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prioritaria rispetto a ogni successiva “ratio spetie” legata al loro ruolo autoritativo. E proprio “in quantum homines, [Papa et Imperator] habent reduci ad unum [metrum in suo genere]”,722 altrimenti ogni riferimento terzo, “ad aliud”, ossia considerare che “aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum”, implica a sua volta una relazione subordinativa tra “auctoritas” maggiore e minore, riferita dunque a un potenziale o attuale conflitto. E proprio in considerazione che il papato e l‟impero sono in una relazione autoritativa (“cum sint relativa”), dovranno ricondursi a una unità autoritativa omogenea alla loro ma superiore alle loro differenze specifiche (“reduci habebunt ad aliquod unum in quo reperiatur ipse respectus superpositionis absque differentialibs aliis”).723 Ma questa autorità terza e superiore non può essere divina, ma solo umanamente potente, e dunque relativa alle potenze storiche che vi si riferirebbero in senso politico. Sicché, solo in quanto “homines”, ossia creature di Dio, le parti altrimenti distinte e divise, possono ritrovarsi nell‟unità spirituale del comune “fattore” divino, la quale precede ogni succedanea distinzione polemica, e financo relazione amicale o misericordiosa. Ciò implica che non è la condizione storica, il loro relativo essere-ciò-che- contingentemente sono, a costituire l‟unità delle loro differenze specifiche, ma bensì ciò che non sono, ciò che non si trovano ad essere, in quella determinata situazione storica. E dunque solo rimuovendo l‟attualità in considerazione della possibilità, si può ritrovare l‟unità attraverso il superamento del diverso nell‟uguaglianza delle possibilità d‟essere ciò che attualmente non si è –cioè se stessi – e di essere altro. La considerazione dell‟alterità, invece della inseità, è il tratto essenziale della posizione morale, la quale si afferma appunto stabilendo la possibilità di porsi nella condizione dell‟altro. Tale posizione invertita deve prescindere dall‟attualità d‟essere, e dunque anche dal ruolo storico ricoperto in quanto autorità secolare, a favore della possibilità (d‟essere colui che non si è attualmente). Fuori di tale possibilità, non c‟è eguaglianza e dunque interscambiabilità (non dei ruoli specifici, razionalmente determinati, ma) delle condizioni esistenziali.

722 Ivi, III, XI, 5-35, pagg. 261-262. 723 Ivi, III, XI, 51-57, pag. 264.

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L‟ontologia è la logica dell‟Essere, di ciò-che-è, e l‟Essere di ciò che è è la condizione naturale. In tal senso, Essere è identico a Natura, così che la logica dell‟Essere è la ragione naturalistica, determinativa della posizione ontica degli enti naturali. Anche la Natura è una, e dunque la condizione naturale è unitaria nel suo senso proprio. Ciò significa che, dal punto di vista naturalistico, l‟uomo è Uomo come elemento di specie, nella sua generalità antropologica. E in questo senso viene considerato dalla filosofia politica greca, le cui distinzioni accidentali ineriscono sempre a elementi contingenti, che non alterano la omogenea fisionomia naturale degli enti. Dal punto di vista spiritualistico, invece, non sono gli accidentalia a essere rimossi in considerazione dell‟unità ontologica degli enti naturali, ma la stessa condizione naturale che discrimina in senso accidentale, per cui non è rimuovendo la condizione di Imperatore o, rispettivamente, di Papa, a far conseguire la loro condizione di eguaglianza e quindi di interscambiabilità dei ruoli. E dunque non negando l‟autorità papale che quella imperiale potrà costituirsi come autorità comune; ossia, non attraverso la posizione politica di esclusione dell‟altro si potrà affermare la propria ragione quale verità comune. Infatti attraverso la posizione di sé, e la correlativa negazione dell‟altro, si giunge sempre e solo ad affermare il sé come altro, ma non a comprendere l‟altro nel sé. Per conseguire una unità dei diversi, occorre negare la propria inseità attraverso la negazione dell‟altrui alterità, ovvero negare la propria alterità rispetto all‟altro affermando l‟alterità dell‟altro come la propria alterità. Nel caso specifico, vuol dire che solo negando la proria autorità papale o imperiale si può giungere a negare l‟autorità dell‟altra parte, e in questa remissine comune conseguire una condizione di paritaria appartenenza a una unità comprensiva di entrambe in cui riconoscersi uguali, ossia ugualmente liberi dalla reciproca autorità. Se noi vediamo nel Cristo tale unità comprensiva di ogni singolarità umana, abbiamo l‟idea di ciò che sia la in senso evangelico di unità spirituale degli uomini di fede. Che tale sia la Chiesa storica, è difficile ammettere. Ma come ammettere la superiorità di un ente imperiale il cui potere sopravanzi quello religioso? Solo indicando in Dio l‟unica autorità

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superiore a quella dell‟Imperatore, rendendo cioè l‟autorità divina omogenea a quella umana, facendola “a Deo immediate dependere”. 724 E come stabilire che l‟autorità imperiale non dipenda da quella ecclesiale? Affermando che l‟Impero avesse una sua propria ragion d‟essere (“totam suam virtutem”) già prima che la Chiesa fosse stata fondata e diffondesse la sua missione mondana (“Ecclesia non existente aut non virtuante”), per cui la derivazione morale non può stablirsi senza una filiazione temporale (“ergo Ecclesia non est causa virtutis Imperii”), e dunque non è possibile stabilire un rapporto etiologico tra le due autorità (“et per consequens nec auctoritatis, cum idem sit virtus et auctoritas eius”).725 In questo caso, Dante accoglie la logica assimilazione della causa formale a quella materiale, altrove negata,726 stabilendo un nesso essenziale tra tempo profano ed evento escatologico da lui stesso escluso concependo, da credente, la posteriorità dell‟evento cristico come la ragione del mondo precedente la nascita storica di Gesù. Inoltre, come Dante ha ammesso, se il Potere del principe non ha una germinazione propria, e dunque non è disponibile se non nei termini concessi dal suo uso proprio, cioè coerente ai fini superiori del Governo (“auctoritas principalis non est principis nisi ad usum”), il suo esercizio è derivato da chi glielo conferisce (“quia nullus princeps se ipsum auctorizare potest”).727 Ma, essendo anche quello imperiale, e non solo quello papale, un potere mondano, avente i limiti della sua natura finita,728 deve essere conferito da un potere superiore a quello di un uomo, e pertanto anche allo stesso potere imperiale, ma pur sempre in qualche modo umano. E l‟unica potestà insieme divina e umana è quella del Cristo, che appunto affidò direttamente a Pietro, e non a un Cesare politico, l‟autorità divina

724 Ivi, III, XII, 8-10, pag. 266. 725 Ibidem, 10-16, pag. 266. 726 “Nam aliud est „auctoritas‟ et aliud „nativitas‟, subiecto et ratione”: Ivi, III, V, 11-13, pag. 241.

727 Ivi, III, VII, 26-27, pag. 247. 728 “Non enim posset facere terram ascendere sursum, nec ignem descendere deorsum per officium sibi commissum”: Ibidem, 19-20, pag. 246. 339

di “sciogliere e legare le cose del mondo”, ossia di governare, e non di esercitare un Potere alternativo o superiore a quello del principe politico. Ciò ha tre conseguenze, fra esse collegate. Una è quella di dover considerare il solo Governo morale come emanazione divina, per cui è la sua derivazione trascendente a costituire la base imprescindibile di ogni Potere politico e secolare; l‟altra conseguenza è quella di considerare il Potere una condizione transeunte e accidentale, in quanto del tutto umana, che soltanto la sua correlazione al Governo morale di origine divina può legittimare in funzione di quel Governo. La terza conseguenza è che ogni pretesa di autonmia avanzata dal Potere nei confronti del Governo deve presumere una sua autofondazione, ossia una legittimazione razionale all‟autoconsistenza che agisca come se la Rivelazione di Dio nel Cristo non fosse avvenuta. Questa ipotesi, di immaginare un mondo storico governabile etsi Deus non daretur, costituisce l‟orizznte teorico-politico di ogni razionalismo, antico come moderno. Con la differenza capitale che, nel mondo antico, la Rivelazione non era avvenuta, e il fondaento religioso dal quale il razionalismo greco si era emancipato era di carattere idolatrico e puramente tradizionale.Viceversa, nel mondo cristianizzato moderno, l‟ipotesi razionalistca agisce non a confutazione di confuse e contraddittorie credenze cosmologiche, ma della stessa Verità, cioè di quel Mistero a partire dal quale ha senso ogni ricerca del senso della vita in generale e segnatamente dell‟esperienza umana. Se dunque il movimento filosofico antico segna un trapasso teoretico dalla contemplazione dell‟Essere (o Natura) alla sua determinazione razionale, il razionalismo moderno non ha potuto far altro che tradurre in cifre positive, cioè in forme oggettive, le intuizioni spirituali del trascendente Mistero. Ma mentre il passaggio all‟Essere, nel pensiero antico, lo costituiva come qualcosa che-è, come ente, a partire dall’indeterminato Niente, e dunque come accrescimento (incrementum) ontologico, nel pensiero moderno il movimento essenziale, partendo dal Mistero divino rivelato, muove non dal Niente ma dal Tutto, cioè dalla pienezza () della Verità, rispetto alla quale ogni determinazione positiva (determinatio) è una reductio del divino, una mancanza () di Verità, che produce una negatio della realtà di Dio, ossia ateismo. Le conseguenze di tale moderna regressione noetica dalla pienezza della Verità, che è perfezione () di sapere e certezza del suo fondamento (), a un pensiero che ne è privo, kenotico, e 340

dunque meramente ipotetico e destinato ad essere empiricamente confutato, risultano disastrose dal punto di vista dal punto di vista della costituzione politica, in quanto ne risolvono la questione nei termini del solo Potere (auctoritas), privo del Governo morale di origine divina. Ma proprio la affermazione di questo Governo ostacola e impedisce la dissoluzione dell‟unità spirituale, e dunque, con l‟affermazione di sé come negazione dell‟altro, il dominio del polemos interno all‟ordine sociale stabilito. In questo senso, la forza di detterenza morale della fede nel Governo divino della Storia umana consiste nel trattenerla ( = trattengo) nel suo fine escatologico lottando contro le forze maligne della dissoluzione sociale (). Considerato ciò, l‟ordine naturale delle cose non corrisponde all‟ordine spirituale della vita umana, la quale perciò deve essere governata secondo principii e modalità non naturalistici. Se infatti l‟ordine naturale fosse bastevole alla vita umana, non avrebbe senso per l‟uomo darsi una costituzione politica diversa da quella della naturale socialità ferina. Ma proprio perché tale ferina condizione naturale non rappresenta per l‟uomo una accettabile condizione esistenziale, egli provvede ad allontanarsene per costruire un mondo secondo le sue aspirazioni spirituali. A questo punto, la questione che sorge è la seguente. Gli strumenti per edificare tale realtà mondana, dando per scontato che siano di tipo latamente “razionale”, come lo è ogni risposta umana al della vita, sono essi informati alla stessa razionalità che presiede alla vita della Natura? In altri termini, i costrutti scientifici della filosofia naturalistica greca sono gli stessi di quelli che regolano il governo della esistenza sociale umana? La questione, com‟è noto, sorse a suo tempo entro il dibattito sullo storicismo, ma nei termini impropri di una opzione esclusiva tra un sapere “ideografico” e uno invece “nomotetico”, come se la fisionomia dell‟uomo fosse antropologicamente diversa da quella di ogni altra specie vivente, e non spiritualmente, inducendo erroneamente a ritenere che l‟essere umano in quanto tale fosse naturalmente diverso da ogni altro essere vivente. Questa credenza antropologica viene continuamente smentita da riscontri empirici che testimoniano quanto rappresentanti delle altre specie biologiche terrestri possano essere assimilate ai comportamenti umani.

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In realtà, la diversità dell‟uomo rispetto alle altre specie viventi non inerisce agli scopi naturalistici della vita biologica, che per tutti i viventi è di sopravvivere, e neppure alle modalità di organizzazione sistematica della produzione e distribuzione delle risorse utilizzate a quello scopo, quanto alla possibilità tutta umana di trascendere la dimensione naturalstica della vita biologica protesa allo scopo della sopravvivenza, assegnando alla propria esistenza una destinazione singolare di carattere spirituale. Spirituale, dunque, è quel carattere della vita umana che trascende la dimensione biologica dell‟esperienza collettiva o sociale, e che fa di quella vita umana una esistenza singolare. Ciò vuol dire che l‟esistenza singolare dell‟uomo spirituale non è separabile dalla vita biologica della sua esperienza sociale, ma che rispetto a questa esperienza la esistenza spirituale è qualitativamente diversa, ossia appartiene a un “altro Regno” rispetto a quello politico-sociale di Cesare. L‟ipotesi ingenua di costituire un consorzio di vita civile che sia insieme sociale e spirituale, per la irriducibile diversità delle rispettive condizioni di esistenza, non può che risolversi o in una socializzazione della vita spirituale singolare, ovvero nella negazione misticistica di ogni socialità in nome della singolarità spirituale. Entrambi gli esiti totalitarii costituiscono una violenza semplificazione della realtà umana nel senso della unilaterale ed esclusiva considerazione della sua dimensione naturale o, rispettivamente, spirituale, e tale da pretendere di costringere l‟una alla impossibile risoluzione nell‟altra. Da tale impossibilità sorge, con la violenza, anche la inevitabile precarietà della organizzazione di una vita umana astrattamente concepita, ossia astratta dalla sua concretezza sociale ed esistenziale. Nella dimensione di vita umana naturalisticamente sociale, reale è la dimensione politica della esistenza dell‟ uomo, entro la quale non è la Verità divina a decidere delle sue sorti terrene, ma la forza del Potere politico, che è nelle mani di Cesare, e non di Dio. L‟uomo spirituale che trascura tale realtà muore trafitto dalla spada. La spada del Potere domina la realtà politica, decidendo delle sorti collettive degli uomini come ente naturale. Il Potere deve difendersi dalla minaccia rappresentata da Socrate e da Gesù e da Galilei, e da quanti come loro ne ostacolano la sua affermazione di realtà. Il Potere è ciò che appare, poiché il suo Essere è tutto nella sua affermazione d‟esistenza. L‟Essere del Potere coincide ontologicamente con la sua attualità, cioè con la sua 342

fenomenicità ontica. L‟Essere del Potere è nel suo apparire come ente. L‟Essere che può apparire come ente, è potente.Il Potere è la forza di apparire come ciò-che-è, di poter essere. Il Potere è il poter essere ciò che è. Diversa dalla forza del Potere è la possibilità che ha l‟uomo di costituirsi come esistenza singolare spirituale, estranea alla dimensione della socialità politica, quella in cui appunto si esercita la forza del Potere. Chiamandosi fuori dalla dimensione politica, l‟uomo singolare afferma la sua libertà spirituale, nel cui ambito di verità il Potere non ha forza alcuna, trattandosi di un altro Regno, governato da Dio, che ne è custode. Ora, trattandosi di due Regni che insistono sulla stessa umanità, sia pure diversamente considerata, essi non sono separati nella esperienza dell‟uomo, quale essere sociale e persona singlare, ma sono distinti per valore e considerazione morale. Questo è il punto decisivo in cui si infrage tanto il discorso teorico di Dante quanto la teologia del suo tempo. Infatti, entrambe le posizioni intendono stabilire, rispettivamente, un ordine gerarchico relativo a due orizzonti di vita umana che hanno dimensioni valoriali diverse e non commensurabili, poiché l‟orizzonte politico-sociale inerisce alla dimensione della temporalità naturale della vita biologica, mentre l‟orizzonte spirituale concerne la dimensione della vita eterna, che non ha rapporto con l‟esistenza terrena. Vincere una guerra contro le forze avverse della natura, fisica o politica che sia, ubbidisce alla stessa logica di affrontamento dell‟ideale nemico. Ci si difende da ciò che minaccia la propria esistenza naturale, si tratti della pioggia come della spada, di un fulmine come di un cannone, di una valanga come di un esercito. E‟ il principio della alterità che domina i rapporti di forza tra tendenze opposte. Il pensiero che riconosce tale alterità e ne stabilisce le ragioni, è la logica, in virtù della quale si determinano concettualmente le opposizioni. La fenomenologia storica in cui si manifestano le opposizioni tra gli uomini è la vita politica dei gruppi sociali costituiti, cioè non spontanei e occasionali e perciò privi di una organizzazione di Potere. Diverso dalla logica del riconoscimento dell‟altro come tale è il pensiero che ricerca la con-vivenza dell‟altro come sé, assumendolo in considerazione della sua singolarità spirituale, e non già della sua appartenenza politica in quanto membro naturale di un gruppo sociale. 343

Tale pensiero non tende alla determinazione delle opposizioni interne alla vita naturale degli uomini come esseri bio-psichici, ma degli elementi di contiguità spirituale tra esseri singolari dotati di una storia spirituale anch‟essa singolare, e dunque esterna ai processi sociopolitica della vita umana collettiva. Nel primo caso, la logica presiede a una istanza di organizzazione in senso naturale dell‟esistenza umana, il cui ordine stabilisce un sistema politico, il cui processo è funzionale a quella esistenza naturale o sussistenza. Nel secondo caso, la ragione umana tende a superare le differenze di appartenenza naturale dei gruppi umani, in considerazione del comune destino spirituale dei singoli uomini come esseri spirituali, dotati di una esistenza storica o singolarità. Il rapporto tra le condizioni di vita naturale dei gruppi sociali umani, e le esistenze singolari degli uomini come esseri spirituali non può essere di natura politica, inerente cioè alla sussistenza delle forze economiche tra i singoli e tra gruppi, ma di natura religiosa, ossia inerente alla vicenda spirituale dell‟uomo, della sua storia. Le civiltà pre-cristiane concepirono la religione come legame sociale della dimensione di vita politica, nella quale si faceva risolvere l‟intera esperienza esistenziale dell‟uomo, inteso esclusivamente come animale razionale. In queste società olistiche, la cultura era religiosa in quanto servente l‟unità politica dei gruppi sociali, ma non nel senso della considerazione della esistenza spirituale dei singoli uomini, poiché la singolarità stessa non veniva riconosciuta che come appartenenza a gruppi naturali, ossia come unità funzionale all‟economia della loro sopravvivenza biologica. La civiltà greca, scoprendo le leggi della logica naturalistica, le applicò sia per la rappresentazione cosmologica della Natura, indicata come l‟Essere stesso del pensiero, e sia alla dimensione sociale organizzata come , cioè come esercizio razionalmente regolato della volontà dei gruppi umani appartenenti alla . Per la sua valenza tecnicamente polivalente, la filosofia greca fu sin dalle origini precipuamente politica, teoreticamente funzionale cioè alla regolamentazione razionale della vita sociale, alla sua razionalizzazione. Per il riconosciuto carattere universale del pensiero filosofico, l‟applicazione tecnica dei suoi metodi razionalizzatori in ambiti istituzionali sempre più estesi dell‟organizzazione della vita 344

sociale diede vita a quella civiltà razionalistica europea che per la sua posizione georafica occidentale rispetto alla Grecia, finì per distinguerla rispetto a quelle che si svilupparono tendenzialmente a oriente di quella greca. Con la nascita del Cristianesimo, prese vita una nuova concezione della religione, compresa quella ebraica dal cui ceppo germogliò la predicazione di Gesù di Nazareth, il quale insegnò a distinguere le ragioni politiche legate alla convivenza sociale, da quelle spirituali conseguenti alla dimensione coscienziale dell‟uomo.Rispetto alla concezione latamente filosofica, il pensiero spiritualistico di Gesù non tese a razionalizzare le differenze fra gli uomini in quanto membri di gruppi sociali naturali, ma a indicare la stessa matrice divina di ogni essere umano come singolarità pneumatica e non meramente corporea. Attraverso la distinzione del regno di Cesare, dominato dalla logica divisiva del Potere, dal regno di Dio, in cui vigeva la regola dell‟amore fraterno di ogni singolo uomo n quanto creatura dello stesso Padre divino, Gesù rivoluzionò la concezione antropologica delle culture tradizionali antiche, ponendo alla sua origine archetipa l‟, ossia l‟unità mistica del genere umano, e non il , cioè la guerra dell‟unità politica particolare contro altre unità sociali in lotta per il dominio economico della natura. L‟unità mistica fra gli uomini, proprio perché li emancipava spiritualmente da ogni dipendenza di retaggio naturalistic, li costituva come esseri moralmente liberi, ossia interiormente indipendenti dal dominio del Potere politico sui loro gruppi sociali di appartenenza. La definizione dei limiti del Potere politico alla dimensione naturale degli uomini quali enti collettivi, provocò un confine al suo fino ad allora incontrastato, se non dagli dèi celesti, dominio che era interno allo stesso orizzonte sociale e dunque umano, che lo strinse in una duplice morsa, celeste e terrena, dalla quale non si liberò più, inaugurando lo stesso corso dell‟esperienza complessiva dell‟umanità. La questione del Potere, nasce dunque strettamente con il Cristianesimo, che introdusse nella vita sociale degli uomini il concetto della libertà come limite spirituale al dominio politico dell‟uomo forte sui più deboli, portandola come istanza spirituale all‟interno della dimensione religiosa, fino ad allora intesa come sanzione divina funzionale all‟ordine politico, e dunque all‟asservimento umano al Potere. L‟esaltazione della realtà spirituale, e quindi della possibilità dell‟uomo di emanciparsi dalla 345

