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51 Ivi, pag
filosofico lo era nel senso che ognuno distintamente (omnis, ) vi poteva attingere attraverso il viatico dialettico, ma non che tutti indistintamente (universi, ) lo potessero né lo dovessero. La destinazione indistintamente universale delle idee è un‟istanza politica, originata dal bisogno di difendere il filosofo dall‟ignoranza del collettivo e dal sopruso del Potere, e prodotta dalla loro trasformazione in ideo-logie sociali, concepite pragmaticamente come norme vigenti per tutti indistintamente (erga omnes). La socializzazione delle idee ha comportato l‟assunzione dell‟universalità filosofica in universalità sociale, con la conseguente trasformazione del pensiero elettivo () in una credenza condivisa (). Quanto dalla Arendt sostenuto, che “per sé le idee non hanno assolutamente nulla a che vedere con politica, l‟esperienza politica, o il problema dell‟azione”457 non è pertanto esatto, poiché il fondamento veritativo delle idee, alternativo a quello sociale (della dòxa) e a quello religioso (del Mito), è nella loro supposta universalità, intesa come universale possibilità di fungere da modello assiologico dell‟azione razionale, rispetto al quale ogni altra determinazione finita diventa logicamente incongrua e quindi moralmente biasimevole. Da qui l‟annessa istanza deontologica di ogni principio ideale del filosofo (il Bello), la ricerca del miglior regime di governo per l‟uomo politico (il Bene),458 quale prioritario programma d‟azione del Potere, funzionalmente pedagogico. Ma la sostituzione dell‟ “educare” al “governare”, rilevata dalla Arendt,459 era insito nel ruolo governamentale originariamente esercitato dalle aristocrazie sociali e che il Potere politico aveva avocato a sé. Tale ruolo originariamente non era meramente decisorio ma soprattutto direttivo, proprio perché intrinseco all‟autorità morale che lo costituiva, e coinvolgeva tutti indistintamente. L‟idea che la politica coincidesse con “il diritto di aver parte nel disbrigo degli affari pubblici”,460 è quanto meno riduttiva, rifacendosi alla fase dialettica e, per così dire, dibattimentale, laddove la fase deliberativa e decisionale
457 H. Arendt, Loc. cit., pag. 156. 458 Ivi, pag. 177. 459 H. Arendt, Loc. cit., pagg. 163 sgg. 460 Ivi, pag. 164.
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non poteva ammettere restrizioni di ordine esistenziale o sociopedagogiche nei destinatari, ma aveva una valenza normativa erga omnes. Ed è in questa fase, propriamente governamentale, che prende il suo rilievo l‟autorità del Governo, la cui legittimazione tradizionale costituiva il viatico morale delle decisioni attuali. Autorità che manca al Potere, che se ne serve solo per scopi di dominio,461 in quanto la sua natura è di sconfessare l‟autorità della tradizione, in nome di valori universali destoricizzati, impositivamente e non tradizionalmente vigenti, che potevano dunque essere solo imposti con la forza. Da questa tensione di principio tra l‟istanza performativa del Potere e quella educativa del Governo origina la situazione contraddittoria di un Potere che afferma il suo principio d‟ordine (potestas) a scapito dell‟ordine tradizionale (auctoritas), cioè creando disordine sociale, al quale esso stesso si dispone a ovviare instaurando un novus ordo. La novità è il contrario della tradizione, così come il potere lo è dell‟autorità. Infatti, come ricorda la Arendt, “caratteristica principale dei detentori dell‟autorità è di non avere alcun potere”, consistendo essa nella credibilità morale del loro giudizio sugli affari pubblici, che risulta “autorevole proprio in quanto consiste in un puro e semplice consiglio che non richiede, per essere seguito, né la forma imperativa, né alcuna coercizione esterna”.462 E allora, ci chiediamo, donde nasce l‟autorità? Essa non può che nascere dalla credenza nella sua importanza, ossia dalla fede nella sua necessità, che è quella di farsi portatrice della volontà superna degli dèi. L‟autorità è dunque portatrice di saggezza, di capacità, non di discernimento ideale tra Bene e Male, ma di contemperanza nella valutazione dei due aspetti indisgiungibili della realtà nel caso concreto, quello che richiede la decisione saggia, che ha cioè per la sua responsabilità conseguenze reali. La saggezza è la verità del caso concreto, quanto il concetto categoriale lo sia del caso astratto. La decisione saggia ha come virtù la responsabilità, cioè la coerenza morale, mentre il concetto ha per virtù la razionalità, cioè la coerenza logica. La coerenza morale considera rilevanti le conseguenze possibili dell‟azione, i potenziali effetti collaterali di un‟azione che non esaurisce
461 Ibidem. 462 Ivi, pagg. 168-169.
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i suoi effetti al suo presente ma in un futuro indeterminato, mentre la coerenza logica considera dell‟azione le conseguenze necessarie, quelle dipendenti esclusivamente dal diretto nesso causale di una relazione la cui sequenza prossima definisce i suoi effetti al tempo stesso dell‟azione, cioè al presente. Lo scenario della decisione saggia è quello della storia, magistra vitae463 e dunque inclusiva della coscienza del divenire, laddove lo scenario della decisione razionale è la realtà ideale dell‟Essere attuale, astratto dal divenire della vita concreta, ossia dal passato stesso di un popolo. “Il modo in cui Platone ed altri, prima e dopo di lui, trattarono Omero, „l‟educatore di tutta l‟Ellade‟, a Roma sarebbe stato inconcepibile”.464 Invece lo spazio politico in senso razionalistico greco si costituì come realtà parallela alla tradizione e superatrice di questa; ossia come uno spazio secolarizzato, distinto dai valori religiosi comuni. Fin quando il era l‟attività privata del metafisico, lo spazio sociale tradizionale rimaneva quello pubblico in cui ogni membro si riconosceva come parte organica, ma allorquando a definirsi pubblico pretese quello politico, i contenuti della tradizione furono ricacciati nell‟ambito privato, con una inversione di prospettiva rispetto al tradizionale filosofare come attività privata. E ciò comportò anche una inversione del senso dell‟autorità, che dalla tradizione si trasferì al postulato di ragione, rispetto alla cui eternità la vetustà dell‟esperienza del passato divenne irrisoria. Proprio la rimozione dell‟unità sociale tradizionale, la religione, impose alla sfera politica filosoficamente riformata la questione di un novello legame tra gli uomini liberati dalla solidarietà morale tradizionale, ossia la vigenza di un‟etica pubblica di tipo razionale, impersonata da un‟autorità di tipo politico, quella del Potere, la quale, imponendosi su uomini per definizione “liberi” e dunque uguali, nella loro condizione di libertà, assumeva una natura oligarchica, senza essere, come invece l‟autorità
463 “I precedenti (le azioni degli antenati e l‟uso nato da queste) erano [per i Romani] sempre vincolanti. Qualunque cosa accadesse era trasformata in esempio: la auctoritas maiorum corrispondeva ad altrettanto autorevoli modelli del comportamento reale, a veri e propri criteri di etica politica. […] Il passato risulta santificato dalla tradizione appunto in tale contesto principalmente politico”: H. Arendt, Loc. cit., pagg. 169 e 170. 464 Ivi, pag. 170.
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tradizionale, di tipo aristicratico. La differenza dell‟oligarchia politica dall‟aristocrazia sociale consiste essenzialmente nella diversa legittimazione dell‟una e dell‟altra: una legittimazione razionale, quella politica, legata alla funzione di comando; una legittimazione storica, quella aristocratica, legata alla tradizione spirituale. La forza dirompente del pensiero ideo-logico fu sin dall‟origine nella pretesa di volersi costituire come “mondo”, come realtà universale, ossia come la “forma mediante la quale noi comprendiamo in una unità la totalità di dati reali o possibili”,465 costitutivi l‟oggetto del pensiero logicorazionale, l‟unico ritenuto idoneo a pensare la realtà come Bene, che “è la misura di tutte le cose”, come ci ricorda Platone nel Politico. La realtà pensata come mondo dal filosofo e come spazio politico dall‟artifex detentore del Potere, e non quella mitica contemplata dall‟auctor depositario dell‟auctoritas della tradizione.466 L‟aspetto “derivato” della filosofia politica è dunque della filosofia greca in quanto pensiero mondano, cioè profano e secolarizzato, che critica il suo originario fondamento sacro emancipandosi dalla tradizione religiosa. Il Cristianesimo poté adottare la filosofia come pensiero teo-logico in quanto critico verso la tradizione mitologica pagana, e tradizionale rispetto all‟adozione che ne fece la cultura romana della quale la Chiesa si professava erede storica e suo inveramento religioso. “Di fronte a questo compito di natura realistica e secolare, la Chiesa divenne così „romana‟, adeguandosi così completamente alla mentalità romana, da costituire la morte e resurrezione del Cristo in pietra angolare di una nuova fondazione, sulla quale veniva eretta una nuova istituzione umana eccezionalmente stabile”.467 I due movimenti universalistici conversero nel comune orizzonte politico come lo spazio esistenziale sia della fede trascendente e sia della vita terrena dell‟uomo, dando origine alla civiltà liberale caratterizzata dall‟equilibrio instabile della fides e della ratio imploso in età moderna.
465 G. Simmel, Lebenschauung (1918), tr. it., Milano, 1938, pag. 102. 466 H. Arendt, Loc. cit., pag. 168. 467 H. Arendt, Loc. cit., pag. 171.
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Il simbolo più pregnante di tale eredità della Chiesa fu l‟adozione romana della distinzione tra “la sacra autorità”, riservata “ai papi” (auctoritas sacra pontificum), e “il potere dei re” (regalis potestas), lasciato ai principi di questo mondo, secondo le parole di Gelasio.468 A seguito del processo di civilizzazione cristiana in senso teopoliticamente universale, ossia “in quanto [la Chiesa] assunse la filosofia greca nel corpo delle sue dottrine e dei suoi dogmi”, la filosofia idealistica di Platone poté spiegare “tutta la propria efficacia politica soltanto con il cristianesimo”.469
5. Col Cristianesimo, la concezione dell‟immortalità dell‟anima, che Platone riferiva a pochi eletti, divenne una dottrina universale “elaborata a fini politici e palesemente destinata alla massa”,470 alla quale il filosofo aveva destinato, anziché il ragionamento logico a essa inattingibile, rappresentazioni favolistiche di “senso puramente politico”.471 Se in Platone il confine tra l‟idea del Bello e l‟idea del Bene rimase sfumato, a tal punto da essere interscambiato, ciò non avvenne in riferimento alla “distinzione tra un‟anima immortale, invisibile, incorporea, e una vita ultraterrena in cui corpi sensibili al dolore patiranno il loro castigo”,472 il cui carattere politico è attestato dalla contraddizione del previsto castigo post mortem riservato ai corpi mortali, che pure già in vita, come narra il mito della caverna nella Repubblica, subiscono la loro condizione infernale. Tale carattere politico fu confermato da Agostino, le cui teorie sull‟inferno, il purgatorio e il paradiso avevano il valore di “minacce per la vita di questo mondo”.473 Il dio teologico che vi si rappresenta, già preconizzato da Platone nella Repubblica, “non è un Dio vivente, né il dio dei filosofi, né una divinità pagana [ma] un espediente politico” che funge da “criterio in base al quale si possono fondare città e stabilire
468 Ved. H. Arendt, Loc. cit., pag. 173. 469 Ivi, pag. 174. 470 Ivi, pag. 176. 471 Ivi, pag. 177. 472 Ibidem. 473 Ivi, pag. 178.
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norme di comportamento per la massa”, essendo la teologia per il filosofo parte integrante della scienza politica, “per l‟esattezza, quella che insegna ai pochi l‟arte di governare i molti”, sicché “lungo tutta l‟antichità la dottrina dell‟inferno continuò a essere usata ai fini politici, a difesa dell‟interesse dei pochi a conservare il controllo politico e morale della massa”. Questa infatti non è in grado di vedere la verità, e perciò ha bisogno di credere a quanto “nello stesso tempo è evidente, invisibile e trascende ogni discussione” logica, come avvertito da Platone nella sua Settima lettera, per non restare soggiogata dalle “favole irresponsabili” narrate dai poeti, e per tal via “indotti a comportarsi come se conoscessero la verità”.474 La credenza nelle punizioni eterne dell‟Inferno aumentava il terrore deterrente dell‟uomo anche nel confronto con le punizioni corporali inflitte dal potere secolare. “Ma tale acquisto di potenza” da parte della Chiesa sulle masse “avvenne a prezzo di un indebolimento del concetto romano dell‟autorità e del conseguente insinuarsi, sia nella struttura del pensiero religioso occidentale, sia nella gerarchia della Chiesa, di un elemento di violenza”, del tutto estraneo alla predicazione evangelica.475 D‟altro canto, la religione, perdendo con la secolarizzazione della cultura moderna la sua componente politica, ha privato anche la vita pubblica della sanzione di una autorità trascendente, senza la quale non si sarebbe pervenuto ad alcun convincimento della massa “a conformarsi ai criteri di pochi”, facendo discendere l‟ideale del Bene “dal regno delle utopie alla realtà”.476 Ciò farebbe supporre una funzionalità della religione cristiana, snaturata dalla sua destinazione originaria di fede. il che è certamente vero, ma sarebbe fuorviante se non ricordassimo che la filosofia, come verità alternativa a quella tradizionale, ha dovuto imporsi sulla doxa comune, ossia su quell‟opinione pubblica che proprio sulle credenze religiose tradizionali si era formata e perpetuata, per cui la funzione divulgativa di opinioni morali e di costume delle credenze religiose vi era sempre stata. La novità del platonismo era di utilizzare la vulgata religiosa in senso filosofico, facendo divenire la
474 Ivi, pag. 179. 475 Ivi, pag. 180. 476 Ivi, pag. 184.
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religione la “filosofia del popolo”. La novità della predicazione cristiana – rispetto alla concezione filosofica ma non rispetto alla tradizione ebraica - era, invece, quella di costituire la fede religiosa come la verità, alternativa a quella espressa ed elaborata dalla sapienza greca. In questo senso il mutuo cristiano dalla concezione platonica costituiva una netta inversione culturale verso una concezione ideocratica della religione, di segno nettamente filosofico e pagano. E tutto questo, ovviamente, non fu senza conseguenze per la civiltà cristiana. Infatti, spostando il rapporto tra verità e religione dalla dimensione singolare della fede al senso sociale della funzionalità politica, il concetto di autorità veniva di conseguenza a perdere la sua valenza morale per l‟acquisizione di una precipuamente etica di conservazione dello spazio politico organizzato, lo Stato, la cui “ragione” era tutta immanente alla necessità della sua sussistenza, fine economico per definizione. Servire lo Stato o servire la Verità per il cristiano doveva costituire una scelta radicale a favore di Dio a scapito di Cesare. Nel momento in cui la Verità della fede diventava religione di Stato, Dio divenne il tutore dei Cesari cristiani, custodi e reggitori di una “monarchia di Dio”. La funzione demiurgica del fondatore è quella di stabilire la potestas (), e perciò essa può essere indicata come arcaica, in quanto depositaria della (auctoritas). Rifarsi alla tradizione arcaica equivaleva ad anteporre la fondazione all‟esercizio storico del Potere, che a essa rimaneva vincolato moralmente sul piano della legittimazione. Ma, soprattutto, il rifacimento alle origini fondative del consorzio civile aveva il significato di appellarsi a un tempo di pienezza in cui la potestas e l‟auctoritas erano concentrate nelle stesse mani., per cui l‟atto di fondazione dello Stato italiano (Machiavelli) o della Repubblica francese (Robespierre) era rivoluzionario proprio nel senso di tornare alle origini della fondazione in cui i due elementi del Governo e del Potere erano ancora uniti. La “decadenza dell‟Occidente” moderno 477 riguardava dunque la perdita di legittimazione morale della politica come esercizio d‟ordine (), ed era conseguenza non alla distinzione tra religione e politica, ossia alla secolarizzazione, che era ab origine l‟elemento costitutivo della , cioè della
477 H. Arendt, Loc. cit., pag. 190.
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“costituzione dello spazio politico”, ma della loro reciproca indipendenza, conseguente alla implosione del cosmo teologico-politico cristiano medioevale, coincidente, per un verso, con la riscoperta protestantica dell‟originario motivo evangelico della sola fide, e per l‟altro con la riesumazione machiavellica della funzione teologica in senso platonico della religione come instrumentum regni. Se lo spazio politico si era idealmente costituito per soddisfare l‟esigenza di libertà insita nell‟uomo emancipato dal lavoro, approdando a una forma di domino dell‟uomo sull‟uomo che fosse condivisa, ossia razionalmente accettata, e non tradizionalmente imposta, l‟ambito della fede escatologica cristiana si era proposto all‟uomo per una liberazione proprio dallo spazio politico, ossia dal dominio dell‟uomo sull‟uomo, a favore di una communitas che fosse caratterizzata dalla volontà di un libero riconoscimento reciproco nella fede in Cristo. La differenza tra lo status della coesistenza politica e la condizione fideistica consisteva nella diversa modalità del reciproco riconoscimento tra gli uomini. Se infatti il riconoscimento politico si fondava sulla mediazione della legge (normativa e razionale), che rendeva irreversibili i rapporti legali, considerati oggettivamente razionali, il riconoscimento nella fede cristiana comune era frutto di una adesione volontaria che impegnava il convincimento interiore dell‟uomo, e non la sua oggettiva condizione legale. A maggior ragione la destinazione della fede cristiana all‟uso religiosamente strumentale prescritto da Platone e perseguito dalla Chiesa romana dava per storicamente rinnegata quella libertà in interiore homine che costituiva l‟essenza della predicazione evangelica e la premessa della differenza tra la e la . I due tipi di libertà che presiedevano ai due diversi rapporti umani ponevano, quello politico, la forza come elemento derimente, sia della fase polemica che di quella pacificatrice, e quello fideistico l‟amore come criterio unitivo di una relazionalità non polemica e caritativa. I due tipi di libertà erano diversi quanto la legge e la convinzione, ma resi opposti entro lo stesso orizzonte di fede cristiana in cui la dialettica tra Chiesa e Stato esprimeva quella polarità in termini funzionali all‟esistenza reciproca delle due istituzioni storiche. Ma il senso della reciproca diversità non poteva scomparire senza annullare la stessa rispettiva differenza istituzionale, ed essa infatti permase, secondo però una caratterizzazione strutturale del tutto opposta alle premesse costitutive, per cui la Chiesa, nata come comunità 221
solidale di uguali che si riconoscevano fraternamente nella comune fede in Cristo, divenne una struttura gerarchica improntata al principio dell‟Imperium romano trasfuso nel dogmatismo legalistico della dottrina teologica, e lo Stato, nato originariamente come spazio politico di libertà parallelo a quello degli inviolabili rapporti sociali economicamente gerarchici, garante dunque della loro sicurezza, divenne l‟istituzione che, nell‟intento di far coincidere politica e libertà, progressivamente estese il principio egalitario della cittadinanza in senso universale, fino ad annullare totalitariamente ogni rapporto socialmente gerarchico di natura pre-politica. L‟esito totalitario, sia della Chiesa che dello Stato, è conseguente alla fine dell‟equilibrio istituzionale dei due poteri legato all‟organicismo religioso medievale, ossia al processo di autonomia della religione dalla cultura moderna, e della politica dall‟autorità religiosa, la cui emancipazione dalla auctoritas religiosa, estendendo la ratio politica in senso universale, estese l‟egalitarismo politico ai rapporti sociali, violandone con la loro gerarchici la stessa sicurezza. La dissociazione dei due elementi strutturali della società europea cristiana, la ratio politica e la fides escatologica, ha fatto implodere il sistema liberale della cristianità romana, inducendo la Chiesa a perseverare, nel tentativo di accreditarsi come testimone petrina della fede cristiana, anche come custode catechonica dell‟ordine politico tradizionale pre-moderno, che presupponeva quella funzione teologicopolitica della religione cattolica che la Riforma aveva contestato e la filosofia politica moderna aveva riscoperto in senso anti-ecclesiastico. Cristianesimo e razionalismo entravano dunque nuovamente in conflitto dopo i primi secoli di assestamento delle dottrine evangeliche, e dopo oltre un millennio di conciliazione, a partire dal sec. V che inaugurava l‟età costantiniana,478 offrendo della crisi della civiltà europea una prospettiva tanto più profonda quanto meno risolvibile in termini meramente politici, coinvolgendo, insieme alla millenaria struttura istituzionale garante del sistema liberale europeo, la Chiesa di Roma, anche la coscienza religiosa dei cristiani, confliggente irreparabilmente con le forme di pensiero razionalistiche che, emancipatesi dall‟orizzonte
478 Ved. un agile resoconto in G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, 2012.
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religioso teologico, agiscono in senso filosoficamente critico delle sue rappresentazioni mitiche. Il che comporta che
vivere nella sfera pubblica senza l‟autorità (e quindi senza la consapevolezza della trascendenza della fonte di tale autorità rispetto al potere e ai detentori di questo) significa trovarsi ad affrontare daccapo, senza più fede religiosa in un principio consacrato, e senza la protezione offerta da criteri di comportamento tradizionali, e perciò assiomatici, i problemi più elementari suscitati dall‟umana convivenza.479
La conseguenza più rilevante della mancanza di autorità è l‟abbandono della vita politica alle sue ragioni, ossia alla forza delle possibili determinazioni contrarie a quelle avversarie. La stessa pratica compromissoria, che costituisce il futile vanto delle democrazie parlamentari, non è altro che un confronto di forze che perviene alla sua consapevolezza attraverso il voto maggioritario. Ciò che costituisce il fondamento debole di una prassi politica non supportata da un‟auctoritas che ne costituisca il parametro di validità, è che tale parametro sia rappresentato dall‟efficacia stessa dell‟azione, che dunque ha in sé il suo fine, identico al mezzo. Tale libertà da la morale, fa della politica lo spazio di una volontà, la cui estrema possibilità è costituita dall‟emancipazione da ogni “principio”, cioè da ogni vincolo autoritativo, tradizionale o razionale (la “virtù” di Montesquieu) che ispiri un‟azione politica, ossia dalla negazione di ogni antitesi dialettica. Ed è in questa zona franca che s‟incontrano la volontà e la libertà come dinamiche rivoluzionarie. Orbene, l‟idea che “la libertà o il suo contrario appaiono nel mondo ogniqualvolta si rendono attuali questi principi”, per cui la libertà sia “la manifestazione dei principi” e coincida con “l‟atto realizzatore”,480 significa confondere l‟atto propriamente politico con l‟azione etica di Governo, la quale non acquista il suo valore in considerazione della sua pubblicità, ossia di inerire a un ambito pubblico, ma dalla sua autorevolezza morale, ossia conformità ai principi fondativi del Potere quale autorità pubblica. Se, dunque, la condizione pubblica è lo spazio in cui appare la libertà
479 H. Arendt, Loc. cit., pagg. 191-192. 480 H. Arendt, Loc. cit., pag. 205.
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politica, come volontà del Potere, non tutto ciò che è pubblico è di per sé un atto di libertà conforme ai principii, cioè azione di Governo. Perché la libertà e la politica coincidano e siano “in relazione reciproca come le due facce di uno stesso argomento”,481 necessita che il Potere sia conforme all‟auctoritas morale, ovvero che divenga azione di Governo, trascendendo la dimensione della mera pubblicità, cioè della legalità, che è lo spazio propriamente politico in cui si è costituito lo Stato di diritto o della normativa universale. Trascendere l‟ambito pubblico, ossia della normativa universale, equivale a trascendere l‟astrattezza della legalità statale in cui si muove il Potere come “arte” della , per una decisione giusta secondi i principi relativa all‟unicità del caso concreto, che ha per oggetto di giudizio non una fattispecie astratta conforme a un modello universale di azione e di uomo, ma la realtà del caso concreto, inclusivo degli elementi imponderabili non considerati dal modello razionale stabilito erga omnes. L‟azione di Governo, quale atto morale, non va confusa con lo “stato di eccezione” rispetto alla normativa universale, ossia come una sospensione della sua validità erga omnes, poiché non ne costituisce una violazione dei principi ispirativi, ma il loro inveramento sostanziale normativamente non previsto, e proprio per questo libero. 482 L‟atto di Governo è pertanto quello che non impone norme universali, imperativi legali, ma stabilisce soluzioni di principio legate al caso concreto. Perché la decisione di Governo divenga politicamente vincolante, e quindi limitativa del Potere, necessita che il vincolo autoritativo sia creduto derimente tra vertenze contrastanti. E la natura di tale credenza non può che essere religiosa, ossia fondamentale per la stessa sussistenza e legittimità del Potere. In questo interstizio fondamentale della vita politica si insinua l‟istanza filosofica tesa a sostituire i
