
11 minute read
21 M. Pohlenz, La stoa, tr. it. cit., pag
immobile, non dando ragione della molteplicità degli enti empirici, ovvero, assumendo la molteplicità degli enti come la realtà cui va riportato il pensiero, questo si traduce in infinità delle categorie, senza un distinto criterio unitario. Solo mantenendo la distinzione si evitano gli esiti opposti del misticismo e dell‟irrazionalismo, e si può stabilire una relazione di verità tra dimensioni diverse che liberi gli elementi dalla necessità di una logica tautologica (più o meno cruenta o “sublime”) e salvaguardi la realtà storica dalla sua manipolabilità assoluta degli enti neutralizzati da una loro astratta considerazione di omogeneità priva di qualità specifica, ossia di storicità, consentendone la stessa conoscenza. Infatti, solo ciò che permane nel suo essere non è disponibile ma solo conoscibile. La “vera” conoscenza non muta l‟essere delle cose ma lo salvaguardia. La esclusiva dimensione immanentistica, riducendo a prassi anche i valori trascendenti, affida ai fenomeni tutta la realtà possibile, schiacciando nel presente tutta la realtà possibile, negando così sia il passato come presupposto condizionale dell‟azione attuale, sia il futuro come libertà dal destino e utopia soteriologica, pervenendo alla negazionedella storicità, poiché, anche in senso antropologico, l‟eterno presente è la condizione propria dello stato di natura, che concentra l‟intendimento umano al successo attuale, negando l‟Anerkennung indispensabie all‟ordine sociale. Voledo eliminare il confitto, ossia la diversità, assimilando il diverso allo stesso, lo si trasferisce, il conflitto, all‟interno dell‟astratta identità ontologica, producendo per interna contraddizione il suo polo dialettico, il suo molteplice. Solo nella permanenza del diverso in se stesso è possibile stabilire con esso una relazione armonica, cioè una mediazione, che non si risolva in una riduzione logica allo stesso, all‟ente più forte, storicamente instabile perché impossibile ontologicamente. Da qui la precarietà di ogni regime politico, di cui la dialettica hegeliana servo-padrone costituisce il modello ideale di rapporto non mediato tra entità logicamente omogeneizzate, tra le quali non può sussistere che opposizione che non si risolva in quella neutralizzazione dell‟altro e assimilazione al sé più forte chiamata “pacificazione politica”, che è il nome attribuito alla violenza metafisica e sociale per l‟assimilazione. Ma finquando il rapporto si stabilisca tra realtà diverse solo logicamente assimilate e tese al dominio reciproco, il polemos sarà inevitabile,al di là di ogni tregua. La “vera” pace è la mediazione nella diversità, cioè la co-esistenza essenziale o libertà, che 321
è libertà spirituale ed esistenziae dalla necessità naturale. Le logiche autoreferenziali e i loro sistemi socio-politici chiusi, tendono a concepire l‟Essere o il Molteplice come Tutto, riducendo l‟uno all‟altro, al dominio di Sé. L‟esito nichilistico di tale prospettiva metafisicosociologica è inevitabile poiché si fonda sul concetto che l‟Altro sia Niente. Non ci sono più eventi nell‟Uno, né più “ragioni” nel Molteplice, ma “tutto” ciò che è, è relativo al fondamento che si pone come Essere ovvero come Divenire. In tale decisione fideistica si radica la nietzscheiana “volontà di potenza” come chiusura ermetica in un esclusivo eone storico, negando “l‟esistenza di un mondo diverso”, per cui “l‟essenza dell‟essere si esaurisce nel processo temporale che appare alla nostra coscienza”. Ma invece, “per costruire una metafisica della storia è indispensabile il presupposto che lo „storico‟ immetta nell‟eternità e si radica nell‟eternità”, quale “dramma che si compie nell‟eternità”, come afferma Berdjaev, secondo il quale “la storia non è altro che una profondissima iterazione tra l‟eternità e il tempo, l‟irrompere