condizione politica come destinatario di una missine redentrice metastorica, presagiva una forma di socialità fondata su un criterio apolitic, agapico, in virtù del quale non è la legge umana, ispirata alle vicende della Natura, a regolamentare l‟esperienza umana, ma una legge superiore a quella del Potere, la cui forza non era nella efficace vigenza della forza sociale, ma bensì nella possibilità di rivolgersi all‟istanza superiore divina, imperscrutabile e inattingibie da parte di qualunque rituale magico o apotropaico, e perciò essenzialmente misteriosa, ossia dagli esiti incerti. La volontà di Dio, diversamente dalle aspettative della Natura, essendo imponderabile, non era legiferabile similmente alla volontà del Potere, che si rivolgeva astrattaente a tutti i subalterni, ma si determinava ad personam, considerando cioè le ragioni singlari di ogni uomo, che era chiamato ad attenervisi in ragione della sua sola fede, che consisteva nella volontaria adesione ai precetti divini. L‟aspetto volontaristico faceva della fede cristiana una forza interiore radicalmente diversa da quella del Potere, che aveva bisogno di apparati coercitivi. La fede, proprio perché forza interiore della volontà, poteva trasformare la condizione morale dell‟uomo socialmente più debole, rendendolo capace di salvare la sua vita dal destino della condizione naturale comune. Senza alcun bisogno di misurarsi con la forza del Potere, la forza della fede non rappresentava una rivolta politica ma una rivoluzione spirituale, una , che poneva all‟inizio della esperienza esistenziale dell‟uomo non una fondazione politica, cioè una costituzione collettiva, ma una creazione spirituale, cioè una storia singolare. La trasvalutazione della storia umana, da silloge di vicende memorabili di eroi eponimi, ad eventi singolari e irripetibili di fede, ridisegna il senso della vita in termini radicalmente diversi rispetto alle mitiche res gestae di potenti guerrieri e legislatori, mettondo in evidenza la realtà interiore degli umili e degli ultimi, impossibilitati dalle circostanze avverse della loro inferiore condizione socio-politica ad affermare ciò-che-sono, testimoniando – alla stregua dello stesso Figlio di Dio fattosi Uomo , la sola forza interiore della loro fede nella possibilità di essere veramente se stessi in un altrove rispetto al presente regno di Cesare. Attraverso la fede in Dio, l‟uomo spirituale testimonia il principio di possibilità, alternativo a quello ontologico dell‟attualità, considerato dalla metafisica greca come l‟unico reale. La fede cristiana nella possibilità d’essere amplia la prospettiva metafisica 346

della ontologia naturalistica greca, introducendo nel senso della esperienza umana una teleologia della salvezza spirituale molto diversa dal finalismo economicistico della sussistenza socio-politica dei gruppi umani, e dalla connessa logica del dominio delle “sorgenti della vita”. Non più dunque storia di eroi politici, ma di martiri della fede, il cui movente esistenziale non è l‟eclatanza terrena del gesto memorabile, ma la anonima santità dell‟azione buona, ignota agli uomini ma non a Dio, che la giudicherà premandola nel Suo regno celeste. Nella nuova prospettiva esistenziale introdotta da Cristianesimo, i valori etico-politici perdono la loro assoluta pregnanza naturalistica, diventando accidentali e transeunti al cospetto della trascendente esperienza spirituale della storia personale di ogni uomo, la quale diventa così l‟orizzonte singolare della stessa verità, anch‟essa singolare e unica, e pertanto in-definibile da una legislazione regolativa di eventi pre-vedibili e comuni. La verità singolare diventa il risvolto esistenziale del Mistero divino, della imponderabile volontà di Dio, la Provvidenza, che, diversamente dalla pagana necessità del Fato, in quanto Spirito libero “soffia dove vuole”. In considerazione della condizione spirituale dell‟uomo, ognuno provvisto di una sua storia che ne traccia un suo singolare destino, il rapporto tra gli uomini non può consistere e risolversi in una relazione politica, cioè di confliggenti forze sociali regolate dal Potere dominante su tutte loro, ma deve estendersi a una giurisdizione diversa da quella statuale, in cui decisivi non solo i comandi del Potere normativizzati erga omnes, ma le deliberazioni di una autorità carismatica di Governo che le emani una tantum nei singoli casi concreti. La sapienza giuridica romana aveva previsto una assemblea degli ottimati, il Senato, con funzioni consultive, ma solo con la creazione cristiana di una élite nell‟ambito ecclesiale la funzione carismatica di Governo ha perduto il suo originario carattere socio-economico, legato al modello autoritativo paterno, per acquisirne uno precipuamente consiliare basato sul modello apostolico. Le vicende storiche della Chiesa cattolica hanno intrecciato il ruolo carismatico dell‟autorità ecclesiastica con le funzioni autoritative del Potere secolare, ma quell‟ibrido connubio, per quanto increscioso e perverso, non ha cancellato le distinzioni essenziali stabilite da Gesù e testimoniate dai Vangeli apostolici, per cui ogni statuizione umana che li neghi di principio o di fatto incontrerà sempre la resistenza incoercibile della 347

coscienza spirituale degli uomini di fede e di buona volontà che la ribadiranno in gloriam Dei. In che rapporto stanno le due distinte funzioni del Potere e del Governo nella teoria monarchica di Dante? Che Cesare fosse legittimato all‟esercizio del Potere, per Dante era fuor di dubbio, 729 così come era convinto che la Chiesa non avesse tale legittimazione. Infatti, “si a Deo recepisset”, o l‟avrebbe ricevuta “per legem divinam”, oppure per via di legge naturale, dal momento che “quod a natura recipitur a Deo recipitur”, anche se non vale la reciproca. E poiché la Chiesa non è un “effectus nature, sed Dei […] manifestum est quod ei natura legem non dedit”. 730 Ma, poiché nelle Scritture non se ne fa menzione, essa non la ricevette neppure “per [legem] divinam”, così come non le è stata affidata dall‟Imperatore o “ab assensu omnium vel prevalentium”.731 Interessante notare che tra le fonti della legittimazione al Potere, Dante annoveri, oltre la Natura e Dio anche la volontà popolare, nella quale, per S. Tommaso, risiederebbe il “potere costituente” degli Stati, del quale i re sarebbero solo reggenti (“vices gerens multitudinis”).732 Dante aggira la tesi tomista, per la quale il potere spirituale ai papi discenderebbe non dalla Chiesa ma direttamente da Dio, essendo essi vicari di Cristo e non della istituzione umana, e integrandola la capovolge, mettendo l‟Imperatore, in materia di autorità secolare, nella stessa ma speculare posizione del Papa come gerente della potestà spirituale riconosciuta alla Chiesa, che figura esserne la depositaria. La natura della Chiesa, afferma infatti Dante, non è di esercitare il Potere, che Cristo rifiutò rispondendo a Pilato, ma di seguire il Suo esempio, per cui essa non può attribuirlo a sua volta all‟autorità secolare.733 E se dunque il Potere secolare “ab auctoritate summi Pontificis non causari”, esso “ab ipso Dei vicario non dependet”, e perciò deve provenire

729 Monarchia, III, XII, 24 sgg., pagg. 266-267. 730 Ivi, III, XIII, 7-15, pag. 268. 731 Ivi, III, XIII, 16, 33-34, pagg. 268 e 269. 732 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, 90, 3. 733 Ivi, III, XIV, 9-33, pagg. 270-271.

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direttamente da Dio “ex consequenti”.734 E‟ un sillogismo, ossia la ragione umana, a determinare l‟origine del Potere secolare, le cui determinazioni sono pertanto affidate alla stessa umana ragione, e non a inviolabili precetti divini. Il fondamento razionale del Potere politico, teorizzato da Dante, ripropone in termini moderni e nell‟ambito della civiltà cristiana, le stesse modalità formali e finali che hanno presieduto e giustificato nell‟ambito della cultura greca del IV sec. a. C. la costituzione topologica della antica, la cui sfera di legittimità razionale coincide con la parallela esautorazione dell‟autorità morale della tradizione religiosa da ogni pretesa di incidenza politica in conseguenza e in virtù del Governo sociale. Per meglio dire, il Potere politico, costituendosi nei termini di una comunità parallela a quella sociale, nella quale le regole tradizionali della vita sociale venivanoesautorate di ogni rilevanza pubblica a favore di una isonomia razionalmente e non tradizionalmente vigente, fondava una socialità, ovvero una modalità di convivenza sociale, stabilita per decreto di ragione, ossia per sola volontà umana dei cittadini membri della polis. In questo senso, la novella comunità politica si stabiliva e regolava esclusivamente per volontà dei cittadini, fuori da ogni ngerenza tradizionale e divina, ossia appunto da ogni pregressa esperienza morale di Governo della società. La politica (razionalistica) si fonda dunque sulla emancipazione dalla morale, rappresentata dalla tradizione religiosa custodita dalla aristocrazia sociale. Esautorando da ogni ruolo politico l‟aristocrazia sociale e la tradizione religiosa da essa custodita sotto forma di Governo morale della società, la nuova classe politica razionalistica, cioè legittimata dalla ragione, sostituisce la funzione aristocratica del Governo sociale con la funzione decisionistica del Potere politico da parte di operatori investiti per consenso dei concittadini al loro ruolo pubblico. Dante non nega le prerogative ecclesiali designate da Dio ai suoi vicari terreni, ma assegna loro una funzione spirituale nettamente distinta da quella inerente all‟amministrazione del Potere secolare, secondo quanto stabilito da Cristo stesso. L‟aspetto che nondimeno degenera il messaggio evangelico in senso divaricatore rispetto alla orignaria distinzione è la esautorazione dei fondamenti morali della vita umana

734 Ivi, III, XV, 2-5, pagg. 271-272.

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dall‟ambito del Potere civile. Mentre infatti la predicazione di Cristo era nel senso della dissociazione della morale dalla religione quale forza connettiva funzionale al Potere politico secolare, che attraverso di essa veniva sacralizzato, la teoria razionalistica del Potere politico lo costituisce come indipendente e separato dalla morale e perciò autoreferente e auto-nomo alla stessa stregua del pensiero filosofico rispetto alla tradizione mitica. nello stesso senso, la realtà politica veniva a costituirsi, analogamente alla rappresentazione filosofica del mondo, come una realtà assoluta, non soggetta ad alcun vincolo tradizionale di esperienza morale o religiosa, fosse legata alla volontà dell‟aristocrazia sociale o a quella superna degli dèi. Il sofisma implicito in ogni argomento filosofico è la supposta coincidenza dell‟Essere oggetto del pensiero con l‟Essere in senso ontologico, per cui anche nel nostro caso il Potere imperiale trova nella sua ragione concettuale la sua realtà necessaria e deontologica. E poiché ogni realtà fattuale, ossia naturale e umana, proviene da Dio, l‟affermazione della realtà di fatto, come il ricordato duello, immagine della conquista bellica, risulta prova ordalica della volontà divina. La quale, peraltro, e questa è ammissione interessante, non si esaurisce nella realtà di fatto o naturale, per cui la ragione umana può ricavarla attraverso il sillogismo, ex consequenti, rendendo esplicito ciò che Dio non ha graziosamente inteso rivelarci. Cosa inferisce la ragione? Che l‟uomo sia il “medium” tra i “due emisferi” della realtà totale, essendo composto di anima eterna e di corpo corruttibile, per cui “necesse est hominem sapere utranque naturam”, partecipando così al suo “duplice fine” provvidenziale: quello della “beatitudine in vita” presso il “paradiso terrestre”, cui si giunge “per phylosophica documenta”, e quello della “beatitudine eterna”, che consiste nella “fruizione divini aspectus”, per conseguire la quale non bastano “le umane virtù morali e intellettuali”, ma vi si giunge “per documenta spiritualia que humanam rationem trascendut”, per cui necessita all‟uomo che operi “secundum virtutes theologicas” della “fede, speranza e carità”, l‟ausilio imprescindibile della “illuminazione divina”, l‟unica che possa condurre l‟uomo al “paradiso celeste”.735 Fini diversi cui si giunge “per diversa media”. La prima “beatitudine” si

735 Ivi, III, XV, 18-38, pagg. 272-273.

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consegue, come abbiamo visto, “per via filosofica”. Ma ciò che più interessa è che lo strumento che a tal fine terreno Dante adotta, mutuandolo dalla antica sapienza dei filosofi pagani, è a noi fornito “ab humana ratione”, ossia da quel patrimonio di pensiero pre-cristiano contro il quale la predicazione evangelica ha dovuto sostenere una lotta strenua per affermare quei principi di “verità soprannaturale” che lo Spirito Santo, i profeti, il Cristo, i suoi discepoli e gli apologisti hanno rivelato all‟umanità.736 Ma tanto il patrimonio di saggezza filosofica che quello di verità spirituale, sarebbero rimasti inefficaci per la “humana cupiditas” senza l‟intervento di una forza raffrenante la “vagante bestialità” degli uomini. Tale azione katechontica viene esercitata congiuntamente, sia pure con fini diversi in ragione della rispettiva natura, tanto dalla guida del Sommo Pontefice, “qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam”, che dall‟Imperatore, “qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret”. E mentre la guida pontificale tende alla beatitudine eterna degli spiriti, la guida secolare del romano Principe tende a garantire al genere umano di “stare in pace” nel godimento della libertà sedando le allettive della cupidigia.737 Ciò vuol dire che sia l‟obiettivo terreno che il fine celeste non sono conseguibili naturalmente dagli uomini, i quali sono per natura predisposti a sopraffarsi reciprocamente, soccombendo alla loro istintiva cupidigia. Ma questa antropologia pessimistica parte dall‟assunto che l‟essere umano abbia un fondamento di natura, sul quale incide sia la verità di ragione che quella spirituale. Ciò vuol dire che la posizione mediana dell‟uomo tra i due emisferi temporale ed eterno non è garantita né dalla natura né da Dio, ma è puramente potenziale e suscettibile di pervenire a realtà solo grazie alla guida terrena del Papa e dell‟Imperatore, che evidentemente sono gli unici a godere di quella posizione mediana in quanto direttamente ispirati da Dio. Ma se così fosse, come potrebbe l‟uomo affidarsi alla ragione naturale per conseguire sia il fine terreno (naturalmente non garantito) e sia il fine trascendente (conseguibile solo a seguito della Rivelazione e

736 Ibidem, 39-43, pag. 274.

737 Ibidem, 50-55, pag. 274.

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dell‟opera dei testimoni della fede). Se basterebbe questa considerazione a revocare in dubbio l‟ipotesi della sufficienza assegnata alla ragione umana per i fini terreni, ancora più decisiva è la riserva circa la congruità dello strumento naturale, la ragione appunto, nello stabilire la destinazione, le modalità e le forme della salvezza spirituale dell‟uomo. Infatti, se la stessa ragione naturale non è servita all‟uomo per superare duraturamente la sua condizione ferina, tanto che la “pace” rimane ancora un obiettivo condendo, e la Rivelazione, pur necessaria a far rinascere il nuovo Adamo dalle ceneri del peccato originale, non è servita a redimerlo, come può dipendere anche la redenzione spirituale dalla “pace” politica garantita dall‟Imperatore? Il quale diventa, nella prospettiva politologica dantesca, l‟alter ego, quale mediatore naturale designato direttamente da Dio, del Cristo mediatore spirituale. Con la differenza di non poco rilievo che la destinazione spirituale è costata al Figlio di Dio la passione in croce, nonostante l‟annuncio profetico e scritturale, mentre la designazione del Potere politico, scaturita per deduzione logica dalla mente umana, la stessa che non ha saputo riconoscere il Cristo e l‟ha condannato a morte, comporta da sempre incontrastato riconoscimento universale e unanime gloria mondana. Disparità troppo evidente per essere sottaciuta dalla stessa foga apologetica del fautore fiorentino, il quale, dopo aver ribadito di “aver raggiunto la meta agognata”, avendo esposto la “enucleata veritas” circa la funzione del Monarca necessaria “ad bene esse mundi”, ammonisce il Cesare cristiano con quella “reverentia” dovuta a Pietro quale “primogenitus filius debet uti ad patrem” perché, essendo stato designato da Colui che solo è “prefectus” e “omnium spiritualium et temporalium gubernator”, lo illumini nella espletazione del suo “offitium”.738 In gni caso, al di là del formale rispetto reverenziale per il Vicario di Cristo, la proposta ideologica di Dante anticipa in ambito cattolico la dissoluzione dell‟unità sincretistica della dogmatica cattolica con la filosofia greca, in nome di quella tradizione imperiale romana che proprio la Chiesa costantiniana ed ellenistica aveva inteso riconvertire al disegno escatologico cristiano quale occasione provvidenziale della

738 Ibidem, 74-86, pag. 275.

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universalizzazione del messaggio evangelico. Ma proprio la considerazione politica del tema della evangelizzazione, quale proposito di conversione collettiva di intere nazioni, anziché di singole anime, travisando il senso originario del messaggio cristiano, ha offerto l‟adito alla prospettiva secolaristica della dissoluzione teologica che Dante conduce alle sue più coerenti conseguenze teoriche, assegnando a Cesare una funzione di contenimento katechontico dell‟anomia sociale, altrimenti inevitabile in considerazione della natura originariamente polemica della convivenza umana. Da questa originaria condizione naturalistica, riabilitata teoricamente da Dante, consegue il primato politico di Cesare su ogni prospettiva spiritualistica, la quale, per il suo carattere deontologico e meramente desiderativo, incontra il suo limite strutturale sul fondamento ontologico della natura dell‟animale politico uomo. il creazionismo cristiano, conservando all‟uomo un ruolo, sì dominante, ma entro però una struttura omogenea di sua sostanziale dipendenza dalla Natura, ne inscrive il destino terreno entro le coordinate naturalistiche del pensiero politologico greco, rispetto al quale l‟innesto fideistico crstiano apparve, a partire dall‟umanesimo, una superfetazione teologica non essenziale, e perciò rimuovibile al fine di ricondurre alla originaria purezza classica il genuino pensiero antico. In tal senso, la tradizione romanistica, che la teologia politica agostiniana aveva connesso funzionalmente al disegno provvidenziale, sollevandola, diversamente dal persistente stigma anti-ebraico della cultura cristiana, dalla responsabilità delle persecuzioni dei martiri della fede, tornava con Dante a costituire la conditio sine qua non della pacificazione universale interna all’orbe cristiano, e pertanto assumendo una importanza, non più solamente funzionale al disegno escatologico cristiano, ma finalistica e necessaria peciò alla stessa possibilità storica della sua realizzazione effettuale. La trasformazione dello strumento politico imperiale nel fine della pacificazione universale del mondo cristianizzato, ripropone in chiave moderna quella tipica rielaborazione del Mito cosmogonico operata

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dalla filosofia greca739 a premessa teoretica della definizione dell‟orizzonte politico come realtà antropologica ontologicamente intrascendibile dell‟esperienza umana, portando in evidenzia, al di là di ogni espicita intenzione di Dante, le conseguenze ideologiche del riduzionismo teologico romano-alessandrino della predicazione spiritualistica di Cristo a religione dello Stato cristiano, un ossimoro la cui contradictio in adjecto esautorava di ogni portata metafisica ed esistenziale la distinzione tra la realtà di Cesare e la verità di Dio sulla quale si basò invece il messaggio evangelico, conducendo di conseguenza la Chiesa e lo Stato a scontrarsi come rivali per l‟egemonia nel mondo cristianizzato. Una rivalità tutta politica che aveva come posta il Potere. Se l‟autorità ecclesiale aveva buon gioco di vantare su quella secolare il fine escatologico della predicazione cristiana, il Potere statale aveva a sua volta ragione nel difendere le sue prerogative politiche entro l‟orizzonte mondano che la Chiesa stessa aveva eletto come campo fenomenologico delle sue ascendenze spirituali. L‟esito culturale di questo scontro epocale, che dall‟editto di Costantino è giunto sino all‟avvento dei totalitarismi del XX secolo precedenti la seconda Guerra mondiale, è stato la consumazione, dopo la sua plurimillenaria esaltazione, della prospettiva metafisica storicistica dell‟esperienza dell‟uomo come animale politico, pensata dal razionalismo greco e universalizzata dalla teologia cristiana, che quel pensiero ha reso “cattolico”. Come la Trinità rappresentata dal Masaccio, la teofania dantesca di un Impero cristiano era supposta poggiasse sulla terra, sulla regalità politica, la cui immagine “fosse puramente umana e di cui l‟uomo, puro e semplice, fosse centro e misura”, sia pure “in tutte le sue relazioni con Dio e l‟universo, con il diritto, la società e la città, la natura, la conoscenza e la fede”.740 Ma proprio a tale esigenza di integrale

739 “La storia della filosofia greca va considerata quale processo di progressiva razionalizzazione dell‟originaria concezione religiosa del mondo, basata sul mito”: W. Jaeger, Paideia (1944), Milano, 2011, pag. 287. 740 E.H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology (1957), tr. it., Torino, 1989, cap. VIII, “La regalità antropocentrica: Dante”, pag. 387.

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“humana civilitas” non potevasi costituire una figura sovrana di un “quasi nocchiero” che non fosse stata concepita “a perfezione della universale religione de la umana spezie [il cui] officio per eccellenza Imperio è chiamato […] però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento […] E così a chi questo officio è posto è chiamato Imperadore […] e quello che esso dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui prender vigore e autoritade”. Infatti, “lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice”. Ed essendo risaputo che “quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di esse conviene essere regolante, ovvero reggente, e tutte l‟altre rette e regolate”.741 La “universale religione” del genere umano di cui parla Dante, ossia il Cristianesimo, necessita di uno strumento terreno che, pur limitatamente alle possibilità insite alla ragione umana, segnatamente quelle di natura morale, sia guidato funzionalmente alla bisogna. Ed è a tal fine universalistico che necessita la figura dell‟Imperatre quale “cavalcatore de la umana volontade”.742 Considerando però che la volontà umana non è, come quella divina, onnipotente, essa abbisogna dell‟assistenza provvidenziale di Chi opera “colà dove si puote”, ragion per cui l‟Imperatore non può rappresentare il solo Potere dello Stato, secondo la pur riferita dottrina aristotelica, e dunque la teoria del cristiano Dante “va interpretata in senso cristiano”.743 In un senso, cioè, comprensivo della duplice natura umana, naturale e divina, che la sovranità imperiale non può compiutamente rappresentare extra officium suum. Pertanto, l‟accenno in chiusa alla paternità papale non è un mero omaggio retorico dell‟autorità secolare dell‟Imperatore all‟autorità spirituale del successore di Pietro, ma, sia pure alquanto maldestramente, implica una indispensabile correlazione tra fides et ratio che, concentrata sul solo

741 Dante, Convivio, Lib. IV, IV. Corsivo nostro. Dante riprende il termine “nocchiero” dalla tradizione patristica, che indica Cristo come . Ved. p. es. Atanasio, Contro i pagani, 40, 14 e, in riferimento all‟imperatore cristiano, Eusebio, Vita di Costantino, IV, XIV, 1. 742 Dante, Convivio, Lib. IV, IX, 10. 743 V. Frosini, Kelsen e Dante (1965), Introd. a H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. XVII.