481 Ivi, pag. 200.
482 “Per essere libera l‟azione deve esserlo tanto dal movente quanto dal fine dichiarato, il quale cioè non dev‟esserne l‟effetto prevedibile. Non si vuol dire con ciò che moventi e fini non siano fattori importanti di ogni singolo atto; anzi, proprio perché ne sono i fattori determinanti, l‟azione è libera nella misura in cui è in grado di trascenderli”: H. Arendt, Loc. cit., pag. 203. E non dunque di violarli. 224
fondamenti religiosi della polis con quelli razionali della Repubblica ideale, facendo della fides un instrumentum regni e dunque un‟ancilla philosophiae. L‟intento razionalistico surrettiziamente tende a far coincidere il Governo religioso con il Potere politico, stabilendo una omogeneità ineccepibile tra condizione legale e condizione esistenziale, tale che venga abolita ogni mediazione meta-politica tra la previsione razionale della condotta virtuosa e la prassi reale, la cui conformità all‟astratto modello normativo richiede l‟eliminazione della imprevedibilità propria di ogni condotta libera, con inevitabile esito politicamente totalitario. Quando la Arendt afferma che la politica necessita di uno “spazio a struttura pubblica destinato all‟apparizione degli uomini”, e che “la polis greca fu appunto quella „forma di governo‟ che forniva agli uomini uno spazio per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare la propria comparsa”, si riferisce a un “rapporto tra libertà e politica” che solo suppostamente è “immediato”,483 ma che invece è relativo a uno spazio pubblico ricavato attraverso l‟esclusione di ogni originaria mediazione socio-religiosa, senza la quale non si sarebbe determinata quella condizione di “uomini liberi” che agiscono nell‟agone politico.484 Ed è
483 H. Arendt, Loc. cit., pagg. 206-207. 484 Va ricordato che il concetto moderno di libertà politica, come “il diritto degli uomini di riunirsi pacificamente e di presentare petizioni al governo per la riparazione di ingiustizie”, che costituisce il Primo emendamento del Bill of rights americano, nasce dall‟ideale agonale criticato da Platone, che rendeva “uguali” i membri della polis in quanto uomini pubblici, ma non stabiliva il criterio in base al quale fosse possibile stabilire il Giusto, cioè la decisione del Governo. Quando Erodoto parla della libertà politica greca come condizione di non-governo (Storia, lib. III, 80 sgg.), cioè come isonomia, indica che la che ne nasceva per legge () prescindeva dal Governo (), non perché fosse una condizione di , ma in quanto la decisione di Governo non poteva sorgere dal contesto polemico se non come sua negazione dialettica, qualitativamente diversa e superiore a ogni istanza particolare o “petizione” interessata, e dunque di natura filosofica. Ma l‟esautorazione della dimensione sacrale legata tradizionalmente al Governo, rendeva anche la decisione filosofica esposta ai limiti e alle condizioni dettati dal caso concreto in contesa, per cui il rischio immanente, avvertite in più occasioni nei dialoghi platonici, a ogni decisione razionale era di rendere universale 225
proprio questa identificazione suppostamente originaria tra libertà e politica a fare dello spazio politico una dimensione astratta sia dalla condizione sociale che dalla credenza religiosa fondativa della comunità, e che, assorbendole nella sua fondazione artificiale della comunità dei liberi, parallela a quella dell‟esistenza concreta, rende quello spazio avulso dalla realtà sociale e potenzialmente totalitario, essendo il Potere razionalizzato nel senso ideo-logico operativamente predisposta a creare una comunità, non già di filosofi pubblici, la conoscenza metafisica essendo per definizione iniziatica, ma di alienati infra-mondani, che riconoscono che l‟unica autorità legittima sia quella del Potere,485 come potenza del fare (). Ed è a seguito di questa riduzione della vita activa al che si è sviluppata a tal punto l‟attività economica in età moderna da confondere la politica
una tesi particolare, e quindi di accreditare come pubblica quella sola petizione politica universalizzabile, trasformando in razionale la sua attitudine a presentarsi come ragionevole, ricandendo perciò in un‟eristica più sofisticata. Identificare perciò il “contenuto della libertà” come “partecipazione al governo della cosa pubblica o ammissione alla sfera pubblica” (ved. H. Arendt, On Revolution (1963), tr. it., Milano, 1999, pag. 29), significa avere già stabilito l‟identità della “sfera pubblica” come l‟ambito politico esclusivo, entro il quale esercitare il governo, ossia il Potere. Da qui il sofisma di concepire un all‟interno dello spazio del non-governo, quello appunto della libertà politica, e di definirlo nei termini di una decisione razionale in senso idealistico di modello di azione, spacciando per “giusto” l‟atto di governo in tal senso razionale, cioè astrattamente universale. Ma proprio in questa tendenza ad affermare come universale in senso razionale una petizione politicamente pubblica consiste l‟azione rivoluzionaria di “liberazione” dall‟autorità, il cui esito non può che essere la pubblicizzazione di quella violenza insita nella pretesa esemplificativa del suo presupposto idealistico di fare del suo modello ideale la ragione comune a tutte le parti, ossia il nuovo spazio di “libertà” in cui si esercita il nuovo ordine razionalizzato, conforme a quell‟ideale modello politico. 485 Con una radicale inversione di senso rispetto a quello indicato da Agamennone cit. da Aristotele a chiusura del libro XII sella Metafisica. Infatti il passo ripreso dell‟Iliade vuole indicare la bontà dell‟unità della signoria aristocratca tradizionale, e non la monocrazia politica. Ved. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, tr. it. cit., pag. 31.
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stessa con il principio di socialità, e quindi l‟ideo-logia politica con la religione civile. 486 La differenza tra una volontà che vuole e una
486 La tesi sostenuta dalla Arendt, per cui “la vita scelta dal filosofo implicava un‟opposizione al , al vivere politico” (Loc. cit., pag. 211), non è corretta, in quanto, come abbiamo chiaito supra, “l‟opposizione” filosofica non era diretta “alla polis e alla sua comunità di cittadini”, come invece da lei affermato, bensì ai fondamenti mitico-religiosi della vita sociale che costituivano anche da collante religioso della vita politica, la quale per il filosofo era lo spazio fenomenologico del pensiero idealistico. La pre-condizione dell‟esistenza di un era l‟ipotesi che a ogni esperienza umana sottostasse una unità comune, la quale fungeva da legame tra i molteplici e varii soggetti sociali, altrimenti diversi per ceto, condizione, esperienza ed età. Tale unità, per la civiltà omerica, era la religione; per la concezione socratico-platonica il logos razionale, attraverso la cui mediazione il molteplice si componeva in una unità più armonica e coerente di quella religiosa. Lo spazio ideale di tale unità logica era quello politico, nel quale ogni uomo era uguale a ogni altro. Tale uguaglianza politica, essendo ottenuta grazie alla mediazione logica, ossia ai principi costitutivi dell‟intero cosmo, costituiva la condizione migliore dell‟uomo rispetto a quella sociale e tradizionale, considerata naturale. L‟ideo-logia politica, egalitaria e razionalistca a un tempo, nasce da queste premesse idealistiche, ossia dall‟ipotesi che l‟uomo possa conseguire una condizione di unità nell‟eguaglianza con gli altri uomini entro lo spazio infra-mondano del politico. Questa credenza idealistica è stata ereditata, attraverso la mediazione del razionalismo cristiano, dalle moderne ideologie democratiche, che hanno superato la concezione greca della disparità sociale e disuguaglianza naturale degli uomini estendendo in senso universalistico la concezione creaturale di ogni uomo immagine di Dio. Se l‟unità spirituale cristiana tra gli uomini è la comune fede in Cristo, l‟unità democratica è, come quella pagana, di tipo politico, e fondata non sullo Spirito trascendente ma sull‟immanente Logos razionale. La libertà pagana è politica, intesa come “processo dell‟agire” entro lo spazio della polis, (Ivi, pag. 220) laddove quella cristiana è una libertà dalle ragioni del mondo, in quanto facoltà di dare initium a opera dell‟uomo, che nascendo introduce “qualcosa di nuovo in un mondo preesistente e che continuerà a esistere dopo la morte di ciascun individuo” (Ivi, pag. 222). Il mutuo ideologico greco fa delle moderne teorie democratiche delle utopie razionalistiche fondamentalmente pagane, in quanto basate su un concetto di libertà dell‟uomo come volontà, anziché come fede. Se l‟opera della volontà è di secondare 227
possibilità che (non) può, ha assunto l‟opposizione tra la libertà e l‟oppressione in quanto entrambe omologate alla stessa attività, o dell‟uomo libero (la greca) ovvero della coscienza soggettiva (il liberum arbitrium cristiano), senza distinguere tra l‟astratta volizione soggettiva e la determinata azione sociale, nel cui rapporto la esperienza singolare dell‟uomo trova la sua storica concretezza spirituale. Eleggere uno o altro elemento a luogo preferenziale della realtà, comporta la perdita della comprensione di quella totalità concreta costituita dall‟uomo spirituale, la quale soltanto da un pensiero spiritualistico può essere conosciuta, e nel cui ambito rientra la nostra considerazione del Governo. La volontà intesa come interesse si identifica con l‟azione economica, il cui scopo utilitaristico sta alla base anche della volontà generale di Rousseau, intesa appunto come l‟interesse generale della nazione o del “popolo”. La volontà generale è quella che si oppone alla volontà (o interesse) particolare, e cioè agli interessi delle minoranze sociali e politiche.487 L‟azione politica collegata al concetto di volontà generale è quella del Potere (del più forte sul più debole), ed è pertanto esclusiva, agendo la parte per il tutto, e quindi razionale secondo il suo fine immanente, che è appunto l‟affermazione di sé come volontà generale. Questa posizione, che a partire da Rousseau attribuisce all‟azione rivoluzionaria una valenza virtuosa, per la sua abnegazione a favore
dominandolo l‟ordine necessario degli eventi, l‟opera della fede è il “miracolo”, il cui requisito è di “costituire un‟interruzione in qualche serie di eventi della natura”, sostituendo al loro “processo automatico” un “inatteso imprevisto” (Ivi, pag. 223), il quale dà inizio a un nuovo processo. Diversamente dagli eventi imprevisti della natura, che l‟ordine immanente al momentaneo disordine riporta a sistema, il miracolo dell‟uomo è un‟opera spirituale che trascende lo stesso processo storico dal quale è sorta come un unicum sistemicamente in-determinato. L‟ipotesi teorica che l„ambito avvenimenziale dei miracoli umani sia la Storia, quale processo ideale del politico, deriva dalla commistione teologica dell‟evento miracoloso cristiano e dell‟ universalismo razionalistico di origine naturalistica, che ha concepito la Storia spirituale di ogni singolo uomo quale creatura divina come una natura spirituale parallela a quella naturale. 487 Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pagg. 82-83.
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dell‟interesse generale viene solitamente considerata “etica”, mentre propriamente soltanto l‟azione di Governo è etica, poiché la sua ragionevolezza non è stabilità sulla base della sua opposizione agli interessi particolari, ma è legata al fine trascendente ogni interesse, particolare o generale, della giustizia, in cui tutti i membri sociali possono riconoscersi, in quanto coincide con l‟ordine morale della variegata convivenza sociale, e dunque della stessa astratta società politica.488 L‟ordine morale, in quanto sociale, 1) non può provenire dallo Stato ma è originario a ogni ordine ordinamento politico, il quale attraverso i suoi organi istituzionali è chiamato a difenderlo e a salvaguardarlo; 2) è un ordine oggettivo, che l‟individuo nascendo e partecipando alla vita sociale lo trova e non lo pone in essere, ma è chiamato ad osservarlo in quanto modalità di convivenza pacifica del gruppo e di comunicazione inter-personale dei membri; e quindi 3) è un ordine prescrittivo del fine, appunto, sociale che l‟uomo, in quanto membro della società, deve perseguire attraverso il proprio comportamento di relazione. Il contenuto essenziale di ogni prescrizione morale inerisce alla stessa condizione sociale dell‟uomo, ossia alla circostanza di valore antropologico che l‟uomo vive sempre accanto ad altri uomini, di cui egli deve tener conto agendo nel mondo. da qui ha origine quella “compassione” quale “reazione umana alle sofferenze degli altri” che per Rousseau caratterizzava lo stato d‟animo dell‟uomo “naturale”, quello cioè che intrattiene rapporti non ancora informati alla logica utilitaristica dell‟interesse considerato normale in ambito politico e “civile”, che perciò il Ginevrino considerava “fuori della società” e
488 Va ribadito che la “società” così come si è venuta a formarsi a partire dal sec. XVIII, come Gesellschaft, è sempre più unitaria in senso politico statuale e sempre meno stabilita secondo permanenti condizioni di status. Tuttavia, per quanto omologata in senso democratico, ripropone al suo interno una differenziazione di distinte comunità infra-sociali che ripropongono sotto mutate vesti la varietà di organismi tradizionali di convivenza spontanea, quali i ceti, le corporazioni, le confraternite religiose, etc., dotate ognuna di interna corporis deontologici che li caratterizzano in senso etico, la cui normatività, per quanto subalterna gerarchicamente alle fonti legislative statuali, ha nondimeno una funzione socializzante, se non in tutti i casi, comunque prevalentemente primaria rispetto a quella predisposta legislativamente.
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dall‟egoismo della “ragione”.489 Diverso dall‟ordine morale della società è il sentimento morale, legato alla sfera soggettiva della interiorità personale in cui si coltiva la fede religiosa. Esso è di carattere individuale e come tale varia di intensità e sensibilità legate alle possibilità e all‟educazione degli uomini, e in quanto individuale, tale sentimento varia storicamente anche per luogo e tempo, e dunque ha un valore relativo al suo referente normativo, alla credenza di riferimento assiologica. La secolarizzazione della cultura, distinguendo il Potere politico dal fondamento religioso fondativo della convivenza sociale, produce un conflitto potenziale tra morale sociale ed etica pubblica dello Stato sul fine che il Governo deve perseguire, se in difesa dell‟ordine morale della società ovvero dell‟ordine politico stabilito dallo Stato. Ciò che garantisce la libertà sociale dalla politica rivoluzionaria, così come l‟iniziativa politica riformatrice dall‟opinione religiosa reazionaria, è l‟azione di Governo, la quale, per questa essenziale ragione di salvaguardia della Giustizia, non può dipendere né dalle correnti ideologiche del momento e neppure dagli interessi patrocinati dal Potere politico. Il Governo, per poter svolgere appieno la sua funzione di garanzia, deve poter essere libero di decidere, quale organo autocratico super partes dotato di una sua originaria e inalienabile auctoritas, non soggetta a vaglio elettorale. La salvaguardia di tale autorità, in origine senatoria e patrizia, costituisce l‟interesse comune sia della società e del suo ordine morale, che dello Stato e del suo ordine politico, sicché è intorno alla garanzia della sua autonomia che andrebbero concentrati gli
489 Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pag. 84. “Poiché la compassione abolisce la distanza, ossia quello spazio terreno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici e si colloca l‟intero campo delle vicende umane, essa resta irrilevante e senza conseguenze dal punto di vista politico”: Ivi, pag. 91. Ma se così fosse, perché mai la compassione avrebbe provocato la croce? In realtà, proprio in quanto essa si sottrae al dialogo politico-razionale, delegittimandone il terreno di scontro e di affermazione, ne determina la reazione. Senza un avversario, non c‟è dia-logo né polemos. Assumere il prossimo come anziché contro se stessi, vuol dire eliminare la stessa ratio che presiede l‟agone politico, rinnegando la ragione stessa del mondo, il suo Bene.
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sforzi comuni, che invece sono nello Stato moderno di diritto dirottati verso la lotta per il Potere, che arriva a toccare la stessa coscienza spirituale dei singoli. Infatti, la divisione tra la morale sociale e l‟etica pubblica passa attraverso la formazione culturale e civile dei singoli, i quali troveranno il conflitto tra le due istanze morale e civile all‟interno della propria coscienza (l‟àme déchirée), determinando di conseguenza una instabilità ideale che, relativizzando ogni posizione personale, spinge l‟opinione comune a considerarla quale mera proiezione di interessi passionali, da razionalizzare portandoli a sistema, e dunque a politicizzare anche l‟ambito spirituale. Va precisato che la fine dell‟auctoritas, registrata anche dalla Arendt, non coincide con l‟estinzione di una istituzione storica come il Senato romano o ente similare, ma con la rimozione culturale della fonte morale dai fondamenti costitutivi della realtà quale mondo dotato di senso razionale. Lo Stato moderno di diritto è stato teorizzato su basi razionalistiche esclusive di ogni altro senso simbolico, e perciò tendenzialmente totalitarie. Ma la condizione di possibilità di tale esito politicamente totalitario è stata offerta dalla teologia cristiana,490 la
490 H. Arendt in riferimento a “quello spazio dl fenomenico in cui l libertà può dispiegare il suo fascino e divenire una realtà visibile e tangibile”, quello appunto del politico, afferma che “il peso stesso dell‟intera tradizione cristiana impediva loro [a “gli uomini delle rivoluzioni del diciottesimo secolo”] di rendersi conto del fatto piuttosto ovvio che in realtà traevano da quanto facevano un piacere che era al di là della voce del dovere”: On revolution, tr. it. cit., pag. 30. In realtà, l‟idea di uno spazio di libertà predisposto dall‟uomo fuori di quello assegnatogli dalla sua condizione sociale, è stata concepita dalla teologia cristiana come la possibilità stessa della salvezza spirituale in questo mondo, per cui in questo senso la libertà greca sta alla politica come la salvezza cristiana sta alla ecclesìa. Che lo spazio politico sia stato poi occupato dallo Stato e quello soteriologico dalla Chiesa, è altro discorso. Ciò che rileva è che i costituenti americani fossero tutti di formazione culturale cristiana. Infatti “l‟esperienza di essere liberi” dei rivoluzionari moderni “era un‟esperienza nuova”, (Ibidem) non solo in relazione all‟evo di mezzo dalla caduta dell‟Impero romano all‟età moderna, ma anche rispetto all‟antichità greca e romana, in quanto se lo spazio politico ideato dai Greci costituiva una novità rispetto alla società naturale tradizionale, informata alla logica dell‟oikos, lo spazio ecclesiale in senso cristiano andava costituito in alternativa al preesistente spazio politico, informato alla logica del Potere. La fondazione della nuova società politica americana, in quanto emancipata dal Potere coloniale tradizionale, non poteva che essere ispirata dalla prospettiva cristiana di confessione riformata, che riprendeva il 231
quale ha accettato storicamente il ruolo di religione di Stato, sol perché la Chiesa deteneva la posizione indiscussa di depositaria dei valori della fede, fondativi della civitas christianorum. Quando, però, la sua posizione divenne discutibile e apertamente rinnegata, il discredito del suo ruolo storico passò alla funzione teologico-politica della religione cristiana, dai razionalisti identificata come una delle tante religioni
senso originario della costituzione ecclesiale, sia pure in una chiave razionalistica fondata sui diritti dell‟uomo, in quanto essere spirituale, e in ogni caso inalienabili in quanto preesistenti al corpo politico. Ciò che invece appartiene per intero alla tradizione politica classica è lo strumento della violenza, così caro a Machiavelli e intrinseco alla concezione stessa del razionalismo politico, che ipotizza che la libertà, in quanto condizione mondana, sia instaurabile, appunto politicamente, e non, in quanto condizione spirituale, confermabile solo dalla fede. Tale ipotesi topologica della libertà come spazio oggettivo, fa storicamente degli Stati rivoluzionari dei regimi tendenzialmente monocratici dove la libertà politica è garantita dal Potere stabilito, che “costringe a essere liberi” (Rousseau), cercando di far convergere la necessità con la libertà. A questo risultato si pervenne anche attraverso la concezione storicistica, per cui “dianzi allo sguardo retrospettivo del pensiero, ogni cosa che era stata politica divenne storica”, sicché le azioni intraprese dai protagonisti furono comprese solo al loro compimento da parte di spettatori, che, rispetto ai protagonisti, si sentirono come “agenti della storia e della necessità storica, col risultato ovvio, eppure paradossale, che la necessità e non la libertà divenne la categoria principale del pensiero politico e rivoluzionario”. Ma tale necessità non era altro che il Logos del mondo pensato dal naturalismo greco, riflesso come prodotto umano, cioè trasferito nella Storia, l‟agone politico universale, la cui “verità, anche se era concepita „storicamente‟, ossia era vista come sviluppo nel tempo, e quindi non doveva necessariamente essere valida per tutti i tempi, doveva pur essere valida per tutti gli uomini”, ovvero “doveva riferirsi e corrispondere non a cittadini, fra i quali poteva esistere solo una moltitudine di opinioni, e neppure ad abitanti di una singola nazione, il cui senso della libertà era limitato dalla loro storia particolare e dalla loro esperienza nazionale [ma] doveva riferirsi all‟uomo in quanto uomo [e pertanto] doveva essere storia del mondo [interessante] i destini di tutti gli uomini”. Solo a questa condizione – di essere cioè universale – la storia acquistava “dignità filosofica” e statuto epistemologico di scienza, senza però consentire di trascendere l‟ambito ideale del politico. Infatti, “l‟idea di storia del mondo in se stessa è chiaramente di origine politica”: H. Arendt, Ivi, pagg. 52-54. 232
storiche, e dai cristiani di fede come una aberrazione ideologica da cui emendarsi. Alla radice della trasformazione del cristianesimo in religione politica vi è appunto il concetto di monarchia divina, che da “principio” () prende a declinarsi ideologicamente in senso di Potere (). Già Celso aveva ammonito circa la deriva rivoluzionaria del monoteismo cristiano, sia “nel mondo metafisico” che “nell‟ordine politico”, in quanto “distrugge i culti e le caratteristiche nazionali, e attacca contemporaneamente l‟impero romano, nel quale c‟è spazio sia per i culti, sia per le caratteristiche nazionali”.491 Nondimeno, la liquidazione frettolosa della sua posizione critica verso il monoteismo cristiano,492 mostra di non cogliere, dietro “l‟intreccio del problema del monoteismo giudaico-cristiano con le questioni della vita politica”, il nesso profondo sottolineato dal pagano tra politica e teologia cristiana, poiché l‟unico Dio di cui parla Celso, “è una figura metafisica” non solo per lui ma per la stessa teologia cristiana che l‟ha concepito in senso dell‟Uno metafisico, come attesta la stessa confutazione di Origene, il quale, confermando la relazione tra l‟unità imperiale romana e la nascita di Cristo sotto il dominio di Augusto, concepita da Dio per superare l‟ “ostacolo alla diffusione della dottrina di Gesù nell‟ecumene” a favore di una generale “moralità maggiore”, non fa che spostare escatologicamente la concordia universale nell‟unica legge del Lògos divino alla fine dei tempi,493 senza però qualificare la diversa ecumenicità spirituale rispetto a quella politica pretesa dai Romani come pax. Lo stesso dicasi per Eusebio, per il quale non solo “l‟impero romano significa la pace”,494 come era stata profetizzata sotto forma di “cessazione del pluralismo politico nella forma degli Stati nazionali”, ma all‟impero romano “appartiene metafisicamente il monoteismo” che per l‟appunto sarebbe “iniziato in linea di principio con la monarchia di
491 E. Peterson, Op. cit., pag. 53. 492 “In fondo, sono considerazioni politiche quelle che inducono Celso a prendere posizione contro il monoteismo cristiano”: E. Peterson, Op. cit., Ibidem. 493 Ivi, pagg. 54-55.
494 Ivi, pag. 59.
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Augusto”, realizzandosi compiutamente “al tempo di Costantino”, il quale, facendosene interprete a livello dottrinario, ha poi “imitato nello stesso tempo, attraverso la sua monarchia, la monarchia divina”, secondo la quale “all‟unico re sulla terra corrisponde l‟unico re in cielo e l‟unico nòmos e Lògos sovrano”.495 Come sottolineato da Peterson, con Origene “il problema del monoteismo non viene più visto nell‟ottica escatologica, ma sotto l‟aspetto storico e allo stesso tempo politico”, secondo un collegamento analogico per cui la fine degli Stati nazionali appare, per un verso, come “il compimento delle profezie veterotestamentarie”, e dall‟altro essa appare “nello stesso tempo, una opzione politica in favore dell‟impero romano”, con la conseguenza che, dal momento in cui “la realtà degli Stati nazionali viene collegata strettamente al politeismo”, di conseguenza “si costringe l‟impero romano nel ruolo di nemico del politeismo”, con la religione cristiana in funzione di “sostegno della politica di pace dell‟impero romano”.496 E così, con la costituzione del trittico concettuale indissolubile di impero romano, pace e monoteismo, il theologùmenon di Eusebio opera il passaggio della fede cristiana alla ideologia della sua funzione religiosa, sicché “le idee di Eusebio [che] hanno avuto un‟enorme influenza storica, le ritroviamo ovunque nella letteratura patristica”497 di Oriente e di Occidente, tanto che, così come già per Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Diodoro, Teodoro e Prudenzio, “anche per Orosio, l‟unità dell‟impero romano e l‟unità di Dio sono collegate fra loro”.498 Il legame tra Impero e cristianesimo, che giunge con Orosio a fare di Cristo un “cittadino romano” (civis romanus) e di Augusto un cristiano, era palesemente una costruzione ideologica tendente ad affermare appunto quella “conciliabilità tra monoteismo cristiano e impero romano” che scongiurasse il sospetto che lo sgretolamento dell‟Impero fosse una conseguenza della predicazione evangelica.499 Il punto di crisi
495 Ivi, pag. 60. 496 Ivi, pag. 61. Ved. A. Momigliano, La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C. (1973), in Storia e storiografia antica, Bologna, 1987, pagg. 368 sgg. 497 Ivi, pag. 62. 498 Ivi, pag. 67. 499 Ivi, pag. 69.