ininterrotto dell‟eternità nel tempo”. Essa “si compie non solo nel tempo e non solo presupponendo il tempo senza il quale non esisterebbe, ma è anche la lotta ininterrotta dell‟eterno con il temporale”.681 Se volessimo indicare in termini filosofici tale “lotta” non potremmo che stabilire una relazione dialettica tra opposti, metre invece l‟immagine vuole esprimere la modalità propria della tensione della libertà morale, che aspira a superare la condizione della finitezza, e dunque della necessità, in considerazione, non già della forma ideale che quella finitezza rispecchia nel senso del modello perfetto, ma dell‟eternità di ciò che non ha forma determinata, e che perciò è “totalmente altro” rispetto a ogni finitezza e a ogni rapporto tra enti finiti. Ciò che è altro rispetto al sé è il prossimo, ma ciò che è altro rispetto a ogni sé, è Dio. E dunque, se la modalità del rapporto inter-personale informato alla dialettica del Sé contro l‟Altro è la politica quale logica del polemos, la modalità informata al criterio “totalmente altro” da quello esclusivo dell‟inseità e della alterità è quella caritativa o della misericordia, in cui non c‟è scelta partigiana tra i due opposti, reciprocamente convertibili in Sé e il Altro,
Advertisement
681 N. Berdjaev, Il senso della storia (1923), tr. it ., Milano, 1977, pag. 62.
322
ma mediazione di entrambi al cospetto di ciò che li comprende entrambi nel Tutto di cui sono parte. Che il Tutto sia inteso come Natura o l‟universo fisico della materia, esclude l‟alterità dello Spirito che vi trascende; se come Tutto intendessimo il solo Spirito, cioè Dio, negheremmo la stessa esistenzialità umana e il senso della “lotta” storica del tempo e dell‟eterno. Il Tutto, pertando, non può che essere il (senso del) divino nel (la dimensione del)l‟umano, l‟evento storico dell‟Incarnazione del Cristo dello Spirito eterno nell‟uomo finito. Ora, di questo evento temporale ed eterno non può dar conto la ragione, ossia la logica delle relazioni finite, e dunque una teo-logia quale “discorso su Dio che rende razionalmente conto della fede in Dio”.682 Essa, infatti, come ogni sistema razionale non può dare ragione della fede nei suoi fondamenti se non confutandoli, rielaborandoli in forme secolarizzate e facendo della fede stessa un Mito extra-sistemico, una “religione”, cioè un credo funzionale alla “consolazione e giustificazione del mondo”, secondo la definizione che Marx ne diede nella Critica della filosofia del diritto di Hegel. Una definizione che aveva colto l‟essenza della “religione” come Mito, in cui converge, insieme alla “giustificazione” razionale del mondo, la “consolazione” della sua rappresentazione, ma non l‟essenza della fede, la quale fonda ontologicamente qualunque rappresentazione della realtà. Questa fede non può essere confutata perché costituisce l‟ fondamentale e pre-razionale di ogni possibile rappresentazione del mondo, senza il quale la stessa realtà non avrebbe alcuna possibilità di essere. E dunque questa fede fondamentale coincide con la stessa originaria Possibilità d‟essere di ogni Essere e di ogni sua rappresentazione. Eliminando dall‟orizzonte teoretico questo fondamento originario, il logos filosofico si determna come ente () presente alla coscienza, a esclusione di ogni altra sua possibilità d‟essere, che viene rimossa come niente, rappresentando della realtà una sequenza fenomenica in cui la ragione vorrebbe si compendiasse il Tutto. Ma proprio nell‟orizzonte di questa pretesa teoretica si definisce razionalmente la realtà come mondo conoscibile, non nel senso della sua possibilità ma nel senso appunto della sua determinazione razionale, esclusiva di ciò che per la ragione è
682 W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangeliums – Schluessel christlichen Lebens (2012), tr. it., Brescia, 20157, pag. 20. 323