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versante ecclesiale, sfocia in una assurda, e per Dante insostenibile, negazione della ragion pratica, ossia della stessa volontà etica dell‟uomo in quanto animale politico ovvero razionale. Questa identità antropologica, retaggio del pensiero filosofico-politico classico, assunta quale sostrato orignario e ontologico, della natura umana, costituisce per Dante la legittimazione, attraverso la considerazione della Natura, e dunque anche di quella umana, come creazione divina, della funzione del filosofo (laico ma cristiano) entro l’ambito della civiltà cristiana, essendo la realtà naturale dell‟uomo tutt‟una con le sue facoltà razionali, che dunque non possono essere estromesse a favore di una esclusiva considerazione della parte spirituale dell‟uomo integrale. A ben considerare, l‟esaltazione dell‟ufficio imperiale non è concepita ad exludendum dell‟ufficio papale, ma semmai in senso integrativo. Il carattere apologetico del trattato a favore della funzione imperiale va rapportato alla determinazione opposta da parte ecclesiale di sminuirlo in senso meramente servente, privandolo cioè di quella dignità morale derivantele dalla originaria duplice costituzione della persona umana, e che soltanto l‟autonomia dall‟autorità ecclesiastica poteva garantire. Come giustamente notato a proprosito da Frosini,

non vi è, dunque, secondo Dante, un parallelismo tra Stato e Chiesa, come potè concepirlo il liberalismo ottocentesco […]; ma non vi può nemeno essere contraddizione di funzioni tra i due organismi, poiché ognuno di essi dovrebbe procedere in una dimensione diversa, orizzntale per l‟uno, verticale per l‟altro, e il punto d‟incidenza fra i due, si potrebbe quasi dire il punto di fusione, è nella persona umana.744

Tal “punto di fusione”, per le sue caratteristiche composite, non può coincidere, come invece crede Frosini, con

un ideale di humana civilitas [che] costituisce il corrispettivo della politéia aristotelica [che sia] l‟attributo proprio dell‟uomo, il quale, nella sua vita terrena, deve essere necessariamente cive, per distinguersi dagli animali e

744 V. Frosini, Loc. cit., pag. XXIII.

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dagli angeli, gli uni privi di ragione e perciò incapaci di libertà, gli altri perfettamente liberi perché perfettamente ragionevoli.

745 Infatti, il “corrispettivo” cristiano alla civitas classica e pagana non può essere la polis greca pensata secondo il modello aristotelico, ma bensì un organismo che, per un verso, incarni e perpetui l‟universalismo giuridico della civiltà di Roma, sede imperiale, e per l‟altro verso rappresenti e realizzi la missione spiritualistica universale della Chiesa cristiana, che non a caso nella stessa Roma imperiale ha la sua sede storica. Il “corrispettivo” romano e cristiano dl modello greco classico è appunto la Monarchia imperiale della civiltà cattolico-romana, sintesi di sapienza giuridica e potenza politica romane, e di spiritualità cristianocattolica. In tal senso, Dante non è, secondo la definizione del Frosini, un “umanista politico”, come poteva esserlo Cicerone o Machiavelli, ma un umanista cristiano, e dunque aperto al trascendente non in senso meramente appositivo, alla maniera di Carlo Magno o di Napoleone, né meramente oppositivo, alla maniera degli Hohenstaufen di Svevia o di Filippo il Bello di Francia o di Enrico VII di Lussemburgo, che tante speranze aveva acceso in Dante, per intenderci, ma nel senso precipuo

745 Ibidem, pagg. XXIII-XXIV. Anche E.H. Kantorowicz attribuisce a Dante una accezione aristotelico-naturalistica del termine di “humana civilitas”, riponendo “sotto il medesimo denominatore paradiso terrestre e paradiso celeste, come i due fini dell‟umanità”: Id., I due corpi del Re, cit., pagg. 181-182. Ma resta difficile stabilire in Dante un quid pro quo tra i due fini. Infatti, il “re”, cioè l‟aristotelico governo paterno (Pol. 1259b), è la “testa del regno”, cioè il capo morale, del corpo politico, che, come i membri della famiglia, liberamente lo riconosce tale. Vi è quindi tra il capo morale che detiene il Governo del corpo politico, e questo corpo un rapporto carismatico simile a quello del vescovo con la sua Chiesa, il cui modello trascendente è Cristo, “sposo della Chiesa, capo del corpo mistico e corpo mistico egli stesso”: Ivi, pag. 187. L‟omologia tra il corpo mistico e il corpo civico si stabilì mercè il concetto di unità ideale (non spirituale) del molteplice empirico, e la conseguente razionalistica identità, non necessaria né implicita all‟accezione trascendente spiritualistica. Il principio identitario o del rispecchiamento dell‟ideale col reale è razionalistico e di origine idealistica, ma fu il naturalismo aristotelico che gli assegnò una accezione sociologico-politica che s‟impose intellettualmente a seguito della ricezione teologica nel De regimine principum, e che identificò il Governo morale (auctoritas regalis) col Potere politico (dominium politicum). L‟unità carismatica diventa unione giuridica e il corpus mysticum del popolo è quello “raccolto e ridotto ad uno dal diritto”: Ivi, pag. 192. 357

della visione cristologica dell‟unità concreta di natura e di spirito nella stessa ed unica persona umana. In base alla quale visione, giusta la considerazione del Peterson, non si sarebbe potuto procedere a quella riduttiva traslazione di senso secolaristica, che invece storicamente procedette nella teoria politica moderna, come notato da Schmitt. E procedette per la stessa ragione per la quale Dante si rivolse all‟autorità del magistero antico per perorare la sua causa futura, ossia per il ritenimento pregiudiziale che l‟uomo fosse anzitutto e originariamente animale politico e, in quanto dotato di parola, razionale, e che solo a seguito della predicazione cristiana egli abbia potuto assumere un connotato spirituale. Tale credenza antropologica, sopravvissuta alla fine dell‟Impero romano, operando un sincretismo tra la fede nella realtà spirituale dell‟uomo e l‟antico naturalismo razionalistico pagano, ha concepito la visione cristiana come una superfetazione idealistica di carattere mitico, che poteva essere asportata come la scorza dal gheriglio, lasciando intatta la classica concezione fondamentale, quella unicamente vera e rapportabile alla nostra tradizione scientifica della vita politica. Di tale strumentazione concettuale si è avvalso anche Dante per giustificare, a colpi di sillogismi, la razionalità di un fondamento di fede, inteso come credenza religiosa e non come premessa fondamentale di ogni ragionamento onto-logico. Premessa creativa, e tutta umana, del senso della realtà, altrimenti in-possibile in ambito naturalistico, nel cui orizzonte non c‟è trascendimento della vita biologica ma solamente lotta e sopraffazione per la vita stessa. Considerare, alla maniera antica, l‟esperienza umana come una variante razionale della comune esperienza delle altre specie naturali, faceva del Cristianesimo una variante tra le culture umane di tipo religioso, e niente più, assorbendo il suo principio di Verità nel vortice diveniente del nichilismo storico, che rendeva il senso cristiano dell‟eterno una superficiale superstizione fideistica, casualmente giunta, per una serie di fortunose circostanze occasionali, a offrire un senso complessivo della storia umana, altrimenti in sé assente. E una volta giunto all‟obiettivo storico di averla affermata, il Cristianesimo doveva approntare i mezzi naturali per conservarla, e dunque organizzarsi in potenza imperiale universale. Da qui la teoria dantesca della Monarchia cristiana, la quale, concepita, sulla falsariga dell‟Impero romano, nei termini di una entità di Potere universale legittimato dalla religione cristiana, rappresenterebbe un sine nomine monstrum ancora più terrificante della 358

Chiesa romana, perché intrinsecamente totalitario in senso politico contemporaneo. Ma l‟intrinseco aspetto mostruoso del progetto teorico dantesco non riposa sulla opportunità di una pace universale tra i popoli, che rimane l‟auspicio morale sempre attuale della civiltà cristiana, bensì nell‟universalismo razionalistico di una costituzione politica accentrata su una unica fonte sovrana di Potere. Infatti, è il concetto del Potere che di per sé, astratto dalla realtà concreta delle condizioni sociali degli uguali subalterni, delinea una prospettiva volontaristica di un dominio politico di carattere decisionistico, che tende a produrre le condizioni della sua affermazione a scapito di ogni resistenza culturale, religiosa e morale, esautorando di principio ogni forma tradizionale di Governo carismatico della società, esercitato dalle locali aristocrazie storiche, tradizionali mediatrici dei princìpi valoriali di socialità. Il Potere, di per sé, una volta assiso sui soli suoi assoluti fondamenti di legittimazione razionale, trascrive nelle sue cifre omologanti di dominio esclusivamente politico ogni raltà qualitativamente diversa, assumendola in funzione di quel dominio stesso, che diventa perciò strumento e fine del suo esercizio. Una organizzazione di Potere mondiale, intieramente lasciata alla sovranità della volontà umana, avrebbe sicuramente carattere demoniaco, fagocitante per principio e per prassi, curate soltanto della propria egemonica espansione. Un Potere siffatto, emancipato razionalisticamente da ogni fondamento di fede trascendente la propria efficace potenza pratica, concepito alla stregua della proiezione politica della volontà di una soggettività teoretica assolutizzata, per il suo carattere puramente ed essenzialmente naturalistico, non potrebbe giammai essere rappresentativo di una visione del mondo escatologica di ispirazione cristiana. E pertanto dobbiamo ben penetrare nell‟intendimento di Dante, per poter distinguere tra il fine che egli intenzionalmente persegue di una stabilizzazione ecumenica del mondo, e gli strumenti concettuali da lui utilizzati in senso funzionale al disegno di una universale cristianizzazione dell‟umanità. Strumenti concettuali, legati ai limiti della finitezza della ragione umana, che però non devono inficiare, in cosiderazione della loro insufficienza, travisandolo, il senso spirituale della sua prospettiva cristiana, “coartando” la sua “scrittura” letterale in guisa simile a quella in cui soleva applicarsi, secondo il

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Poeta, l‟Acquasparta, e stigmatizzata nel Paradiso.

746 Una considerazione preliminare in ogni caso va fatta, ossia che l‟intenzione di Dante non era quella di una erudita riabilitazione, in chiave più o meno teologica, di antiche teorie politiche, ma di “intemptatas ab aliis ostendere veritates”,747 ossia di proporre al mondo “verità” inusitate, originali, e dunque profetiche, sia pure nei termini di quell‟aristotelismo che, minacciando la cultura cristiana del tempo di nuovo naturalismo pagano, veniva anche da Dante rivisitato in chiave ermeneutica cristiana, come già dai maggiori teologi coevi, quali Bonaventura e, soprattutto, Tommaso, preoccupato di rendere la filosofia del Greco più conforme alla tradizione cristiana che storicamente fedele. 748 In questo senso, anche Dante ricerca un dialogo con gli auctores della paganità classica per fruire della loro riconosciuta autorità morale e scientifica al fine di tracciare un confine di civiltà insuperabile da parte di qualsivoglia sconsiderata politica pontificia di egemonia universale tendente, come quelle di Bonifacio VIII e di Celestino V, a “indebolire l‟Impero che teneva lontano l‟Anticristo”, opponendosi in funzione katechontica alla dissoluzione dell‟ordine costituito.749 Il concetto d‟ordine non è relativo alla sola forma giuridico-istituzionale della società cristiana, ma imprescindibilmente anche e contestualmente alla forma morale-spirituale della coscienza collettiva. Così come la Trinità, vien in mente di dire, è consustanziale in ogni suo atto da parte di ogni singla Persona, parimenti l‟opera umana, in virtù della duplice natura dell‟uomo, deve tener conto di ogni elemento della sua comune essenza originaria. Non potrebbe, dunque, sussistere la parte spirituale senza l‟ordine civile, né questo senza il fine della salvezza spirituale dell‟uomo eterno. se ciò è chiaro, emerge con nitidezza anche il senso della destinazione unitaria, mono-archica, della città terrena cristianamente ispirata; che non vuol dire ordinata gerarchicamente a favore di una delle due autorità, spirituale e secolare, ma in senso

746 Dante, Paradiso, XI, 37-39; XII, 124-126. 747 Dante, Monarchia, Lib. I, I, 11, pag. 134. 748 Ved. H. de Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, tr. it. cit., vol. I, pag. 173. 749 Ivi, pag. 171.

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convergente e armonico tra le due potestà, entrambe destinate da Dio a favore dell‟umanità, per cui il loro dissidio contravviene al disegno provvidenziale, a detrimento complessivo dell‟uomo. E come la sapienza giuridica romana aveva inserito nella sua l‟esperienza teoretica greca, inverandola in una superiore consapevolezza dell‟ordine politico cittadino in quello imperiale, così la sapienza cristiana doveva ereditare quella imperiale romana in vista della superiore creazione dell‟ordine cattolico, inverando spiritualmente l‟idea d‟Impero pagana nel cristiano ideale di Monarchia universale. Combattere, dunque, l‟ordine naturale, preesistente alla stessa Rivelazione, che aveva caratterizzato la cultura classica, significava minare la soglia minimale di quella cività antica sulla quale la Provvidenza aveva ritenuto fondare la stessa realtà evangelica facendovi nascere il Cristo redentore. Questa barbarie caotica, che il dissidio del papato contro l‟Impero e gli Stati sovrani particolari alimentava e favoriva, andava contro il disegno provvidenziale e pertanto andava denunciata e combattuta, a favore della potenza katechontica dell‟Imperatore cristiano. La posizione ghibellina di Dante va intesa non in senso puramente politico, favorevole all‟autonomia cittadina o statuale contro l‟ingerenza papale, come se fosse una posizione partigiana occasionalmente assunta per reversibili ragioni contingenti, ma va intesa nel più profondo significato, legato alla costituzione di un ordine mondiale garante della pace tra tutte le forze interne alla società cristiana. Non solo, dunque, pace come ordine politico-militare garantito dal Potere, ma pacificazione religiosa degli animi, in considerazione della comune destinazione spirituale di tutti gli uomini di fede cristiana. Ciò vuol dire che sia la Chiesa, che nel papa trova il suo referente autorevole più alto, ma che esprime una realtà varia e complessa di cui la funzone apostolica rappresenta l‟unità simbolica, che l‟Impero, struttura che nell‟Imperatore ha il suo vertice istituzionale ma che comprende in sé una molteplicità di realtà politiche minori che ne dipendono, sono enti mondani solo idealmente elementari ed unitarii, ma storicamente complessi, ognuno dei quali comprensivo di una articolazione particolare che costituisce la sua esperienza esistenziale concreta e non eliminabile. Sicché, da una parte, la Chiesa, una apostolica e cattolica, deve poter includere in sé anche le realtà morali e intellettuali cristiane, e quindi ecclesiali, non classificabili strettamente in senso ortodosso alla linea teologica della Curia e alla sua costituzione 361

e direzione ecclesiastica; dall‟altra parte, l‟Impero, in considerazione della sua stessa estensione universale, non potrebbe non tener conto delle realtà locali particolari in cui si estende la sua comprensiva giurisdizione, evitando perciò di soffocarle, privandole della tradizionale fisionomia culturale e potenziale consistenza politica. In tal modo, sia la Chiesa che l‟Impero troverebbero il sostegno, e non l‟avversione, delle forze minori locali, che nel magistero spirituale e nella direzione politica troverebbero il loro motivo di solidarietà e di difesa comune, e da tale comunanza spirituale e di forze sorgerebbe la realtà unitaria della Monarchia, assommante il Potere politico dell‟Impero e il Governo morale della Chiesa. Non è difficile rinvenire in questo disegno teologico-politico avveniristico una eco profetica del “tempo sotto la spirituale intelligenza” annunciato da Gioachino da Fiore. A tale conato profetico si deve l‟annuncio dantesco delle cose inusitate all‟esordio del Monarchia, come la stessa chiusa del trattato, col suo accenno alla riverenza filiale dovuta dal Potere imperiale al Governo del padre spirituale. Entrambi dovrebbero, anziché contendersi mutualmente la rispettiva autorità, cooperare armoniosamente per realizzare in terra il fine comune impersonato da Cristo, che rappresenta l‟unità eternamente vivente di vita attiva e vita contemplativa. La coesistenza dei due elementi, naturale spirituale, impedisce il dominio di uno sull‟altro, come pure il passaggio progressivo di uno ad altro “stato” ontologico del mondo, per cui il Monarca dantesco non rappresenta una autorità terza rispetto al papa e all‟imperatore pagano, ma intende costituirsi come la loro unità concorde. Tale “concordantia ex veteribus et novis historiis” è una traslazione in chiave filosoficopolitica della “assignatio concordiae duorum testamentorum” della Expositio in Apocalypsim e, ancor di più, del Liber concordiae novi ac veteris testamenti di Gioachino, in cui similmente al “calabrese abate Gioacchino, di spirito profetico, dotato”,750 Dante procede a una “lettura di una storia „moderna‟ attraverso una storia antica”, 751 [condotta con lo strumento della ragione e l‟ausilio della fede, secondo uno “spirito di intelligenza” in cui il senso simbolico-anagogico poggiava sempre su

750 Dante, Paradiso, XII, 139-141. 751 H. de Lubac, Loc. cit., pag. 57.

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fondamenti letterali. L‟esito di tale rilettura della civiltà classicocristiana è la prefigurazione di una condizione futura dell‟umanità, ovvero, come direbbe Gioachino, di un “terzo stato”, in cui si giungerà alla organica stabilizzazione dell‟ordine politico e di quello religioso, dopo la frattura dell‟organicismo classico operata dalla predicazione cristiana, e il periodo di transizione dell‟età costantiniana. La nuova età, compiendo la pacificazione universale col superamento di ogni discordia tra Stato e Chiesa, realizzerà nel tempo lo spirito del “Vangelo eterno” dell‟Apocalisse di Giovanni dopo l‟ “ultimus Antichristus”, che però non abita nella “sinagoga dei superbi”, ma nella stessa Roma apostolica. I due capi, spirituale e secolare, della nuova Monarchia universale sono la trasfigurazione dei due angeli dell‟Apocalisse (14, 17-18) posti a salvaguardia, l‟uno, della dolcezza mosaica e, l‟altro, della vendetta di Elia.752 Rispetto alla rappresentazione “in termini generali e soprattutto negativi” della “pace e della verità” che regneranno per Gioachino “su tutta la terra”,753 la “giustizia perfetta” e “la libertà piena” preconizzate invece da Dante hanno una fisionomia positiva e mondana, rappresentata in chiave storico-politica moderna, dove il diritto terreno prende il posto della contemplazione mistica auspicata dagli “spirituali”. Il nuovo assetto monarchico universale prefigurato dal Fiorentino non è dunque quel “regno dello Spirito” annunciato da Giachino, e che avrebbe incontrato, se riproposto, gli anatemi teologici delle maggiori dottrine ortodosse del suo tempo, ma è un regno infra-storico che avrebbe compiuto però la storia cristiana, nel senso del processo logico della sua fenomenologia terrena. E proprio questo carattere mondano e storico della prospettiva escatologica dantesca, le dà una connotazione tipicamente ideologica, e dunque utopica, che sposta il “grande sabato” del “novissimum tempus” dal piano strettamente spirituale, entro il quale era stato concepito dalla tradizione teologica cristiana, al piano dell‟ordine giuridico che nella tradizione romanistica aveva trovato il suo punto di coagulo con l‟escatologia cristiana. Ed è la stessa prospettiva infra-storica del disegno teologico-politico dantesco a disegnare per primo il nuovo orizzonte della civiltà cristiana nei

752 H. de Lubac, Loc. cit., pagg. 65-66. 753 Ivi, pag. 66.

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moderni termini politicistici che resteranno topici nella cultura secolarizzata dell‟Occidente, che all‟avvento messianico della “Parusia” sostituirà il rivoluzionario regno post-istorico della “libertà” dal Potere, ormai deprivato di ogni finalismo spiritualmente escatologico e quindi non più giustificato dalla fede religiosa che lo legittimava. Rispetto all‟ “agostinismo politico” professato dai teologi di Bonifacio VIII come l‟Acquasparta, tendente alla “temporalizzazione del potere spirituale, trasformato in un potere supertemporale”,754 l‟ideologia dantesca si pone sul fronte opposto, dove il concetto di Chiesa, intesa come repubblica cristiana, viene sostituito con quello di Monarchia, intesa come regno cristologicamente unitario, anche se non univoco, della concordia dei due poteri-nature umani. Ma anche rispetto alla cristianità concepita dagli spirituali “in typo Mariae”, la visione imperiale dantesca conserva, nel suo tratto cristologico molto accentuato, una forza suggestiva tenacemente umanistica. L‟umanesimo, che costituisce l‟espressione secolaristica della posizione cristocentrica della fede cristiana, è l‟orizzonte culturale dell‟età moderna, in quanto età della ragione, ossia dominata dal principio razionalistico per cui soltanto il factum sia verum. E i facta sono il mondo, i prodotti dello homo faber. Essere in mundo significa “essere disponibile”. Un prodotto è “disponibile” in quanto suscettivo di modificazione, di alterazione, ossia oggetto della umana volontà. L‟Umanesimo è l‟esaltazione della voluntas come forza progettuale del mondo, della “storia” umana. Storicismo e umanesimo sono aspetti comuni allo stesso orizzonte di coscienza moderno. Il mondo umano è fatto dalle cose prodotte dall‟uomo, e il mondo-dellecose è quello in cui vige la ragione produttiva di esse, il fine mondano della vita umana. La realtà mondana è quella ripulita (munda) di ogni rivestimento metafisico ultraterreno, divino. La ragione delle cose del mondo umano è la politeia, così che la storia dell‟uomo, concepita come sviluppo temporale di vicende umane legate ai rapporti di produzione, è la narrazione di quei processi produttivi di cose, affrancati da ogni motivazione soggettiva. La ragione, come pensiero sistematico delle cose del mondo come enti oggettivi e reali, è l‟orizzonte di coscienza diverso da quello della fede,