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di tale ideologia religiosa, che faceva della monarchia divina il riflesso terreno dell‟Impero romano e che divenne il fulcro teologico-politico dell‟arianesimo, fu il dogma cristiano della Trinità, che metteva in crisi, con la teologia di Eusebio, anche l‟unità dell‟Impero, facendo apparire il cristianesimo come una “rivoluzione sia nell‟ordine metafisico sia in quello politico, come era stato chiaramente predetto da Celso”.500 Fu Gregorio Nazianzeno (330 ca. - 390) a fornire, nel suo terzo Discorso teologico, la dottrina dei “tre concetti di Dio” con cui viene “teologicamente spezzato il legame fra annuncio cristiano e impero romano”, secondo la quale i cristiani si riconoscono solo in quello della monarchia divina, rigettando gli altri due dell‟anarchia e della poliarchia, portatori di dissoluzione. Ma si trattava di una monarchia che non ineriva a “un‟unica persona nella divinità, perché questa porta in sé il germe del confitto, ma in una monarchia del Dio trino”, il cui concetto di unità “non ha alcun riscontro nella creatura umana”.501 Ora, proprio quest‟ultimo è un aspetto di grande portata teologico-politica, che viene chiaramente affermato nella prima lettera a Cledonio, dove Gregorio, prendendo posizione contro la dottrina di Apollinare con cui si negava che Cristo avesse assunto un‟anima umana, sostiene che, in virtù della redenzione totale dell‟uomo, Cristo non poteva non assumere l‟uomo nella sua totalità di anima e corpo. Questa costituzione unitaria non esclude la diversità ontologica tra la dimensione temporale e visibile, e quella eterna e invisibile, ma nega solo la separatezza empirica di un uomo esclusivamente umano o esclusivamente divino. Ebbene, è la compresenza della duplice natura, umana e divina, nello stesso soggetto empirico a escludere la possibilità di pensare, alla maniera della filosofia greca, a una totale quanto esclusiva dimensione politica dell‟uomo, la cui identità reale sia il riflesso speculare del suo modello ideale, poiché l‟elemento finito e quello infinito sono inseparabili nella stessa esperienza umana ma non assimilabili l‟uno all‟altro in quanto eterogenei. Proprio la compresenza delle due nature, umana e divina, nello stesso uomo fa di ognuno una unità esistenziale ma non metafisica, come invece avviene in Dio, le cui tre persone
500 Ivi, pag. 70. 501 Ivi, pag. 70.
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ipostatiche coincidono e “sono una sola e stessa cosa”.502 Trasferire nella dimensione divina l‟unità, che la metafisica greca intendeva come corrispondenza dell‟ente all‟Essere ideale, significava, esplicitamente che essa poteva rinvenirsi come traccia imperfetta solo nell‟esistenza individuale dell‟uomo singolare, ed implicitamente che essa non fosse503 conseguibile nella sfera politica, né nei termini della pax augusta – per altro contestata da Agostino - ma neppure in quelli di una armonizzazione del collettivo entro una forma unitaria istituzionalmente coerente in senso sistemico-razionale, per cui con Gregorio lo stesso “monoteismo come problema politico” veniva distinto dal senso teologico cristiano della monarchia divina e consegnato al “principio monarchico della filosofia greca” col quale era stato “fuso” a seguito della “trasformazione ellenistica della fede giudaica in Dio”.504 La differenza radicale ed insanabile tra la prospettiva politicistica pagana e quella spiritualistica cristiana si concentrava sulla diversa considerazione che rispettivamente si aveva dell‟uomo, e quindi della proposta circa la sua salvezza. Se infatti la sapienza pagana lo
502 Come scrive Gregorio, “noi non dividiamo l‟uomo dalla divinità, ma affermiamo uno solo e lo stesso, prima non uomo ma solo Dio e Figlio […], ma alla fine anche uomo, assunto per la nostra salvezza, passibile nella carne, impassibile nella divinità, circoscrivibile nel corpo, incircoscrivibile nello spirito, […] perché dallo stesso, uomo completo e Dio, fosse ricreato l‟intero uomo che era caduto sotto il peccato. […] Due sono infatti le nature, Dio e l‟uomo, perché anche anima e corpo sono due nature [ma ciò non significa che] in noi ci sono due uomini [bensì che] altro è ciò di cui è composto il Salvatore – dato che non sono lo stesso ciò ch‟è invisibile e ciò ch‟è visibile, ciò ch‟è fuori del tempo e ciò ch‟è soggetto al tempo , ma non sono un altro e un altro [bensì] le due realtà sono una cosa sola per mescolanza, in quanto Dio si è fatto uomo e l‟uomo è stato reso Dio. […] Dico altro e altro, mentre per la Trinità è l‟opposto. Infatti qui sono un altro e un altro (), perché noi non avessimo a confondere le ipostasi. Non altro e altro (): infatti i tre sono una sola e stessa cosa per la divinità”: Gregorio di Nazianzo, Prima lettera a Cledonio, ed. P. Gallay, Sources Chrétiennes 208, tr. it. a cura di M. Simonetti in Il Cristo, vol. II, Milano, 1998, pagg. 327-329. 503 Agostino, Civitas Dei, III, 30. 504 E. Peterson, Op. cit., pag. 71.
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concepiva come essere sociale che solo all‟interno della vita pubblica trovava il suo congruo spazio esistenziale, la fede cristiana assumeva come rilevante la sola esperienza singolare dell‟uomo quale essere spirituale, la cui natura divina non era confinata all‟iperuraneo ma in interiore, nella propria coscienza, il luogo invisibile per definizione, e quindi quanto di più distante dalla realtà dell‟evidenza in cui si svolgeva la vita pubblica. Ciò insomma che il cristianesimo apportava nella cultura antica era il senso della personalità interiore come orizzonte alternativo a quello sociale e comune, ponendolo così in antitesi a ogni prospettive di salvezza collettiva. E pertanto, se è vero che la fede trinitaria nell‟unità divina realizzabile solo in Dio liberava ogni legame tra monarchia divina e monoteismo politico, e che la “pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui, il quale è „più alto di ogni ragione‟ ”,505 ma è altrettanto vero che l‟antropologia cristiana ha ereditato l‟idea razionalistica greca dell‟uomo come essere razionale. “Se infatti è dotato di anima ma non di intelletto, dov‟è l‟uomo?”, si chiedeva anche Gregorio.506 E fu propriamente l‟anima razionale a ipotizzare come possibile l‟instaurazione di un ordine della città “nel quale il rapporto sociale” – connaturato all‟essere naturale – “pensato astrattamente e liberato dai legami personali o familiari, si definisce in termini d‟eguaglianza, d‟identità”.507 Tale ordinamento civile, sia in quanto “pensato astrattamente” come libero dai legami familiari naturali, e sia in quanto definito “in termini d‟eguaglianza e d‟identità” politica, non poteva fungere da modello comunitario dell‟uomo spirituale, concepito cristianamente come essere singolare e collegato col suo prossimo, e come tale pensato concretamente nella sua esistenza totale, la quale comprende sia la natura finita, ossia la socialità politica di pertinenza di Cesare, e sia la natura infinita, ossia la socialità agapica, di pertinenza divina. E in virtù di tale duplice natura, il metodo dialettico della filosofia greca, se poteva essere funzionale alla determinazione della
505 Ivi, pag. 72.
506 “”: Gregorio di
Nazianzo, loc. cit., pag. 328. 507 J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs, tr. it., cit., pag. 407. 237
realtà politica, per la sua esclusività teoretica non poteva costituirsi come lo strumento concettuale al servizio della fede (sarebbe come far assistere un uomo malato da un assassino), per cui il senso trinitario del Lògos divino () andava determinato in senso spiritualistico, e non filosofico-razionalistico. Nella sua polemica con Harnack, che nell‟opera Militia Christi aveva inteso il confronto fra Stato e Chiesa in senso mondano, Peterson ribadiva che esso andava inteso in senso escatologico, ossia come “una vera e propria „lotta‟ (Kampf) tra il regno di Dio e l‟impero terreno, che aveva avuto luogo nel momento in cui il princeps romano era divenuto un Fuhrer che riuniva in sé ogni potere”.508 E ciò implicava a contrario che l‟accezione politicistica della sovranità monarchica conseguisse solo a una de-escatologizzazione del messaggio cristiano e di una sua relativa dottrina teologica intesa come “uno strumento al servizio della forza” politica.509 Ma ciò che Peterson non dice è che ogni concettualizzazione teologica, ossia la teo-logia stessa, era il prodotto di una interpretazione de-escatologica del messaggio evangelico, intesa, in senso funzionale alla sua fruizione politica, alla stregua di una rielaborazione razionalistica del mythos escatologico cristiano. Anzi a questa consapevolezza egli non solo non giunge, ma si mostra ostile a ogni tentativo di configurarla, come in occasione della polemica con Barth, che in un saggio del 1922, Das Wort Gottes als Aufgabe der Theologie, aveva sostenuto l‟impossibilità per l‟uomo di teologia di poter dire qualcosa su Dio. Peterson infatti, rispondendo al testo barthiano con uno proprio del 1925, Was ist Theologie?, ribadisce “il carattere realistico della conoscenza teologica” (der realistische Charakter der theologischen Erkenntnis), conseguente al “carattere reale della rivelazione” (Realcharakter der Offenbarung), ossia al “dato positivo” costitutivo del Lògos divino, che la parola umana trascriveva in termini razionali, e quindi anti-mitici, che Peterson intendeva
508 E. Peterson, Christus als Imperator (1936), cit. in G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, cit., pag. 156. 509 G. Zamagni, Op. cit., pag. 169.
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erroneamente come propri della concretezza della fede 510 e che invece erano intimamente filosofici nel senso greco della fattualità fenomenica. Il senso dialettico della questione, che stabiliva il discrimine tra la certezza dell‟evento cristico come fenomeno storico oggettivo, e la dimensione di fede propria della Rivelazione cristiana simbolizzata dalla passione e morte di Gesù, era pur conseguibile in termini razionalistici attraverso una loro distinzione logica, ma non era quello decisivo, dal momento che la duplice natura divino-umana coesisteva inconsutilmente all‟interno della stessa esperienza singolare dell‟uomo quale creatura spirituale, la cui fatticità storica, entro la dimensione finita del tempo, non poteva (filosoficamente) rimuovere o (politicamente) eludere la destinazione trascendente del senso della sua vita, non riducibile a quella biologica della specie, che propria la logia del discorso su Dio surrettiziamente ammetteva come pre-condizione di ogni rappresentazione teo-logica dell‟evento cristico, che proprio la fede, la stessa che il discorso razionale aveva escluso da ogni considerazione teoretica per essere scientificamente credibile, doveva invece integrare per renderlo vero in senso escatologico, facendo dunque di essa il fondamento stesso della verità di ogni discorso su Dio, e dunque anche sull‟uomo quale imago Dei. Ed è per la stessa ragione di fede che ogni discorso sull‟uomo non può circoscriversi, alla maniera pagana del pensiero greco, alla sua salvezza politica, ossia alla sua pace sociale. Si trattasse pure della monarchia universale. La differenza decisiva della visione cristiana del mondo e dell‟uomo rispetto anche al razionalismo romano di un Seneca, per il quale “il mondo è tenuto insieme non dall‟511[]imperatore romano, ma da un dio, impersonale eppure personale [che] talvolta non è altro che la razionalità del mondo”, in virtù della quale si afferma “l‟eguaglianza teorica di tutti gli uomini in quanto esseri razionali”,512 risiede nella irriducibilità dell‟essenza e dunque dell‟esperienza umana alla sua natura razionale, la quale, seppure colleghi l‟uomo all‟universo cosmico
510 Ved. G. Zamagni, Op. cit., pag. 174. 511 E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261. 512 A. Momigliano, Seneca tra vita politica e vita contemplativa (1950), in Id., Storia e storiografia antica, cit., pag. 338. 239
come suo elemento integrativo e più rappresentativo, lo definisce soltanto nella dimensione naturalistica della necessità, non dando ragione della sua eccezionale caratteristica antropica di essere spirituale e dunque dotato di responsabilità morale o libertà (liberum arbitrium). Proprio questo carattere ontologico dell‟uomo ne impediva la definizione della sua esistenza entro l‟esclusivo orizzonte razionalistico della socialità politica, quale , aprendolo, almeno nella cristianità d‟Occidente,513 alla prospettiva escatologica di una nuova esistenza comunitaria in termini di Civitas Dei.
6. La “pace religiosa” conseguita prima ad Augusta (1555) e poi definitivamente a Vestfalia (1648), sancendo la fine della pretesa asburgica di imporre il cattolicesimo come religione imperiale, risolse a favore del Protestantesimo la Guerra dei trent‟anni, riconoscendo la legittimità sovrana degli Stati nazionali a professare una religione territoriale. Essa, secondo Novalis, “fu conclusa secondo principii del tutto erronei ed antireligiosi, e, col proseguimento del cosiddetto
513 Se “in Oriente ci sono santi militari pregiati ed efficaci a difendere l‟impero, [dove] i monaci partecipano, spesso anche rumorosamente, alla vita politica e la rendono indistinguibile dalla vita religiosa”, “in Occidente il monachesimo è una autentica alternativa alla politica”, per cui mentre “in Oriente la religione rianima la vita dell‟impero, in Occidente la sostituisce. Per questo in Oriente non c‟è Medioevo. Se c‟è fervore di organizzazione in Occidente non è nel difendere l‟impero, ma nell‟estensione del ministero pastorale alle campagne e ai barbari”, il che comporta nel contempo che, con la conversione dei barbari invasori, nel nuovo contesto post-imperiale “è la Chiesa che assicura una continuità di appartenenza sociale a chi deve cambiare di sudditanza politica […] in una società in cui la fede religiosa è il maggiore principio di collegamento e associazione” (A. Momigliano, Storia e storiografia antica, cit., pagg. 372-374), confermando così, con la sua funzione religiosa, anche quella katechontica di “custode fondamentale del segreto dell‟ordine politico”, che Schmitt rinveniva nella sua custodia della “rappresentazione” (Repraesentation) del “Dio che si è fatto uomo nella realtà storica”, e sulla cui base si stabilisce la stessa realtà dell‟ordine politico. Ved. C. Schmitt, Roemischer Katholizismus und politische Form (19252), tr. it., Milano, 1986, pag. 47. Sull‟argomento, M. Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Milano, 2006, pagg. 88 sgg. 240
Protestantesimo, si dichiarò permanente qualche cosa di assolutamente contraddittorio: ossia un Governo rivoluzionario”.514 Cosa significa un “Governo rivoluzionario”? Novalis afferma ancora che “con la Riforma finisce la Cristianità”, ossia l‟unità religiosa dell‟Europa cristiana con la divisione settaria delle diverse confessioni territoriali, e si inaugura “la nuova politica”, in virtù della quale
singoli Stati potenti cercarono di prender possesso del vacante soglio universale mutato in trono. […] Nella fede si ricercò l‟origine del ristagno generale, e si sperò di superarlo con la diffusione del sapere. Dappertutto i sentimento religioso soffrì sotto le molteplici persecuzioni della sua forma tramandata, della sua personalità temporale. Il risultato del modo di pensare moderno lo si chiamò filosofia, in essa comprendendo tutto ciò che fosse contrario all‟antico, e in primo luogo, quindi, ogni idea contraria alla religione [sconsacrando pertanto] fantasia e sentimento, morale e amore dell‟arte, speranze e tradizioni. […] Un solo entusiasmo era stato generosamente lasciato al misero genere umano rendendolo indispensabile, come pietra di paragone della più alta cultura, ad ogni azionista di essa: l‟entusiasmo per questa stupenda e grandiosa filosofia, e in particolare per i suoi sacerdoti e mistagoghi [i quali cercarono] di conferire all‟antica religione un senso più aggiornato, più razionale, più corrivo facendo scomparire accuratamente ogni traccia di miracolo e di mistero [per cui] Dio fu ridotto a ozioso spettatore del grandioso e commovente spettacolo presentato dai dotti [e] il volgo fu illuminato con vera predilezione ed educato a colto entusiasmo; e sorse così una nuova corporazione europea: quella dei filantropi e degli illuministi.515
Eppure, prosegue Novalis, la dissoluzione morale dei tempi della “incredulità” viene infrenata da un “fuoco sovraterreno” che genera “il tempo della resurrezione”, tale da potersi dire che “la vera anarchia sia l‟elemento generatore della religione [poiché] dall‟annientamento di ogni positività essa leva i suo capo glorioso come nuova fondatrice di
514 Novalis, Cristianità o Europa (1799), tr. it. a c. di M. Manacorda, Torino, 1942, pag. 9. Corsivo nostro. 515 Novalis, Op. cit., pagg. 10-15.
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mondi”.516 Due aspetti vanno considerati, a questo punto. Il primo, è che l‟azione rivoluzionaria interna alla cristianità sia stata una “provvida sventura” per la fede, in quanto dalla sua crisi si genera un nuovo percorso religioso. Il secondo, che il collante religioso sia la risposta alla crisi della civiltà, rappresentata dal razionalismo e dalla politica. Ma se così fosse, si dovrebbe ammettere che l‟ordine, essendo religioso, genera esso stesso l‟anarchia, e che pertanto esso sia intrinsecamente foriero di instabilità morale. La paradossalità, però, è solo apparente, e legata all‟equivoco uso promiscuo di “religione” e di “fede”. Infatti, se la fede si concentra nel fondamento di credenza che “Gesù è il Cristo”,517 la religione è il collante sociale di cui diceva Cicerone, e dunque essa segue le sorti terrene della forma politica che asseconda e legittima.518 Nel nostro caso, tale forma politico-religiosa è quella della Cristianità storica, che, dopo aver riunito sotto le insegne cristiane l‟antico Impero romano, era pervenuta alla sua crisi epocale, rappresentata dalla Riforma, la quale pertanto sarebbe una rivoluzione interna alla dimensione religiosa che lascerebbe intatta la tradizionale comunità di fede cristiana, il corpus mysticum Christi. E così fu interpretata in origine dalle autorità ecclesiastiche cattoliche, che la interpretarono come una questione di ordine pubblico interno alla dimensione religiosa, che sarebbe rientrata stringendo i ranghi. La pace di Vestfalia dimostrò invece che le cose stavano diversamente, ovvero che l‟implosione della Cristianità, per i suoi stretti addentellati religiosi, era strettamente collegato alla crisi dell‟Impero cristiano. Ciò comporta che la profezia di Novalis, per il quale “con la pace, comincerà a pulsare [nei paesi europei] una nuova e più alta vita religiosa che inghiottirà presto ogni altro interesse mondano”,519 era semplicemente un abbaglio, in quanto appunto le sorti religiose seguivano necessariamente quelle del Potere politico che servivano, e
516 Ivi, pag. 16. 517 Th. Hobbes, Leviathan (1651), cap. XXXIII. 518 In tal senso ved. F. Overbech, l‟amico di Nietzsche, che nella teologia vedeva “nient‟altro che un aspetto della secolarizzazione del cristianesimo”: cit. da F. Heer, Europa madre delle rivoluzioni (19xx), tr. it., Milano, 1968, vol. II, pag. 64. 519 Novalis, Loc. cit., pagg. 18.
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pertanto sarebbero state strettamente congiunte alla rinascita degli Stati nazionali che avevano affossato l‟Impero cristiano. All‟interno di questo errore di cultura va interpretata la querelle che opporrà la lettura teologica di Peterson a quella storico-politica di Schmitt sulla eredità culturale moderna dell‟Europa. Infatti, la traduzione secolare delle formule teologiche non è altro che il riflesso universale del dogma quale “attuazione” (Vollzug) della parola di Dio, ossia la sua razionalizzazione giuridico-politica.520 Pertanto, l‟argomento trinitario opposto da Peterson alla tesi di Schmitt è interno alla dimensione religiosa e teologico-politica del razionalismo cristiano, e non inerisce alla sfera originaria e pre-razionale della fede in Cristo. E così, mentre la posizione teologica, stabilendo la correlazione con la politica determina razionalmente anche la distinzione scientifica delle due sfere disciplinari, la posizione fideistica, essendo inclusiva dell‟umano e del divino nell‟uomo, supera la scissione teoretica tra sacro e profano e quella esistenziale tra fedele e cittadino, ma anche la fonda, poiché senza fede non sarebbe né teologia e neppure legittimità filosofico-politica.521 Per rispondere alla domanda circa l‟essenza del Governo rivoluzionario, occorre comprendere i termini della traslazione dal teologico al politico, concomitante al passaggio dall‟Impero allo Stato nazionale e dalla Chiesa alle confessioni particolari. Infatti, questo collegato processo si compendia nel passaggio dalla dimensione del Governo morale (divino) a quella del Potere politico (umano). Il senso
520 Da questo punto di vista complessivo, la partizione suggerita da Maritain tra una “teologia della politica” e una “teologia politica” non risolve il problema della correlazione tra i due ambiti di conoscenza, legata alla comune fruizione delle categorie razionalistiche del metodo scientifico, che sostituiscono il principio della trascendenza, proprio della fede, in quello universale della ragione, proprio sia della teologia che della secolarizzata filosofia politica, che traduce la onnipotenza divina nei termini della sovranità legislativa statuale. Cfr. J. Maritain, in Humanism intégral, Paris, 1936, pagg. 109-111. 521 “Per atei, anarchici e scientisti positivisti ogni teologia politica – come pure ogni metafisica politica – è scientificamente liquidata da un bel pezzo, poiché teologia e metafisica in quanto scienze sono per essi da molto tempo liquidate”: C. Schmitt, Politischen Theologie II (1970), tr. it. a c. di A. Caracciolo, Milano, 1992, pag. 7.
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metafisico di questo passaggio lo si può cogliere in Aristotele allorquando afferma che “il comando spetta per natura a chi è intellettualmente più lungimirante”,[“T ossia a chi preveda l‟evoluzione degli accadimenti secondo il piano immanente della ragione delle cose, e dunque a colui che ha maggiore immaginazione intellettuale. Ma si può pre-vedere con l‟intelligenza solo ciò che è pre-stabilito, e nessuno degli umani può pre-vedere con l‟intelligenza ciò che è pre-stabilito per natura. Solo gli dèi hanno questa facoltà, potendo solo essi essere in qualche misura onniscienti. Perché l‟uomo possa fruire di quella facoltà di preveggenza deve trasformarla in potere previsionale. E dunque il dominio consiste nella previsione dei fenomeni, ossia nella normazione e regolamentazione degli eventi secondo schemi necessari e uniformi di sviluppo, costitutivi della , che è il della stessa esistenza delle cose, e dunque il meglio ( ).523 La “autarchia” antropologica, ossia l‟auto sufficienza dell‟uomo, consiste nel passaggio dall‟affidamento alla sapienza divina alla conoscenza diretta delle leggi cosmiche che presiedono i processi naturali, ossia nella scienza, la quale consiste nel conoscere (verum) ciò che l‟intelligenza stessa dell‟uomo pone come realtà (factum), e dunque nella loro corrispondenza (convertuntur vel reciprocantur). Rispetto alla cognizione storica, e dunque alla relatività della conoscenza agli eventi umani, il razionalismo idealistico greco introduce una pretesa di universalità del sapere filosofico che non si limita ad esaminare gli eventi fattuali, ma intende procedere alla definizione degli enti in sé, intesi come Idee, attraverso i concetti. Risalire con le parole alla essenza delle cose equivale a dominarne il senso ideale. Il processo di dominio del mondo umano dunque consiste nel razionalizzarlo in senso idealistico, eliminando il più possibile dagli eventi il loro naturale mistero. La lotta contro la potenza divina si sposta verso il mistero della natura. Tale processo di dominio razionalistico del mondo, teso ad affermare il valore universale del Logos naturale, si realizza attraverso la politica, il braccio secolare della Ragione universale subentrata al volere degli dèi.
