Dio, che tutto con-prende. In tal senso, nella considerazione delle reciproche “relationes superpositionis” tra il Papa e l‟Imperatore la “mensura” non può essere “alia” rispetto alla considerazioni che siano entrambi “homines”, uniti cioè “per formam substantialem”, che è condizione 336

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