754 H. de Lubac, Loc. cit., pag. 79.

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che è pensiero di ciò che non è nel mondo e che per il mondo è niente, non-ente. Il niente è l‟in-finito e l‟in-determinato che è nella soggettività che per la storia razionalistica è irrilevante, proprio in quanto in-visibile, in interiore homine. Non ha senso, ossia è privo di fine, un pensiero di ciò che non appare alla vista, che non è un fenomeno mondano. La mondanità ab-solutizzata da ogni relazione col mondo della in-apparenza è l‟area delle relazioni politiche, entro la quale l‟uomo cerca e lotta per ottenere un suo spazio di visibilità oggettiva. Lo spazio politico è quello delle relazioni oggettive, tra oggetti fisicamente apparenti e dotati di volontà, esseri volenti. La volontà dell‟uomo razionale e dunque politico si esprime con la parola (logos). Il pensiero logico è quello che disputa sulla ragione delle cose prodotte dall‟uomo. Storicismo, razionalismo e umanesimo sono aspetti della stessa visione del mondo come realtà del tempo dell‟uomo. L‟incarnazione dell‟Infinito divino nell‟uomo ha sacralizzato le vicende umane, in un duplice senso. Nel senso della riduzione identitaria della eterna esperienza umana a storia profana, cioè a relazioni politiche, ovvero nel senso della relativizzazione del mondo dell‟homo faber alla sua dimensione finita e transeunte. Il primo senso, appartiene precipuamente alla civiltà greca, che concepisce l‟attività politica come l‟orizzonte esistenziale della immortalità memorabile, alternativo a quello, ritenuto fantastico dalla ragione logica, della narrazione epica del Mito. Il secondo senso appartiene, invece, alla concezione spiritualistica cristiana, per i quale il mondo è penetrato dallo spirito (pneuma) divino che lo ha creato come Suo prodotto, e perciò indisponibile dall‟uomo. Rispetto all‟Impero di Roma, voluto da Dio per i Suoi disegni, la Monarchia cristiana sarebbe il prodotto consapevole dell‟uomo artifex mundi ispirato da Dio. Nel caso dell‟unificazione romana del mondo, l‟uomo è agito dalla volontà divina, pur credendo di servire il solo potere di Roma. Nel secondo caso, invece, l‟uomo sa di servire Dio operando con la propria cosciente volontà di potenza. La differenza è sostanziale. Infatti, nel primo caso, ogni rivolta a Dio sarebbe, in quanto inconsapevole, impossibile, per cui l‟uomo pagano, per quanto potente verso gli altri uomini, era soggiogato dal suo stesso destino di pedina involontaria della Provvidenza divina. Nell‟altro caso, invece, l‟adesione consapevole al disegno provvidenziale implica la fede nella giustezza della volontà divina, ossia la libertà di credere in Dio. Ciò 365

vuol dire che l‟ignoranza di Dio è la condizione essenziale per servirLo, mentre la Sua conoscenza comporta il rischio di tradirLo. Dio, incarnandosi, introduce nella coscienza umana il senso del peccato e la libertà di redimerlo attraverso la libera fede in Lui. Il senso del peccato è la coscienza non soltanto della possibilità che l‟ente non sia l‟Essere, ma anche e soprattutto che l‟unità mondiale degli enti non sia tutto l‟Essere, in quanto l‟Essere stesso non è il Tutto, che è Dio. La conoscenza di Dio coincide dunque con la coscienza del Niente come realtà più comprensiva dell‟Essere, da cui questo è estratto. Ma tale maggiore comprensibilità, a sua volta, non è una unità maggiore di enti fenomenici, ossia il cosmo celeste, con gli astri che man mano che vengono scoperti aggiungono elementi a quella unità. In termini di vicende umane, l‟allargamento del Potere politico di Roma, non soltanto trovava limite nella realtà degli altri imperi o nazioni non sottomesse, ma, quand‟anche fosse esteso all‟intero globo terrestre, l‟Impero romano non avrebbe mai potuto coincidere con l‟esperienza dell‟umanità, e per la semplice ragione che anche esso è un prodotto umano, e come tale transeunte. Per superare questo limite naturalistico, Dante, e prima di lui Agostino, intese l‟Impero romano come esso stesso provvidenziale, e dunque legato al disegno profetico dell‟avvento del Cristo, nato appunto durante il dominio di Roma su gran parte del mondo. In tal modo, anche l‟esperienza imperiale potè essere eternizzata inscrivendola nel disegno escatologico divino, mondandola di ogni concreta determinazione religiosa originaria, allotria e pagana. Ma questa rielaborazione della mitologia pagana in chiave cristologica, non è altro che una razionalizzazione della storia umana narrata dal Mito, sicché la stessa teologia della storia cristiana è la riprensa in chiave universale del programma della filosofia greca di confutare il Mito attraverso il Logos, che nel caso cristiano è appunto quello del Cristo. In tal senso, l‟espansione universale del Cristianesimo, quale fede nel Logos cristico, coincide con la razionalizzazione del mondo, di cui la Monarchia dantesca è la forma imperiale perfetta, cioè non più pagana e dunque inconsapevolmente transitoria, ma consapevolmente cristiana e dunque razionalmente coerente col progetto provvidenziale, divinamente eterno. La realtà storica della Monarchia cristiana universale, costituita sull‟accordo del Papa con l‟Imperatore, non è altro che il riflesso temporale, sul piano politico-razionale, della mistica riconciliazione 366

(Versoehnung) dell‟Uomo con Dio, del Figlio (rappresentato da Dante coll‟Imperatore) col Padre (il Papa), e del tempo storico con l‟eternità, dopo la estraneazione (Entausserung) dell‟età della Chiesa in lotta con l‟Impero. Essa inaugura l‟eone del , della vera storia dell‟Uomo come Storia escatologica della Sua immagine umana (), l‟età dell‟ “umanesimo integrale”, annunciato dai Salmi (CXXII, 1): “Ecce quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum”.755 In questo “Stato mondiale monarchico”,756 governato da un solo principe secondo un unico principio comune a tutta l‟umanità, viene inclusa anche l‟esperienza storica della civiltà greca, il suo ideale razionalistico universale, realizzato dal Cristianesimo per mezzo della scienza giuridica romana. Erede ideale e storico dell‟Imperium Romanum fu il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Il contrasto politico tra Stato e Chiesa, nella cultura medievale, poggiava sulle rispettive differenze circa la rilevanza assegnata alla vita terrena rispetto a quella spirituale, che costituiva anche la ragione della opposizione tra Cristianeimoe antichità. La conseguenza della svalutazione cristiana dello Stato a favore dell‟ordine divino predisposto per la salvezza dell‟uomo fu la “rivalutazione dell‟individuo in rapporto allo Stato”, che comportò la creazione di

una sfera di diritto individuale libera dall‟influenza statuale, inizialmente soltanto di contenuto religioso, che però, aiutata dalla concezione giuridica germano-individualistica, si allargò in quella sfera di indistruttibili e innati diritti dell‟uomo, che il giusnaturalismo del‟età moderna proclamò. L‟influsso dell‟antichità sullo sviluppo dela dottrina medievale dello Stato si manifesta in primo luogo nell‟idea di una unitaria signoria mondiale abbracciante tutti i popoli, che il declinante impero romano aveva lasciato come eredità al Medioevo.757

La rilevanza assegnata alla persona individuale anche in campo politico, comportò da parte cattolica che, a fronte della tradizionale e classica preferenza del regime monarchico, questo venisse temperato dalla

755 Cit. da Dante, Monarchia, Lib. I, XVI, 23-24, pag. 169. 756 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 19. 757 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 23. 367

elezione popolare, che costituendo il popolo come deputato al giudizio sul buon governo regale, lo faceva depositario della sua legittimità, e quindi vox Dei. Se pertanto in materia spirituale era la Chiesa che aveva la prerogativa di interpretare, con l‟assistenza della Grazia, la ragione divina, in materia politica tale spettanza toccava al popolo, il cui giudizio invece nulla contava sulla vita della Chiesa, di cui pure faceva parte in quanto “corpo mistico” dei battezzati.758 L‟aspetto singolare di tale teoria politica tomista è, non tanto l‟indiretta potestà regale attribuita dal Papa, quanto la reggenza del Potere da parte del principe, che rende il suo esercizio un mandato fiduciario multiplo, sia da parte del Papa che da parte del popolo. In questi termini il Potere, e per esso lo Stato, “entra a servizio della Chiesa”,759 anche se tale servizio non si esaurisce “completamente” in funzione del potere spirituale. Infatti, il rapporto che il Potere del principe cristiano stabilisce finalistcamente e mantiene operativamente col popolo, ne determina la sua natura profana, legata ai bisogni precipui della collettività in materia di sicurezza. Ciò comporta che, se per un verso il Potere, concorrendo alla “beatitdine celeste”, ha il compito di comandare quanto necessario a tal fine soteriologico e stabilito dall‟autorità spirituale, e dunque di essere al servizio della Chiesa, per altro verso lo stesso Potere ha il dovere di servire il popolo soccorrendne nei suoi bisogni materiali e terreni, non rientranti tra quelli spiritualmente garantiti dalla Chiesa. Ma proprio questo doppio mandato fiduciario consente al Potere di mediare tra le disinte istanze umane, quella volta alla salvezza, e quella volta alla sicurezza. In questo senso, la teoria tomista, volendo subordinare doppiamente il Potere regale alla Chiesa e al popolo, rende la sua duplice funzione il centro dell‟incontro reale tra la Chiesa e il popolo, esaltando così la centralità della vita politica nella società cristiana. Una

758 “Il fine della vita onesta che qui viviamo è la beatitudine celeste; perciò rientra nei compiti del re curare la vita onesta della moltitudine, perché concorre al conseguimento della beatitudine celeste, comandando le cose che portano alla beatitudine celeste e proibendo, per quanto è possibile, quelle che le sono contrarie. Quale sia poi la via della vera beatitudine, e quali siano le cose che la ostacolano, si conosce dalla legge divina, il cui insegnamento rientra nel compito dei sacerdoti”: S. Tommaso, De Regimine Principum, tr. it. cit., pag. 63. 759 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pagg. 28-29. 368

volta determinatasi in età moderna l‟eclisse dell‟autorità ecclesiastca sul Potere, il rapporto con la fonte di legittimazione democratica è diventato unico e decisivo, basandosi su di esso la teoria contrattualistica degli Stati nazionali. 760 Il contrattualismo trasforma il rapporto originariamente fiduciario e mistico tra il Papa e l‟Imperatore, stabilito sull‟analogia della traslazione della missione evangelizzatrice da Cristo a Pietro, dall‟Apostolo ai suoi successori, in un rapporto formalizzato che vede come parti il gerente del Potere e il suo depositario. Stabilito che il depositum potestarile è la volontà del popolo, il concessionario del Potere sovrano lo deve interpretare secondandone i termini fiduciarii, la cui identità con il mandato divino ai Papi è solo supposta ma non necessaria ai fini della validità formale della traslatio potestatis di natura politica, sicché, venuta meno la fides religiosa, e dunque secolarizzato il rapporto fiduciario tra il principe e il suo popolo, la forma legale del rapporto diventa decisiva ai fini della sua legittimazione appunto politica. Il trionfo della relazione politica nella cultura sociale e religiosa dell‟Europa cristiana moderna, ha in questi presupposti teologici la sua origine. L‟aspetto più rilevante del predominio moderno del politico sul religioso è la radicale differenza tra il concetto di conversione, proprio della sfera mistica della fede, e quello di subiezione, che sostanzia il rapporto dei sudditi co Potere. Infatti, mentre la conversione è atto individuale e legato al libero convincimento della coscienza morale dell‟uomo, la subiezione è legata alla debolezza del sottomesso al più forte che lo domina. Il primo rapporto, soggettivo e libero, è reversibile venendo meno il sentimento morale della fede, mentre l‟altro rapporto è irriversibile e indipendente dalla volontà dei subordinati, la cui libertà cessa con la costituzione del patto politico. Aver introdotto una clausola rescissoria all‟interno del patto politico tra popolo e principe, rendendo quel patto collegato a un vincolo di libertà di carattere morale, lo ha destinato, sul versante del Potere, a una consacrazione morale originariamente di carattere religioso, e sul versante dei governati a una condizione di labilità rivoluzionaria. Con la conseguenza che il Potere secolare, consacrato dal consenso popolare, diventa assoluto e

760 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 34. 369

superiorem non recognoscentem, similmente alla ratio emancipata dalla fides che, diventando fondamento di sé, trova in se stessa le sue ragioni finali. Quest‟esito nichilistico del Potere secolare, conseguente alla traslazione del senso teologico-politico originario, è dovuto essenzialmente alla ricezione delle teorie aristoteliche in ambito cristiano del Governo sociale come Potere politico, il cui fine etico di ogni cittadino è lo stesso di quello sociale di natura razionale-universale. Recepita così in ambito teologico la prospettiva naturalistica, la monarchia universale diventa la proiezione in termini di regime politico della reductio ad unum del molteplice empirico nell‟unità del concetto razionale. Per analogia, il regime monarchico che vige tra gli animali è preferibile anche tra gli uomini, sicché per Engelberto di Admont (1250ca.-1327), autore di una teoria cristiana della monarchia mondiale intitolata De ortu et fine imperii romani, anche “l‟interesse (bonum) dei singoli regni sta in rapporto con l‟interesse dell‟imperium universale, come l‟interesse privato con quello pubblico”.761 Da queste premesse discende l‟ipotesi che fosse possibile costruire una felicitas gentium identificata alla beatitudo communis, ovvero una condizione di felicità collettiva, stabilita sulla base di fondamenti razionali, tradizionalmente identificata con la virtus. Tale status perfectionis humanae vitae era conseguibile solo attraverso al costituzione di un impero universale che, “mediante ordine subjectionis”, fosse in grado di affermare e imporre coattivamente lo jus naturale che precede ogni diritto positivo dei popoli particolari, il quale ha la stessa validità per tutte le nazioni, cristiane o pagane che siano.762 Imperialismo politico e universalismo religioso vengono coniugati dal principium unitatis della metafisica greca, la cui vigenza in ambito teologico cristiano condiziona la stessa prospettiva politica, facendone il corrispettivo terreno dell‟amore che è la forza universale che “tutto move” . Questo “rispecchiamento” del divino nell‟umano è il senso profondo della traslazione secolaristica dei concetto teologici in ambito politico. La prospettiva teologico-politica unitaria, che costituisce il “supremo principio ordinatore” sia del macrocosmo che del microcosmo

761 H. Kelsen, Loc. cit.., pag. 42. 762 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 44.

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medievale,763 ha alterato il significato più profondo del sentimento cristiano della carità verso la vicenda spirituale di ogni uomo singolo, che è ognuno a suo modo e sua possibilità imago Dei. Nella prospettiva universalistica, propria della logica del razionalismo naturalistico greco, la astratta considerazione dell‟unità ideale dell‟umanità e della formazione politica statuale provoca la perdita dell‟elemento più innovativo della visione del mondo cristiana, appunto la singolarità dell‟esperienza umana, che consente al sentimento caritatevole di manifestarsi nella sua concretezza sia umana che teologale. La polemica cristica contro le leggi e l‟atteggiamento legalistico farisaico, sottintendeva la differenza tra un approccio astratto ai comandamenti di Dio e un approccio concreto alla considerazione divina attraverso l‟amore verso le Sue creature. La differenza radicale dei due approcci viene annullata dallo strumentale apparato teoretico mutuato dalla tradizione filosofica greca, che produce una rappresentazione dell‟unità cristiana del mondo in termini di sudditanza politica al Potere divino o imperiale, concependo pertanto il Regno di Cristo come un regnum concorrente e rivale a quello di Cesare. Nel campo etico, infatti, l‟analogia naturalistica tra mondo materiale e mondo morale crea l‟idea che l‟unità sia “la radice dell‟esistenza del bene”, così come “l‟esistenza della molteplicità sia la sorgente dell‟esistenza del male”, pertanto, in campo politico, “lotta e discordia sono l‟espressione della molteplicità, mentre l‟unità significa pace, concordia e tranquillità”.764 La “prima causa omnium”, cioè Dio, in cui risiede per Tommaso anche il “summum bonum”, diventa, nella prospettiva razionalistica in cui si muove la teologia cristiana del tempo, il sommo Legislatore, fornito di una Sua volontà, per cui, secondo

763 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 48. 764 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 50. “Ens enim natura praecedit unum, unum vero bonum; maxime enim ens maxime est unum, et maxime unum est maxime bonum; et quanto aliquid a maxime ente elogantur tanto et ad esse unum, et per consequens ad esse bonum”, per cui “omnis concordia dependet ab unitate que est in voluntatibus; genus humanum optime se habens est quedam concordia; nam, sicut unus homo optime se habens et quantum ad animam et quantum ad corpus est concordia quedam, et similiter domus, civitas et regnum, sic totus genus humanum; ergo genus humanum optime se habens ab unitate que est in voluntatibus dependet”: Dante, Monarchia, I, XV, 1-6, 35-42, pagg. 166 e 168. 371

Agostino, “lex aeterna est ratio divina vel voluntas Dei” (Contra Faustum), e secondo Tommaso “est aliqua lex aeterna, ratio videlicet gubernativa totius universi in mente divina existens” (Summa Theologia). Ciò che comporta che la Natura divenga lo strumento della volontà di Dio, così come la logica, che è la tecnica per conoscere la ratio mundi, è lo strumento concettuale per conoscere Dio. Razionalismo e naturalismo sono intimanente legati come la conoscenza al suo ogggetto, per cui, stabilito che la lex naturalis sia il modello dello jus humanum, anche Dante fa della legge naturale, e quindi della ratio che la costituisce, il fondamento dello Stato, stabilendo che il diritto sia “realis et personalis hominis ad hominem proportio, quae servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit”.765 Il che vuol dire che i rapporti inter-personali e quelli sociali sono omologati a quelli reali, ossia legati a una condizione oggettiva e naturale, che spinge sia la natura (inconsciamente) che lo spirito (consapevolmente) verso la loro causa prima, ovvero Dio, che è il Bene supremo e il Legislatore dell‟universo e del mondo umano. La differenza tra il principio polemico, che regola i rapporti naturali tra gli uomini, compresi quelli politici, e il principio caritativo, che inaugura una nuova consapevolezza della esistenza umana, viene nella visione teologico-naturalistica medievale del tutto annullata, a favore inevitabilmente di una cosmologia e antropologia che trovano nel modello classico il suo paradigma sapienziale, anziché la sua “follia”. E dunque il Male che deriva dai rapporti naturali diventa, nella prospettiva cristologica medievale, “privatio boni” (Tommaso) o “amor perversus, inordinatus” (Agostino), ossia inserito nella condizione di bene alla quale comunque appartiene in quanto previsto da Dio. Questa prospettiva teologica comprensiva, se ha il merito di assumere l‟alterità del male all‟interno del processo finalistico benigno della Provvidenza, rimuove del tutto la questione della conversione (metanoia) dei cuori, ossia del passaggio dal piano della finitezza, in cui si muovono le vicende umane, a quello dell‟eternità, in cui ha senso la rinuncia a partecipare alla lotta biologica per la sopravvivenza del più forte, che caratterizza anche la lotta politica tra gli uomini, ossia la vita