522 Politica, I, 1252 a, 32-33. 523 Ivi, 1253 a, 1-2.
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Il “politico” definito da Schmitt non è altro che il Vollzug del Logos ideale, teso a distinguere il nemico dall‟amico come il concetto logico distingue il vero dal falso, così come, per Peterson, “la teologia è l‟elongazione della Rivelazione del Logos che si compie nelle forme dell‟argomentazione concreta”.524 Il passaggio dal sacro al secolare è dunque avvenuto in origine con l‟assunzione del Logos filosofico in vece della ragione divina, e non è un fenomeno precipuamente moderno. La modernità consiste nell‟aver desacralizzato il Logos che il Cristianesimo aveva divinizzato ipostaticamente come , assumendolo per ciò-che-è, ossia per ciò che realmente appare all‟uomo: come Potere di conversione universale del Mistero divino in previsione secondo Ragione umana, in dominio politico del mondo. La modernità porta a termine la metafisica greca e la conclude con l‟apoteosi della ideo-logia del Potere totalitario, del dominio assoluto del mondo entificato. Questo passaggio è segnato dalla fine della coesistenza della Chiesa dokematica con il sacro romano Impero e l‟affermarsi degli Stati nazionali, ognuno dei quali assoluto e superiorem non recognoscens entro i suoi confini, che localizza il Potere politico sull‟ente statuale superstiziosamente idolatrato come Idea. Per quanto detto, si comprende come la politica, intesa come Potere dell‟universale emancipato dal Mistero divino, non è che l‟elemento logico della teo-logia decurtata del Theòs: ovvero il Logos emancipato (cioè universalizzato) dal fondamento di fede (cioè dal Mistero) e definito come kratos autarchico. Da qui “l‟identità strutturale dei concetti teologici e delle argomentazioni e cognizioni giuridiche”.525 Finquando persisteva la dialettica tra Chiesa e Impero, ossia finquando resisteva la comune assunzione che “omnia potestas a Deo” come atto di fede nel Cristo Re, fu possibile stabilire un rapporto organico tra la Chiesa come corpus mysticum e la Cristianità come universitas politica. Infatti i termini organologici del corpus erano ispirati dallo stesso referente divino del Cristo come Verbum caro. La crisi intervenne quando la forma storica dell‟Imperium mutò fisionomia politica a seguito della costituzione degli Stati nazionali, dove ogni “rex in regno
524 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 16. 525 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 17. 245
suo est imperator”, in concomitanza con la implosione della forma teologica della Chiesa universale a seguito della costituzione delle chiese locali, che infransero, con le rispettive e reciproche garanzie istituzionali, anche il carisma imperiale che aveva incarnato la loro stessa riconosciuta e tradizionale universalità di “societates perfectae”. La crisi della Chiesa si manifestò come fine della universalità del dogma teologico, ossia della sua legittimazione razionale come verità di fede universale, mentre la crisi dell‟Impero si produsse invece come fine dell‟universale monopolio del Potere politico. In entrambi i casi venne meno con lo jus commune l‟unità del comando, con la annessa sacertà tradizionalmente riservata alla plenitudo potestatis del princeps titolare dell‟imperium e reggitore dell‟orbis cristiano.526 Ma la crisi dell‟unità dell‟imperium coincide con la crisi della struttura gerarchica della cultura medievale, che poneva Dio al vertice della scala ascendente, e il Papa e l‟Imperatore come suoi termini mondani. La frantumazione dell‟unità imperiale, anche in senso ecclesiastico, produce l‟anarchia dell‟uguaglianza dei vari reges entro il molteplice panorama degli Stati nazionali, e dunque la condizione di conflittualità propria del metodo politico. In tal senso, la traslazione dal teologico al politico segna il passaggio dalla sovranità imperiale, caratterizzata dalla dialettica tra Governo morale e Potere politico, alla sovranità regale, caratterizzata dalla assolutezza del Potere. Nell‟ambito del dominio razionalistico del politico, ove è stata divelta la gerarchia morale dei rapporti col Potere, “la teologia”, come ha notato giustamente Schmitt, “può diventare politica altrettanto bene in una situazione caratterizzata dalla rivoluzione quanto viceversa in un‟altra caratterizzata dalla controrivoluzione”,527 poiché tali concetti sono soltanto definizioni relative al dominio contingente di una su altra parte in conflitto, “proprio delle tensioni incessantemente mutevoli”, ma non stabiliscono alcuna normazione di verità universale. E ciò comporta che “i due „regni‟ [della dottrina agostiniana] non sono più àmbiti oggettivi chiaramente distinguibili secondo delle sostanze o materie [ma] spirituale-temporale, aldilà-aldiqua, trascendenza-immanenza, idea e
526 Ved. E. Cortese, Il pensiero della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma, 1966, pagg. 10-11. 527 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 17. 246
interesse, sovrastruttura e sottostruttura si possono ancora determinare solo a partire dai soggetti in lite”, ossia a partire dalla lotta degli enti politici per il dominio, per cui “la totalità si lascia potenzialmente conseguire partendo da qualsiasi punto della disputa o da qualsiasi oggetto di contesa, dopo che le tradizionali „mura‟, cioè le istituzioni storicamente tramandate delle Chiese e degli Stati, sono state con successo poste in questione da una classe rivoluzionaria”.528 Ma la rivoluzione del proletariato industriale, alla quale si riferisce Schmitt, non fece che trasferire la crisi dell‟imperium, ossia del monopolio del Potere politico, all‟interno dello Stato erede ideale dell‟Impero. Infranto il principio unitario, il trapasso della conflittualità in ambiti sempre più molteplici, non fa che realizzare il principio di universalità del conflitto insito nella ragione politica. Ed è questo il senso per cui “non si può definire il politico partendo dallo Stato”, come ente fenomenico,529 ma a partire dal concetto ideale, che è modello normativo di ogni metodo politico-razionale di associazione-dissociazione di amico-nemico fruito dal Potere dello Stato. Risalire dunque alla fonte teologica dei concetti politici, senza andare all‟, significa fare della secolarizzazione una svolta degenerativa anziché di purificazione concettuale, cercando di illustrare il tralignamento categoriale del sacro originale, e dunque “la deformazione di un archetipo teologico”, 530 attraverso il mutuo concettuale profano ma non darsi ragione della perdita del fondamento di fede, che costituisce il vero problema della modernità, ovvero il problema della verità nel nostro tempo. Aver identificato quel fondamento di fede con la rappresentazione visibile di una istituzione storica, il , ovvero con “la peculiare forma politica della Chiesa romana in quanto rappresentazione visibile nella storia universale dell‟uomo diventato Cristo nella realtà storica, che si manifesta nelle tre forme della sua pubblicità: come forma estetica nella sua grande arte, come forma giuridica nello sviluppo del suo diritto canonico e come forma di potere storico universale splendida
528 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 18. 529 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 19.
530 L‟espressione è di C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 42. 247
e gloriosa”,531 costituisce questo problema. E pertanto la identificazione della fede escatologica con l‟universalità del concetto teologico, e questo con il Potere politico che lo esprime come legge ecclesiale, ossia come dogma, porta a coinvolgere la crisi di una struttura istituzionale che ha perso il suo antico carisma nella sua lotta contro lo Stato assolutistico, le cui sorti erano legate dialetticamente a quelle della Chiesa antagonista, e dunque la cui posizione perdente si è identificata con la perdita stessa della fede in Cristo in cui si riteneva incarnata. Una fede inclusiva delle differenze umane, non politicamente esclusiva delle differenze logiche, e dunque del tutto diversa dalla sua rappresentazione teo-logica. Ora è chiaro il senso katechontico svolto dalla Chiesa istituzionale nei confronti del suo antipode politico, l‟Impero, e, viceversa, il ruolo similare svolto da questo nei confronti di una Chiesa integralista e gelasiana. I due Poteri, incarnando i termini dialettici della realtà dell‟Essere pensato come Logos, erano coessenziali al mantenimento dell‟ordine storico metafisicamente giustificato. Lo stesso concetto uno-trinitario di Dio era funzionale alla rappresentazione della identità dell‟essenza trascendente idealizzata (il Christos-Logos) con la sua proiezione storico-fenomenica (la Chiesa), di cui lo Spirito Santo era il mediatore mistico della loro santa unità. Non potrebbe realizzarsi politicamente come monoteismo la Trinità divina, dunque, non perché trina ma in quanto, nell‟ordine gerarchico delle essenze, l‟unità di ogni persona ipostatica si ritrova in Dio, che appunto è Uno, e come tale è Tutto. Ciò che invece è rappresentabile di Dio è la Sua realtà umana incarnata nel Cristo. Cristo è Dio in quanto in Dio, così come la Chiesa è Cristo in quanto in Cristo. Ciò che distingue Dio da Cristo e Cristo dalla Chiesa è la differenza tra la trascendenza dell‟Unità, per la quale due sono in Uno, e la sua rappresentazione, per la quale la originaria duplicità perde la sua possibilità d‟essere in favore della sola attualità d‟essere ciò-che-è. E pertanto la Possibilità, intrinseca alla triplice essenza divina trascendente, viene esclusa dalla rappresentazione razionale della sua attualità storico-fenomenica, la cui conoscenza logicamente esclusiva è tale per cui Cristo razionalmente sia uomo e non Dio, così come il corpo mistico di Cristo sia la Chiesa e non i singoli fedeli. La rappresentazione razionale consiste dunque nella
531 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 22 n 4. 248
conversione della Possibilità della co-essenza nella unicità della esistenza dell‟ente di pensiero, ed è in virtù di questa rappresentazione razionalistica dell‟Essere divino che l‟essenza della potenza trinitaria di Dio sia potenza monocratica, e non già in quanto la traslazione politica rifletta una concezione monoteistica, come invece credeva Peterson.532 Infatti, il carattere politico della teo-logia è implicito nel logos, e dunque nella rappresentazione razionalistica della fede trinitaria.533 E si sa che il logos costituiva per la sapienza greca la forma rappresentativa dell‟unità naturalistica dell‟Essere, per cui la rappresentazione teologica di Dio è metodo-logicamente una rappresentazione naturalistica. 534 L‟aspetto più singolare della adozione metodologica razionalistica da parte della teologia cristiana è costituito dalla assoluta rimozione della conseguenza politica del metodo scientifico nell‟ambito della conoscenza della parola di Dio. Infatti, la razionalizzazione dello spazio politico è stato sin dall‟origine greca funzionale all‟esautorazione del verticalismo olimpico, che trovava in Zeus l‟espressione regale della somma potestà sugli altri dèi, e all‟affidamento del Potere sugli uomini agli uomini stessi.535 Ma per
532 Peterson ha chiaro, nondimeno, che la “univocità concettuale” del dogma esprime il “carattere definitivo e univoco della rivelazione del Logos”: cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 84. 533 Peterson ha dunque ragione quando afferma che il monoteismo è “venuto fuori come problema politico dalla trasformazione ellenistica della fede giudaica in Dio”, cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 42. 534 In questo senso, ha ragione C. Schmitt quando afferma che “la teologia politica ha due diversi aspetti, uno teologico e uno politico [per cui] ciascuno si orienta verso i suoi specifici concetti”. E pertanto, “dal lato temporale si impone l‟ubiquità potenziale del politico, da quello spirituale l‟ubiquità del teologico in forme sempre nuove”: Id., Politischen Theologie II, tr. it. cit., pagg. 41 e 58. L‟unità all‟origine della differenza è costituita dalla comune derivazione teoretica dal Logos, che Schmitt indica come “concetto di scienza”: Ivi, pag. 79. 535 Ved. C. Schmitt, Gespraech ueber die Macht und den Zugang zum Machthaber (1954), tr. it., Milano, 2012, pagg. 14 sgg.] Questo scritto dialogico mette in evidenza come l‟uomo, liberatosi della potenza divina e della paura della natura, cerca “protezione” da altri uomini, in cambio di “obbedienza”, sicché “dal punto di 249
qualificare come “umano” il rapporto di Potere, bisogna anzitutto cercare una definizione dell‟uomo, sulla base della quale addivenire alla qualificazione di quel rapporto. La nota definizione antropologica aristotelica è il concetto di animale politico parlante, che sta a fondamento assiomatico di ogni “ragionamento scientifico” sulla natura umana. Dal punto di vista cristiano, due sono le nature umane: quella di essenza divina e quella di essenza naturale. Il tertium genus è costituito proprio dalla loro compresenza, per cui, se escludiamo di riflesso dal Potere la sua derivazione divina, non rimane che quella naturalistica, ossia appunto quella “politica”. Tertium non datur. Ma l‟impossibilità di tale scissione tra le due nature umane è mostrata proprio dall‟argomento schmittiano sulla “dialettica interna del Potere umano” e la sua irresolvibilità nella “decisione”536 la quale, operando nel senso della “unità politica”, presuppone una astratta dicotomizzazione logica della realtà molteplice da cui trascegliere l‟aspetto razionalmente giusto e universalmente vero, che corrisponde alla “univocità concettuale” del dogma giuridico. Ciò comporta che la rappresentazione razionale del Potere in termini di “unità politica” o “pace” o “giuridificazione decisionistica” è dal punto di vista esistenziale del tutto astratta, e dunque impossibile da perseguire concretamente. Ma proprio per tale impossibilità l‟azione concreta del Potere, che, in quanto “essenza indivisibile della sovranità” (Hobbes), è un concetto ideale (potestas), deve essere ogni volta assistita dal concreto Governo morale (auctoritas), che considera della realtà anche l‟ingiusto e il falso come suoi elementi irrazionali ma reali. In che modo il Governo assiste il Potere? Giustificando la sua volontà, rendendolo cioè “credibile”, cioè degno di fede. Da qui la funzione religiosa del Governo, la quale, nei regimi politici razionalizzati, assolutistici, è stata sostituita dal consensus populi (democrazia), che può essere consenso attivo, conseguito con la propaganda, o passivo, ottenuto col terrore. La legittimazione razionale del Potere attraverso il consenso popolare (pactum societatis) esprime il suo carattere universale, ossia legittimo
vista umano il legame tra protezione e obbedienza rimane l‟unica spiegazione del Potere”: Ivi, pag. 17. 536 C. Schmitt, Gespraech, tr. it. cit., pagg. 22-27. 250
secondo il sistema legale. La coincidenza della legittimità razionale con la legalità formale realizza nello Stato di diritto la “autarchia” dell‟ente politico sovrano che porta in atto la sua potenza, la forza efficace del Potere. Ciò comporta che la “decisione” non è mai un atto concreto del Potere, ma concreta è solo la procedura con la quale il Potere manda ad effetto, ossia attualizza, la sua volontà: la Vollzug dell‟ente politico, il diritto. Da qui l‟inevitabile dipendenza della volontà sovrana dalla sua realizzazione tecnica e del Potere dalla sua burocrazia (il clerus secolare).537 Pertanto, si può muovere a Schmitt ciò che egli rimproverava a Peterson, ossia di muoversi, con la sua teoria del puropolitico, “in una disgiunzione assolutamente astratta, nella cui conseguenza egli può trascurare ogni realtà concreta, commista di spirituale-temporale, del concreto accadere storico”538 In tal senso, la “univocità concettuale” del decisionismo del Potere, che secondo Schmitt “trasforma l‟immediatezza del carisma in una irrazionalità in sé stessa distruttiva”,539 [in realtà opera in senso katechontico a riguardo della struttura politica razionalizzata o giuridicizzata, ossia a salvaguardia del regno di Cesare, per cui la sua adozione metodologica in ambito canonistico e teologico come “attuazione (Vollzug) della parola di Dio”, opera a salvaguardia della istituzione ecclesiastica, la Chiesa dokematica, la quale, rispetto alla evangelica, rappresenta la Legge, non Dio.540 La Legge non è altro che il “discorso
537 Secondo A. Ehrhardt, fu Cipriano che, in opposizione alla posizione di Tertulliano, favorevole a mantenere il valore originario del carisma spontaneo del martire, introducendo la “dottrina della successione apostolica in senso stretto nella consapevolezza del laicato cristiano [compie] anche la piena organizzazione giuridica della Chiesa nella parte occidentale dell‟Impero”: cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 85. 538 C. Schmitt, Gespraech, tr. it. cit., pag. 66. 539 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 84. 540 In questo precipuo senso, ha ragione Schmitt quando afferma che “il teologo potrebbe pronunciare considerevolmente la sua liquidazione di affari dell‟àmbito politico solo stabilendo se stesso come una grandezza politica con pretese politiche […] una pretesa, che diventa tanto più intensamente politica quanto più in alto l‟autorità teologica pretende di stare sopra il potere politico”. Proprio in quanto la 251
su Dio”, ossia la teo-logia, che appunto “rende razionalmente conto della fede in Dio”.541 Ma la teo-logia a qual fine discorre su Dio se non per dare della Sua parola un significato univoco, dogmaticamente stabilito per renderlo semanticamente unitario? La te-logia definisce il discorso in termini concettualmente fissati dall‟istituzione ecclesiastica, il cui Potere ermeneutico lo stabilizza in canone diffondendolo in “forme ritualizzate” e così scongiurare il pericolo della indefinita proliferazione dei discorsi.542 La filosofia sin dall‟inizio ha proceduto metodicamente ad escludere dal discorso gli elementi negativi non afferenti alla coerenza logica degli assiomi postulatorii, e dunque il discorso logicamente condotto procede per esclusioni, è cioè esclusivo, e dunque da collante omogeneizzante di con-legamento. In questo senso il discorso filosofico svolge una intrinseca funzione religiosa. La religione è per Hegel “la coscienza della verità assoluta, ciò che deve valere come diritto e giustizia, come dovere e legge”, e pertanto deve essere “sussunta sotto la verità”, intesa come “la vera idea di Dio”.543 La religione pertanto è identica alla verità in senso ideale-filosofico della metafisica greca, la cui ontologia naturalistica pone l‟identità dell‟Essere e del pensiero. In virtù di tale identità, il discorso teo-logico, pensando la verità di Dio, identifica la verità logica di Dio con Dio stesso, e dunque l‟istituzione religiosa che la canonizza in formule dogmatiche, ossia la Chiesa, con il Logos divino stesso. Ma proprio tale identità onto-teo-logica della religione con la Chiesa, e di questa con il
Chiesa storica si è costituita come realtà teologico-giuridica, razionalizzando il suo carisma in Potere politico, ha reso possibile, sul presupposto di “fondamentali comuni concezioni teologico-cristiane dell‟essenza dell‟uomo”, il conflitto dialettico con l‟Impero, verso il quale “il lato teologico fa valere il carattere dell‟uomo quale doppia essenza composta di spirito e materia, di anima e corpo, la mescolanza di due nature”, trasformando la questione politica della “disputa di istanze” in un conflitto di interpretazioni: Id., Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 86. 541 W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangeliums – Schluessel christlichen Lebens (2012), tr. it., Brescia, 20157, pag. 20. 542 M. Foucault, L’ordre du discours (1970), tr. it. Torino, 1972, pagg. 8-9. 543 Hegel, Enciclopedia, § 552, tr. it. a cura di B. Croce, Bari 1963, pag. 495. 252
di Cristo, determina la polarità dialettica del discorso religioso con il discorso politico, entrambi confluenti nella de-finizione dogmatica del controllo degli enti esistenziali idealmente equiparati a enti razionali, ossia entrambi concorrenti nel conseguimento del Potere. Infatti, “il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si ceca di impadronirsi”.544 La materia della contesa per il Potere era la verità, della quale si cercava di ottenere il monopolio al fine di “adattare la realtà alla verità delle parole”.545 Ma il fatto stesso che la verità potesse escludere alcuni, i perdenti, gli erranti, significava implicitamente che fosse parziale, una verità di parte, e dunque non comune anche quando uni-versale. L‟uni-verso della verità logicamente pensata, politicamente conseguita e religiosamente venerata non è dunque un orizzonte comune, ma esclusivo alla sola parte che essa conprende, tiene insieme. Ma questa religione ideo-logica non può essere quella fede morale predicata da Cristo, che sposta sulla causa prima () la volontà che il metodo logico sposta alla fine quale esito del discorso dialettico. La volontà di credere, rispetto alla volontà di sapere, ponendo la verità all‟inizio di ogni ricerca, e non alla fine, pone la verità come Mistero e non come oggetto del sapere. E in quanto Verità originaria e in sé misteriosa, che sta al di qua di ogni ricerca e al di là di ogni transeunte sapere, essa include nel suo Mistero ogni verità possibile, perché non ne dipende, inclusa la distinzione vero-falso e le sue proiezioni politiche di amico-nemico. La fede è dunque l‟orizzonte inclusivo della possibilità della stessa conoscenza, la quale conoscenza, determinando la realtà nella sua esclusiva possibilità d‟essere solo ciò che è attualmente, interviene come opera di semplificazione della
544 M. Foucault, L’ordre du discours, tr. it. cit., pag. 10. Foucault, nondimeno, ha torto nel ritenere che quello filosofico, diversamente dal mitico, “non è più il discorso legato al potere” (Ivi, pag. 14), poiché la partizione vero-falso tipica dell‟argomentazione logica semplicemente ricompone l‟ordine del discorso secondo una modalità metodica di tipo razionale e non simbolica come quella adottata dal Mito, sicché sofistica è la partizione extra-metodica e dunque arbitraria, ossia libera dalla necessità determinata dal logos. 545 L‟espressione è di A. Gehlen, Moral und Hypermora (1969), tr. it., Verona, 2001, pag. 190.
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plurivoca realtà, alla perdita della speranza della molteplice possibilità rappresentata dal Mito, quale “via di uscita della disperazione”546 e del superamento della lotta politica nella relazione agapica della comunità mistica.547 Ora, se è vero che la “volontà di verità, come gli altri sistemi d‟esclusione, poggia su di un supporto istituzionale”,548 la conseguenza diretta e più rilevante della emancipazione cristiana dell‟uomo dalla volontà di sapere e dal suo annesso contesto politico è la negazione della necessità del suo destino e quindi del ruolo, funzionale al Potere, della istituzione religiosa, per cui la pretesa avanzata da Hegel circa l‟unicità della verità in seno a una unica coscienza è del tutto legittima “secondo la forma” esclusiva del “sapere” e del “pensiero” logico, secondo il quale “non ci possono essere due diverse coscienze, una religiosa e una etica”, in quanto “religione ed eticità” sono concetti che “appartengono all‟intelligenza”e non all‟esperienza delle relazioni esistenziali. E pertanto, prosegue il filosofo, “spetta al contenuto religioso, come verità pura, […] sanzionare l‟eticità, che sta nella realtà empirica”, così che “la religione” sia insieme “per l‟autocoscienza” tanto il fondamento teoretico “dell‟eticità” che “la base [ideologica] dello Stato”.549 In questa corrispondente identità del concetto ideale con la realtà, interiore e statale, si compendia la condizione di universale
546 A. Gehlen, Loc. cit., pag. 197. 547 “La comunità religiosa , in quanto luogo del reciproco aiuto, aggrega alle associazioni dei clan, dei fratelli di sangue e delle tribù, ogni membro della comunità stessa. O meglio, essa lo mette al posto del compagno di clan […] da ciò deriva il comandamento della „fratellanza‟ che è specifico della comunità religiosa perché essa realizza nel modo più profondo l‟emancipazione dall‟associazione politica”: M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, cit. da A. Gehlen, Loc. cit., pag. 137. In realtà, la morale della fratellanza cristiana realizza l‟emancipazione anche dalla associazione religiosa, strettamente commista in senso funzionale alla comunità politica, come da Weber stesso riconosciuto quando afferma che “solo una forte commistione fra le comunità politiche ed etniche e la liberazione degli dèi in quanto potenze universali dalla comunità politica rende possibile la realizzazione dell‟universalità dell‟amore”: Ibidem. 548 M. Foucault, L’ordre du discours, tr. it. cit., pag. 15. 549 Hegel, Enciclopedia, § 552, tr. it. cit., pag. 495. 254
libertà che fonda la legittimità del “diritto razionale”, fuori della quale non c‟è che “l‟errore mostruoso” della scissione della religione dallo Stato e la loro reciproca indifferenza.550 Nel caso della conoscenza di Dio, ovvero dello spirito assoluto, “la separazione appare dal lato della religione”, che separa l‟autocoscienza dal contenuto della verità. Poiché tale contenuto non è naturale ma concerne la verità stessa di Dio, per cui esso è il sapere stesso di Dio come autocoscienza. Nel cattolicesimo, l‟adorazione di Dio procede dalla sua rappresentazione “come una cosa esterna”, e dunque non libera né spirituale e foriera di ogni sorta di superstizione. Dalla relazione di esteriorità con Dio deriva la esistenza di “una classe laica, che riceve il sapere della verità divina, nonché la direzione della volontà e della coscienza, dall‟esterno e da un‟altra classe; la quale anche non è giunta a sua volta al possesso di quel sapere in modo solamente spirituale [ma attraverso] una consacrazione esterna”. Come pure “la devozione” che non si rivolge direttamente a Dio ma a “immagini miracolose”, oppure “la giustificazione per le opere esterne”: “tutto ciò assoggetta lo spirito a un‟esteriorità, onde il suo concetto vien disconosciuto nel suo intimo e travisato; e il diritto e la giustizia, la moralità e la coscienza, la responsabilità e il dovere sono guasti nella loro radice”.551 Non a caso la religione cattolica è collegata con “quei governi collegati con istituzioni che si fondano sulla servitù dello spirito, - il quale dovrebbe essere giuridicamente ed eticamente libero, cioè su istituzioni del‟ingiustizia e su una condizione di corruttela e di barbarie morale”. Ma questi governi non sanno di avere una “forza nemica” che agisce “contro quella condizione di esteriorità e di dilaniamento”, la forza della libertà interiore, quella della “sapienza mondana” (Weltweisheit) per eccellenza, ossia la filosofia, la quale “rende presente la verità dello spirito [divino], l‟introduce nel mondo, e lo libera così nella sua realtà e in sé stesso”, trasformando così la “santità”, che è il contenuto morale privo di verità, in “eticità”, in moralità consapevole ed effettuale entro la società civile, ossia in “vera libertà”, intesa come “obbedienza verso
550 Ibidem. 551 Ivi, pag. 496.
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la legge e le istituzioni” dello Stato, il quale “è la vera e propria ragione che si realizza”.552 La “eticità dello Stato” è dunque la moralità realizzata, la ragione universale dello spirito divino presente alla coscienza e immanente nella vita mondana: “così la saggezza diventa concreta in questa vita e fa che porti in sé stessa la sua giustificazione”.553 Ma questa realtà morale, questa santità effettuale, questa eticità concreta insomma, non consiste nella mera “ubbidienza da prestarsi al diritto dello Stato”, che potrebbe appunto incontrare l‟opposizione del sapere filosofico. Occorre che i due elementi s‟incontrino e non restino separati, per cui il valore morale professato dalla religione deve esso stesso eticizzarsi e trasformarsi, da “religione della servitù”, o della separatezza, in religione della libertà, o dell‟unità spirituale.554 Il contrasto tra il dettato legislativo, anche il più razionale, e lo spirito religioso del paese cui va applicato, si riflette sulla distanza tra le norme astratte e “l‟attuazione della legislazione”, per cui “le leggi, in questa antitesi contro ciò che la religione ha dichiarato santo, appaiono come qualcosa di fatto dall‟uomo: esse non potrebbero, quand‟anche fossero sanzionate ed introdotte esternamente, opporre durevole resistenza alla contraddizione e agli assalti dello spirito religioso contro di loro. Così tali leggi, quand‟anche il loro contenuto fosse il vero, naufragano nella coscienza, il cui spirito è diverso dallo spirito delle leggi e non le sanziona”. E‟ dunque “una pazzia dei tempi recenti cangiare un sistema di costume corrotto e la costituzione dello
552 Ivi, pagg. 497-498. 553 Ivi, pag. 498. 554 “Non giova che le leggi e l‟ordinamento dello Stato siano trasformati in organizzazione giuridica razionale, se non si abbandona nella religione il principio della servitù. Le due cose sono incomportabili tra oro: è una matta idea voler assegnar loro un dominio separato, nell‟opinione che la loro diversità se ne stia poi pacificamente, e non scoppi in contrasto e lotta. I principi della libertà giuridica possono essere soltanto astratti e superficiali, e le istituzioni di Stato derivate da essi debbono essere per sé insostenibili, quando la saggezza di quei principi sconosce tanto la religione da non sapere che i principi della ragione della realtà hanno la loro ultima e somma garanzia nella coscienza religiosa, nella sussunzione sotto la coscienza della verità assoluta”: Ivi, pag. 498. 256
Stato e la legislazione, senza aver fatto una riforma”.555 In cosa consiste dunque tale “riforma” religiosa se non nella stessa razionalizzazione del sacro nel mondano sapere filosofico, omologando i precetti morali all‟unità della forma razionale? Nella eticità, la possibilità spirituale resa presente alla coscienza razionale come norma etica, perde la sua libertà e diventa necessità. Questo divenire della libertà morale in necessità etica è opera delle istituzioni giuridiche dello Stato, le quali sono garantite dal Potere, il quale finalmente è l‟organo decisore del bene comune. Che questo Potere sia religioso o politico è superato dalla sua funzione etica, cioè pubblica, che lo costituisce come unità politica e religiosa, spirituale. E in questa unità spirituale l‟universale filosofico incontra l‟effettualità del Potere politico, la cui forza consiste dunque nella mondanizzazione della verità del Logos, ovvero nella profanazione del sacro. Eppure, nonostante il platonismo hegeliano, il movimento dialettico che contraddistingue il rapporto storico della morale cristiana con la ragione dello Stato non è mai cessato anche all‟interno dell‟ orizzonte religioso riformato, poiché il “contenuto sostanziale”, rispettivamente della fede soggettiva e del Potere universale, non è “il medesimo”, come invece credeva Hegel.556 Infatti, l‟astratta universalità della legge, incarnandosi nella soggettività della coscienza morale, non realizza se stessa, né come universalità razionale e neppure come soggettività individuale, ma rappresenta l‟altro in sé. Solo nel rapporto morale l‟altro-da-sé viene rappresentato come in sé, ossia insieme come se stesso, e dunque come altro, e come lo stesso me stesso, e dunque come prossimo. Nel caso morale non c‟è risoluzione identitaria dell‟ente nell‟Essere, ma concreta relazione esistenziale, meta-giuridica e meta-politica, in quanto non supportata da alcuna mediazione istituzionale preposta alla trans-
555 Così come “un ripiego è da considerare il voler separare i diritti e le leggi dalla religione, quando ci sia l‟impotenza a discendere nelle profondità dello spirito religioso e di elevare questo spirito stesso alla sua verità. Quelle garanzie sono puntelli fracidi rispetto alla coscienza dei soggetti, che debbono maneggiare le leggi nelle quali rientrano le garanzie stesse. E‟ la somma, la più profana delle contraddizioni che si possano concepire, voler legare e sottoporre la coscienza religiosa alla legislazione mondana, che essa considera come profana”: Ivi, pag. 499. 556 Ivi, pag. 500.