non-essere, cioè niente. Se l‟Essere è la presenza della vita, il niente esistenziale è l‟assenza della morte. La rappresentazione razionalistica del mondo costituisce una realtà d‟Essere fondata sulla rimozione della morte. La rappresentazione di questa realtà fenomenica esclusivamente presente alla coscienza attuale costituisce il mondo della Storia, quale fenomenologia dell‟eterno presente, ossia del divenire pensato come Essere. In questa intrinseca e insuperabile contraddizione si infrange ogni sistema rappresentativo del mondo razionalmente costruito, entro il quale l‟esistenza umana è rappresentata come un dramma narrativo, oggetto di narrazione, in cui tutta la tensione esistenziale si compendia nella lotta per la stessa esistenza, senza un fine escatologico. In questo senso si può dire perciò che la rappresentazione razionalistica della Storia umana si costituisca attraverso la riduzione della tragedia dell‟esistenza dell‟uomo che anela a trascendere la sua finitezza naturale, in un dramma di relazioni sociali inscritte nel topos dell‟orizzonte etico-politico dello Stato, del quale la storiografia è la sua memoria cosciente, la sua coscienza storica. La narratio storica, per il suo carattere avvenimenziale, è sempre frammentaria, come una trama eternamente in rifacimento. I singoli eventi, considerati nella loro assolutezza fenomenica, sono meri “fatti” astratti dalla loro considerazione ideale. Nell‟orizzonte di senso eticopolitico, le forme ideali di tale considerazione sono relative alla sussistenza dell‟organismo statuale, e alle sue ragioni viene ridotto il loro senso proprio, espressivo di una totalità meta-empirica, legata alla essenza spirituale dell‟uomo, che è trascendente la realtà avvenimenziale. In tal senso, la civiltà etico-politica concepita dai Greci, emancipando il topos della vita politica dal senso unitario dell‟esistenza umana, edifica una cultura della socialità astratta dai suoi fondamenti spirituali archetipi, di senso unitario. La deiezione () razionalistica dai fondamenti spirituali della vita produce quella angoscia esistenziale, che è il portato storico della discessio metafisica tipica della civiltà politica. L‟errore di Rousseau, di Marx e di tutti i teorici democratici, fu quello di concepire il superamento della frattura politica dell‟uomo spirituale ricostituendo una forma perfezionata di socialità all‟interno dell‟orizzonte politico, ossia dell‟antropologia del naturalismo greco. Ma questo assunto naturalistico fu adottato dalla stessa teologia cristiana, allorquando, con Agostino, concepì il destino imperiale di Roma in funzione della cristianizzazione del mondo antico, legando con ciò l‟escatologia della 324
redenzione spirituale, anziché alla salvezza dell‟uomo dalla socialità politica, alla rinascita spirituale attraverso la politica, pensando quindi il rapporto con Dio nei termini di una teo-logia, ossia di un discorso filosofico su Dio, inteso come oggetto di pensiero, come ente. E poiché il logos del Theos è la stessa ratio con la quale si è pensata la realtà politica, ecco le origini delle intime implicazioni politiche del discorso teologico, che caratterizzano anche la teoria monarchica di Dante, che nel Convivio indica Aristotele come “lo Filosofo” in grado di soddisfare la brama di sapere della umana nobiltà di cuore, quale eccelso esponente della “nobilissima perfezione” che è la conoscenza scientifica, e non Gesù e la sua predicazione morale. Infatti, come il Poeta asserisce all‟esordio del I trattato, “la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade”.683 In questo senso strutturale, ogni possibile distanza ideologica intrapresa dal progetto monarchico di Dante dalla coeva visione che della politica aveva la Chiesa e la parte guelfa che la sosteneva, va inteso pur sempre come una variante interna a uno stesso fondamentale orizzonte teologico