765 Cit. da H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 52-54.

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nel regno di Cesare. Se cristianizzare il regno di Cesare avesse voluto dire sosttuire al principe pagano un principe cristiano, allora non avrebbe avuto senso la passione di Cristo quale principe di un “altro” Regno, non concorrente con quello di Cesare, dove vige la legge della salvezza, ossia del Governo della gustizia, e non quella del dominio sul più debole, ossia del Potere del diritto. Rispetto al Governo divino, o ispirato da Dio, il Potere politico si rivolge dunque erga omnes, a prescindere cioè dalla singolarità dei destinatari delle norme ordinamentali del diritto sovrano, per cui, sul terreno della astratta vigenza del Potere, è irrilevante la condizione personale del soggetto passivo della legge, la quale si applica come se gli uomini fossero tutti uguali di fronte ad essa. La supposizione dell‟uguaglianza, che è una fictio juris essenziale alla efficienza dello stesso comando sovrano, diventa condizione reale all‟interno della rappresentazione giuridica della realtà, la quale è a sua volta la proiezione dei rapporti formali stabiliti dal topos politico, ossia dalla convenzione razionalistica per cui i membri sociali perdono la loro specificità concreta per divenire soggetti paritari nell‟agone dei rapporti politici. Ora, la universalizzazione di tali rapporti in senso imperiale deve poter astrarre dalle condizioni concrete di tutti gli uomini sottoposti al Potere monarchico, ossia deve poter esercitare una forza coattiva proporzionata al raggio di azione della volontà dell‟Imperatore, che deve sottomettere ogni altra forza oppositiva. E qui sorge un ulteriore problema rispetto all‟analogia col potere divino. Se infatti la potenza divina avesse voluto costringere anche gli uomini a servire ai suoi fini, non li avrebbe forniti di libero arbitrio, né avrebbe richiesto la loro disponibilità ad amare il prossimo anziché utilizzarlo a fini di conservazione di sé. Come non ha senso salvare un animale, sprovvisto di libero arbitrio, dal proprio destino biologico, così non ha senso destinare l‟uomo, che è provvisto del senso della libertà morale, a un destino meramente biologico. Eppure è proprio a questa reductio che tende il Potere uniformante del diritto universale, il quale, rispetto alla storia personale dell‟uomo, può risultare moralmente una summa iniuria, così come fu la crocefissione di Gesù, la cui alterità morale rispetto al diritto romano non poteva essere considerata dalla giustizia omologatrice vigente erga omnes. Di fronte alla singolarità, che è eccezionale per il diritto ma che che è invece normale per la giustizia divina, il Potere o deve ammettere la sua 373

ingiustizia, ovvero la sua impotenza morale, riconoscendo l‟autorità di un altro potere, che appunto ha giurisdizione morale, ovvero deve retrocedere dall‟esercizio della sua volontà iniqua, ammetterendo la sua impotenza volitiva. In ogni caso, tale riconoscimento implica l‟ammissione della propria limitazione, della propria falsa universalità, e dunque della impossibilità che essa sia coincidente con il Tutto, ossia con quella stessa umanità unitaria sulla quale esso vorrebe monarchicamente dominare. L‟evento cristico, manifestando alla coscienza dell‟uomo tale impossibilità, lo salva dal Potere di Cesare. Non contrapponendogli una resistenza di altro omologo Potere, ma de-finendolo come esperienza naturale, inferior rispetto alla coscienza spirituale dell‟uomo, creatura divina e non solo biologica della Natura. E la diversità, così come non si può sussumere sotto una stessa categoria ideale, non si può sottomettere al Potere politico. Da qui la opportunità morale di un Governo spirituale (justitia) dell‟uomo, che tenga conto imprescindibilmente della sua libertà, che è l‟essenza del fondamento morale dell‟uomo spirituale, ma che costituisce l‟oggetto polemico della statuizione normativa di ogni ordinamento legale, che si fonda appunto sul Potere costrittivo della volontà. La “pace” di cui parla Dante può essere garantita dall‟Impero non solo nei termini di una regolamentazione giuridica dei rapporti sociali finalizzata alla preservazione dell‟assetto politico (ordinatur ad felicitatem), cioè a uno scopo terreno, economico ed eudemonistico, sia pure esteso a un  universale, comprensivo di tutta l‟umanità. Occorre a complemento dell‟ordine civile la disposizione “secondo lo vero” di una “umana civilitade”, appunto quella justitia che non può originarsi spontaneamente, per natura, ma deve procacciarsi, come abbiamo visto, con “l‟aiutorio d‟alcuno” che sia riuscito a superare la dimensione naturale raggiungendo l‟equilibrio spirituale. In tal senso, la “forza” politica del Potere statale è “cagione instrumentale” della volontà divina, che ne è la “fons pietatis”, trasformatrice dell‟impero pagano in un “pium imperium”, la Monarchia, fondata, al pari della Chiesa, “su una rivelazione divina”.766 Che, però, il fine della natura umana, di costituirsi in società politica, non sia sufficiente a conseguire la virtus in senso soteriologico, rende la “pax” politica una condizione

766 H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 68-70.

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indispensabile, ma non sufficiente, a conseguire la “salus consociatae multitudinis”, secondo l‟espressione di Tommaso,767 per la quale necessita immancabilmente il “bonum”, cioè l‟idea del bene, la justitia. E dunque, accanto alla forza materiale del Potere, per conseguire il senso vero di quella “pax”, abbisogna l‟opera del Governo giusto, che destini la “tranquillitas in qua et populi proficiunt et utilitas gentium custoditur”,768 a un fine escatologico, meta-politico, che non è il mero  aristotelico, ma quello stato di “perfezione” tipicamente cristiano consistente nella “beatitudime vitae aeternae” . 769 Da qui la necessità di due auctoritates, relative alla “duplex vita” in cui è immerso l‟esistenza umana: una auctroritas politica, di natura eticopolitica, costituita dal Potere, e l‟altra spirituale, di natura misticopolitica, costituita dal Governo. Il problema che ne nasce è come il Potere, che “mediante ordine subjectionis” si adopera per la “salus et felicutas omnium”, si rapporti al Governo, il cui ufficio è di commisurare lo “status perfectionis humanae vitae” alla condizione di chi è “perfectus”, dalla quale il “minus perfecti non possit fieri perfectus”. Orbene, questa pur necessaria “subalternatio secundum gradum” del meno dotato al più dotato, non può essere giuridicizzata alla stregua di un rapporto obbligazionario di subalternità legale a un dominus, originato da un contratto. Tale dipendenza infatti è di natura volontaristica, e può essere stabilita solo sul fondamento di un rapporto carismatico, che presume l‟esistenza di una comune fede tra le parti in rapporto mistico, che non è richiesta in alcun modo per la costituzione e la efficacia del rapporto giuridico, compreso il sinallagma politico. Se infatti il pactum civilis suppone la dazione della sovranità popolare al Potere, in cambio della sua protezione, il rapporto carismatico è del tutto libero, e sussiste solo in quanto l‟autorità carismatica venga riconosciuta da chi volontariamente vi si sottoponga. Inoltre, se la ratio del rapporto giuridico è formalmente nel mutuo vantaggio delle parti contraenti, la destinazione dell‟esercizio del Governo trova la sua

767 Tommaso, De Regimine Principum, I, 2, tr. it. cit., pag. 19. 768 Marsilio da Padova, Introduzione al Defensor pacis, cit. da H. Kelsen, Loc. cit., pag. 75. 769 H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 79-80.

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legittimazione morale nel servizio stesso, e dunque nel vantaggio altrui e non proprio. E in virtù di questo fine altruistico l‟auctoritas del Governo è morale, concernente “una sfera libera dallo Stato, in cui l‟autorità dello Stato non ha per nulla giuridicamente potere sui singoli”.770 Ed è proprio l‟ammissione di questa zona franca dal Potere politico, altrimenti totalitario, che si definisce teoricamente, in ambito teologico-politico cristiano, la forma ideale di regime caratterizzante la civiltà liberale dell‟Europa cristiana. Rispetto allo Stato antico, la cui unità era stabilita dal Potere in quanto era stata logicamente rimossa ogni altra autorità morale, la concezione dello Stato giuridico cattolica reintroduce il fondamento morale dellautorità politica, affiancado al Potere l‟autorevolezza carismatica del Governo spirituale della Chiesa. Il contrasto tra le due auctoritates nasce dal presupposto di entrambe che ognuna godesse della prerogativa di esercitarsi universalmente, per cui sia lo Stato che la Chiesa insistevano sulla stessa collettività, considerata rispettivamente come una entità politica, ovvero come una spirituale. Ma, accogliendo la teoria tomistica del vincolo regale al popolo sovrano, ai fini eudemonistici della sussistenza dello Stato come corpo politico, il riconoscimento morale della Chiesa cattolica perdette ogni efficacia pratica, sicché in prosieguo, con la frantumazione dell‟unità imperiale e la costituzione degli Stati nazionali, la sua giurisdizione morale andò restringendosi al solo apparato ecclesiastico, mentre andò affermandosi in sua vece il consenso democratico al Potere. L‟ascendenza morale della Chiesa, e così il suo Governo spirituale, perdettero progressivamente di autorità a seguito della scomposizione dell‟Impero, in conseguenza cioè della estinzione del concetto romano-cattolico di Imperium a favore del concetto greco di Potere politico, che presupponeva costitutivamente l‟assenza dallo Stato di un fondamento pre-razionale, morale e tradizionale. Ed è appunto l‟identità del Potere politico col Governo (già religiosamente sancito da una autorità morale, e poi sostituito col consenso democratico, parlamentare o plebiscitario) a produrre il moderno Stato assolutistico di diritto, antesignano dello Stato totalitario. D‟altro canto, l‟identità della Chiesa col corpo mistico cristiano, finì per mal conciliare l‟aspetto volontaristico della fede

770 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 84.

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singolare con l‟appartenenza formale a una confessione religiosa, sicché la giuridicizzazione dei rapporti col Potere nazionale finì per restringersi al rapporto tra il solo ente ecclesiastico e lo Stato politico, al quale furono abbandonate le sorti mondane del popolo di Dio. All‟origine del contrasto tra Chiesa e Stato ci fu dunque il principio universalistico della potestà, conteso tra i due poteri. Ma l‟esito infausto per la Chiesa fu segnato dal pregiudizio naturalistico, condiviso come abbiamo veduto anche da Dante, secondo il quale la “potentia sive virtus intellectiva” per essere compiutamente conseguita necessita della realtà della “moltitudine del genere umano”, cioè della società razionalmente istituita, per cui solo nello Stato l‟uomo singolo può raggiungere il suo fine più alto. Finquando lo Stato coincide con l‟Imperium sullo stesso genere umano civilizzato in senso cristiano, la “umana civilitade” consegue nel contempo la “vita felice” terrena e il fine soteriologico spirituale. Ma quando lo Stato prende a fondarsi sul solo Potere della forza politica, e quindi sul consenso popolare, il principio del “cuius regio, eius religio” capovolge la gerarchia delle fonti della legittimità, mettendo al primo posto la sovranità secolare, che divenne, in virtù di ciò che era stata la teoria del diretto mandato divino, superiorem non recognoscentem. 771 L‟idea che la perfezione umana sia un prodotto sociale, anche nella rielaborazione cristiana adottata da Dante, è una visione naturalistica, che assume il colettivo come l‟unica realtà antropologica dell‟uomo. Se ciò fosse vero, non si comprenderebbe il bisogno di costituire una ekklesìa di fedeli, la quale differisce dalla comunità sociale in quanto, fondata sulla la libera adesione dei membri, deve servire alla salvezza di ognuno di essi. Questo fine soteriolgico non può essere quello dello Stato, il cui scopo è quello di mantenere l‟unità politica del gruppo e di rafforzarla a scapito di altre consimili. La salvezza dell‟anima individuale non può che essere salvezza singolare, e non collettiva, cioè politica. A questo scopo

771 E‟ appena il caso di aggiungere che la critica delle opposizioni democratiche ai regimi totalitarii si appuntò sulla titolarità della sovranità, che risiederebbe nel popolo anziché nel principe assolutista, ma non si appuntò sulla esclusività del Potere. Ma proprio l‟esautorazione del Governo morale produce la concezione politicistica totalitaria, entro la quale si inscrive a pieno titolo ogni frma di democrazia moderna fautrice del Potere sovrano al popolo. 377

economico è predisposto lo Stato, mentre la Chiesa tende alla salvezza dei singoli uomini, in quanto creature divine, nn in quanto membri di un consorzio politico e statuale. La corrispondenza simmetrica tra Chiesa e Impero si infrange contro la logica particolaristica degli Stati nazionali, che dunque secolarizzano la propria identità storica facendo del Potere lo stesso scopo del Governo. In tal senso, la preservazione dell‟Impero universale era nell‟interesse stesso della missione della Chiesa, così come la costituzione di una Monarchia cristiana era interesse comune alle due distinte ma collegate autorità di origine divina. Ma un‟altra, decisiva, differenza insorge contro le pretese uniformatrici della politica razionalistica tra le due auctoritates, legata alla impossibilità di rendere “virtuosi” i fedeli, i quali, a differenza dei “subditi” dal Potere, non possono essere costretti dal buon Governo a essere migliori, ma solo dalla libera scelta morale, a seguito non di una sottomissione ma bensì di una conversione. La pretesa avanzata dal Potere statuale di convertire i sudditi al credo ideologico posto a fondamento etico dello Stato attraverso una costrittiva quanto estrinseca e legalistica unitas in voluntatibus, costituisce una indebilita identificazione dell‟istanza morale, per definizione libera e volontaria, con il dovere giuridico di sottomettersi all‟autorità politica, sicché anche la classica differenza tra le costituzioni politiche e le loro relative degenerazioni ( perde di significato essenziale rispetto alla vera differenza tra i regimi liberali, che ammettono il Governo morale come correttivo carismatico al Potere politico, e i regimi illiberali, che assommano nelle stesse funzioni politiche il Potere al Governo, sia pure istituzionalmente distinti. Da quanto detto supra, le teorie politiche, e le relative teologie da cui originariamente promanano, che, come quella ricordata di S. Tommaso, affermano la fonte del Potere risiedere nel popolo, supposto depositario della sovranità, si dicono “democratiche”, mentre invece le teorie che, come quella di tertulliano ripresa da Dante, affermano l‟origine divina del Potere,772 stabilendo così una sua teleologica complementarietà col

772 “L‟imperatore è grande proprio perché è subordinato al cielo: infatti, anche egli appartiene a Colui al quale appartiene il cielo e qualsiasi altra creatura. Egli è imperatore grazie a colui in ragione del quale è anche uomo, prima che imperatore; 378

Governo morale dell‟autorità carismatica della Chiesa, esercitata al fine di affermare la libertà della coscienza singolare dei cittadini, si dicono “liberali”. Da questo punto di vista essenziale, conta molto più la previsione, interna alla struttura istituzionale dello Stato, dell‟autorità del Governo morale, che l‟articolazione bilanciata degli organi del solo Potere politico. Solo infatti il duplex ordo delle due diverse ma armoniche auctoritates può garantire l‟unica forma ordinis che sia anche totalis, e che Dante indica nella Monarchia, che costituisce dunque l‟ordo totalis  ‟, in quanto “genus humanum maxime Deo adsimilatur quando maxime est unum”.773 L‟Imperatore, in quanto sommo rappresentante di tale unità e in quanto “minister omnium”,774 rappresenta un “ufficio, che comporta non soltanto diritti ma anche doveri”.775 Una sorta di Cancelleria imperiale di cui egli sia il rappresentante unitario. Ma ciò che più conta non è tanto l‟articolazione interna di tale Potere, ma che l‟ “officio imperiale” sia “da Dio a certo termine finito”. 776 Cioè, in quanto opera umana, anche il sommo ufficio dell‟Imperatore deve trovare un limite, non solo nel diritto, anch‟esso umano, 777 ma primieramente nella volontà divina, espressa nelle Scritture e interpretata dall‟autorità spirituale. Infatti, il Potere che pure si auto-regolamentasse, comunque non sarebbe soggetto che a se stesso. La caratteristca del Potere monarchico totale, rispetto al mero Potere imperiale classico, quello romano, è di servire consapevolmente il disegno divino, il quale non coincide con il “bene comune”, inteso come eudemonistica felicitas terrena, ma consiste nella salus animae. Se Dio avesse inteso incaricare il Potere di tale fine soteriologico, non avrebbe fondato la Chiesa di Pietro, alla quale figura morale il potere di Cesare

il suo potere gli viene dalla stessa origine del suo spirito”: Tertulliano, Apologeticus Adversus Gentes pro Christianis, XXX, 1-4. 773 Dante, Monarchia, I, VIII, 12-13, pag. 150. Ved. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 95. 774 Dante, Monarchia, I, XII, 54, pag. 160. 775 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 106. 776 Dante, Convivio, libro IV, IX, 2.

777 Come afferma Kelsen, “a Dante tutta la pienezza del potere dell‟imperium appare vincolata giuridicamente”: H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 110-111. 379

deve inchinarsi in devozione filiale.778 La salvezza non può essere genericamente umana, ossia non riguarda la sopravvivenza della specie o il ben essere di una collettività, sia pure universale, ma inerisce l‟anima individuale dell‟uomo singolare. Un potere imperiale, che non sia la semplice riedizione di quello pagano, ma si sostanzi della destinazione divina secondo la fede cristiana, deve poter includere nella sua costituzione morarchica il Governo spirituale, che il papa esercita in quanto rappresentante della Chiesa di Cristo, di cui la collettività è il corpo mistico. In tal senso, del comprensivo Imperium monarchico, il Potere rappresenta la sola jurisdictio, che “omnem temporalem jurisdictionem ambito suo comprehendens”, ossia l‟autorità legislativa e giudisdizionale, che riguarda il solo ambito degli affari temporali regolati dalla legge.779 Ma l‟Imperium non è solo questo Potere. Esso, che unitate Monarchiae consistente, “sta al di sopra dell‟imperatore” e che pertanto “non coincide con la persona del monarca”,780 comprende anche il Governo spirituale, il quale può, nel caso del tralignamento del principe cristiano dai suoi doveri, esercitare il suo jus resistendi. Perciò solo, “la somma di queste qualità dell‟imperium”, non consente di equipararlo, come invece vorrebbe Kelsen, a quanto “la moderna dottrina dello Stato indica come sovranità”.781 Il concetto che rende l‟idea che Dante ha dell‟Imperium monarchico è invece quello della “concordia” tra le due distinte e diverse auctoritates imperiali del Potere e del Governo. In questo senso precipuo ha ragione Erikson a rifiutare la identificazione del concetto teologico di Trinità con quello secolare di Potere politico, ma è pur vero, come sostenuto da Schmitt, che storicamente tale traslazione concettuale è interventuta,e ciò a seguito della concezione razionalistica dell‟universalità assimilata dalla teologia cattolica. Eppure Dante è chiaro nel precisare che il Potere temporale non deriva la sua “virtus” dal potere spirituale, in quanto essa consiste nella sua propria “auctoritas”, ossia nella funzione del Potere stesso, il quale

778 Dante, Monarchia, III, XV, 83-84, pag. 275. 779 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 113. 780 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 115. 781 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 116. Ved. supra. 380

nondimeno, riceve dal potere spirituale infuso dal Papa la luce della grazia, “ut virtuosius operetur”,782 cioè affinché il suo ufficio politico (la jurisdictio nel senso lato chiarito) venisse svolto in considerazione del fine trascendente testimoniato dall‟autorità ecclesiale. La “concordia” è dunque l‟atteggiamento congiunto delle due auctoritates convergente, sia pure con mezzi diversi, allo stesso fine comune, imposto dalla duplice natura dell‟uomo. A questo punto possiamo en intendere tale duplicità in relazione alle diverse sia pur congiunte funzioni del Potere e del Govero. Il primo, predisposto alla statuizione giuridica avente ad oggetto la totalità del popolo di Dio in quanto ente socio-politico, abbisognevole di una organizzazione giuridicoistituzionale che ne salvaguardi l‟esistenza biologica stessa; il secondo, invece, dedito alla amministrazione della giustizia, la quale tenga conto del caso singolare costituito da ogni vicenda umana, avente in sé una sua verità. Ciò vuol dire che, se la virtù civica consiste nella predisposizione da parte del Potere di una regolamentazione generale e astratta dei comportamenti sociali degli uomini, in quanto con-viventi all‟interno di uno stesso gruppo socializzato e politicamente strutturato secondo norme di diritto comune valevoli erga omnes, la virtù morale consiste nel governo della forza sociale, e dunque nella moderazione dei potenti nei confronti dei più deboli, del “prossimo”. Se la politeia greca regolamentava la giustizia retributiva mercé l‟isonomia, la quale astraendo dalle concrete situazioni personali dei cittadini li considerava uguali di fronte al Potere, la charitas cristana assumeva come rilevante proprio la condizione personale dei singoli cittadini, adattando ad essa la relativa condizione sociale. In materia di affari di Stato, laddove il Potere politico tende, per sua stessa natura conservativa, a stabilire con gli altri organismi politici un rapporto conflittuale, la ratio del Governo è di considerare anche le entità collettive minori come comunità umane da preservare di fronte alla forza soverchiante del Potere, e non già solo come enti politici avversari e da sottomettere. In altri termini, il Governo morale è quello che considera rilevante nel rapporto tra le parti la alterità rispetto alla ipseità, ovvero la concreta prossimità, che è propria dell‟atteggiamento

782 Dante, Monarchia, III, IV, 91-95, pag. 239. Ved. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 123. 381

caritatevole, rispetto alla astratta generalità, propria della previsione di legge. La diversa prospettiva in cui si pongono, rispettivamente, il Potere politico e il Governo morale, rispecchia il diverso fondamento noetico delle relative posizioni. Quello del Potere è un fondamento razionale che considera valida, e dunque necessaria, la statuizione di diritto logicamente universale, mentre il fondamento proprio del Governo è di carattere sentimentale, nel senso che privilegia la considerazione del cimento dell‟uomo in rapporto al destino che gli è toccato in sorte. Nel caso del Potere, il fondamento veritativo è di essenza teoretica, la cui unità, come ha ben considerato Hegel, è vuota senza il molteplice, cioè senza la collettività del gruppo sociale. Viceversa, l‟unità considerata dal punto di vista della sensibilità morale, non è quella stabilita dalla legge, ma è l‟amore, che agisce conformemente al principio della libera determinazione della responsabilità pratica (liberum arbitrium). Infatti, “l‟attività pratica agisce liberamente, senza l‟unione di un opposto e senza essere da questo determinata”, e pertanto, come spiega Hegel, “l‟unità pratica viene affermata con il togliere interamente l‟opposto”, 783 ossia l‟unità attraverso l‟amore del prossimo, si consegue nella diversa considerazione dell‟altro rispetto alla dicotomia politica amico-nemico, discriminato grazie alla logica esclusivistica del verofalso. Se nel rapporto logico-politico l‟altro è inteso come ni-ente opposto all‟Essere del Potere, nel rapporto caritatevole, l‟altro è inteso come prossimo, e dunque come tale considerabile nella sua umana totalità: di membro sociale e di singolarità spirituale. A seguito di tale totale considerazione dell‟esistenza umana, l‟azione di Governo non può essere meramente politico-razionale, come quella propria del Potere, ma deve contemperare il senso universale del diritto con il sentimento mistico-morale di giustizia verso la considerazione della singolarità del caso umano concreto. E se l‟unità politica conduce all‟Impero, l‟unità spirituale conduce alla Chiesa; da qui la necessità di una “concordia” tra l‟azione dell‟Imperatore e quella del Papa, i quali rappresentano, ciascuno a suo modo, le due nature dell‟uomo, la cui unità concorde conduce a Dio, del Quale sia l‟Imperatore che il Papa sono vicarii.