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formazione omologante dell‟ente al suo modello ideale. L‟altro è in questa relazione morale accolto nel suo essere-in-sé-come-sé-stesso, e pertanto accolto così-come-è e amato nella sua possibilità d‟essere. Amare l‟altro nella sua possibilità significa non giudicarlo per il suo essere-presente, e dunque non distinguere l‟essere-che-è presente dalla sua possibilità originaria, cioè dalla sua intierezza esistenziale. Tale relazione originaria, d‟altro canto, liberandosi dalla necessità istituzionalmente stabilita, libera anche dal rituale del discorso costrittivo che razionalmente la legittima, instaurando un novus ordo sentimentale e non legale, proprio ai rapporti volontari. Ma l‟adesione volontaria alla comune condizione originaria designano nient‟altro che la fede nella verità del Mito; la quale verità, nella trascrizione attualizzante della sua possibilità, viene assunta come un gioco linguistico determinativo di senso: il senso ordinato dal discorso razionale. L‟ordinamento del discorso razionale stabilito dalla filosofia corrisponde al sistema557 giuridicizzato stabilito dal Potere politico e/o religioso, ispirato a valori eticamente sovrani, e pertanto la sovranità è la sussunzione degli enti politici entro il valore ideale ma eticamente istituzionalizzato. La effettualità dello Spirito è la conditio sine qua non per la stessa leggibilità razionale del mondo, la cui realtà va dunque interpretata secondo il suo sensus historicus e non simbolico e preistorico, e perciò in base alla necessità della sua determinazione concettuale, e non aperto alla libertà della sua possibilità miticometaforica. La giustificazione razionale della necessità di tale sussunzione è la diversità degli enti empirici rispetto al valore cui vanno uni-formati; distinzione che è dis-formità negativa da ricondurre all‟ordine. La trascrizione politica di tale diversità dis-ordinata è la “pericolosità”, che per Hobbes giustifica il Potere dello Stato sull‟uomo. Dunque il superamento della “pericolosità” teoretico-politica è l‟autocoscienza filosofica, che segna il passaggio alla dimensione storica, coincidente con la mondanizzazione dello Spirito ovvero con la profanazione del sacro. La dimensione del sacro non è che la possibilità messianica dello Spirito.
557 Che “il vero effettuale” sia “solo come sistema”, è Hegel stesso ad affermarlo nella Fenomenologia, tr. it. a cura di E. De Negri, Firenze, 1973, vol. I, pag. 19. 258
Che la risposta sia agapica e rivolta a comprendere l‟altro, o politica e rivolta all‟affermazione del sé che esclude l‟altro, in ogni caso il presupposto che ispira entrambe è la penìa platonica, o l‟astheneìa di Paolo (Rom., 8, 26) o ciò che Gehlen chiama Maengelwesen, ossia una fondamentale indigenza, carenza o mancanza dell‟uomo in relazione alla sua soggettività, che va dunque completata nel rapporto con l‟altro.558 Il rapporto con l‟altro è per l‟uomo la normalità, mentre la soggettività in sé è lo stato di eccezione. Ora possiamo cogliere per intero il senso dell‟affermazione di Schmitt sulla sovranità: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, 559 cioè sulle sorti dell‟uomo in quanto soggetto da normalizzare. Dalla condizione originaria dell‟uomo nasce il bisogno di un correttivo in direzione di una normalizzazione sociale, di un riempimento della sua mancanza attraverso il rapporto con gli altri uomini, di cui la il Potere è la volontà razionale e il diritto è la regolamentazione sistemicamente stabilita di tale volontà. La filosofia è la logica del Potere, e la religione l‟etica del diritto. E‟ lo stesso Schmitt ad affermare che “per la giurisprudenza lo stato di eccezione ha un significato analogo a quello che il miracolo ha per la teologia”.560 Il miracolo è dunque la condizione di auto-affermazione della soggettività umana fuori di ogni relazione normalizzata. Non la solitudine bestiale o semi-divina di cui Aristotile, ma l‟autoaffermazione della soggettività capace di emanciparsi dal suo destino socio-antropologico, legato ai vincoli della “carne” (Rom., 8, 5), e dunque di addivenire a una relazione con l‟altro di tipo meta-politico e a-razionale, fondata sull‟indeterminata possibilità d‟essere dell‟uomo messianico, che è “secondo lo Spirito”, sulla sua autonomia esistenziale
558 Se l‟altro è Dio, ogni altro uomo è lo stesso Dio, e dunque da amare. La relazione con l‟uomo odiato come inimicus, o con il nemico in senso politico (hostis), stabilisce un rapporto dove Dio è assente. E solo dove Dio è assente, o sostituito con idoli, è possibile stabilire una relazione politica, di esclusione dell‟altro. Da qui l‟impossibilità per il cristiano di ogni teocrazia, che è il dominio sacralizzato della legge contro cui ha testimoniato la fede di Paolo nel Cristo liberatore dalla sua servitù (Gal.). 559 C. Schmitt, Politische Theologie (1922), tr. it. in Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, pag. 33. 560 Ivi, pag. 61.
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poggiante sulla singolarità della sua condizione eccezionale. Ed è questo l‟orizzonte di coscienza di Kierkegaard, citato anche da Schmitt.561 “L‟ordine del profano”, afferma significativamente Benjamin, “deve essere orientato sull‟idea di felicità”,562 la quale non è una categoria religiosa ma politica, come già notato da Tommaso, che, per la sua natura transeunte, la distingueva dalla condizione perfetta della beatitudine, e che Dante considerava aspirazione della virtù propria del monarca. 563 Ma, quand‟anche percorso di dolorosa esperienza esistenziale per la coscienza eccezionale, anche l‟ordine profano “può favorire l‟avvento del regno messianico”, cioè iscriversi nel processo mistico verso la “restitutio in integrum spirituale che conduce all‟immortalità”, il cui “ritmo” del tempo naturale è appunto la felicità, il tèlos della “mondanità” della profana dimensione politica. “Il Profano non è, dunque”, per la coscienza messianica della storia, “una categoria del Regno, ma una categoria del suo più facile approssimarsi”.564 Questa considerazione ci aiuta a comprendere la prospettiva messianica che ispira il progetto monarchico di Dante, il senso della sua esclusione di ogni utopia teocratica. L‟Impero romano, infatti, aveva costituito il percorso nichilistico di una “politica mondiale” priva di quella finalità escatologica che solo il Cristianesimo avrebbe aggiunto al suo universale ma caduco Potere, privo della “speranza” paolina nella “salvezza dalla schiavitù della corruzione”.565 Tale salvezza per Paolo non è “la sapienza dei saggi” greci, i “sapienti secondo la carne”, cioè la “intelligenza degli intelligenti”, con la quale “il mondo non ha
561 Ivi, pag. 41. 562 W. Benjamin, Theologisch-Politisches Fragment (1920), tr. it. in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino, 1982, pag. 171. 563 Ved. Cap. VI, Ragione, simbolo, tragedia, pag. xy. 564 W. Benjamin, Ibidem. 565 Ivi, pag. 496. Rom., 8, 24. Sul “parallelo stupefacente” tra la tesi di Benjamin e di s. Paolo, ha insistito molto J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus (1987), tr. it., Milano, 1997, pagg. 133 sgg.. 260
conosciuto Dio”, ma la “pazzia della predicazione” (Cor., 1, 19-26).566 In cosa consiste tale “pazzia”? Esattamente nel richiedere e sollecitare che i rapporti inter-personali siano conseguenti a una trasformazione pneumatica della identità dell‟uomo, emancipata da quella politica e naturalistica tradizionali. La nuova identità spirituale non assume più la relazione tra uomini come legame mediato dalla socialità, cioè dal legame unitivo di carattere collettivo e impersonale, ma come legame appunto personale e soggettivo, stabilito elettivamente per consapevole scelta. Una soggettività slegata dall‟impersonale rapporto di appartenenza sociale o familiare si offre all‟altro nella sua intierezza singolare, nella sua totalità spirituale unica. Il superamento del rapporto politico coincide con l‟affermazione della singolarità dello individuo personale, che stabilisce col mondo rapporti non mediati da leggi né da
566 J. Taubes, attribuisce al cristianesimo la “radicalizzazione” della salvezza per mezzo della verità, che per i filosofi greci era riservata ai pochi e che per la soteriologia cristiana dev‟essere invece per tutti ( Loc. cit., pag. 150). L‟equivoco, che Taubes condivide col suo maestro Nietzsche, è di concepire in termini sociologici e orizzontali la possibilità della salvezza in senso cristiano, spirituale, che ogni uomo può intraprendere attraverso un processo di affrancamento dal suo destino naturale, universale. Lo spostamento del baricentro soteriologico dal tema etico della metafisica socratico-platonica, inerente la funzione liberatoria del Logos politico dalla schiavitù sociale, a quello morale dell‟escatologia cristiana, determina una diversa articolazione del valore discriminante, che, emancipato dal piano dei rapporti socio-economici collettivi e condotto al piano coscienziale-soggettivo, non è rimuovibile per intervento esterno, politico, e dunque intrinsecamente gerarchico e meta-politico. Ogni strutturazione morale dei rapporti umani è essenzialmente gerarchica in senso spiritualistico e aristocratica in senso carismatico, ma non in senso socio-politico. Tradotta la conversione spirituale (metanoia) in appartenenza politica (amicitia), è venuto a perdersi il motivo elettivo e carismatico costitutivo della ecclesia a favore di quello politico e burocratico tipico di una universitas. E‟ nel momento in cui, con la costituzione imperiale della Chiesa, la differenza mistico-spirituale viene intesa in senso antropologico-naturalistico aristotelico (physei) che la condizione morale soggettiva viene a perdere il suo originario connotato elettivo, e dunque ontologicamente discriminatorio, a favore di uno universale in senso teologico-politico collettivo. Il rapporto politico oggettiva la relazionalità delle parti, per cui gli hostes non sono inimici personali proprio perché il loro rapporto è oggettivo, cioè ideale, non concreto e personale. Il cattolicesimo, volendo redimere il mondo, ha finito per occuparsi di politica, brigando con Cesare, anziché delle singole anime e del loro singolare rapporto con Dio. 261
istituzioni formalizzanti. Il luogo esistenziale della necessità, il contesto della comunità politica, viene trasceso a favore del luogo della libertà, il foro ecclesiale. Il rapporto politico non è mai esistenziale, ma sempre oggettivo e impersonale perché ideale.567 Il Potere ideale, oggettivato, fatto derivare dalla volontà umana e desacralizzato, “non è in sé né buono né cattivo; è di per sé neutro; è ciò che l‟uomo fa di esso: nelle mani di un uomo buono è buono, in quelle di un uomo cattivo è cattivo”. La neutralità deriva dalla relatività del giudizio sulla sua bontà, per cui “il Potere è buono se ce l‟ho io, ed è cattivo se ce l‟ha il mio nemico”.568 Il superamento di tale relatività, e dunque della manipolazione della giustificazione del Potere a opera della retorica sofistica, conseguente alla estromissione della legittimazione divina da parte del razionalismo greco, viene tentato dalla filosofia maieutica di Socrate attraverso la definizione logica del modello etico di Giustizia ideale (), la quale, dovendo comunque essere affermata politicamente, deve mettersi nelle mani esecutive del Potere, diventando legge. La legge politica è dunque quella del Logos istituzionalizzato, e il Potere è l‟esercizio legislativo dei suoi interpreti. Questi interpreti della legge sono i potenti (, Rom, 13) di questo mondo che tengono in custodia servile i popoli; o almeno quelli non emancipati dalla Rivelazione cristica, e quindi estranei alla gloria () alla quale, secondo Paolo, partecipano gli eletti nel nuovo eone cristiano. La legge, nella dimensione escatologica ebraica e quindi paolina, è fondamentalmente un patto569 prodotto dalle potenze angeliche () che vigilano sull‟uomo e sulla sua applicazione (libro di Henoch), che opprime l‟uomo sotto il peccato, come il pedagogo che tiene in servitù l‟erede. Nella prospettiva del razionalismo politico
567 Ciò non significa che non si stabiliscano relazioni personali tra sodali di una stessa parte politica, ma che la relazione politica è fondata non su di esse ma su un criterio di appartenenza oggettivo e astratto, ideale appunto, in base al quale si è “partigiani”. Ved. C. Schmitt, Theorie des Partisanen (1963), tr. it., Milano, 2005. 568 C. Schmitt, Gespraech ueber die Macht und den Zugang zum Machthaber (1954), tr. it. Milano, 2012, pag. 32. 569 M. Buber definisce il “patto regale” del popolo ebraico con Dio “un atto giuridico-sacrale di reciprocità”: Koenigtum Gottes (1932), tr. it., Genova, 1989, pag. 141.
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greco, l‟emancipazione dal servaggio celeste si realizza attraverso la , che è lo spazio in cui si esercita la volontà del cittadino non più soggetto al Governo delle leggi divine. Nella prospettiva escatologica di Paolo, solo “Cristo rappresenta la maggiore età dei fedeli”, che in lui si liberano dalla legge e dalle potenze angeliche del mondo (Gal, 4; IV libro di Esra).570 Ed è proprio la prospettiva escatologica cristiana ad escludere di per sé ogni ideale teocratico, rappresentato dalla legge. La legge, che è un patto, nella escatologia paolina, non trova più posto nella economia della salute, sostituita dalla “promessa” (), la quale è un testamento () che diventa l‟unico principio religioso e l‟unica fonte di salute (Rom, 4,
1).571 Con l‟escatologia del Cristianesimo paolino, dunque, viene culturalmente superata la dimensione politica della socialità del razionalismo greco, e confermato il monoteismo della tradizione ebraica572 in chiara antitesi polemica con il politeismo pagano, sia greco che romano. Grazie alla legittimazione della potestà divina del mondo, che nessuna legislazione terrena può surrogare, ritroviamo il senso escatologico profondo della visione paolina nella Monarchia dantesca, concepita come con-presenza di tutte le politiche nella stessa unità mistica del Governo universale, in cui cade la contraddizione di “amare il nemico”, in quanto viene a mancare il nemico. In questo senso, la Monarchia mondiale prefigurata da Dante interrompe la conversione dialettica dell‟universitas politica in unità mistica ecclesiale, dell‟Imperium in corpus mysticum, comprendendo in sé l‟intera realtà delle loro astratte rappresentazioni storiche. Da qui la triplice presa di distanza della teologia politica dantesca: dalla Chiesa, e dalla sua ecclesiologia di età alessandrina;573 dall‟Impero e dalla sua
570 Ved. A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. II, Prolegomeni alla storia dell’età apostolica, Messina, 1920, pagg. 165-169. 571 Ivi, pag. 175. 572 Ivi, pag. 170. 573 “Per la tradizione posteriore [a Paolo] gli apostoli invece erano gli edificatori della chiesa, già resasi, nel suo concetto, autonoma dalla fantasia apocalittica della fine imminente”: A. Omodeo, Op. cit., pag. 149. 263
concezione teocratica; e infine dai costituendi regni nazionali che, quali poteri intermedii mondani (gli di Rom, 13) avrebbero dovuto tutti sottostare al Governo monarchico () divinamente ispirato. Letta in chiave escatologica, la Monarchia di Dante rappresenta una visione storico-politica apocalittica interna all‟eone della Roma cristiana, analoga alla epistola che Paolo rivolse ai Romani pagani. Una apocalisse cristiana che doveva inaugurare l‟eone post-cristiano, e dunque moderno, spostato dallo sfondo giudaico della prospettiva paolina, allo sfondo della civiltà classico-pagana ereditata dal cattolicesimo romano-alessandrino. Al posto del “momento nazionale, contenuto in tutte le apocalissi”,574 troviamo in Dante la versione imperiale, lo scenario appunto storico-culturale della Cristianità, entro il quale la predestinazione elettiva opera a livello di massa, e coincide con la universale ekklesìa dei cristiani e dei non-cristiani, che vanno insieme a costituire l‟intiera umanità redenta sotto il comune Governo monarchico. Nella prospettiva escatologica paolina, l‟universalità nazionale della legge politica viene trascesa dall‟universalismo della ragione etica. Ma la della sapienza pagana non è sufficiente a liberare l‟uomo dal peccato originale di Adamo, consistente nella credenza razionalistica di poter fare a meno della guida di Dio, edificando, sul fondamento della sola ragione umana, una convivenza non più di natura morale ma politica, legittimata da falsi idola tribus, da religioni superstiziose giustificative del mero Potere dell‟uomo sull‟uomo. La nuova prospettiva soteriologica si costituisce come un superamento, non soltanto delle pagane idolatrie, ma della stessa filosofia politica della sapienza greca e di quella giuridica romana, fondate sull‟asservimento religioso dei popoli sottomessi alla legge come un minore al suo “pedagogo”575 protettore. Solo la Grazia () può stabilire il Governo giusto, mentre invece ogni Potere produrrà soltanto un ideale di
574 A. Omodeo, Op. cit., pag. 222. 575 “Pedagogo” è qui inteso nell‟accezione antica di servo che ha in custodia il fanciullo e ne limita la libertà. “La legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché noi fossimo giustificati per la fede. ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore; perché siete tutti figli di Dio per la fede in Gesù Cristo”: Gal, 3, 24-26.
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giustizia che lo legittimi; ideale che è proprio delle religioni pagane, tutte aventi una funzione di collante politico. A questo punto la prospettiva escatologica si allontana dalla prospettiva ecclesiologica, che storicamente si è affermata sino allo scisma luterano. Infatti, l‟escatologia paolina, diversamente dalla teologia romana, non concepisce la verità dell‟evangelo cristiano come quella unica ed eterna moralità che, in funzione religiosa, può legittimare il Potere, ossia come la vera religione, ma pur sempre tale; essa, invece, si propone di emancipare l‟uomo dal servaggio della legge, e dunque dal Potere stesso, religioso e dello Stato. Ciò vuol dire che l‟opera di contrasto delle forze anti-cristiche non sono quelle che muovono contro la Chiesa, ma quelle che muovono contro la morale evangelica.576 Di conseguenza, il fuoco polemico dell‟escatologia paolina non è l‟Impero pagano di Roma, ma l‟Impero in quanto tale, in quanto mondo retto da leggi che sono il prodotto di potenze angeliche.577 L‟instaurazione della
576 “Nella tradizione sinottica ciò che l‟opera dell‟uomo nemico perturba è la chiesa576 [Mt, 13, 24 ss.]: qui [in Gal.] invece ciò che si cerca di sovvertire è l‟evangelio. La parola evangelio viene ad acquistare il significato grandioso che ha nelle altre lettere paoline, non solo di predicazione, ma di opera divina, ma di momento storico supremo, quasi di costellazione che influenza il mondo, di opera miracolosa di Dio per ogni credente, ministerio di elargizione della giustizia divina, trionfo di Cristo nell‟apostolo […] infinitamente più glorioso del ministerio della legge di Mosè: e si compie come appello agli eletti nell‟imminenza del giudizio e incalza l‟apostolo con la speranza e l‟ansia dell‟imminenza del giudizio. Quest‟opera grandiosa, attuata da Dio per mezzo dell‟apostolo, e concepita come prologo del dramma escatologico Paolo vuole salvare dal sovvertimento: il concetto escatologico predomina sul concetto ecclesiastico. […] Paolo insorge non solo contro la perturbazione del proprio insegnamento evangelico, ma contro il sovvertimento dell‟evangelio di Cristo; opera divina che precorre il giudizio; vi scorge non tanto il perturbamento della chiesa quanto un tentativo di arrestare il corso della storia predisposta da Dio. Abbiamo una concezione dell‟apostolato come momento del compimento finale: non dissimile in questo dal significato storico del messaggio evangelico di Gesù”: A. Omodeo, Loc. cit., pag. 148. 577 “Ammesso nella religione giudaica come una forma attenuata di idolatria, il mondo angelico serviva a dar ragione del corso del mondo non consono a Dio […] e il sogno apocalittico escatologico aspirava all‟eliminazione di ciò che non era 265
verità evangelica nel mondo, pertanto, comportava una conversione universale dalle leggi del mondo, e dunque un superamento della logica pagana di dominio. E‟ chiaro che, ai fini della destinazione escatologica della evangelizzazione delle genti, la razionalizzazione del Potere non poteva costituire una soluzione accettabile, sicché l‟esito storico della cristianizzazione religiosa dell‟Impero romano fu un sostanziale tralignamento spirituale dalla originaria soteriologia paolina, che poneva al centro di ogni considerazione del rapporto dell‟uomo sull‟uomo il carisma dell‟amore (I Cor., 13; Gal., 13)578, e dunque il superamento di ogni prospettiva eticistica. Come è stato finemente notato, in Paolo “il problema etico oscilla fra l‟affermazione di una perfezione reale e l‟esigenza di perfezione da conseguirsi per opera del fedele”.579 Ma la questione escatologica sollevata da Paolo non poteva risolversi nei termini in cui la affermò la tradizione cattolica con la neutralizzante teoria del corpus permixtum, quasi che la dimensione naturale e quella spirituale potessero separarsi nell‟esperienza esistenziale concreta dell‟uomo. Essa ineriva infatti alla libera determinazione umana di convertirsi a un modus vivendi che superasse la dipendenza dalle necessità della esistenza materiale e prendesse a concepire l‟altro uomo come solidale, anziché come rivale, a uno stesso destino di mancanza, di peccato: di essersi separati dal Governo paterno di Dio. Ogni autonomo tentativo dell‟uomo di
volere divino nel mondo, all‟eliminazione di ogni volere non consono a Dio”, cioè al dominio degli elementi del mondo: da qui il carattere diabolico della legge, emanata dagli elementi mondani. “Il Messia, sia che venisse concepito come puro uomo, o anche come potenza angelica, anche presso il cristianesimo primitivo [e non solo dunque per il giudaismo] era solamente il restauratore del governo diretto di Dio, e il suo regno era limitato e doveva infine esser trasmesso a Dio”: Ivi , pag. 170. 578 Paolo “lo esalta a massimo principio della vita in Cristo e della chiesa. Senza l‟amore vana è ogni conoscenza, arida la fede, sterile la buona opera e il martirio. L‟amore è ciò che costituisce e dà forza alla nuova chiesa.[…] I carismi intellettuali come la conoscenza e la profezia sono sintomo d‟una nostra presente imperfezione e ad essa in qualche modo sovvengono; essi verranno meno nel compimento finale quando sarà attuata la perfezione. Ma rimarranno la fede, la speranza e l‟amore: massimo di tutti l‟amore”: A. Omodeo, Loc. cit., pag. 261. 579 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 236.