comune anche alla parte ghibellina. E ciò in conseguenza della ritenuta intrascendibilità dell‟orizzonte ontologico greco. Proprio nel II Trattato del Convivio Dante, assegnando la priorità, tra i “quattro sensi” in cui è possibile interpretare le “scritture”, al “litterale” (sull‟ “allegorico”, “secondo che per li poeti è usato”, che “è quello che si nasconde sotto „l manto di queste favole” in cui consisterebbe la finzione poetica, intesa appunto come “veritade ascosa sotto bella menzogna”; al senso “morale” usato didascalicamente dai teologi per commentare le Scritture; e infine dal senso “anagogico, cioè sovrasenso”, in cui il valore simbolico trasvaluta nel senso della fede quello letterale), conferma il fondamento razionale della realtà, “nella cui sentenzia li altri sono inchiusi” (I 8, 15), ossia attraverso il cui significato è possibile derivare tutti gli altri, facendo pertando dell‟universo filosofico tracciato dall‟ontologia naturalistica greca la dimesione della pienezza comprensiva di ogni possibile derivazione ulteriore. Se infatti il senso della realtà è tutto “inchiuso” nel suo significato razionale, è nei suoi termini che vanno trascritti ogni conoscenza e ogni sentimento di fede.
683 Dante, Convivio, in Opere minori, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, t. II, Napoli-Milano, 1988.
325
Termini che, concentrando la realtà nella sola dimensione ontica del presente storico, possono recuperare il passato, il “principio mortifero del tempo”,684 entro la sola memoria, attraverso il ricordo, senza poter ammettere quel fondamento escatologico della storia spirituale avanzato dal Cristanesimo come orizzonte di senso inclusivo della morte, ossia di quel non essere più che permane nell‟Essere come sua possibilità inattuale, partecipe allo stesso titolo dell‟attualità contingente all‟unità temporale del Tutto di cui è parte astratta. La conseguenza della reductio della narratio razionalistica della Storia umana a dramma è conseguente alla rappresentazione del destino dell‟uomo a una lotta (polemos) tra volontà opposte, solo una delle quali è eticamente giusta in quanto razionale. Strappando agli dèi il destino umano attraverso l‟uso della ragione, la tragedia antica si risolve nel dramma umanistico moderno, dove le forze in lizza sono tutte interne alla dimensione politica. Questo passaggio dalla dimensione tragica a quella drammatica della vita, in cui l‟uomo non combatte più contro il volere degli dèi ma contro la volontà opposta di altri uomini, è tutto interno a una cosmo-logia che ignora il sentimento della libertà morale, introdotto dal Cristianesimo, per il quale il mondo umano non è che l‟espressione, magari elaborata e raffinata, della finitezza storica, che la coscienza morale cerca di trascendere in considerazione di ciò che è eterno e appartiene perciò solo a Dio, edi cui l‟uomo non può disporre. Solo dal sentimento morale della libertà di trascendere la finitezza storica l‟uomo può prendere coscienza del proprio destino, che “si basa sulla libertà”, la quale “per sua essenza è un principio tragico” ignoto al mondo antico,
685 in base al quale la sua coscienza sceglie di partecipare della verità di Dio invece che della legge degli uomini, informata alla ragion di Stato. Tale scelta morale, nondimeno, presuppone una unità originaria premondana e pre-istorica che non può identificarsi con alcuna fondazione mitologico-politica, che pone, per arbitraria convenzione postulatoria, l‟Essere come ente originario, a partire dal quale procede e si sviluppa ogni discorso di senso razionale, necessariamente fattuale. Ma in questa necessaria fattualità, che pone come reale esclusivamente il razionale, si consuma l‟intero processo antropologico della ontologia naturalistica
684 Così chiama il passato N. Berdjaev, in Loc. cit., pag. 66. 685 N. Berdjaev, Ivi, pag. 70.
326