783 Hegel, Frammento di sistema, tr. it. cit., pag. 525. 382

La Monarchia, a sua volta, costituendo l‟unità organica di tale nature, e delle relative autorità che rappresentano, si propone come la realizzazione della cornice topografica entro la quale si manifesta e si sviluppa la consapevole esperienza storica dell‟uomo cristiano. In tal senso, la Monarchia cristiana prefigura la Storia stessa della cristianità sotto l‟aspetto mistico-politico. Sicuramente “è il Cristianesimo che fonda con le sue tendenze cosmopolitiche conquistatrici del mondo, l‟idea di una organizzazione universale dell‟umanità”,784 ma è altrettanto vero che l‟unità mondiale ottenuta attraverso la fede in un unico Dio è qualcosa di qualitativamente diverso da una unità politica otteuta a seguito di una conquista militare, per cui sia il concetto giuridico romano di “genus humanum”, che il “principium unitatis” ereditato dalle visioni filosofiche cosmopolitiche stoiche e ciniche, non raggiungono mai, come invece la concezione cristiana, quella concretezza e attenzione verso il destino singolare degli uomini che inducono a piegare in senso umanistico le strutture istituzionali del Potere allestite per il dominio dell‟uomo sull‟uomo. Proprio la umanistica reductio ad unum cristiana poteva far convergere su una idea mistica dell‟ uomo l‟istanza di un Potere universale legittimato da un carisma divino, e dunque sostenuto da un Governo spirituale. Questo duplice presupposto deve fare intendere come il progetto di società cristiana propugnato da Dante non fosse riducibile a una mera costituzione di un impero politico universale, e neppure a uno Stato mondiale ecclesiastico, essendo l‟uno concorrente all‟altro nella titolarità del primato unitario. L‟originalità del progetto monarchico di Dante consiste nel superamento di ogni concezione medievale basata, come quella tomista, sulla translatio imperii, a favore di una prospettiva che, per la sua natura cristiana, eludeva in radice ogni possibile contenzioso di carattere nazionalitario, come pure di supremazia politico-militare tra le diverse nazioni europee. Infatti, l‟idea di una Monarchia mistico-politica aveva il suo punto di forza sul fondamento di una antropologia che, come quella cristiana, concepiva l‟uomo come un fine trascendente, e dunque la storia umana come una vicenda escatologica, più complessa e comprensiva di un processo politico, sia pure quello del grandioso

784 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 145.

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Impero romano. 785 La “romanità” dantesca era quella della civiltà giuridica786 e della potenza militare, ma la Roma di Dante è quella cristiana dell‟unità religiosa di tutte le genti.787 La diversità tra le due prospettive non era di ordine geografico, tale che l‟impero storico fosse

785 In tal senso, è radicalmente sbagliata l‟affermazione che “la concezione della identità della nuova monarchia con quella antica era in Dante così naturale da non fargli pensare affatto ad una particolare giustificazione di essa”, considerando che “la continuità temporale dela sua Monarchia con l‟impero mondiale romano è per lui un fatto ben saldo” e dunque “Dante identifica la sua Monarchia storicamente con l‟imperium romanum”: H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 150 e 151. Il progetto monarchico di Dante era completamente diverso dall‟Imperium romanum, se è vero che “la monarchia universale di Dante è di origine divina”: Ivi, pag. 153. 786 La “rinascita del diritto romano” risale al sec. XII, durante il quale, in occasione delle lotte per le investiture, si sviluppò una dotta giurisprudenza col relativo sviluppo del metodo scientifico, da cui nascerà quello storico-filologico moderno e che diede impulso a un diritto secolare di carattere universale. In ambito canonistico, occorre attendere, nella stessa Bologna dove Irnerio insegnava diritto romano, il Decretum Graziani del 1140 per avere un corpus juris di carattere universale, decisamente superatore delle raccolte di diritto ecclesiastico e che diede impulso alla rinascita romanistica, a sua volta influenzandola. Ved. E.H. Kantorowicz, Kingship under the Impact of Scientific Jurisprudence (1961), tr. it. in I misteri dello Stato, cit. pagg. 37 sgg. 787 L‟istanza unitaria, in campo teoretico, era schiettamente metafisica e teologica, mentre la tendenza alla separazione scientifica delle varie branche rispecchia una esigenza critica legata alla diatriba con il milieu ecclesiastico, contro il quale il metodo filosofico costituiva uno strumento polemico per contrastare le posizioni teologiche. Com‟è noto, Dante deplorò “il maledetto fiore c‟ha disviate le pecore e li agni”, cioè il gregge cristiano, e che “ha fatto lupo del pastore”, cioè il dissidio tra la Chiesa e l‟Impero, in ragione del quale “l‟Evangelio e i dottor magni son derelitti” (Paradiso, IX, 133 sgg.), a favore dei “Decretali”, ossia dei giuristi canonisti, il cui prestigio soppiantò quello antico dei teologi e dei letterati. (Ved. E.H. Kantorowicz, Op. cit., pagg. 40-41.) In questo contesto polemico, la proposta intellettuale di Dante, membro della militia letterata o doctoralis, di una unità monarchica mistico-politica, assume un valore simbolico di grande rilievo, in quanto riconferma la priorità del fondamento unitario, sia di ogni creazione umana e divina, che della conoscenza stessa.

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meno inclusivo dell‟intero genere umano, ma di ordine spirituale, per cui solo il presupposto di una Chiesa universale poteva costituire il fondamento “divino” di una monarchia mondiale mistico-politica, la cui sovranità si esercita “sopra tutto ciò che è soggetto alla misura del tempo”, 788 e la cui durata imprescrittibile giunge dunque sino alla fine dei tempi. Il rapporto con l‟Impero romano, pertanto, non è meramente quantitativo, per terre annesse e tempo di durata, ma qualitativo, essendo solo la Monarchia cristiana la forma, insieme sacra e terrena, di vita compiutamente civile in quanto veramente umana. Rispetto a tale lungimirante configurazione di un regno mistico-politico nel quale ogni uomo, pur diverso per cultura e nazionaità, potesse ritenersi membro, ogni programma politico a sfondo nazionalistico appare limitato e inferiore alla stessa pax romana, in quanto fomite di quel pernicioso particolarismo stigmatizzato da Dante come “principio del mal della cittade”,789 che spinge uomini e popoli in preda al polemos. Ma un‟altra essenziale ragione divideva le due prospettive. Una ragione di ordine schiettamente politico. Infatti, la teoria tomista della sovranità popolare trasferita al principe, che ne è pertanto reggente, era di derivazione romanistica. Infatti, “il diritto, trasmesso dal Digesto, dal Codice e dalle Istituzioni di Giustiniano, sostenne la dottrina che l‟imperium, originariamente conferito al populus Romanus e alla sua maiestas, fosse stato trasmesso dal popolo all‟imperatore”. Tesi che si prestava a essere interpretata, dagli imperiali, come un mandato fiduciario definitivo del popolo al detentore del Potere supremo, e dai curialisti per sostenere che il principe non fosse che un “suddito del popolo”, che deteneva “sempre e imprescrittibilmente” la sovranità. Ma ciò che più rileva è che “il principio della sovranità popolare fu pronunciato durante la lotta per le investiture”, diventando il sostrato comune alle ideologie del XII secolo.790 L‟affermazione, dunque, della diretta derivazione divina dell‟imperium, rinnovata da Dante dopo il

788 Dante, Monarchia, I, II, 3-5, pag. 136. 789 “Sempre la confusione delle persone / principio fu del mal della cittade / come del corpo il cibo che s‟appone”: Dante, Paradiso, XVI, 67 sgg. 790 E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 48-49. 385

precedente del Barbarossa, costituiva una implicita sanzione di sacralità a una funzione che non avrebbe dovuto semplicemente assolvere a delle incombenze politiche, ma che rivestiva un superiore carattere carismatico, e che d‟altro canto inibiva la deriva assolutistica espressa dal brocardo per cui “Quod principi placuit, legis habet vigorem” , stabilendo che la “potestas regia est a Deo”, e dunque che la lex cui il principe doveva attenersi era quella divina, immodificabile ed eterna, e non quella del populus. La tesi dell‟origine popolare del potere servì ai glossatori come Graziano, Bartolo, Baldo, Accursio e Giovanni di Parigi ad accreditare, sulla base della credenza dell‟eternità dell‟Impero romano, che “semper est”, l‟idea che “populus non moritur”. Nel caso dell‟Impero, l‟eternità era fondata, “per un verso, sull‟interpretazione data da Gerolamo della visione di Daniele delle quattro Monarchie, l‟ultima delle quali, quella dei romani, era destinata a continuare fino alla fine del mondo”, e per altro verso dalla versione originata da s. Tommaso, “secondo cui la quarta monarchia era stata seguita da una quinta, quella di Cristo, „il vero signore e monarca del mondo‟, il cui primo vicario era stato, anche se inconsapevolmente, l‟imperatore Augusto” . Nel caso del popolo, la sua eternità era basata sulla sua forma ideale, per cui “quando la forma di una cosa non muta, si dice che sia la cosa stessa a non mutare” (Baldo). Dal combinato disposto della continuità trascendente dell‟Impero con la continuità immanente della volontà popolare si giunse alla teoria che l‟imperium del principe derivasse dall‟ “effetto congiunto dell‟azione del Dio eterno e del popolo perpetuo”, espresso dalla formula coniata da Giovanni di Parigi, “populo faciente et Deo inspirante”. Questa tesi, per la parte filosofica relativa alla sovranità popolare, fu ispirata dal commento di Averroè all‟Etica nicomachea, in cui si afferma che “quod rex est a populi voluntate, sed cum est rex, ut dominetur, est naturale”, derivandone la conseguente teoria per cui “attraverso il popolo che lo eleggeva il re governava „per natura‟, mentre l‟elezione stessa di un certo individuo o di un casato reale era determinata da Dio come causa remota e ispirata „per grazia‟ ”. Ovvero, “Dio ha stabilito l‟impero dai cieli, per autorità, mentre il popolo romano dalla terra, per ministero”. 791

791 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit. pagg. 250-254. 386

L‟interferenza tra i due mandanti non sarebbe sorta in quanto la stessa designazione popolare erada considerarsi prescritta da Dio alla stregua di un avvenimento naturale, incluso nella creazione e dunque a essa conforme. Ma l‟idea di una sovranità “naturale” era quanto di più lontano dal concetto del Potere come dominio politico di un principe sul popolo, fondato su un principio razionale. Infatti, la sfera politica, proprio in quanto sfera razionale, si costituva in alternativa alla spontaneità dei processi naturali, finalizzati non già, come quelli politici, al bene comune, bensì alla mera sopravvivenza della realtà biologica. Il finalismo etico della politeia affermava il superamento razionale dell‟interesse particolare della dimensione economica del bios in vista dell‟interesse generale e comune, appunto razionale. Ciò comportava che l‟armonia predisposta dalla natura era qualitativamente diversa da quella predisposta dall‟opera umana, sicché, se ogni processo naturale, mirando alla conservazione del bios, ammetteva la selezione dell‟energia più forte a scapito della più debole, i processi interni alla sfera politica presumevano una sinergia funzionale al disegno teleologico prescritto dalla ragione, che doveva necessariamente essere superiore all‟interesse particolare di ogni cittadino. L‟analogia tra l‟interesse generale della Natura e quello dello Stato era solo estrinseca e apparente, per la sola circostanza che l‟attività umana avesse un disegno orientativo dell‟azione, che variava per cultura locale ed esperienza personale, incommensurabile con lo sforzo di adattamento per la vita degli elementi naturali, per cui, se le leggi cosmiche erano razionali, lo erano in un senso molto diverso da quello umano, non essendo spontaneoe predeterminato nell‟uomo il processo di razionalizzazione della sua esistenza, ma richiedeva una attività culturale che non coincideva con la sola esperienza di vita ma implicava un metodo di conoscenza razionale della realtà, fuzionale all‟azione. Questo modello astratto di azione razionale per i Greci era l‟Ideale etico, il cui valore assiologico era ritenuto universale. Orbene, il destino escatologico che Dio aveva riservato all‟umanità non poteva essere assimilato a un disegno naturale, ma neppure propriamente a un disegno politico. Infatti, sia il finalismo particolaristico naturale che quello politico generale presupponevano che la loro affermazione avvenisse a scapito della negazione di quanto li contrastasse, ossia, rispettivamente, il più debole e il nemico. Ciò significa che la loro universalità era di natura esclusiva dell‟altro-da-sé, 387

ossia fndata sul principio polemico dell‟affermazione del sé, dell‟autoconservazione, si trattasse dell‟organismo biologico o di quello politico. La designazione popolare del rex poteva dunque essere considerata “naturale” solo in relazione alla circostanza che ogni popolo avesse un dominus che lo guidasse, ma non ogni popolo, e relativo re, aveva una missione divina, come il popolo romano e i suoi imperatori. Questo carattere di eccezionalità riservato alla storia di Roma, già di per sé la faceva apparire come extra naturam e dunque provvidenziale. E ciò implicava che da quella vicenda eccezionale bisognasse partire per decifrare il senso soteriologico del disegno divino nella storia. Di conseguenza, si ritenne che “la lex regia contenente i diritti inalienabili del popolo e proclamante così la perpetuità della maiestas populi romani, non fosse indirizzata alla sola Roma [ma] fosse naturalmente applicabile in senso universale alle condizioni di tutti i regna e di tutti i popoli, e infatti fece la propria comparsa nei testi giuridici di tutti i paesi europei [e] quindi, a ogni regnum e a ogni popolo era giuridicamente riconosciuta la continuità del popolo romano e la perpetuità della sua maiestas”.792 Ma tale applicazione “in senso universale” di un principio storicamente determinato come la maiestas populi romani era un portato del naturalismo razionalistico greco, che stabiliva l‟analogia tra un fenomeno umano, e dunque storico-politico, con un fenomeno fisico-naturale, e non trovava una sua giustificazione in ambito soteriologico se non assumendo l‟assoluta conformità della natura spirituale dell‟uomo a quella naturale, tale che l‟estensione universale dei dati relativi alla prima, potesse analogicamente assumersi anche per quelli della seconda, per cu, se tutti i regna avevano naturalmente il loro rex, ogni rex serviva la missione divina. Ma l‟esistenza di un solo popolo egemone sugli altri, quello di Roma, e di un solo793 imperatore romano posto a dominio del mondo, confutavano tale pretesa analogia. Questa considerazione, insieme a quella della posteriore fondazione della Chiesa accanto all‟esistente Impero romano, avrebbero dovuto far riflettere sulla essenziale diversità intercorrente tra la forma etico-politica dell‟Imperium e la realtà mistico-politica della Monarchia auspicata da Dante.

792 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 255 e 256. 793 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261. 388

L‟Impero, infatti, si costituiva per annessioni territoriali, ossia per espansione del Potere su popoli sottomessi militarmente. Questa politica espansionistica di un popolo e uno Stato egemoni poteva essere compatibile con la sussistenza di popoli e strutture politiche e religioni locali, diversi da quelli di Roma, in modo tale che la forma di dominio imperiale non si identificasse con le forme di dominio locali, ma fossero mutuamente compatibili attraverso il reciproco riconoscimento dei ruoli e delle rispettive forze che li determinavano in rapporto del loro rispettivo Potere. In questo senso, la pax romana consisteva in un rapporto di Potere che prescindeva da ogni finalismo che motivasse l‟azione delle parti in contesa, cioè dei popoli in conflitto politico. Diversamente, la Chiesa cattolica si costituiva a seguito della conversione dei singoli fedeli alla fede cristiana, ossia in conseguenza di una appartenenza spirituale a una realtà extra- e meta-politica che non li rigardava in quanto membri di una comunità socio-politica ma in quanto singolari creature divine aventi una coscienza morale. L‟unità ecclesiale, rispetto a quella imperiale, era essenzialmente diversa e non idealmente compatibile, in quanto l‟appartenenza alla Chiesa conseguiva alla volontà di una scelta morale, laddove l‟appartenenza all‟Impero conseguiva a un subìto rapporto impari di forza. L‟appartenenza alla Chiesa non poteva dunque mai essere di carattere “naturale”, assimilabile a una condizione socio-economico-politica, ma sempre e solo di carattere morale, cioè frutto di libertà di coscienza. La diversità della Chiesa rispetto all‟Impero consisteva nella sua diversa modalità di appartenenza, spirituale e non politica, libera e non coatta. La loro coesistenza entro uno stesso orizzonte esistenziale era resa possibile dalla loro stessa diversità, la quale, così come motivava la loro giustapposizione, era all‟origine del conflitto istituzionale che caratterizzava il sistema liberale europeo. Superare tale conflitto comportava il superamento anche della reciproca diversità tra Chiesa e Stato.ed è a partire da questo proponimento che è possibie comprendere il disegno monarchico dantesco. Allorquando Baldo, nei suoi Consilia, trattando della durata dei regni, asserisce che “lo Stato non può morire e continua ad esistere anche a

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prescindere dai re”,794 indica una ipotesi euristica basata sulle nozioni della fisica aristotelica che è funzionale al piano giuridico su cui si muovono i rapporti politici, ma non pertinente al piano soteriologico che interessa il destino escatologico dell‟umanità. Per cui quando egli, glossando l‟atto della pace di Costanza del 1183, afferma che “quia quod universale est non potest morte perire, sicut homo in genere non moritur”,795 sostiene una tesi naturalistica, utile a giustificare razionalmente la perpetuità dei corpi collettivi e l‟immortalità dei concetti giuridici, ma che rischia di travisare il senso spirituale della immortalità dell‟uomo, come anche il senso del rapporto, non certo giuridicizzabile, tra la autorità spirituale e il dominio politico. Infatti, per quanto si ritenesse insuperabile la difformità tra una “finzione” giuridica e un “concetto filosofico”, “dal punto di vista linguistico e contenutistico, non è facile distinguere le persone „fittizie‟ o „intellettuali‟ dei giuristi dagli universali che i nominalisti usavano chiamare fictiones intellectuales”, che si estendevano anche a designare l‟eidos di una comunità, “che era distinto dalla città materiale considerata in un certo momento e staccato sia dai cittadini viventi di volta in volta entro le mura [e] sia dalle pietre che formavano queste stesse mura”, sicché “di fatto, le personificazioni giuridiche di città e paesi non erano per nulla identiche alle loro auguste antenate del culto classico [ma] invece, erano creazioni filosofiche appartenenti al dominio della speculazione”, con le quali i giuristi associavano in senso sinonimo l‟universale filosofico greco con l‟universitas giuridica romanistica, identificando un ente ideale con un ente collettivo, facendo dire a Bartolo che “il mondo intero è una specie di universitas”, per cui, “populus proprie non dicitur homines, sed hominum collectio in unum corpus mysticum, et abstractive assumptum, cuius significatio est inventa per intellectum”. E pertanto un regnum che comprenda in sé la totalità degli uomini e delle cose, è assimilabile a una “persona universalis”, il cui dominus è l‟imperatore quale “signore del

794 Baldo, Consilia III, 159, n. 5, cit. da E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 257. 795 “Ciò che è universale non può estinguersi morendo, così come la morte dell‟uomo non estingue la specie umana”: Baldo, Liber de pace Constantiae, cit. da E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 258. 390

mondo”.796 Solo tra “personae” in senso giuridico è possibile infatti stabilire un rapporto di dominio, e dunque la prima traslatio del senso esistenziale nel senso giuridico della vita di enti umani collettivi non è una operazione intellettuale della secolarizzazione moderna, ma avviene già all‟interno del nominalismo teologico medievale, che pensa la realtà umana per entia astratti, personae giuridiche e genera naturalistici. In questa dis-soluzione della duplex esperienza umana, si consuma la resa intellettuale dello spiritualismo cristiano alla antica sapienza pagana, con le cui categorie si pensala stessa Chiesa universale che da “universits fidelium” diventa a tutti gli effetti una universitas giuridica, in cui convergono “la concezione organologica di corpus mysticum da una parte, e degli apellativi antropomorfici della Chiesa come mater e sponsa dall‟altra”. Una universitas personificata di una immaginaria persona repraesentata o ficta, che in Tommaso diverrà, come già in Agostino, “figura veritatis”, tanto che Baldo potè glossare che “la finzione imita la natura” ed essa, più in generale, “ha quindi luogo ove può aver luogo la verità”.797 Sulla distinzione tomista tra corpo umano, in cui “gli arti sono presenti tutti contemporaneamente” (sunt omnia simul), e corpus mysticum di Cristo, che comprende non soltanto

coloro che vivevano simultaneamente nell‟oikumene ecclesiastica ed entro lo spazio universale, ma comprendeva anche tutti i membri passati e futuri, attuali e potenziali che si susseguivano continuamente gli uni agli altri nel tempo universale, [per cui il corpo mistico ecclesiastico] abbraccia quindi non solo coloro che attualmente fanno parte del gregge dei fedeli, ma anche coloro che potrebberopotenzialmente farvi parte o chi vi entrerà in futuro”, [estendendosi] sia alle generazioni future dei cristiani non ancora nati, sia alle schiere dei pagani, ebrei o maomettani, non ancora battezzati,

796 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261. 797 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 262-263. La cit. di Tommaso è dalla Summa theol., III, q. 55, a. 4; di Agostino da De quaestionibus Evangelistarum, II, c. 51; di Baldo, a Dig. 17.2.3, n. 2, e 1.7.16, dove, riprendendo Aristotile, Fisica, II, 2, 194a. 21 scrive che “fictio ergo imitatur naturam. Ergo fictio habet locum, ubi potest habere locum veritas”. 391

in quanto il corpo mistico di Cristo, vale a dire la Chiesa, cresce non solo per natura ma anche per grazia.