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superare questo deficit spirituale traducendolo da problema esistenziale a questione politico-sociale è destinato a fallire, in quanto l‟essenza del Governo è appunto divina, e non socio-politica o religiosa, e può rimettersi solo al Cristo. E pertanto ogni azione di contenimento tesa a ostacolare l‟instaurazione della gloria di Dio è opera di forze anticristiche (, Rom, 13) che ostacolano l‟avvento del Regno spirituale di Cristo. Nella I Cor, Paolo afferma che
poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno; […] poi verrà la fine, quando, [dopo la venuta di Cristo, questi] consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna che egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi.[…] Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti (15, 22-28).
Egli, pur mantenendosi entro la tradizione apocalittica ebraica, distingue “una fase messianica col regno degli eletti – di 400 o di 1000 anni – e la fase veramente escatologica col governo diretto di Dio”. Ma l‟aspetto più rilevante è che “la risurrezione è riservata agli eletti”.580 Ciò comporta che l‟intermezzo tra la fase messianica, in cui governa Cristo, e quella escatologica del governo di Dio, sia segnato dalla realtà della carne, dal periodo cioè in cui gli eletti risorti, sotto la guida di Cristo, preparano l‟avvento del regno finale di Dio, di cui Paolo è l‟apostolo. “Egli è il ministro ella nuova alleanza non della lettera che uccide, ma dello spirito che vivifica”, cioè di Dio stesso “in cui è la libertà”.581 Due sono, in questa fase intermedia, i momenti salienti: il primo è costituito dalla resurrezione elettiva, il secondo dal Governo dei non eletti da parte degli eletti. Solo tale Governo elettivo può giustificare l‟attesa del Regno di Dio, ossia l‟attesa che i non eletti, gli empi, conseguano la resurrezione secondo il loro “turno”.
580 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 265. 581 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 278.
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Se la resurrezione riguardasse la sola “carne gloriosa”, e dunque impegnasse le sole opere umane mondanamente significative, senza implicare la esistenza “santa”, ossia orientata in senso spirituale, l‟elezione sarebbe dovuta alle virtù secolari e ai carismi intellettuali di cui si gloriava la sapienza pagana, sicché riguarderebbe tutti gli eroi delle civiltà pre-cristiane e appunto pagane. Ma, come chiarisce Paolo, se “tutti muoiono in Adamo”, solo alcuni rinascono “in Cristo”, e sono perciò eletti; in quanto anticipano la finale trasfigurazione comune, fino all‟avvento della quale di essi è il Governo degli empi. La morte in senso paolino ha pertanto accanto a un significato naturalistico e materiale anche uno simbolico e spiritualistico. La morte naturale riguarda la fine del ciclo biologico caratteristico dell‟esistenza dei mortali, il cui capostipite è Adamo, macchiato del peccato originale. La morte simbolica riguarda la conversione spirituale, ed è dunque interna alla vita biologica e precedente la morte naturale. questi due tempi, in cui la rinascita spirituale incide durante il corso della vita mortale, rappresentano le due fasi della escatologia paolina: quella messianica, nella quale l‟elemento elettivo guida l‟elemento empio come l‟elemento spirituale guida l‟elemento carnale, e quella propriamente escatologica, allorquando si sarà vinta la morte fisica da parte della compiuta rinascita spirituale dell‟umanità, come della morte personale di ogni mortale nella trasfigurazione mistica finale. La fase propedeutica alla finale resurrezione universale, in cui Cristo si avvale del suo corpo mistico ecclesiale per preparare l‟avvento escatologico, è quella in cui gli eletti governano gli empi. Nell‟ambito di questa missione governamentale da parte degi eletti, interna al tempo storico, l‟organizzazione della sua struttura operativa dipende da fattori culturali, legati alla scienza ed esperienza del tempo. In ogni caso, il carattere di tale Governo elettivo, proprio perché non inerente la sola carne dell‟ “uomo esteriore” ma anche il suo “corpo pneumatico” (1 Cor, 15), costitutivo dell‟ “uomo interiore” (2 Cor, 4, 16), e pertanto ispirato dall‟autorità di Cristo, verso la cui gloria esso tende, se deve avere una proiezione universale, inerente alla salvezza spirituale di tutti gli uomini in quanto creature divine, e se deve avere un carattere monarchico in quanto relativo alla signoria univoca di Cristo, non può essere analogo a un qualunque altro Potere mondano conosciuto nel tempo profano, e dunque consistere in un meramente politico, né può somigliare ad alcun altro reggimento imperiale di tipo pagano. 268
Inerendo al Governo di uomini, esso avrà certamente caratteristiche anche politiche e anche imperiali, ma il suo tratto cristiano innovativo e qualificante sarà di avere come la salvezza in Cristo. Da queste premesse escatologiche paoline nasce l‟idea in Dante di una Monarchia universale cristiana sotto il Governo degli eletti di Cristo guidati dal carisma politico dell‟imperatore e da quello spirituale del papa, ispirati dallo Spirito Santo. In questa forma mistico-politica, in cui il cristiano si libera da ogni soggezione alle potenze intermedie per conseguire quella “prassi apocalittica” iniziata da Gesù,582 Dante intese prefigurare quel Governo unico (monarchico) e morale583 (legittimato dalla Trinità divina) che Peterson ha dichiarato di impossibile ispirazione cristiana, e che invece è intrinseco alla soteriologia escatologica professata da Paolo.
7. Il tema della monarchia cristiana fu, come è noto, oggetto di un famoso scritto di Dante Alighieri, la Monarchia, scritto tra il 1310 e il 1313, periodo della discesa di Arrigo VII in Italia, entra nel circuito della pubblicistica politica favorevole o contraria alla Chiesa e all‟Impero soltanto alla fine del 1329, dopo la morte del Poeta, oggetto di opposte considerazioni.584 Il trattato ha come oggetto la hybris tipicamente moderna dell‟uomo che ha perduto la cognizione di Dio, la cupiditas, che costituisce l‟infima variante economica della generica voluptas, il principio belluino già stigmatizzato da Cicerone nel De
582 L‟espressione “apocalittica in azione” fu usata da A. Omodeo (Loc. cit., pag. 418 n. 1) per indicare il superamento paolino dell‟antitesi giudaica dei due mondi e della sua “apocalittica astratta”, già effettuato a suo modo dall‟ellenismo. Ved. anche Ivi, pag. 427. 583 La distinzione tra eletti ed empi non rileva ai fini di una considerazione gnostica e mistagogica delle differenze tra i fedeli, ma si inscrive nella stessa natura morale del Governo monarchico cristiano, che si determina attraverso il riconoscimento delle diverse possibilità che i singoli uomini hanno di approssimarsi alla perfezione spirituale, e quindi all‟esistenza di una relativa gerarchia spirituale tra gli uomini, originaria e non determinata da contingenti ragioni sociali o politiche, in base alla quale si riconosce la loro diversa autorevolezza carismatica. 584 Ved. E. Malato, Storia della letteratura italiana, vol. I, Roma, 1995. Si cita dal vol. mon. Dante, Milano, 2015, pagg. 182 sgg. 269
Amicitia, che il principe è chiamato vocazionalmente a sedare. Ma l‟amicitia cristiana evocata da Dante non è soltanto la sublimazione della societas in senso romano, ossia la condizione prossima al socius richiamata dall‟amicus della dialettca politica; è più una condizione di mera pax sociale, in quanto intrisa del valore benigno proprio del carattere morale della fraternità cristiana, quell‟ “amor che move il cielo e l‟altre stelle” che il regno materno della monarchia temporale, “propter non se habere immediate ad lucrum”,585 stabilisce come regola universale. Cosa intenda Dante per “Monarchia temporale” (temporalis Monarchia) lo illustra all‟esordio del Libro II. “Essa è indicata come „Impero‟, e consiste in un principato unico che regni su tutti coloro che vivono nel tempo, e dunque su tutte le cose sulle quali ha potere il tempo”.586 Che essa sia “un bene per il mondo”, va secondo Dante discusso insieme alla questione circa il ruolo assegnato al popolo romano di governarlo e a quella della diretta o trasmessa titolarità divina dell‟autorità monarchica. 587 Essendo una verità che non dipenda da se stessa, dipendente da un principio logico, è necessario stabilire quale sia questo principio per farne discendere per sillogismo ogni argomento conseguente. All‟uopo vanno distinte le scienze su cui è possibile solo speculare, non essendo in nostro potere intervenire con le nostre opere, quali la matematica, la fisica e la telogia, ed altre invece che sono alla portata della nostra attività pratica, e che pertanto sono soggette tanto alla speculazione quanto funzionali all‟azione. Orbene, essendo la nostra una questione politica, e dunque soggetta al nostro controllo, anche la relativa teoria è ordinata alla sua realizzazione pratica, che ne è il suo fine. Se ne esiste uno, non può essere che il fondamento comune sul quale poggiano tutte le società civili umane, ché sarebbe stolto
585 Dante, Monarchia, Libro Primo, I, 19. La versione consultata è quella della edizione critica curata da P.G. Ricci per la Edizione Nazionale delle opere di Dante, vol. V, Milano, 1965, pag. 135. 586 “Est ergo temporali Monarchia, quam dicunt „Imperium‟, unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur”: Dante, Monarchia, Ivi, II, 3-5, pag. 136. 587 Ivi, II, 6-10.
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pensarne uno per ognuna di esse.588 L‟aristotelismo di Dante, richiamato esplicitamente a un di presso, consiste nel concepire, a fronte della varietà delle storiche società umane, un fondamento comune di natura logica, ascrivibile a principio fondamentale di ognuna di esse, per cui, pervenendo deduttivamente alla sua determinazione, saremo già a metà percorso (“plus quam dimidium laboris erit transactum”).589 Il “principium directivum” da ricercare è il fine assegnato da Dio all‟attività del genere umano, essendo l‟agire la ragion d‟essere dell‟essenza umana. E il senso ultimo dell‟attività umana non può determinarsi attraverso i singoli uomini o le singole realtà sociali, ma soltanto considerando l‟intera umanità.590 La facoltà da considerare come rappresentativa del genere umano, al di là delle differenze specifiche e delle mancanze relative, consiste nella “potentia sive virtus intellectiva”, ossia nella attitudine a conoscere la realtà per mezzo della potenza della ragione (“per intellectum possibilem”), la quale non può dispiegarsi in atto per un singolo uomo o per singola comunità particolare, ma è necessaria la partecipazione del molteplice genere umano perché si attui.591 In particolare, la potenza razionale non è circoscritta alle forme speculative o specie universali, ma si estende all‟agire pratico, che ne diventa così il fine. Tale possibilità di agire, in materia politica, è regolato dalla prudenza, così come la possibilità di fare è regolato dall‟arte.592 La teoria di Dante è che il “proprium opus humani generis”, ossia il compito precipuo dell‟umanità, sia di “actuare semper totam potentiam intellectus possibilis”, cioè di portare ad effetto in ogni caso l‟intera potenza della ragione, sia “ad speculandum”, con la riflessione, e sia “ad operandum per suam extensionem”, adoperandosi per realizzare il suo dominio. 593 Questo dichiarato intento propagativo della ragione
588 Ivi, II, 11-36, pagg. 137-139. 589 Ivi, III, 2-3, pag. 139.
590 Ivi, III, 7-24, pagg. 139-140. 591 Ivi, III, 40-45. 592 Ivi, 49-55. 593 Ivi, IV, 1-4, pag. 143.
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implicherebbe una attività del genere umano molto prossima a una dinamica di conversione in essere tipica della dialettica filosofica, e quindi una attività polemica tesa a superare le resistenze negative. E invece Dante ci avverte subito che “sedendo et quiescendo” l‟uomo si perfeziona in prudenza e sapienza, e da qui il bisogno del genere umano a persistere “in quiete sive tranquillitate pacis” per adempiere al suo compito, che “sa di divino”, e quindi di pervenire alla “pax universalis” al fine di raggiungere la sua “beatitudinem”.594 In altri termini, l‟opus suum dell‟uomo è di predisporre la pace per dedicarsi quindi a edificare una realtà razionalizzata, secondo gli analoghi intendimenti della filosofia politica greca, trasvalutati dal senso cristiano della “pax universalis” come regno della ragione dispiegata, che costituisce lo “ultimum finem” dell‟umanità. Il senso escatologico della salvezza cristiana come metanoia spirituale viene qui convertito nel senso immanente di una realizzazione operosa nel mondo da parte delle forze guidate dall‟intelletto, supponendo che la potenza della ragione coincida con la stessa destinazione divina della specie umana. A questo punto, avendo conferito alla Politica di Aristotele una “autoritas venerabilis” non oppugnabile ma confermata per via induttiva,595 e stabilito il parallelo tra il governo dell‟animo umano diretto alla felicità e quello delle società intermedie sino agli imperi sovranazionali dirette allo stesso fine eudemonistico non solo della “recta politia”, messa in opera dal giusto Stato, ma anche di quella “obliqua” perpetrata nello Stato ingiusto, “ergo unum oportet esse regulans sive regens, et hoc „Monarchia‟ sive „Imperator‟ dici debet”, per cui “ad bene esse mundi necesse est Monarchium esse sive Imperium”.596 Ovvero il principio monarchico discende dal fine stesso immanente alla vita umana, fosse pure ridotto al bene minimale di conservarsi, poiché senza l‟unità degli intenti come del comando, esso non verrebbe conseguito: da qui la necessità di costituire un impero monarchico universale. E questo supposto fine coincide con la reductio
594 Ivi, IV, 6-12, pag. 143. 595 Ivi, V, 7-10, pag. 145. 596 Ivi, V, 30-45, pagg. 146-147.
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ad unum della molteplice diversità, ossia appunto alla razionalizzazione del mondo. A questo punto Dante espone la sua teoria organicistica della società, asserendo che, per quanto esposto, che l‟ “ordo melior”, coincidente con la stessa razionale “forma ordinis”, debba ritrovarsi “in ipsa totalitate”, cioè nella stessa unità totale del regno, ordinato sotto l‟autorità di “unum principem”,597 il quale, in relazione all‟universo come al genere umano, è Dio, “unicum principem” a cui si deve rapportare un “unum principium”,598 coincidente con la stessa “divina bontà” creatrice di partecipare ogni sua creatura della “somma perfezione” nei limiti della “propria natura” di ogni essere.599 E pertanto il genere umano raggiunge il suo massimo grado di benessere e di felicità, “quando, secundum quod potest, Deo assimilatur”, ossia quando “maxime est unum”, cioè riesce a unificarsi secondo un unico principio, che è divino, in quanto “vera enim ratio unius in solo illo est”. Da ciò consegue inevitabilmente che “genus humanum maxime est unum, quando totum unitur in uno”, il che avviene “quando uni principi totaliter subiacet”. E allorquando ciò avviene, il genere umano “Deo assimilatur […] secundum divinam intentionem”.600 Si noti la corrispondenza tra la condizione di fatto e la condizione ideale, tale per cui il conseguimento dell‟unità politica sotto un unico Impero costituisca di per sé il suggello della volontà divina, che dunque si manifesta attraverso le opere dell‟uomo, tanto più gradiose quanto più rapportabili all‟unità divina. Se però questa pretesa corrispondenza della fattualità umana con la volontà divina, può spiegare elitticamente la genesi della molteplicità del genere umano come una conseguenza del peccato originale, ossia della imperfezione della finitezza umana, l‟equivalenza tra l‟unità del genere umano conseguita sotto uno stesso regno e il riscatto da quella imperfezione resterebbe del tutto inspiegabile dal punto di vista soteriologico se non intervenisse preventivamente a soccorso razionale la logica antica, in
597 Ivi, VI, 10-18, pagg. 147-148. 598 Ivi, VII, 10-11, pag. 149. 599 Ivi, VIII, 3-6, pagg. 149-150.
600 Ivi, VIII, 12-20, pagg. 150-151.
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virtù del cui mutuo è possibile stabilire l‟equazione tra “ordo melior” cristiano, votato alla assimilatio Deo e “forma ordinis” del costrutto razionalistico. Ciò comporta di conseguenza che a opera dell‟uomo si possa addivenire a una correzione di status che da ontologico e originario, come quello legato al peccato, diventa fisiologico e dunque contingente, legato all‟ignoranza umana delle sue “vestigia celi”.601 Questo passaggio da uno ad altro status si realizza attraverso la trascrizione in termini razionalistici della essenza di Dio, inteso, secondo la Fisica aristotelica come Primo Mobile, quel “sole” genitore dell‟uomo impersonato appunto da “colui che tutto move” nel Paradiso dantesco, il cui “amor che move il sole e l‟altre stelle”, dovrebbe “regnare negli animi umani” già secondo Boezio. 602 Che l‟uomo fosse equiparato a un prodotto celeste in senso fisico, senza altra indicazione spiritualistica, è una grave concessione al naturalismo greco, resa più conseguente nella sua remissione metafisica dall‟accenno significativo ai testi nobili della cultura greca in cui si richiama la necessità dell‟unità monarchica, ossia il passo 10, 1076a del libro XII della Metafisica di Aristotele e il verso 204 del II libro dell‟Iliade di Omero. Ma il dato più sconcertante, dal punto di vista cristiano, è la conseguente, quanto inconsapevole, risoluzione della questione della salvezza spirituale dell‟uomo al problema dell‟ottimo ordine politico. Eppure l‟ideale dell‟unità cristiana fu ben più di una “formula” quale la concepì la scuola romantica a partire da Novalis, fino al Ranke che indicò l‟Europa come una “nazione romano-germanica” unificata dall‟identità cristiana.603 O meglio, lo fu nella misura in cui concentrò il suo significato storico-culturale nella creazione della Chiesa-Impero costantiniana, rispetto alla quale “il mondo medievale occidentale non produsse alcuna soluzione politica che l‟abbia superata”.604 Ma l‟equivoco si annida nel concepire la Civitas Dei come il prototipo della “unità negli affari politici”, alla maniera di Dante, ovvero come una
601 Ivi, IX, 6, pag. 151. 602 Ivi, IX, 17 sgg., pag. 152. Boezio, De consolatione philosophiae, II, 28-30. 603 Ved. E.H. Kantorowicz, The Problem of Medieval World Unity (1942), tr. it. in I misteri dello Stato, cit., pag. 165 sgg. 604 Ivi, pag. 167.
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“unione ecclesiastica”, resa impossibile dallo scisma che sanzionò la lotta ideologica apertasi nella Chiesa tra il IX e l‟XI secolo, anziché nella “visione d‟insieme” che, a detta del Kantorowicz, “era innata nella mentalità medievale”, la quale “poneva l‟intero prima delle parti”, pensando che “l‟assenza dell‟unità [fosse] una momentanea defezione che poteva essere trascurata solo perché, presto o tardi, sarebbe stata ristabilita”, andando a costituire perciò “il „mito dell‟unità‟, che Est e Ovest ugualmente condividevano”.605 Orbene, l‟essenza di tale “mito” consisteva appunto nella aspirazione alla “unità” () del molteplice, che costituiva il lascito ideo-logico più pregnante della tradizione ellenistica, e che trasmigrò – attraverso la mediazione cristiana e paolina - dal piano delle idee platonche a quello politico dell‟Imperium romano, che trovò appunto in Costantino il suo artifex. E, più esattamente, tale idealità unitaria era alla base della ratio filosofica che ne ha rielaborato i motivi fondamentali della fides evangelica nei termini di una loro rappresentazione teo-logica universale, dando corpo dottrinale alla Chiesa come ekklesìa katoliké, l‟istituzione unitaria del cristianesimo universale. In questo mutuo reciproco, per cui l‟universalismo idealistico greco diventa religioso col cristianesimo, la cui fede personale diventa religione politica romanoimperiale, consiste il paradigma teologico-politico caratteristico della civiltà liberale cristiana. La sua versione medievale, incentrandosi sul retaggio imperiale romano, concepì l‟unità cristiana come sovranità teopolitica, e cioè religiosa, quel “governo di Dio sulla terra” o “Cristianesimo applicato”, di cui parlava Novalis,606 mentre la versione moderna, dopo l‟implosione teologica protestante, e forte delle nuove scoperte geografiche, perseguì un disegno sempre più immanentistico di segno politico, non più bilanciato dall‟unità spirituale della Chiesa romana di dottrina tomista, ma dalla coscienza soggettiva interiore di origine agostiniana. Dante appartiene indubitabilmente alla prima fase, quella appunto medievale, in cui l‟influenza razionalistica greca è tanto pregnante quanto definitiva della struttura teocratica cattolica.
605 Ivi, pag. 168. 606 Novalis, Cristianità o Europa (1799), tr. it. a c. di M. Manacorda, Torino, 1942, pagg. 24-25.
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Kantoriwicz ci avverte a non “confondere il concetto dell‟unità del mondo con l‟idea moderna dell‟unità internazionale”, in quanto “l‟unità del mondo medievale era parte dell‟escatologia cristiana e, di conseguenza, non si riferiva a questa terra e alla sua sola superficie”, per cui “il suo mito si riferiva a quell‟unità dell‟universo che abbraccia tutto lo spazio”, entro il quale “sia l‟individuo sia la comunità apparivano membri organici del cosmo”, alla cui “totalità articolata”, come abbiamo visto, apparteneva il cielo e la terra.607 Ma questa concezione che sostanziava il “mito cristiano” dell‟unità cosmica, la quale supponeva una realtà che “non era né puramente trascendente né puramente materiale”, ma una sorta di “strato d‟aria rarefatta nel quale il realismo e il sacramentalismo medievale trovavano il loro terreno comune”,608 non era che la trascrizione teologicamente rielaborata dell‟iperuraneo platonico, ossia di quella dimensione ideale in cui campeggiava il modello spiritualizzato ispirativo dello homo faber, di cui quello politico era la versione razionalmente sublimata. Un cosmo mitico che, rispetto a quello impalpabile delle idee platoniche, e diversamente da quello naturalistico moderno derivato dalla scoperta del canocchiale galileano, di cui ha parlato Whitehead, 609 era stato storicizzato, secondo il modello escatologico della fede, ossia reinterpretato nelle forme di una “storia cristiana” dotata di senso teleologico immanente, che Dante individua per l‟appunto nei termini del dispiegamento della potenza dell‟intelletto divino, esattamente quel Logos della sapienza filosofica che impregnava metafisicamente l‟intera realtà cosmica e le cui leggi necessarie costituivano l‟intelaiatura connettiva della realtà universale, che doveva espandersi universalmente. Il mito del logos universale, interpretato ebraicamente come parola divina, connette la logica antica alla spiritualità cristiana, facendo della necessità insita nell‟Essere razionale la volontà (potestas) del Dio creatore, che ingiunge a ogni ente creato di assimilarsi alla sua
607 E.H. Kantorowicz, Op. cit., pag. 169. 608 Ibidem. 609 A.N. Whitehead, Science and the Modern World (1926), cit. da H. Arendt, The human Condition (1958), tr. it., Milano, 201419, pagg. 190 sgg. 276
divina causa prima, sia pure “in quantum propria natura recipere potest”. L‟aspetto “mitico” della concezione cristiana medievale del mondo, segnatamente di quello storico, risiede nella prescrizione universalistica, per la quale la “possibilità” insita nell‟intelletto, ovvero la potenza della ragione, proprio in quanto di origine e consustanzialità divina, di dispiegarsi, era di per sé indice di effettualità, sicché ogni resistenza alla sussunzione alla volontà benigna diventava indizio di renitenza diabolica. La fede escatologica che rendeva attuabile la potenza unitiva della ragione, scontrandosi con la insuperabile molteplicità della realtà concreta, trasferiva in un utopico altrove il compimento del disegno divino affidato all‟umanità, in un regno a venire che non esisteva, ma che comunque doveva essere infra-storico. Regno dunque politicamente univoco, rifacentesi alla monarchia divina, di cui l‟Imperium cristiano era la proiezione effettuale, così come la Chiesa visibile era il riflesso della Gerusalemme celeste. Da qui l‟istanza idealistica dantesca di fondare l‟armonia tra il prototipo sacro e il mondo profano, “poiché la Città del Cielo è una e indivisibile, la sua somiglianza con la terra dovrebbe rivelare anche la sua indivisibile unità dal momento che essa è l‟unità di Dio e ogni divisione o conflitto sono opera di Lucifero”.610 Tornando all‟aspetto propriamente “mitico”, ossia al finalismo escatologico all‟interno del cui orizzonte fideistico si delinea la storia del genere umano secondo la visione cristiana medievale, l‟unità spirituale, in quanto premessa ontologica di ogni elaborazione concettuale della condizione umana, costituiva una “realtà” che, per quanto non attuale, era “più autentica” per “l‟occhio spirituale” di quella “realtà di fatto” che “l‟occhio umano vedeva” come “molteplicità”.611 E lo era, più autentica, in quanto originaria rispetto alla realtà sensibile, costituita dagli enti oggetto del pensiero razionale. E pertanto il fine dell‟unità spirituale del mondo storico coincideva con il suo inizio, ossia con quell‟ divino che, in quanto totalità infinita, includeva ogni particolarità finita. Nel rapporto della unità divina e con la molteplicità creaturale della realtà empirica si sviluppa il processo
610 E.H. Kantorowicz, Op. cit., pag. 170. 611 Ivi, pag. 173.
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della Storia, intesa appunto come svolgimento escatologico ad totum in uno, che è Dio. Il mito politico cristiano non era meno storico di una qualunque altra concezione ideologica, poiché alla base di ogni svolgimento razionale del disegno umano vi è un fondamento di fede ontologico che consegna alle azioni storiche il loro immanente significato finale, ma anzi la sua peculiarità consisteva nel teorizzato proposito di realizzare l‟universalità ideata dalla sapienza greca come una forma logico-spirituale concreta, ossia politica, assegnando alla fede cristiana la stessa funzione religiosa che Platone aveva assegnato alla filosofia, operando la prima “traslazione” di senso dal platonico alla cristiana che è all‟origine della teologia politica occidentale. L‟unità perfetta del mondo, ottenibile “solum sub Monarcha”, realizza la Giustizia al suo grado massimo (“Iustitia potissima”),612 la quale, avendo ad oggetto la considerazione dell‟altro, deve intervenire nelle relazioni sociali, per cui “contrarietatem habet in posse”,613 ossia trova resistenza nel Potere, inteso nel senso della volontà oppositiva di coloro che “non avendo fede nella verità, acconsentirono all‟iniquità” (2 Ts, 2, 10) resistendo alla Giustizia. Le forze inique sono quelle empie exousiai che, praticando l‟adikìa, conducono all‟anomia e all‟apoleia se non impedite da chi trattiene (to katechon), la cui azione in nome della Giustizia presuppone pertanto un antagonista (antikeimenos), la cui libido dominandi deve essere domata dall‟auctoritas spirituale del Governo monarchico. In questo agone, il “nemico” è l‟empio che resiste, in nome del suo ateismo, all‟unità spirituale del genere umano sotto la stessa sovranità monarchica, e dunque la sua considerazione politica è successiva alla sua considerazione mito-logica, per cui l‟antagonismo conseguente ne rappresenta solo la trascrizione razionale derivata dal principio che lo pone, e che è il fine stesso dell‟azione, la quale, conseguendo un fine universale – che è appunto l‟unità monarchica del genere umano - acquisisce anch‟essa un significato di valore universale, partecipando così di una realtà trascendente che la trasvaluta miticamente. In tale trasvalutazione mito-logica consiste
612 Dante, Monarchia, I, XI, 1-8, pag. 153. 613 Ivi, XI, 30-31, pag. 154.
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l‟universalismo spiritualistico cristiano, giustificato dai fondamenti della fede e confermato dalla ragione (la “inquisitio quedam” di cui Dante). A questo punto è possibile intendere il senso del connubio di fides et ratio attuato dalla teologia cristiana come l‟universalizzazione storica del dogma dell‟Incarnazione di Cristo, quale Logos nel tempo. E‟ infatti attraverso questo paradigma teologico che si perviene al mitologema politico della Monarchia universale, quale trasvalutazione dell‟Imperium costantiniano in senso spiritualistico escatologico. Universalismo e razionalismo sono sinonimi di unitarismo, che Dante indicava come Monarchia, che è il regime teologico-politico in cui la potenza divina trova il suo referente storico nella potestà o imperium del monarca-imperatore. Dal punto di vista politico, si tratta di un regime di dispotismo organicistico, in cui la fede in Dio e la potenza dello Stato si coniugano per dare vita a una società organizzata scientificamente in cui si rinnega la concretezza della vita individuale in favore dell‟astratto generale. Di conseguenza, la rappresentazione schmittiana dell‟essenza razionale del politico come polemos non è che la trascrizione astratta, mondata di ogni tradizione morale e culturale, dell‟antagonismo teologico dal suo fondamento mitico-fideistico, senza il quale la coscienza secolarizzata perviene alla radicalizzazione di senso immanente propria della filosofia politica greca, che aveva costituito la come l‟orizzonte intrascendibile dell‟esperienza umana. Contro tale visione intellettualistica di unità sistematica in nome del centralismo metafisico della fede, per cui “il fanatismo unitario dell‟Illuminismo è non meno dispotico dell‟unità e dell‟identità della moderna democrazia”, si batterono sia le teorie anarchiche di Bakunin e di Proudhon sorte a seguito della Restaurazione, che quelle sindacalistiche di Sorel nel XX secolo, la cui teoria del Mito della violenza liberatrice si configura come “la più forte opposizione al razionalismo assoluto e alla sua dittatura”. Come riassume Schmitt, “il fondamento di quelle riflessioni sulla violenza è una teoria della vita concreta immediata, ripresa da Bergson e con l‟influsso di due anarchici, Proudhon e Bakunin, trasferita ai problemi della vita
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sociale”.614 Se ne deduce che la “forza” che sostiene il Mito è una “teoria della vita”, cioè una rappresentazione della realtà a sua volta fondata su una credenza di veridicità, una Weltanschauung, la cui “radice ultima” appunto è “la vita”,615 ossia l‟esperienza storica che viene razionalmente oggettivata in una visione del mondo stabilizzata che funge anche da modello di azione, che non può essere universale in quanto determinato dai presupposti particolari dell‟esperienza storica da cui è sorto. Da qui l‟antinomia tra la pretesa universalità di una visione del mondo e la varietà delle stesse Weltanschauungen, le quali dunque riflettono le condizioni di vita particolari che l‟hanno ispirate, che sono dunque mutevoli e accidentali. Il problema di superare tale accidentalità nella cnoscenza della realtà fu proprio della filosofia greca. Sappiamo che la pretesa della conoscenza filosofica greca fu appunto quella di legare la visione del mondo all‟universalismo scientifico, sostituendo all‟autorità della tradizione religiosa il metodo razionalistico, fondando su questo la validità della loro visione del mondo naturalistica. Orbene, come ha indicato Dilthey, “se la visione del mondo viene così innalzata ad una connessione concettuale, se questa viene fondata scientificamente e si presenta, così, con la pretesa di validità universale, allora sorge la metafisica”, intesa come “sapere universalmente valido”.616 Il criterio di validità scientifica di una visione del mondo viene dunque determinato dalla sua universalità, determinata dall‟uso metodico della ragione su cui quella visione è fondata. Ed è quel “criterio” a determinare la rappresentazione universale del mondo propria alla visione metafisica. Questa visione metafisica della realtà, in quanto fondata sulla ragione scientifica e dunque su un postulato ipotetico di verità, è sostenuta da una propria credenza fondamentale, in un suo fondamento di fede, il quale consiste nel ritenimento che la universalità della conoscenza razionalistica della realtà coincida con la totalità della realtà, ossia che il pensiero (razionale) sia (tutto) l‟Essere.
614 C. Schmitt, La teoria politica del Mito (1923), tr. it. a cura di A. Caracciolo in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, Milano, 2007, pagg. 13-14. 615 W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it., Napoli, 1998, pag. 173. 616 Ivi, pag. 191.
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Ora, una totalità che escluda dalla sua visione universale il suo opposto negativo, necessariamente si definisce per antitesi, ossia come affermazione negatrice dell‟irrazionale, ossia della vita spontanea non razionalizzata secondo sistema normativo, e dunque a-normale secondo la normalizzazione politica in senso razionalistico greco. Lo sguardo asistematico di chi giudica il regime razionalistico dal punto di vista dell‟opposizione al suo regime, lo considera una “dittatura del monismo” consistente in “una macchina militare-burocratica-polizieca nata dallo spirito razionalistico”, contro la quale va opposto “l‟uso rivoluzionario della violenza da parte delle masse [che] scaturisce invece dalla vita immediata, spesso in modo selvaggio e barbarico, ma giammai in modo sistematicamente crudele e disumano”.617 La credenza che fonda la sostenibilità di questa visione anti-razionalistica consiste nella fede che la violenza del negativo sia preferibile a quella del regime positivo contro cui si batte, i cui ordinamento diventa l‟immagine del nemico. Tale visione dissolutoria della realtà politicamente strutturata è indicata da Sorel come un “mito”, intendendo per esso la fede nella necessità benefica della violenza anomica del negativo che vuole affermarsi come realtà positiva. Essa rappresenta il risvolto opposto e complementare all‟Essere razionalmente pensato, nella cui esclusività risiede la stessa violenza metafisica imputata al suo termine dialettico. Dal punto di vista metafisico, l‟universalità dell‟Essere razionalmente pensato come Bene cosmico, e l‟opposta universalità negativa del Kaos sono specularmente simmetriche e si richiamano indefinitamente proprio in quanto non possono costituirsi, nonostante ogni pretesa in tal senso, come totalità. Ciò comporta che la conoscenza della realtà del mondo-della-vita, qualunque sia il punto di vista prospettico, dal più particolare al più universale, non può comunque trascendere la sua ontologica finitezza e cioè temporalità o storicità. E di conseguenza, che la totalità vanamente perseguita dal sapere razionalistico, non coincide con la validità estensiva del concetto universale, che è pur sempre esclusivo del suo opposto, ma con la verità trascendente ogni finitezza e temporalità, ossia con la realtà in-finita e in-definibile di Dio. In tal senso, il Mito,
617 C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 19. 281
come rappresentazione del divino, non è opposto al Logos, ma lo include come la totalità include la particolarità esclusiva, e pertanto ciò che Sorel indica come “mito” non è che la rappresentazione simbolica di una credenza funzionale ai fini dell‟azione politica a determinare l‟appartenenza e l‟inimicizia. Ma proprio tale determinazione polemica costituisce il “mito” soreliano come una rappresentazione ideo-logica, una Weltanschauung, sorta dalla stessa pretesa razionalistica di de-finire la realtà finita in termini meta-temporali. Abbiamo visto come, rispetto a ogni tendenza dissolutoria, la potenza confermativa dell‟Essere-che-è si costituisce come forza katechontica, e come tale positivamente benefica per la vita stessa dell‟uomo politico. Il Mito cristiano si compone di una “letteratura leggendaria”, costituita dal Nuovo Testamento; del simbolo della croce, in cui si compendia il martirio della fede nella trascendenza della persona spirituale di fronte al mondo sensibile; del culto magistico dei processi sacramentali; della chiesa come “sede della trascendenza”; dell‟arte sacra come “organo della religiosità magica” e rappresentazione estetica della coscienza della trascendenza sulla quale si fonda la volontà religiosa cristiana di separarsi dal mondo sensibile, anche attraverso la bellezza, per collegarsi alla visione divina formulata dai neo-platonici; del clero officiante i culti e che dunque “ha la forza di produrre effetti magici”.618 L‟elemento logico interno al Mito cristiano è l‟universalità del sacrificio mistico della Croce rappresentata dalla figura del Cristo, la cui vita e morte diventano gli estremi della esperienza spirituale paradigmatica di ogni singolo uomo e dell‟intero genere umano, ma anche i termini della opposizione drammatica entro l‟esistenza umana, intessuta della duplice natura, sensibile e divina, raffigurata dall‟arte sacra, dove la trascendenza dal mondo si manifesta attraverso la bellezza della vita. La dimensione dell‟esistenza umana in senso cristiano include così sia la sua dimensione spirituale-divina eterna che quella vita biologicosensibile finita, ed è pertanto più comprensiva del concetto naturalistico pagano di , la cui superiore declinazione culturale è in relazione alla dimensione dello spazio temporale della , e dunque interamente compresa nell‟Essere, ai margini del quale c‟è l‟ambito oscuro del niente ().
618 W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pagg. 141-142. 282
L‟esistenza umana in senso cristiano è ciò che Kierkegaard chiama la “singolarità” della persona spirituale, la quale in virtù della sua natura divina si manifesta come storia singolare, ossia la vita si determina nella condizione storica, propria soltanto all‟uomo. La Storia in senso cristiano è quella spirituale, in cui l‟uomo si manifesta nel tempo come essere finito ma si determina come essere divino, portatore di senso eterno. E se la dialettica tra la vita animale e la vita culturale dell‟uomo pagano si consuma all‟interno dell‟orizzonte razionalistico dell‟Essere di pensiero, ovvero entro la dimensione della finitezza idealizzata, l‟esistenza umana si manifesta come dramma della trascendenza del finito nell‟eterno, e quindi come scelta morale tra la necessità della vita biologica e le esigenze morali della coscienza della irresolubilità di essa nella finitezza. Pertanto, mentre la dimensione della vita in senso pagano si determina entro l‟orizzonte intrascendibile della politeia, razionalmente ispirata da un principio etico universale cui idealmente conformarsi, la dimensione della vita in senso cristiano si determina entro l‟orizzonte aperto della Storia spirituale, ispirata alla trascendenza del mondo fenomenico da parte della fede in Cristo. La vita e la morte di Cristo non è un modello di esistenza eroica cui ispirarsi emulativamente, ma rappresenta per ogni singolo uomo la possibilità di trascendere la sua naturale finitezza attraverso la fede in Dio, il Quale non è soltanto Parola (Logos) ma Mistero, ed è pertanto bel altro che un paradigma ideale al quale omologare l‟uomo in quanto . In tal senso, l‟uomo spirituale in senso cristiano non si rimette interamente alla sua condizione politica e alla sua cultura razionale, ma la sua storia singolare, in quanto trasvalutata in senso divinamente eterno, trascende i dati della finitezza temporale. Per tale fondamentale ragione, la visione razionalistica non è quella dantesca, così come il “mito” à la Sorel non è punto assimilabile al Mito monarchico di Dante, che si basa invece su una teoria escatologica razionalizzata. Infatti, il fondamento escatologico cristiano che sottende l‟ideologia monarchica dantesca non va inteso né come “istinto vitale” che si traduce in “entusiasmo” o “decisione morale”, né tantomeno come un “criterio per stabilire se un popolo o un altro gruppo sociale ha una missione storica”,619 come poteva essere l‟appartenenza nazionale
619 C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 15. 283
ebraica, ma bensì va inteso come una fede unitiva nel genere umano come entità spirituale in una stessa “arca”, che poi è la stessa Chiesa di Cristo. La deformazione teologico-politica della visione dantesca è quella stessa che ha determinato la realtà della Chiesa cattolica nel tempo come “organismo di dominio”620 subordinato al monarcato del Papa, derivata dalla sua trascrizione razionalistica in termini politicoistituzionali, in conseguenza della concezione universalistica romanoalessandrina della storia spirituale dell‟uomo come “processo religioso” della umanità, ossia come cristianesimo. A questa “traslazione” ideologica fa riferimento Dante indicando l‟unità dell‟ “impero cristiano” come totalità religiosa, pensata attraverso le categorie dell‟universalismo razionalistico greco, che permarrà nel concetto panteistico di universo ancora in Cusano. Categorie che sono essenzialmente politiche, le quali già con l‟umanesimo, e ben prima della Riforma, determineranno, con la perdita dell‟ “equilibrio interno di una disposizione d‟animo unitaria”, anche l‟implosione dell‟unità del mondo cattolico vanamente perseguita dalla Chiesa cattolica e ricercata da Dante, che proprio nell‟arte produrrà, attraverso il “contrasto di trascendenza e mondanità, […] il massimo incremento degli effetti drammatici”. 621 Se noi pensiamo la “trascendenza” come personalità singolare, e la “mondanità” come unità sociale, il contrasto tra la Chiesa e l‟Impero o gli Stati nazionali apparirà tutta interna alla stessa logica di dominio politico, per cui la posizione guelfa o, rispettvamente, ghibellina va intesa come alternativa all‟interna dell‟orizzonte politico, mentre entrambe sono equivalenti rispetto alla loro posizione verso la dimensine trascendente, quella appunto della singolarità spirituale dell‟uomo. E pertanto la teoria dantesca della Monarchia universale, in quanto forma istituzionale interna all’organizzazione dello spazio politico della società cristiana, può essere indifferentemente attribuita al papato o all‟impero senza perdere la sua significazione razionale di istituzione di Potere. Nel momento in cui, però, il concetto di monarchia divina viene a riferirsi, non più all‟astratta umanità universale ma alla concreta umanità dei singoli cristiani del mondo, politicamente disuniti
620 W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pag. 145. 621 Ivi, pag. 148.
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e in reciproco contrasto, ecco che la proposta escatologica compresa nello stesso mito politico unitaria acquista inevitabilmente una valenza contraria agli interessi mondani della Chiesa, la cui costituzione unitaria è relativa solo in riferimento alla disunità politica della società cristiana, la quale, ovemai pervenisse a una sua autonoma unità spirituale, renderebbe superata la stessa presenza istituzionale della Chiesa, che in principio la promuoverebbe facendosene testimone nel tempo contro la politica degli Stati ma attraverso la politica. Non potendo la Chiesa di Cristo rappresentare se stessa come unità politica, ma solo come unità sacramentale della società cristiana, il Mito di una cristianità unita sotto una stessa teo-crazia rendeva superflua la sua opera sia mondana, dialettica a quella dello Stato, e sia religiosa, dialettica alle confessioni non cattoliche. Per tali ragioni, voler prefigurare in termini reali una monarchia universale non solo relativa all‟imperio di un Cosmocratore trascendente, ma di un imperatore che soggiogasse l‟ntero mondo, era una ipotesi che spaventava la Chiesa occidentale.622 Il mito in senso soreliano interviene in termini di “criterio” di decisione per l‟azione successivamente e conseguentemente al suo proprio referente ontologico, che non è la fede escatologica cristiana nell‟unità spirituale del genere umano, ma il fondamento naturalistico dell‟uomo come animale politico e della sua esperienza esistenziale nei termini della lotta per la sopravvivenza e per il dominio. Nel momento in cui Dante acquisisce l‟unitarismo spiritualistico nei termini teologici dell‟universalismo razionalistico, è costretto a tradurre anche la sovranità monocratica di origine divina in senso naturalistico e politico. Questo, non di meno, non comporta che l‟unità spirituale in senso cristiano coincida con l‟Impero politico universale, ma soltanto che tale visione imperiale si definiva in termini strumentali – e quindi ideologici – rispetto al fine ecatologico, e quindi relativi alla sua trascrizione razionalistica. In altri termini, la visione monarchica dantesca è mitica in senso soreliano relativamente alla sua definizione di utopia politica, cioè nei soli termini della sua ideologia razionalistica, ma conserva una sua rilevanza di fede nel suo fondamento escatologico, che è pre-
622 E.H. Kantorowicz, L’unità del mondo medievale, cit., pag. 172.
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ideologico e originario, così come l‟archetipo monocratico divino è premonarchico e pre-ecclesiale. Con ciò si vuol dire che il mito politico si costituisce in senso soreliano come una forza dissolutoria e anomica, dialetticamente negativa, all‟interno dell‟orizzonte unitario della cosmologia naturalistica, la quale a sua volta, rispetto alla rappresentazione mitica della realtà, e dunque utopica, si costituisce come la visione razionalizzata e concreta. Pertanto, essendo il mito politico l‟espressione negativa dell‟ordine statale costituito, esso appare irrazionalmente dissolutorio e anomico, mentre la resistenza ad esso da parte del Potere appare katechontica. E poiché il cosmo cristiano si è andato storicamente stabilito in termini teologico-politici, la forza religiosa che si oppone alla dissoluzione anarchica della società anomica non può non aderire al Potere temporale katechontico, il quale è frammentato e plurivoco, sicché il progetto monarchico di Dante, definendosi in termini di un universalismo cosmocratico di tipo imperiale, appare inevitabilmente come un regno di Cesare di religione cristiana, in cui l‟elemento cristiano, rispetto al modello statalistico-religioso ebraico, consiste nella sua ideologia ecumenica di mutuo universalistico romano-ellenistico. Ma l‟idea di una Roma imperiale, declinata nel senso universalistico degli Hohenstaufen di “un Dio, un papa, un imperatore”, anziché nell‟accezione papale di “una sancta” dove esiste solo “un gregge e un pastore”, rappresenta pur sempre l‟unità medievale del mondo,623 ma non la stessa unità poiché, con l‟apparato concettuale della teologia politica scolastica, essa può intendersi tanto in senso di impero politico che in senso escatologico di universo religioso. La conseguenza principale, infatti, della ideologia politica nata dalla teologia cattolica è la sua dissociabilità dalla fede escatologica cristiana orignaria, tale appunto da costituirsi come una utopia, che “per Sorel [è] un prodotto dello spirito razionalistico [che] vuole controllare la vita dall‟esterno secondo uno schema meccanico” . 624 Questa non è la prospettiva culturale in cui si muove Dante, che è ancora interna alla metafisica organicistica medievale, ma lo sarà a seguito della secolarizzazione, allorquando la emancipazione razionalistica della scienza dal suo fondamento di sapere ontologico
623 E.H. Kantorowicz, L’unità del mondo medievale, cit., pag. 174. 624 C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 16. 286
trasformerà il mito teocratico cristiano della Chiesa universale in mitologia politica, in imperialismo ideologico. Ma se ciò era latente nella Weltanschauung medievale, significa che all‟interno della teologia cristiana si annidava la tensione dissolutoria dell‟unità del cosmo spiritualistico, la quale consisteva nella trascrizione della concezione dell‟individuo umano come totalità divino-umana nel concetto razionalistico di universalità del logos del pensiero pagano, con la conseguenza che la consegna evangelica della conversione delle genti venisse interpretata, anziché come conversione dei singoli uomini di buona volontà, come sussunzione universale delle nazioni entro uno stesso principio religioso (la kantiana “forma universalmente legislativa”), 625 garantito dalla Chiesa sotto l‟egida del Potere politico. Questa concezione orizzontale della fede eludeva, a favore del controllo politico dei popoli, la questione essenziale della adesione al cristianesimo per fede, cioè attraverso una spirituale che, sull‟esempio degli apostoli, trasvalutasse in senso spiritualistico e trascendente la vita socio-economica, informata alle necessità naturali della sopravvivenza della specie, in modo tale che l‟esistenza singolare come anche la vita di gruppo fossero partecipi di una nuova dimensione associativa, non di tipo politico, basate sui rapporti di forza, ma ecclesiale e basata su rapporti agapici. La norma morale in senso kantiano, infatti, non è un dovere giuridico, in quanto riguarda la coscienza singolare garantita dalla fede, e non i rapporti inter-personali garantiti dall‟istituzione politica, ossia dallo Stato, contro la quale la coscienza morale può reagire. Se nel caso della socialità politica l‟unità dei gruppi sociali particolari era garantita dal Potere regale, nel caso della comunità ecclesiale l‟unità era garantita dalla fede in Cristo. Siamo di fronte a due realtà sociali, il cui rispettivo principio di socialità è radicalmente diverso, in quanto la comunità ecclesiale è legata alla fede escatologica tendente al fine trascendente della salvezza, laddove la comunità politica è tenuta insieme dal fine immanente della sopravvivenza del gruppo. Ed è tale radicale diversità che la Chiesa di Cristo ha sempre rivendicato nei momenti di attrito contro il Potere politico che tendesse a rimuoverla. La questione dolente è che lo abbia fatto, non in quanto comunità
625 I. Kant, Critica della ragion pratica, I, I, IV, pag. 153. 287
ecclesiale ma in quanto istituzione di potere, e come tale asservita a una funzione religiosa di contenimento della dissoluzione caotica dell‟unità politica, quale tendenza intrinseca a ogni formazione politica in quanto tale, cioè in quanto prodotto derivato della ragione umana, e non originario divino. E poiché tutto ciò che è umanao è finito, ossia inscritto nella edacità del tempo, anche gli organismi statuali sono destinati a perire, mentre soltanto ciò che si ispira all‟eterno può durare oltre il tempo. La superiorità noetica del cristianesimo rispetto alle altre culture religiose dell‟umanità è in questa consapevolezza dell‟eterno quale dimensione escatologica infra-umana, cioè storica, ma radicalmente diversa da ogni istanza politica di contenimento della dissoluzione endogena dell‟organismo temporale statuale. Ma se ciò è vero, la richiesta di autonomia ecclesiale dal Potere non poteva esprimersi con gli strumenti politici propri agli Stati, ma attraverso il martirio “pro libertate Ecclesiae” di cui parla Matteo d‟Acquasparta,626 alla maniera di Gesù, avendo come fine non già l‟habeas corpus ma l‟affermazione della verità, e dunque preferendo la morte alla vita, e con ciò operando la scelta massimamente impolitica in nome della fede. Il rapporto tra fede escatologica e volontà di potenza, non è risolvibile in quello tra “cupidigia” e “giustizia”, alla maniera aristotelica trattata nell‟Etica nicomachea, citata da Dante,627 poiché non afferisce al semplice possesso o meno dei beni terreni, né pertanto la eliminazione della cupidigia dipendeva dalla “destructio” degli oggetti della passione, come sostiene lo stesso Aristotele nelle Categorie, ma dalla presenza di quella “karitas seu recta dilectio” che “delucidat” la “iustitiam”, e dunque dipendeva da un elemento spirituale ultroneo allo stesso monopolio regale dei beni terreni, per cui la efficacia della soluzione proposta da Dante di stabilire una relazione tra Giustizia e Monarcato era legata alla “possibilità”, ossia alla eventualità, dell‟esistenza di quel retto sentire nel monarca. E dunque
626 M. D‟Acquasparta, Sermo de potestate Papae, cit., pag. 188. 627 Dante, Monarchia, I, XI, 45 sgg., pag. 155. 288
dall‟intervento della Grazia divina.628 Infatti, egli prosegue, la “recta dilectio” si può dimostrare a seguito della consapevolezza che la cupidigia, disprezzando l‟essenza divina dell‟uomo, può conseguire solo scopi inumani, mentre la “karitas”, spregiando proprio quei beni inumani, “querit Deum et hominem”, cioè ricerca Dio nell‟uomo, e solo a seguito della ricerca di Dio, si può giungere al bene per l‟uomo (“per consequens bonum hominis”). Il che vuol dire che la Giustizia dipende dalla carità (“karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius”)629 e non dalla fruibilità dei beni, ossia dalla condizione legale di possidente, secondo il principio naturalistico dell‟etica di Spinoza per cui “tantum juris quantum potentia valet”.630 La condizione dei sudditi è condizionata dalla maggiore o minore prossimità all‟influenza del monarca, ma ciò che più rileva è che il Governo monarchico sia vicino ai valori benigni, ossia che il potere da lui esercitato sia benefico. Ma il Bene di cui tratta Dante, e che egli indica come la “causa più universale” (“causa universalior”), non è il Monarca stesso in quanto benefattore e dispensatore di felicità “inter mortales ut homines bene vivant”, la cui garanzia di giustizia è legata al monopolio del Potere, (“hostes habere non possit”) cioè alla distruzione dei nemici; infatti la sua “causa universalissima”, se fosse quella, sarebbe pur sempre circoscritta alle condizioni circostanziali e contingenti della finitezza umana, per cui la Giustizia sarebbe legata pur sempre a condizioni di fatto. Il Bene (“bonum”) di cui si fa potenziale portatore il Monarca, perché acquisti quel carattere indubitabile di Giustizia, deve congiungersi a un principio trascendente lo stesso Potere sovrano, e perciò non può concernere la felicità, ossia ciò che Kant chiama “motivo empirico”, né essere legato alla comprensione di un sillogismo,
628 “[…] Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque delucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest”: Ivi, XI, 56-62, pag. 155. 629 Ivi, XI, 63-69, pag. 156. 630 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, II, 8. 289
ossia alla potenza della ragione umana. Infatti la confluenza dello ius imperium sovrano e della conoscenza razionale di Dio, che Spinoza nell’Ethica (V, 42) chiama Beatitudine o Amore di Dio, produce quella “traslazione” del concetto aristotelico della potenza (),631in quello alessandrino di “potenza produttrice”,632 in virtù del quale viene concepita la regalità monarchica come attribuzione divina al sovrano virtuoso, il cui dovere per Filone è di “ordinare ciò che è bene e vietare ciò che è male” attraverso la legge, che pertanto si identifica col re giusto quale “legge vivente” . 633 Con Spinoza, la potentia divina già umanizzata dalla teologia alessandrina, “prende successivamente le vesti del conatus, che sostituisce alla metafisica dell‟, prerogativa del grado supremo dell‟essere, il Dio aristotelico o l‟Uno plotiniano, il materialismo dell‟appetitus, vale a dire la „gioia concomitante con l‟idea di una causa esterna‟ (Ethica, III, 13 sc.), che deriva dal possesso di qualcosa in cui il soggetto s‟identifica con il proprio conatus sese conservandi, il suo desiderio vitale”.634 In realtà, come abbiamo visto, la traslazione del concetto plotiniano dell‟Uno come potenza in atto nell‟unità monarchica del genere umano è già avvenuto in Dante, per cui il supposto “realismo” della “ontologia della potenza” di Spinoza è ben lungi dal costituire una “fuoriuscita dall‟intellettualismo greco”, 635 costituendo una forma di attualismo, in cui la realtà ontica in universale viene concepita come il riflesso fenomenico della realtà ontologica, con una identificazione dell‟intelletto aristotelico con la sostanza in atto come potentia, intesa razionalisticamente come l‟astratta universalità dei conati, cioè delle singole potenze in atto.