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La concezione ecclesiale tomista del corpus mysticum servì da modello ideale per ogni definizione di universitas o di populus, per cui Baldo, nel citato Liber de pace Constantiae, definisce l‟Impero come una “magna universitas” la quale “omnes fideles imperii in se complecitur tam praesentis aetatis quam successivae posteritatis”.799 Questa definizione, estendendo alla universitas politica l‟accezione teologica di corpus mysticum, superava la visione organologica dello Stato quale pluralità di persone simul cohabitantes, stabilendo una dissociazione tra l‟unità empirica e la “totalità” del corpo politico (totum quoddam), ma nel contempo manteneva la distintinzione rispetto al corpo ecclesiale.800 Si costituiva pertanto una figura ibrida di persona mystica concepita al di fuori di uno spazio storico ma pur sempre nel tempo storico, in cui le due rappresentazioni dell‟unità, quella esistenziale e la politica, tendono a fondersi nel concetto giuridico di universitas, dove il carattere perpetuo del populus viene esteso dall‟intero corpo politico ai suoi singoli componenti.801 E ogni qualvolta la Chiesa era indotta a definire la sua condizione storica, anche al fine di ribadire la sua posizione spirituale di fronte alle pretese del Potere politico, ricorreva a questa immagine giuridica, la quale, dovendola distinguere dalla persona

798 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 264 e 265. 799 Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 266. 800 Innocenzo III (1198-1216) mise in crisi la pretesa imperiale della christomimesis riservando ai soli vescovi il privilegio della consacrazione con il crisma e sul capo, negata al principe, che veniva unto sulle braccia e sulle spalle per una sorta di “esorcismo appena sublimato a salvaguardia contro gli spiriti maligni”, in quanto solo Cristo aveva ricevuto l‟unzione del capo da parte dello Spirito Santo. Al principe dunque “era espressamente negata la somiglianza a Cristo e il carattere di christus Domini”, per cui “il pontefice romano appare qui il primo promotore di quel „secolarismo‟ che la Santa Sede per altri versi si affannava a combattere” a favore di un principio ierocratico: E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 274 e 275. 801 Ivi, pagg. 268 e 269.

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giuridica dello Stato, riduceva l‟unità inclusiva ed escatologica del corpus mysticum nei termini di una realtà oggettiva e artificiale, la cui totalità era circoscritta nella sua stessa rappresentazione giuridica, che era il simulacro della irrappresentabile unità mistica. Per distinguere queste due rappresentazioni della Chiesa di Cristo, abbiamo indicato come Chiesa dokematica la sua rappresentazione nominalisticogiuridica, e di Chiesa pneumatica la sua rappresentazione misticoescatologica. Aver designato Cristo come titolare dei diritti giuridici ecclesiali spinse papi come Gregorio VII, Innocenzo III e Innocenzo IV a rivendicazioni politiche sull‟Impero in quanto vicarii di Cristo, producendo, attraverso una empia finzione cristocentrica, un travisamento esiziale del senso spirituale del regnum Christi. Ma il vizio occulto di tale travisamento giuridico era il naturalismo, filtrato nella cultura medievale sia a opera della ricezione filosofico-aristotelica che della rinascita romanisticogiustinianea, che fornirono, ognuna per sua parte, al razionalismo teolgico gli strumenti metodico-intellettuali utili a fronteggiare il pericolo di una declinazione in chiave nazionale e dunque particolaristica, del principio dell‟Imperium in termini di sovranità regale, costitutivamente opposta ad ogni ingerenza esterna alla sua pretesa assolutezza territoriale. L‟inserzione del principio territoriale all‟interno dell‟ecumene imperiale conferiva al Potere regale particolare un carattere inevitabilmente polemico, e dunque contrario alla antica pax romana, ma gli conferiva anche una accezione politica e fisica che destituiva di ogni presupposto metafisico l‟identità cristiana, pur comunemente ammessa. Questa declinazione politicistico-giuridica della realtà dei poteri universali della cristianità produsse la conseguente alterazione della fisionomia spirituale del corpo mistico cristiano, costituito di persone reali e di singole esistenze concrete, che nella lettura politico-giuridica delle relazioni fra le due autorità sovrane della cristianità vennero considerate alla stregua di enti collettivi astratti, e dunque di finzioni intellettuali, rispetto alle quali i singoli esseri umani, con le loro storie e i loro dolori, assumevano il valore di mera materia informe. La cd. “secolarizzazione” della cultura europea, prima ancora di essere un orizzonte culturale strutturato secondo coordinate intellettuali metodicamente razionalizzate, era costituito da uno scenario esistenziale entro il quale le singole esistenze umane si muovevano e agivano in 393

funzione di queste astratte direttive politico-giuridiche sovraordinate a quelle singole esistenze, che dovevano costituire l‟unica vera realtà della vita spirituale dell‟uomo. La kénosis divina rappresentata dalla crocefissione di Cristo assumeva nel mondo cristianizzato dalla Chiesa una dimensione universale, che coinvolgeva tutti gli uomini coinvolti dalla cristianizzazione dell‟Impero attraverso la romanizzazione della fede cristiana, il cui esito temporale fu la sua secolarizzazione in termini religiosi. La fede cristiana, divenuta religione imperiale, depura l‟antica idea pagana di Imperium di ogni destinazione terrena, conferendole una missione escatologica che l‟ideale romano non poteva avere senza l‟innesto cristiano. Ma, nel contempo, tale purificazione sacramentale dell‟antico ideale imperiale ne esalta la potenza umanistica, assegnandole un compito divino che la cristologia neo-testamentaria conteneva entro i limiti di una provvidenzialità relegata ai fondamenti della fede vetero-testamentali, e che la trascrizione politico-giuridica del Potere neo-imperiale relegava ai primordi ormai lontani della memoria collettiva. La coscienza cristiana, divenuta coscienza universale comune e identità collettiva, muoveva al Potere imperiale quella riserva di ragione che il martirio di Cristo aveva destinato alla testimonianza della Verità, e che il popolo cristiano, divenuto adulto, ora rivendicava in termini di giustizia mondana; in quei termini secolaristici che Cristo aveva deliberatamente evitato di porsi per non confondere il Suo col regno di Cesare. E‟ difficile non cogliere in questo processo di secolarizzazione dello spirito cristiano originario interpretato dalla Chiesa romana i segni di una deriva degenerativa che, dopo l‟esperienza francescana, non poteva essere corretta all‟interno dell‟universo teologico della sua rappresentazione dokematica, della quale la struttura ecclesiastica era la forma giuridico-burocratica oggettivata. In questo senso, il disegno monarchico di Dante costituisce il tentativo, avanzato all‟interno della Chiesa pneumatica, di una riforma cristiana che interpretasse il senso deviato di quella secolarizzazione nei termini di uno squilibrio accidentale indotto da un travisamento ermeneutico, da un errore di cultura, che implicava il ruolo degenerato del Papato e dei suoi interessi curiali, ma non la Chiesa pneumatica, entro la quale Dante concepiva la stessa potestà secolare dei principi cristiani.

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9. La unità patrimoniale indistinta dell‟asse ereditario del “padre e del figlio”, propria del diritto successorio, acquistò valore metaforico anche nell‟istituto politico della “corporation per successione, in cui predecessore e successore apparivano come la stessa persona nei confronti dell‟ufficio o della carica personificata”. Il patrimonio politico, inteso come una “persona”, faceva della corona della monarchia ereditaria un astratto ente giuridicizzato, il regno, il cui corpo politico dei sudditi fu concepito alla stregua del corpus mysticum ecclesiale, col quale finì presto per identificarsi.802 Questa corrispondenza metaforico-concettuale tra un ente immateriale, ma comprensivo di una indefinita realtà esistenziale, e un ente politico, il cui elemento sovra-personale (la corona) era legato alle sorti storiche di una dinastia, fa sì che la determinazione territoriale, presuntiva di una appartenenza politica, fosse equiparata all‟appartenenza ecclesiale, con la decisiva e insuperabile differenza che, mentre la prima appartenenza, quella politica, era il presupposto logico della sua rappresentanza regale, per cui ogni suddito del regno era un ente politico creato dal Potere sovrano stesso, l‟appartenenza ecclesiale non poteva essere presupposta ma era una condizione derivata dalla libera credenza del fedele. La commistione coincidente dei due emisferi simbolici della Chiesa e dello Stato negli stessi termini concettuali di enti giuridici è all‟origine dell‟irresolubile conflitto delle due autorità universali, che pretendevano di esercitarsi sullo stesso patrimonio ereditario, sia pure totale nel caso della Chiesa e in quota nel caso della terra regni appartenente ad coronam. Ciò comportava che gli enti ecclesiastici assumessero una fisionomia giuridico-istituzionale inevitabilmente simile a quella degli enti politici803 e insuperabilmente diversa dalla

802 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 290-291. 803 Il diritto feudale si diffuse dall‟XI sec. anche negli Stati della Chiesa, la quale assunse vieppiù una struttura imperiale, tanto che la stessa tradizionale professio fidei dei vescovi prescritta dal Liber Diurnus si trasformò in un iuramentum fidelitatis di carattere amministrativo al papatus romanus e al monarca pro tempore, secondo quanto canonicamente stabilito dal Liber Extra di Gregorio IX (1234), nel quale “la parola „fede‟ era scomparsa del tutto”. Il giuramento vassallatico feudale ecclesiasticizzato “ritornò sotto nuove vesti allo Stato laico come giuramento d‟ufficio vincolante il re e i suoi funzionari a proteggere un‟impersonale istituzione 395

comunità ecclesiale dei fedeli. In questo precipuo senso, la “secolarizzazione” della cultura cristiana coincide con la stessa giuridicizzazione della realtà della Chiesa in termini appunto secolaristici e dunque politici, rinunciando all‟ “universalismo della conversione” per assumere “come suo fine il soggiogamento e la sottomissione dei non credenti sotto il potere di un ordine dominante che si dedica alla lotta per la fede come dovere fondamentale, anziché la redenzione dei vinti”, 804 per cui giuridicizzazione, secolarizzazione e politicizzazione sono sinonimi, indicanti uno stesso processo culturale di omologazione razionalistica della teologia cristiana. Questo processo complessivo disegna l‟orizzonte culturale europeo di ciò che in termini sociologici si dispiega come progressiva razionalizzazione del mondo occidentale, col passaggio dall‟ “etica ascetica” alla sua relativizzazione e diferenziazione in senso organico propria della sua dimensione “professionale”, per la quale “i rapporti umani di potere che ne risultano sono relazioni di autorità volute da Dio, e il loro ripudio o l‟avanzamento di istanze diverse da quelle corrispondenti all‟ordine stabilito viene considerato frutto di alterigia, contrario a Dio e alla tradizione sacra”. 805 Nondimeno, se l‟etica professionale tradizionalistica medievale riposava sul presupposto generale del “carattere puramente personalistico dei rapporti di potere economici e politici – per cui la giustizia, e prima ancora il Governo, è un cosmo di rapporti personali di sottomissione, dominato dall‟arbitrio e dalla grazia, dall‟ira e dall‟amore, ma in primo luogo dalla reciproca pietà di coloro che detengono il Potere, per cui si possono far valere postulati etici, allo stesso modo in cui si fanno valere in qualunque altro genere di relazioni personali” -, la razionalizzazione dell‟etica nel senso del “dovere professionale” fa sì che il rapporto si oggettivizzi svolgendosi “senza riguardo alla persona”, “sine ira et studio”, ovvero

che „mai muore‟, la Corona”, intesa “come entità distinta dalla persona del re”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pagg. 298-307.

804 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it., Milano (1961) 1968, vol. I, pag. 581. Weber si riferisce all‟antico Islam, ma il concetto è lo stesso anche per il caso del Cristianesimo. 805 Ivi, pag. 585.

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“senza ira e quindi senza amore, senza arbitrio e senza grazia, come semplice dovere professionale e non in forza di particolari relazioni personali” da parte dell‟homo politicus, “tanto più quanto più agisce rigorosamente in conformità alle regole razionali del moderno ordinamento di Potere”.806 Orbene, il senso teologico-politico complessivo di questo epocale fenomeno di razionalizzazione, non solo della cultura ma anche del mondo delle relazioni umane e delle istituzioni sociali, è segnato dal passaggio da una concezione governativa a una potestativa dell‟autorità (sia etico-religiosa che sociopolitica), col progressivo spostamento del baricentro ideale dell‟imperium dall‟auctoritas del Governo spirituale alla potestas del Potere politico, con la conseguente relativa esautorazione della dimensione escatologica del sacro e la sua incorporazione entro una teleologia tutta immanente all‟esercizio razionale del Potere autoreferente, secondo una modalità già intervenuta nella civiltà greca del IV sec. a. C., ma questa volta su una scala universale.

807 La dimensione pubblica della comunità politica, intesa come universitas o corpus mysticum, si concentrò sulla “sovranità” regale, il cui esercizio concreto da parte del re, il suo Potere, venne inteso come rappresentativo anche del Governo, che virtualmente riguardava una prerogativa della Corona, ossia dell‟intero corpo politico, che oltre al re comprendeva i pari, i vassalli in genere, i Comuni e, dove esisteva, il Parlamento. L‟effettualità della sovranità, ossia il Potere, sia esso regale o anche parlamentare, avrebbe potuto assommare e dunque comprendere i contenuti ideali del Governo interpretandone la ratio, ossia comportandosi “secondo ragione” (rationabiliter). La condotta razionale del Potere equivaleva all‟esercizio del Governo, che dunque poteva coincidere effettualmente con la volontà sovrana quando questa si manifestava sulla base di regole astratte e generali, le leges, il cui conforme ossequio dava all‟agente una fisionomia impersonale. L‟equazione tra Potere virtuoso, Governo razionale e legalità costituiva

806 Ivi, pag. 587. 807 Il prodotto estremizzato di questa razionaizzazione è il totalitarismo dei regimi politici novecenteschi dell‟Europa cristiana.

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il circolo sistemico della dimensione pubblica che comprendeva l‟attività dello Stato di diritto, il cui modello ideale era costituito da una fictio juris, l‟universitas della Corona, che assunse su di sé le prerogative morali originariamente assegnate per decreto divino al Governo spirituale dell‟Imperium, esautorandolo progressivamente anche da ogni vincolo di rapporto giuridico-religioso con la Chiesa. La sostituzione del Governo morale con la razionaità dell‟esercizio del Potere è il presupposto, non solo della razionalizzazione della vita sociale attraverso la sua progressiva politicizzazione e dipendnza dal Potere statuale, ma dello stesso Stato ideo-logico totalitario. Infatti, se all‟interno dell‟orizzonte della fede cristiana è stato sempre possibile, al di là delle particolari vicende storiche del papato, mantenere, in virtù della dimensione escatologica di quella fede, la distinzione tra la Chiesa dokematica, espressione della gestione temporale della Curia romana, e la Chiesa pneumatica, rappresentativa del compus mysticum Christi, la razionalizzazione del Potere sovrano, emancipandosi da ogni riferimento moralmente vincolante al Governo spirituale tradizionalmente ecclesiastico, ha creato i presupposti dell‟identificazione legittimante della astratta forma ideale di Stato con la vita concreta del populus, assumendolo come un ente collettivo di ragione, facendo della sua persona ficta l‟oggetto dell‟esercizio razionale del Potere. Questa spersonalizzazione del Potere razionalizzato costituisce la negazione più radicale della Weltanschauung ispirata dalla fede cristiana, anche se deriva, come abbiamo visto, dalla secolarizzazione dell‟orizzonte di pensiero teologico-politico formulato dalla cultura canonistica propria della Chiesa dokematica. Sta di fatto, nondimeno, che mentre “la Corona senza il re era incompleta e priva di capacità”, per cui, per riprendere la tesi unionista di Bacone, “aliud est distinctio, aliud separatio”,808 in materia spirituale, la fede nella sola Chiesa dokematica sarebbe un peccato di idolatria, confondendo l‟unità mistica con una empirica creazione umana, transeunte, per cui la separatio per fede da determinate vicende umane, non solo si rende possibile senza con ciò negare la Chiesa pneumatica, ma vivifica la fede in Cristo di nuovo alito divinamente

808 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 313-314. 398

ispirato, come nessuna filosofia può fare nei confronti dello Stato, in quanto l‟istanza spirituale implica, secondo l‟insegnamento di Gesù, un rapporto del fedele con Dio, e non con la Legge di una istituzione, sia pure sacralizzata. In questo senso, se la ragion di Stato ha potuto essere assunta, dopo l‟esautorazione del Governo etico, come l‟etica stessa del Potere, non può sussistere altra etica per la Chiesa che quella originaria e incoercibile evangelica, che trascende sempre ogni statuizione religiosa oggettiva e ogni formula dogmatica ecclesiastica. E dunque, se il monopolio del Potere è la prerogativa dello Stato assolutista razionalizzato, il monopolio ermeneutico della Verità, preteso dalla Chiesa dokematica, è una pretesa assolutamente irrazionale, proprio in quanto l‟essenza della Verità è la fede stessa nel suo Mistero, e non nelle formule della Ragione, contro la cui venerazione idolatrica si è immolato il carisma agapico di Cristo. La Chiesa romana, riesumando l‟organismo giuridico-burocratico imperiale, trasformava, mercé l‟ortodossia teologica di ascendenza alessandrina, l‟unità mistica di ogni essere spirituale che coesiste con la diversità singolare di ogni essere personale in una unità politica giuridicamente determinata, assumendo la sua realtà mistica, cioè Cristo, nei termini di un ente giuridico razionalmente pensato come forma istituzionale, la Chiesa cattolica, fornendola di tutte i caratteri e gli attributi divini propri del Figlio di Dio, pensato come Logos. Era storicamente inevitabile che una siffatta rappresentazione giuridicopolitica dell‟unità mistica ingenerasse una tensione eversiva interna alla stessa determinazione unitaria logicamente esclusiva e dunque polemica, che atraversa l‟intera storia della Chiesa dokematica, concepita alla stregua di un Imperium ecclesiale. A fronte di tale pretesa unitaria, la struttura policentrica delle concrete chiese locali, quali comunità spirituali e di culto, deriva dalla diversa articolazione socio-culturale della ricezione storica del messaggio evangelico, per cui la garanzia di ortodossia da parte di una autorità ecclesiastica imperiale doveva presupporre una unità di senso esclusiva di ogni difformità di versioni particolari, che la fede, quale esperienza del rapporto della coscienza singolare con Dio, di per sé non ha, né presuppone. E dunque solo l‟assunzione, arbitraria e dunquecontingente, e delle forme giuridiche della tradizione romanstica e del metodo di analisi del pensiero razionalistico della tradizione filosofica greca, poteva concepire il corpus mysticum dell‟unità dei 399

fedeli come un ente ideale di pensiero logico, trasformando di conseguenza ogni concreta comunità ecclesiale in una astratta determinazione particellare dell‟universitas giuridica cristiana, al di fuori di ogni considerazione esistenziale. Entro l‟orizzonte di pensiero teologico-politico della Chiesa dokematica, era spontanea la dicotomia tra lo status regni dell‟ente ecclesiastico giuridicamente rappresentato, la cui persona stabiliva rapporti diplomatici e conflittuali con altri enti giuridico-politici storici, e lo status Ecclesiae in senso mistico, nella quale si riconoscevano anche i polemisti e i nemici politici della Chiesa dokematica in cui il papa administrat ut rex. 809 Va da sé che solo l‟universitas della Chiesa dokematica, creatura umana, poteva definirsi come “naturale” e perciò moritura, laddove il corpus mysticum Christi era l‟unica realtà veramente divina ed “eterna”. La conseguenza più significativa di questa duplice articolazione ecclesiale riguarda la diversa fisionomia ideale del Governo delle rispettive realtà comunitarie. Nel caso, infatti, della Chiesa dokematica a struttura imperiale, fu possibile costruire intorno alla figura del Papare un apparato di Potere, accentratore ed esclusivo, non diverso da quello politico, ma anzi come abbiamo visto, esso stesso fungente da modello giuridico-istituzionale per gli organismi statuali nascenti nell‟Europa medievale. Diversamente, sia per il carattere essenzialmente libero dell‟intima adesione spirituale alle chiese locali, che per la loro spontanea definizione comunitaria, la loro concreta esperienza esistenziale esigeva un Governo di tipo carismatico inevitabilmente personale, e quindi soggetto allo spontaneo riconoscimento dei fedeli alla loro guida spirituale. Ovviamente, i due

809 I canonisti, non soltanto elaborarono una dottrina che faceva figurare il vescovo come “tutore o guardiano della propria chiesa”, ma, essendo la Chiesa equiparata alla respublica, per godere dell‟istituto della restitutio in integrum, era rappresentata “come un minorenne”, sia pure in contraddizione con la sua natura di sponsa. In seguito la dottrina della perpetua minorità della Chiesa fu “trasferita alla Corona”, compresa nella massima fiscale per cui “Nullum tempus currit contra regem”. In tal modo, attraverso la loro comune considerazione come corporation, si creò un coordinamento logico-giuridico tra “corona” ed “ecclesia”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 321-324. 400

ruoli potevano coesistere nella stessa funzione pastorale, ma è altrettanto certo che la guida carismatica della concreta comunità ecclesiale ha rappresentato anche per la Chiesa istituzionale un elemento imprescindibile per la stessa costruzione storica della tradizione cristiana, che nella beatificazione e santificazione delle personalità più eccezionali trovava i formali momenti di riconoscimento ufficiale. Ciò comprova che il viatico alla santità, per quanto contraddeto dalla gestione politica della Chiesa istituzionale, rimane l‟elemento coesivo spiritualmente più significativo del corpus mysticum dando ad esso il carattere soteriologicamente identitario, senza il quale la vicenda storica della Chiesa istituzionale avrebbe già da tempo trovato il suo naturale epilogo politico. In questo senso, la Chiesa pneumatica, all‟interno della quale si sviluppano i processi spirituali di significato escatologico, costituisce, rispetto alla tendenza mondanamente dissolutoria della terrena Chiesa istituzionale, la forza katechontica che ne impedisce la deriva anti-cristica, evitando la sua completa omologazione all‟ Imperium cesareo. La maggiore e più significativa traslazione concettuale operata dalla teologia cattolica all‟ideologia politica ha interessato il rispecchiamento dell‟unità spirituale in Cristo nell‟uguaglianza di ogni suddito di fronte al Potere dello Stato, equiparando l‟unità mistica in Cristo all‟uniformità di trattamento di fronte alla legge. Concependo la figura sovrana del Papa, sulla falsariga di quella imperiale romana, la teologia cattolica ha assunto il pricipio naturalistico della logica filosoficogiuridica, che considera gli enti reali come proiezioni accidentali del modello ideale, considerando razionale la condotta conforme al modello, creduto naturale. Ciò implica l‟uguaglianza degli enti mondani, e quindi la loro perfetta interscambiabilità logica. Trattandosi però di esseri umani, la loro astratta equiparazione logica a enti naturali, omologandoli ai membri di ogni altra specie biologica, omette di considerare ciò che per la coscienza cristiana è essenziale, ossia la loro natura spirituale, in virtù della quale ogni uomo è una singolarità morale che sviluppa, mercè il libero arbitrio, una storia esistenziale. Questa storia non può essere considerata rilevante dal Potere dominante, la cui prerogativa di dominio sussiste sul presupposto che ogni uomo sia ugualmente sottoposto alle sue leggi, valevoli erga omnes, ossia che ogni uomo sia uguale di fronte al Potere. 401

L‟uguaglianza dei sudditi è la condizione di esercizio della sua supremazia. Il Potere, assumendo come rilevante ai fini del dominio l‟uguaglianza naturale degli uomini, prende in considerazione la sola natura biologica dell‟uomo, e dunque i suoi bisogni naturali, controllando le “sorgenti della vita”, ossia si esplica amministrandole nella convivenza sociale. E pertanto, l‟oggetto del Potere, qualunque siano le forme e i modi in cui storicamente si esprime, è il dominio sull‟uomo attraverso l‟amministrazione dei suoi bisogni naturali, utili alla sua vita biologica. Il dominio del Potere politico socialmente razionalizzato in istituzioni giuridiche da forma allo Stato di diritto, il cui modello teorico costituisce la forma ideale di Potere. L‟elemento spirituale dell‟uomo, rilevato dal Cristianesimo come consustanziale alla natura biologica dell‟ homo politicus, non può essere amministrato direttamente dal Potere, in quanto non pertinente ai dati naturali della sua vita individuale e collettiva, ma solo indirettamente, attraverso la razionalizzazione del sacro in senso funzionale alla vita sociale politicamente dominata. Razionalizzare il sacro significa oggettivarlo, farne un ente di natura rappresentabile fisicamente, e fornirlo perciò di intermediari col Potere. L‟essenza politica della religione ha fatto di questa uno strumento di controllo della sfera invisibile della coscienza umana, dominata dalla paura dell‟inconoscibile. Portandolo alla conoscenza, la religione consentiva al Potere di dominare la paura umana ai suoi fini politici. Anche la filosofia, contemplando l‟invisibile, lo rappresenta attraverso la parola, la cui tecnica evocativa diventa strumento di controllo eidetico da parte del dialettico. La lotta sostenuta dalla filosofia contro la mitologia verteva appunto sul controllo dell‟invisibile, del ni-ente, che abitava in un luogo meta-fisico. Portare in evidenza il ni-ente equivaeva a trasformarlo in ente, in prodotto del pensiero, dandogli una de-finizione, un limite che lo rendeva anche esteticamente rappresentabile e dunque rendendolo necessario entro un sistema di pensiero. Ciò che è il Potere per il dominio politico della società, è la Necessità per il dominio teoretico dell‟Essere. Entrambi, Potere e Necessità, stabiliscono un rapporto di con-fusione della molteplice realtà degli enti rispettivamente dominanti nell‟unità della loro posizione esclusiva, per cui ogni ente, umano o naturale, sussiste solo in quanto riconosciuto 402

come esistente dal modello ideale o, rispettivamente, politico che lo pone in essere. Ciò che il concetto pone, e dunque la posizione concettuale, il Potere dispone attraverso le sue istituzioni giuridiche, le quali assumono come reali eventi altrimenti in-esistenti. La trasformazione di un ni-ente in un ente è operazione comune alla religione, alla filosofia e al diritto, le cui figure intellettuali, trascritte simbolicamente in forme plastiche, sono l‟oggetto estetico dell‟arte, la quale consiste appunto nel dar corpo sensibile all‟invisibile di cui trattano la religione, la filosofia e il diritto. La caratteristica comune a queste tre, o quattro, discipline teoriche è la reductio ad unitatem del molteplice, e dunque la loro astratta rappresentanzione della realtà in divenire in modelli ideali corrispondenti. La corrispondenza di ogni ente particolare al suo modello ideale è la condizione della sua stessa riconoscibilità reale. Ciò che la corrispondenza è in senso ideale, è la appartenenza in senso politico, che consiste appunto nella riduzione del diverso allo stesso. La reductio operata sia dalla corrispondenza ideale che dalla appartenenza politica, agisce esclusivamente su una realtà concretamente molteplice rendendola semplicemente omogenea, ossia rendendo semplice la sua complessità eliminando da ogni ente diverso la sua diversità, che per l‟uomo è la sua singolarità spirituale. Nell‟opera di semplificazione ontologico-politico-giuridica consiste la violenza del Potere, il quale domina la molteplice realtà concreta imponendole l‟unità del suo astratto modello ideale come razionalmente necessario alla esistenza dell‟ente, e dunque facendo della Necessità la Dea, la Legge di natura e l‟Istituto sociale della stessa vita umana. La predicazione di Gesù interviene a scardinare l‟Essere dai perni della Necessità nei quali l‟aveva affiso il pensiero razionalistico antico, che escludeva dalla sua antropologia proprio ciò che per la visione cristiana è l‟essenza precipua e originaria dell‟uomo, la Libertà, in cui consiste l‟unicità e irripetibilità della sua esistenza singolare, in quanto essere spirituale, e non naturale. La natura umana, spiritualmente trasfigurata, poneva la singolarità dell‟uomo come l‟elemento divino di Verità custodito in interiore homine, che il Potere non considerava e le religioni politicizzate negligevano a favore degli astratti modelli legalistici di morale pubblica. Rappresentando il “Regno di Dio” come un luogo inaccessibile al Potere, Gesù emancipava il singolo uomo dalla necessità sia della 403

specie biologica che dalla natura artificiale della condizione politica, rendendolo, non più un mero ente di ragione, ma una creatura divina avente in sé il suo fine spirituale, la fede nella Libertà dello Spirito, cioè in Dio, e dunque non disponibile a servire da strumento di un fine, naturale o collettivo che fosse, astratto dalla sua stessa concreta esistenza spirituale. Ponendo l‟uomo come una duplice realtà, che trovava in Cesare la sua completezza biologica, e in Dio la sua completezza spirituale, la concezione cristiana mnava alla radice l‟unità metafisica sulla quale si reggeva il Potere, consistente nella identità logicamente necessaria della Ragione umana con l‟Essere naturale, pensando la prima non più come una totalità ma come una possibilità, togliendole così il dominio ontologico del mondo, e il secondo come una creazione divina al servizio (della salvezza) dell‟uomo, privandola così del suo carisma sacrale. Scardinata dai suoi postulati ontologici razionalistici, l‟esistenza dell‟uomo si libera dal destino metafisico della Necessità e del Potere, disponendosi a una modalità di convivenza inter-personale, non più fondata sul riconoscimento polemico dell‟altro come polo dialettico del sé, ma bensì sulla volontaria adesione alla esistenza dell‟altro come il fine stesso della propria, unite nell‟amore comune al Cristo. L‟unità ecclesiale in Cristo diventava un modus vivendi radicalmente diverso da quello politico costituito dal Potere, che poteva controllare e infierire sulla carne dell‟uomo, ma era del tutto impotente a regnare sull‟intima e divina Libertà. Il Governo della comunità ecclesiale non poteva somigliare al Potere politico, poiché si rivolgeva alle singole anime, non alla collettività convivente dei corpi, sicché le due autorità dovevano avere una natura diversa e una amministrazione distinta. La loro distinzione non era paragonabile a quella tra Corona e Sovrano, poiché ineriva ad aspetti ontologicamente diversi dell‟umana esistenza, e non logicamente distinti, sicché non era neppure possibile porli in rapporto dialetticopolemico, come invece storicamente è avvenuto tra la Chiesa e lo Stato. Ma quello che ora maggiormente importa è fissare la differenza tra Potere e Governo. Infatti storicamente la politeia ha potuto soppiantare il Governo tradizionalmente legato ai valori della Weltanschauung mitologica in virtù della razionalizzazione della vita sociale in termini politici, semplòificando quindi la vita comunitaria alla sola relazione dei rapporti legali, fissati imperativamente da una autorità di Potere 404

creata ad hoc da un patto civile tra cittadini eguali, costituitisi tali non perché lo fossero realmente, nella loro vita sociale, ma in virtù di una statuizione di legge (isonomia), che trasformava la loro identità tradizionale in una nuova, appunto politica. Costituzione dello spazio politico pubblico, semplificazione dei rapporti sociali e sostituzione della legalità con la normazione tradizionale sono elementi di uno stesso processo storico di razionalizzazione del mondo antico. Parimenti, razionalizzazione del mondo, ed esautorazione della funzione del Governo morale con quella del Potere legale, sono aspetti simmetrici e corrispettivi della costituzione della topologia del politico. Storicamente, la forma istituzionale che meglio realizza una struttura razionale di Potere donandole una sofisticata fisionomia giuridica supportata eticamente da una forte legittimazione religiosa è la Chiesa imperiale di Roma, erede diretta dell‟antico Imperium romanum, la quale ha funto da modello ideale dello Stato laico, che essa stessa ha concepito come la sua proiezione secolare e il polo dialettico della sua azione politica universale. Inutile aggiungere che la Chiesa di cui si parla è la Chiesa dokematica, ispirata al principio razionalistico dell‟unità religiosa, in cui l‟ideale della “dignità” imperitura del papato prende il posto di Dio eterno,

810 e

810 Il principio giuridico della dignitas che, a differenza della titolarità degli individui fisici “nunquam perit”, fu coniata dal papa Alessandro III all‟inizio del sec. XIII, e incluso nel Liber Extra di Gregorio IX come Quoniam abbas e quindi confermato da Innocenzo IV nel suo Apparatus alle Decretali. Infine Bonifacio VIII, inserendolo nel suo Liber Sextus, lo estese come fictio juris razionale alla Santa Sede quale dignità del papatus che, come l‟imperium e la stessa dignitas, “non moritur”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 331-332. Come a suo tempo sottolineato da Baldo, “l‟impertatore può morire nella persona, ma la dignità in sé, o l‟imperium, è immortale, proprio come il sommo pontefice muore, mentre il sommo pontificato non può morire”. E dunque, anche nel caso della Chiesa, come in quello similare dell‟Impero o della Corona, “è evidente che il valore della perpetuità non era più centrato essenzialmente sulla divinità, né sull‟immortale idea di giustizia o in quella di diritto, quanto piuttosto sull‟universitas e sulla dignitas, entrambe immortali”: Ivi, pag. 341. Tale dottrina 405

non la Chiesa pneumatica, ispirata al principio della fede soteriologica nella “santità” eterna. Il predominio storico dell‟una sull‟altra rappresentazione ecclesiale è conseguente all‟adozione preferenziale del carattere universale e quindi razionalistico-politico della conversione cristiana, estesa a interi popoli e alle nazioni comprese nei confini dell‟Imero romano, sul carattere elettivo della metanoia individuale, la quale non comporta una mera adesione esteriore ai culti cristiani e quindi alla loro considerazione prettamente religiosa, ma implicava e coinvolgeva un cambiamento radicale dei modi di vita tradizionali. Diventando una religione di Stato, il cristianesimo diventa instrumentum regni, anche se esercitato da parte della stessa Chiesa istituzionale. Infatti, fu la Chiesa che da corpus mysticum, secondo quanto sancito dal dogma contenuto nella bolla di Bonifacio VIII Unam Sanctam del 1302, assunse carattere corporativo (corporation), diventando una universitas, ossia un ente giuridico che nella sua persona idealis comprendeva beni, terre e uffici religiosi (collegia) e così alimentando la sostituzione della dignitas con il corpus, che anche per la Chiesa assunse un carattere politico, ossia uno statuto omologo a quello inerente agli affari mondani dei regni secolari. Il passaggio dalla dignitas al corpus politicus non segna soltanto una traslazione nomenclatoria del gergo giuridico canonistico a quello laicale, ma indic il processo di idealizzazione in senso politico delle concrete comunità sociali, le quali persero così la loro tradizionale fisionomia culturale e religiosa particolare, per assumerne una astratta e generale, inclusa nell‟organismo politico per mera sussunzione razionale. La conseguente impersonalità del Potere, esercitato ex officio su un corpo politico anonimo, si poteva logicamente affermare ed effettualmente esercitare solo a scapito del rapporto personale e carismatico tra i maggiorenti e le popolazioni autoctone, ossia a detrimento della forza dei Governi locali in cui si articolava il sistema feudale. Il rex e la lex andarono sempre insieme. Ma ciò che va in ogni caso tenuto presente è che la trascrizione in termini razionalistici della realtà trascendente la finitezza delle cose mortali, non servì a liberare la

canonistica fu poi trasferita nel sec. XIV “alla sfera secolare, agli imperatori e ai re”: Ivi, pag. 344.

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realtà materiale della vita umana dalle catene della necessità, ma viceversa a collegare a quelle catene, ossia al destino, anche la libertà spirituale dell‟uomo insegnata dalla predicazione evangelica. E ciò che doveva rimanere estranea alla dimensione terrena e alle sue logiche di dominio, finì per rappresentare una forma solenne di legittimazione religiosa del Potere politico, alla cui razionalizzazione veniva conferito un crisma di divina trascendenza, che priettava nell‟ ideale quella fede destinata allo spirituale. In campo strettamente ecclesiologico, l‟oggettivazione teologicogiuridica della stessa realtà della Chiesa di Cristo in istituzione storica papale, produsse la sostituzione del alla mistica  ispirata da Gesù, cioè un idolum tribus alla concreta comunità di fede, con la conseguente declinazione dell‟ispirazione cristiana al trascendente in termini di mondana perpetuità istituzionale, secondo i classici moduli pagani. 811 Ciò provocò una possibile interscambiabilità tra la figura del pontefice e quella dell‟imperatore che trovò nel 1062, all‟inizio delle lotte delle investiture, in Pier Damiani il suo più lucido teorico.812 Ma fu in Baldo che si giunse alla identificazione della dignitas quale persona intellectualis, ossia del concetto giuridico, con la dignitas quale persona publica, ossia col corpo politico, e pertanto alla identità del corpus politicus col Rex, ossia lo Stato, di cui il re empirico e mortale è lo strumento incarnato ella sua dignitas, cioè del suo

811 Come si riporta in una collezione del sec. XII di definizioni legali desunte dalle Istituzioni, “c‟è solo una cosa umana a essere sacra: le leggi; e c‟è un‟altra cosa divina a essere sacra: tutto ciò che riguarda la Chiesa”, con l‟ientificazione tra la volontà legalizzata del Potere sacralizzato dello Stato sovrano e la secolarizzazione dei beni ecclesiastici, che diventavano instrumenta separata, non in senso sacramentale di Cristo, ma in senso profano di un ente mondano. Cit. da E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pag. 57. 812 “Si trattava di una presa di posizione di carattere politico a livello quasi cosmico e che proponeva che i due poteri universali fossero incorporati l‟uno nell‟altro allo stesso modo in cui l‟ufficio regale e quello sacerdotale erano stati ridotti ad unità e quasi vicendevolmente “incorporati” nel divino modello dei due poteri, Cristo”: E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 376. La “confusione”, che però non era semplicemente “terminologica”, tra “corpo mistico di Cristo” e “corpo mistico della Chiesa”, si produsse soprattutto nella Chiesa: Ivi, pag. 384. 407

princièpio o essenza ideale. e così la distinzione ideale e l‟unione reale dei “due Corpi del Re” hanno dato luogo al dogma dell‟Incarnazione politica, una incarnazione noetica della dignitas o del corpo politico, e quindi una nuova versione secolarizzata dell‟unione ipostatica della prima e della seconda persona, della dignitas e del rex”.813 La rappresentazione giuridico-concettuale della scorporazione della dignitas dalla figura reale del re, e della sua incorporazione nella figura ideale del Re, si rese possibile mercè la mediazione del modello idealistico della realtà come proiezione del pensiero, filtrato attraverso la cristologia cattolica e la rilettura in chiave canonica della tradizione romanistica dei giuristi italiani. L‟idea della Chiesa come il corpus mysticum Christi, canonizzata dalla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII nel 1302, che servì efficacemente il papa “come arma nella lotta mortale che lo contrappose a Filippo il Bello re di Francia”,814 trasformando il “corpo eucaristico” dei fedeli nel corpo politico della cristianità, inaugura concettualmente il processo di secolarizzazione della Chiesa, in quanto “santificava il corpus Christi juridicum, la gigantesca amministrazione giuridico-economica su cui si fondava l‟Ecclesia militans”, collocando “la Chiesa come corpo politico, o come organismo politico-giuridico sul medesimo piano dei corpi giuridici laici che stavano allora cominciando ad affermarsi come entità autosufficienti”,815 accreditando nel contempo la sfera politica come il

813 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 381. 814 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 168. 815 Già intorno al 1200, Simone di Tournai – che non fu il solo - aveva identificato il “corpo spirituale” di Cristo con il corpo “collettivo” inteso come “collegio ecclesiastico”: Ivi, pagg. 169-170. Il trapasso dal senso spirituale al senso sociologico del “corpo” cristiano avviene, come affermato nel testo, attraverso la mediazione concettuale razionalistica di tipo filosofico-giuridico, incrociando la tradizione romanistica con quella ellenistica. “In questa nuova teorizzazione dei „Due Corpi del Signore‟ [possiamo] riconoscere il precedente più preciso dei „Due Corpi del Re‟.[…] In questa evoluzione Tommaso gioca un ruolo chiave [col] sostituire, direttamente, il linguagio liturgico con quello giuridico”, per cui il corpus Christi è diventato persona mystica, ossia corpus iuridicum, il corpo politico, una astrazione sociologico-giuridica, la “corporazione di Cristo”: Ivi, pagg. 171 e 173 sgg.

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luogo elettivo di ogni realtà storica cristiana. Con la traslazione dell‟unità sacramentale in unità politica (tota politia christiana) si opera la fondamentale metabasi dell‟idea di cristiano regno della Libertà in profano regno della Necessità, prototipo di ogni altra razionalizzazione politica entro la civiltà europea.816 Non tenendo in debito conto l‟origine teologico-politica del processo di progressiva secolarizzazione della cultura europea, e le sue articolazioni modali, non si potrà giungere a comprendere neppure la questione fondamentale che idealmente la caratterizza sul piano etico-politico, ossia la risoluzione di ogni posizione razionale, propugnatrice di Libertà, intesa come emancipazione dell‟Essere dal suo fondamento di fede pre-razionale, nel suo opposto effettuale, la Necessità, congiunta a ogni processo di razionalizzazione del mondo, e conseguente alla stessa concezione idealistico-platonica dell‟Essere come modello universale dell‟ente, tale che la sua proiezione ideale (la Chiesa, la dignitas, la Società, lo Stato, la Nazione, la Classe, il Partito, il Mercato) ne determinasse la vera realtà, appunto ideo-logica e ipostatica, con il relativo feticismo idolatrico e le sue “alcinesche seduzioni” sociologiche. Infatti, la traslazione concettuale dal campo teologico a quello giuridico-politico fu resa possibile in conseguenza della fruizione congiunta degli stessi strumenti teoretici mutuati da parte della teologia cristiana dalla tradizione ellenistica, e quindi diffusi come paradigmi intellettuali nella

816 “Nella misura in cui la Chiesa fu interpretata come un‟entità politica simile ad ogni altro corpo giuridico laico, anche la nozione di corpus mysticum andò assumendo contenuti politici laici”: Ivi, pag. 174. “La nobile concezione del corpus mysticum , dopo aver perso granparte del suo significato trascendente ed essere stata politicizzata e, per molti versi, secolarizzata dalla stessa Chiesa, divenne facile preda del mondo intellettuale dei politici, dei giuristi e degli studiosi in procinto di sviluppare nuove ideologie per i nascenti Stati territoriali e laici [inducendoli] ad una non superficiale appropriazione della terminologia non solo del diritto romano, ma anche di quello canonico e della teologia in generale”, fino a giungere, con Vincenzo di Beauvais, a indicare il corpo politico dello Stato col termine “corpus reipublicae mysticum”, giungendo così a “sfruttare le ricchezze delle dottrine ecclesiastiche trasferendo allo Stato laico alcuni dei valori soprannaturali e trascendenti tradizionalmente riconosciuti alla Chiesa”: Ivi, pagg. 178 e 179. 409

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