631 Aristotele, Metafisica, IX, I, 1046a 32. 632 Ved. Plotino, Enneadi, V 5, 10 sgg. 633 Infatti, come afferma Filone di Alessandria, “il re che è anche legislatore deve osservare al contempo le cose umane e quelle divine, poiché senza l‟intervento di Dio le azioni dei re e dei loro sudditi non possono giungere a buon fine”, e pertanto “di necessità gli venne attribuita la suprema carica sacerdotale”: Mos. II, cit. da F. Calabi, Sovranità divina, cit., pag. 67. 634 R. Ciccarelli, Immanenza e politica in Spinoza, Roma, 2006, pag. 113. 635 Ivi, pag. 115.
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Questa omologia tra la potenza naturalistica pagana e quella spiritualistica cristiana, che è alla base della identificazione dell‟amor erga Deum con l‟amor Dei erga homines della “communi societate” del Trattato spinoziano, in cui, secondo una prospettiva totalitaria, la “salus” viene identificata con la “beatitudo” e quindi con la “libertas”, e la potenza della Moltitudo con un‟unica Mens, 636 costituisce anche la premessa ontologica della teoria dell‟assolutismo monarchico. E la possibilità di tale omologia è riposta nella definizione della universalità del concetto razionale come totalità positiva, facendo sì che la realtà coincida con il pensiero dell‟Essere quale universalità degli enti, per cui la potentia diventa la ragione universale del Potere statuale, mentre la realtà inattuale dell‟Essere possibile viene razinalisticamente rimossa dalla realtà attuale come errore ovvero pensiero fantastico o mitico e della dissoluzione dell‟ordine costituito. Questo esito totalitario del razionalismo naturalistico è proprio del pensiero spinoziano, che, stabilendo “l‟equazione tra potenza e diritto”,637 intende il Governo della repubblica come Potere, ma non di quello dantesco, che non esalta alla maniera di Spinoza, ma al contrario stigmatizza, la cupiditas, considerandola non già la tenenza generosa dell‟uomo “con la quale, sotto la guida della sola ragione, si sforza di aiutare gli altri uomini per unirli a sé con un vincolo di amicizia”,638 ma l‟impulso negativo e limitante rispetto a quello positivo e produttivo dell‟ amore, sicché l‟ordine monarchico cristianamente concepito da Dante è ben altro che un ordinamento giuridico, quale l‟imperium politico pensato da Spinoza. Questi infatti assume come fondamento della sovranità dello Stato, quale summum imperium, quello della moltitudine, e dunque l‟imperium democraticum, concependolo come il summum bonum derivato dall‟amor erga Deum collettivo, collante sociale di natura religiosa, pensando la aeternitas come potenza del numero. 639 Invece, l‟amor erga Deum dantesco è tutt‟altro che la “pratica collettiva” della religio patriae spinoziana. Infatti per Dante la
636 Ivi, pagg. 137-141. 637 Ivi, pag. 145. 638 B. Spinoza, Ethica, IV, 37, 1, cit. da R. Ciccarelli, Loc. cit., pag. 152. 639 Ivi, pag. 150.
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perfezione del genere umano non si acquisisce attraverso lo Stato ma è originaria in quanto risiede nella sua libertà, il cui “principium primum est libertas arbitrii”.640 Nondimeno, Dante pensa, per un verso, che il “iudicium” sia “liberum” quando può dirigere con la ragione l‟ “appetitum”, per cui la libertà sia il “maximum donum humane nature a Deo collatum”,641 e per altro verso che il “genus humanum […] existens sub Monarcha est potissime liberum”, in quanto solo sotto il governo monarchico il genere umano è autonomo e indipendente, essendo quello monarchico il Governo giusto di chi si adopera per rendere gli uomini buoni.642 Ma per quale ragione? La ragione della preferenza del monarca a ogni altro regime è dovuta alla sua veste di legislatore di libertà, ossia in virtù del suo servizio ai cittadini, perché essi esistano in virtù di sé stessi (“ut homines propter se sint”). E soltanto il monarca, quale legislatore, può essere “minister omnium”.643 Tutto questo non sarebbe molto diverso dal costrutto teorico spinoziano, poiché nulla vieterebbe che il Monarca legislatore dantesco non venisse concepito come la Mens collettiva spinoziana, essendo per entrambi l‟Unità ideale l‟idolum razionalistic. Ma vi è una differenza tra le due teorie politiche circa l‟ottimo Stato, che è radicale e insuperabile. Infatti, per Dante, che crede di seguire Aristotele, l‟agire politico non è costituito per fare delle leggi, ma al contrario le leggi sono fatte in vista dell‟agire politico, per cui i cittadini che vivono conformemente alle leggi non devono adattarsi al legislatore, ma è chi pone le leggi a doversi concepire allo scopo delle sue funzioni, così come insegna anche il Filosofo.644 L‟accenno dantesco è al IV libro della Politica, in
640 Dante, Monarchia, I, XII, 3-4, pag. 157. 641 Ivi, 13-15, 25-26, pagg. 157-158. 642 “Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est […]; quia cum Monarcha maxime diligat homines, vult omnes homines bonos fieri: quod esse non potest apud oblique politizantes”: Ivi, XII, 34-36, 40-42, pag. 159-160.
643 Ivi, XII, 45 sgg., pagg. 160-161. 644 “Non politia ad leges, quinymo leges ad politiam ponuntur, sic secundum legem viventes non ad legislatorem ordinantur, sed magis ille ad hos, ut etiam Phylosopho placet”: Ivi, XII, 48-51, pag. 160.
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cui Aristotele chiarisce la differenza tra il potere sovrano della costituzione, e le leggi. Queste sono infatti diverse dalla costituzione, intesa come “l‟ordinamento delle cariche”, che stabilisce “il fine della comunità politica”, ossia i princìpi regolativi della legislazione politica.645 Ma è chiaro che i due pensatori intendono per la stessa parola “politia” due concetti diversi. In senso greco, è l‟agire politico conforme a ragione, ossia secondo i princìpi stabiliti dalla costituzione. Ma esso è essenzialmente lo spazio pubblico in cui si realizza la condizione libera dell’uomo. Nella concezione cristiana, come visto, la libertà è una cndizione orignaria e divina e non è acquisibile attraverso l‟organizzazione politica. La monarchia, pertanto, non costituisce la libertà ma la conferma, quale regime politico della libertà. Ciò significa che la sua preferenza non è egata alla sua struttura istituzionale, ma questa al principio che la ispira come Ur-norm extra-giuridica, la libertà morale. In tal senso, le leggi politiche devono essere funzionali all‟autodeterminazione morale dei cittadini, alla loro libertà di giudizio razionale, e non può di contro la libertà essere conculcata da ragioni di Potere contrarie ai princìpi del libero arbitrio. E dunque è evidente che la “politia” di cui parla Dante non è la costituzione, quale legge delle leggi, di cui parla Aristotele, ma è il Governo morale della società, ossia una attività di guida della libertà umana. Ed è tale guida a produrre le leggi “ad bene esse mundi”, e non già le leggi a produrre il bene. Il bene in senso naturalistico è la necessità che regola l‟universo, e la libertà riservata all‟uomo è di conseguirne la consapevolezza attraverso la ragione, la quale è sempre e comunque ragione della necessità universale. Spinoza nella sua Ethica definisce “libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina ad agire da sé sola”.646 Come insegnava Aristotele, la natura delle cose è di pervenire al compimentodi sé, alla loro perfezione attuale, e quindi di obbedire alla necessità universale di sviluppare la loro vitale. Nell‟orizzonte naturalistico, l‟Essere è sempre idealmente unitario e fenomenicamente
645 Aristotele, Politica, IV, 1289a 13-19. 646 B. Spinoza, Ethica, I, Def. VII
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molteplice. E infatti Spinoza, che riprende Aristotele, considera i fenomeni empirici solo le modalità infinite dell‟unico Essere naturale, inteso come infinita potenza attuale del dio aristotelico e spinoziano come dell‟Uno di Plotino. La potenza dispiegata è l‟universalità della possibilità in atto dell‟Essere, la cui necessità è la sua stessa esistenza. Ciò implica che il fondamento d‟essere dell‟Essere sia il suo essere stesso anziché il Nulla, sicché l‟ontologia naturalistica risolve ogni attributo dell‟Essere nella definizione del suo fondamento, ossia nella sua esistenza, che si manifesta empiricamente negli enti (). La caratteristica metafisica dell‟ontologia naturalistica è dunque la corrispondenza degli opposti, ossia dell‟Essere-Uno con le sue manifestazioni molteplici, i fenomeni, i quali sono l‟Uno dispiegato infinitamente. Da qui la natura dialettica del pensiero greco, che pensa distinguendo l‟Uno necessario, che sempre “è”, dall‟occasionale Molteplice, che può essere ma non è attualmente. Stabilendo la corrispondenza tra il pensiero dell‟Uno (ideale) con la realtà del Molteplice (reale), si perviene alla identità di pensiero ed Essere, di potenza ed essenza, e dunque della Mens universale-ideale con la Moltitudo empirico-reale. La potenza (conatus) della moltitudine per Spinoza è il Potere,647 che è la realtà universale o “essenza” della “forza con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere”.648 Nell‟orizzonte ontologico naturalistico non vi è posto per la libertà se non come coscienza della necessità, e quindi come conformità del volere al Potere. Da qui discende la ragionevolezza umana di convivere nel gruppo sociale e della coscienza individuale di conformarsi alla volontà comune. Questo olismo metafisico viene confermato, come abbiamo visto, dal Dante aristotelico e tomista, ma trasvalutato in senso escatologico nel momento in cui separa evangelicamente la dimensione del Potere politico, destinata a un Cesare, dalla dimensione del Governo morale, destinata al Monarca, il quale non può che essere un regnante universale e titolare di un unico regno spirituale, la Chiesa cattolica,
647 B. Spinoza, Trattato politico, II, 17. 648 B. Spinoza, Ethica, III, 7.
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che è il vero archetipo del “genus humanum”.649 Ciò comporta che seppure la potenza divina si manifesti nella vita comune dell‟umanità, questa non de-finisce la totale realtà divina, ma soltanto la sua manifestazione naturale e finita, la quale, per conseguire il suo fine di salvezza, e dunque il compimento della sua essenza spirituale, necessita di un Governo ispirato da Dio, quello di Cristo, prototipo dello Spirito divino incarnato (Verbum caro). Dante, stabilendo il primato del Governo morale di Cristo sul Potere politico dei Cesari, conferma surrettiziamente il ruolo prioritario della Chiesa pneumatica, intesa come comunità cristiana degli uomini di fede, sull‟unità politica dei cittadini quali membri dello Stato. Con la conseguenza che, mentre la costituzione della comunità politica è soggetta a infinite variazioni contingenti, legate alle condizioni naturali o culturali dei popoli, l‟unità monarchica condenda propugnata da Dante è conseguente alla condizione morale originaria dell‟umanità quale creatura di Dio, e non suppone l‟imperium per essere costituita, come invece la cittadinanza politica.In tal senso, l‟universalismo della Monarchia dantesca è riferita, non già all‟impero di un Potere mondiale, ma bensì alla universale condizione umana di libertà, per cui il Governo universale non è altro che l‟amministrazione della grazia di Dio elargita alla umanità, ossia la libertà morale degli uomini. L‟umanità di cui parla Dante, il “genus humanum”, non è la humanitas romana, che nasce dalla societas, intesa come “iuris communio”,650 il cui concetto politico oppone l‟homo humanus, civilizzato dalla “incorporazione della paideia assunta dai Greci”, all‟homo barbarus, privo di eruditio et institutio in bonas artes. 651 Il concetto dantesco di umanità è propriamente cristiano, perché sta a indicare una condizione
649 Dante, affermando l‟anteriorità temporale degli imperatori sui papi, seguiva la lezione dei canonisti “dualisti”, che affermavano la diretta derivazione divina del potere imperiale, ma superava sia la loro dottrina dell‟equilibio dei due poteri universali, che divenne quella degli anticurialisti, come pure l‟ipotesi ierocratica che essi contestavano. Ved. E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 276 sgg. 650 Cicerone, Respublica, 2.26. 651 Ved. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it., Milano, 19xx, pag. 41. 295
pre-civile di libertà congenita che la convivenza sociale deve perfezionare ma non istituire, e che consiste in una qualità morale, quella di discernere secondo ragione, che egli, secondo la tradizione teologica cristiana, chiama “liberum arbitrium”. Ragione e libertà diventano dunque sinonimi in Dante, sicché la condizione originaria dell‟uomo pre-civile non ha niente di paragonabile alla condizione ferina hobbesiana o a quella barbarica greca e romana. E poiché la “cupiditas ipsa sola sit corruptiva iudicii et iustitie prepeditiva”, ed avendo il Monarca “nullam cupiditatis occasionem inter mortales”, ne consegue che, in quanto legislatore, “inter ceteros iudicium et iustitiam potissime habere potest”, e dunque è il miglior depositario del “disponere alios”, cioè di governare, quale titolare della “dispositio mundi”, cioè della legittimazione morale a regnare.
652 Governare gli uomini significa dirigerli verso la perfezione della loro essenza spirituale (“propriam similitudinem”), distraendoli dalla “cupiditas”, che invece è la loro imperfezione naturalistica. Pertanto il Governo morale dell‟umanità cristiana consiste nel far emergere la “possibilità” insita nella natura divina dell‟uomo nei rapporti con gli altri uomini, al fine di conseguire la perfezione di sé, e cioè la salvezza spirituale, e non la potenza mondana. E dunque il Governo dell‟umanità non può essere attribuito a un qualunque rex in virtù delle sue qualità politiche, ma soltanto al Monarca che, in virtù delle sue qualità morali, “potest esse optime dispositus ad regendum”. Il Governo non si esercita attraverso la “lex” particolare, intesa come “regula directiva vite”, la quale varia di numero e contenuto in dipendenza delle particolarità contestuali alle situazioni dei singoli gruppi umani, ma, interessando il “genus humanum”, deve esplicarsi attraverso una norma universale, valida per tutti, che abbia per fine la pace.653 Ora saggiamo tutta la portata della notazione di A. d‟Ors, ricordata da Schmitt,654 circa l‟infausta “disgrazia” della traduzione di Cicerone del termine greco di
652 Dante, Monarchia, I, XIII, 31-37 e 42-44, pagg. 162-163. 653 “Ut humanum genus secundum sua comunia, que omnibus competunt, ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem”: Ivi, XIV, 26, 33-35, pag. 164. 654 C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, tr. it., Vicenza, 2005, pag. 169.
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nomos in quello romano di lex, che è appunto il termine adoperato da Dante per esprimere ciò che non può essere il contenuto di una “lex”, determinata sempre dalle condizioni particolari che l‟hanno ispirata e quindi soggetta a mutazioni. Diversamente, l‟azione di Governo riguarda la decisione circa il meglio, che è “unum”, tra molte possibili opzioni, che sono “plura”. Ma solo quella giusta è la decisione migliore, con la quale l‟atto di Governo diventa “acceptabilissimum” a Dio.655 Per comprendere l‟essenza dell‟atto di governo occorre riandare alla differenza tra la potenza divina, infinita, e quella umana, finita. La stessa esigenza di una guida morale da parte del Monarca si basa sulla consapevolezza che l‟universalizzazione della cupiditas individuale nella forza del Potere non può identificare il “genus humanum” con Dio, proprio perché Dio non è un ente naturale, sia pure eccelso, ma una realtà spirituale e quindi trascendente ogni finitezza, sia pure quella dell‟unità ideale, perciò non può essere assimilato a una essenza concettuale. Trascendere la dimensione ideale signfca porsi su di un piano noetico ed esistenziale diverso da quello naturalistico riflesso nelle idee attraverso la ragione, ossia su un piano intuitivo, che è quello della fede, che sia in grado di cogliere la totalità, intu-endola oltre il fenomeno particolare. Ciò vuol dire che la conoscenza intuitiva non equivale alla conoscenza ideale, ossia a quella razionale, che conosce il modello perfetto di ciò che è sensibile e dunque imperfetto. L‟intuizione dell‟uomo come essere spirituale non è la conoscenza attraverso di esso, che è imperfetto, della perfezione umana quale suo modello ideale. Conoscere l‟uomo come essere spirituale significa propriamente trascendere la sua finitezza naturale, e quindi ogni sua determinazione razionae, per cogliere attraverso di essa la sua essenza divina ed eterna, appunto spirituale, la quale, diversamente delle differenti determinazioni empiriche di ognuno, è comune a ogni essere umano. E pertanto ciò che rende gli uomini un “genus” è qualcosa che non inerisce la specie naturale, ma è un carattere trascendente della sua esistenza che consiste nel “liberum arbitrum”, ovvero nella possibilità umana e solo umana di trascendere la proria finitezza naturale e partecipare dell‟essenza divina, che non è ideale ma spirituale. Il termne di “spirituale” sta dunque ad indicare il piano esistenziale dell‟uomo che
655 Dante, Monarchia, I, XIV, 51-52, pag. 165. 297
trascende la sua finitezza naturale. Che lo spirito non sia una facoltà dell‟anima, quale era pensata essere la ragione dai greci, lo attesta la stessa destinazione dell‟intuizione spirituale, che è unitiva e tesa a unire nella charitas la molteplice particolarità naturale degli uomini, anziché dividere, come opera la ragione dialettica, il dato sensibile concreto da quello ideale astratto. L‟intuizine spirituale coglie invece l‟esistenza concreta dell‟uomo, la sua duplice fisionomia ontologica, che per un verso lo destina alla finitezza della carne e dunque alla molteplicità della sua natura animale, e dall‟altro lo partecipa dell‟essenza spirituale divina, nella quale ogni particolarità diventa espressione particolare dell‟unico Tutto, che è appunto Dio. L‟equivoco che ha portato a ritenere che l‟unità spirituale fosse omologanile all‟universalità del concetto della conoscenza ideale risiede nell‟aver indicato lo Spirito incarnato, il Cristo, come Logos, cioè come un Ente di ragione, facendo di Lui una Idea. Orbene, se l‟essenza naturalisticamente pensata è sempre positiva in quanto attuale, l‟essenza divina è intrinsecamente negativa rispetto alla positività del datodi natura conosciuto dalla ragione, in quanto al centro della realtà esistenziale del Cristo c‟è la morte, ossia quella alterità rispetto all‟essere-che-è che il pensiero razionalistico pone all‟inizio e alla fine del‟esistenza. Invece, nella dimensione cristiana della esistenza umana, la centralità della conoscenza è impegnata dalla morte, ossia dalla consapevolezza della finitezza della vita naturale e di ogni sua determinazione reale. Se pertanto lo scopo della conoscenza razionale è di spostare indefinitamente i termini della edacità della vita umana, costruendo un mondo stabile rispetto alla età dei singoli e delle generazioni, lottando contro la spinta distruttiva del tempo, il fine della intuizione spirituale è di pervenire all‟esperienza dell‟eterno attraverso il trascendimento della realtà finita. Trascendere la finitezza della vita naturale significa pensare l‟uomo e la sua esperienza comune come destinata alla morte e dunque a orientarsi già in vita come esseri spirituali, eterni. Ma esattamente questa conoscenza negativa rispetto alla positività della realtà fenomenica ed empirica, fa della intuizione spirituale il luogo di elezione della alterità rispetto al piano della contraddittorietà proprio della ragione e della vita politica; il luogo della comunione ecclesiale, in cui gli uomini si incontrano e si riconoscono come creature divine simili al Cristo, che diventa il paradigma esistenziale di ogni esperienza umana in senso spirituale, 298
ovvero della singolarità, e quindi del rapporto dell‟Uno storico con Dio, che è l‟Uno eterno; esperienza singolare che, essendo spirituale, è diversa da quella politica della vita sociale, che pertiene al rapporto con Cesare, cioè con la dimensione del Potere. Per quanto attiene al piano politico, la morte in croce di Cristo testimonia della insuperabile finitezza umana, e dunque della dipendenza dell‟uomo storico dal Potere di Cesare. A questo punto non ci è difficile comprendere come l‟ipotesi di un Potere asservito al fine escatologico della salvezza spirituale fosse una lusinga latente nella comunità cristiana soggetta a Cesare. Ed è questo il senso profondo dell‟idea di un Impero cristiano in cui confluisse nelle stesse mani il Potere politico esercitato sui cittadini e il Governo morale esercitato sugli esseri spirituali.656 Ma l‟ipotesi di un Monarca che assommi in sé, nel suo ministero, sia l‟esercizio del Potere politico che l‟amministrazione del Governo spirituale doveva presupporre che le due dimensioni, spiritule e politica, potessero tradursi in due termini dialettici vicendevolmente opposti in quanto entrambi interni a una stessa dimensione unitaria di verità, la quale fosse essa stessa formalmente determinabile al pari delle due forme ideali antitetiche, rispettivamente, del Potere, la cui forma ideale è lo Stato, e del Governo, la cui forma ideale è la Chiesa. L‟idea monarchica di Dante è appunto quelladi unificare in una stessa realtà esistenziale la comunità spirituale cristiana e quella politica. Questa ipotesi teocratica presumeva dunque l‟omologia delle due forme da sintetizzare o da giustapporre, la quale omologia era resa possibile dalla solita identità razionalistica della
656 Questa tentazione risale secondo Barth a quando “la cristianità volle essere qualcosa di più del popolo pellegrinante nel deserto, dell‟uccello solitario sul tetto. Essa non volle più patire. Sotto il pretesto del bene dell‟umanità essa aveva deciso di mettersi a suo agio. […]”. E risuona in tutto il loro drammatico appello la domanda cruciale: “Perché questo cristianesimo ha voluto conservarsi in vita a spese dell‟evangelo, invece di lasciar accadere che fossero le forze dell‟evangelo a farlo vivere? Ciò che adesso capita al cristianesimo è solo la quietanza per la grande menzogna di cui si è rs chiaramente colpevole su tutta la linea, a partire dalla fatale era costantiniana”: K. Barth, Das Evangelium in der Gegenwart (1935), cit. da G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, 2012, pagg. 9-10.
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