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68 Ivi, pag

68 Ivi, pag

natura”, si presenta storicamente come il custode dell‟ordine. E poiché l‟ordine naturale fu voluto da Dio, la sua perfezione anche morale non può essere messa in discussione.693 Si chiude il sillogismo, specificando il compito dell‟uomo riferendolo al suo ruolo naturale di “medium necessarium ad finem nature universalem”, che è appunto l‟ordine giuridico, il quale peraltro, non potendo essere conseguito “per unum hominem”, viene realizzato assegnando da parte della natura a “una moltitudine d‟uomini incarichi diversi”, coordinati allo stesso fine. Da qui la destinazione di alcuni uomini o di interi popoli a dominare o a essere dominati, secondo quanto riporta Aristotele nella sua Politica, in cui il ruolo delle parti viene ricordato non solo come utile ma anche giusto.

694 Ed è quanto predetto da Giove, evocato da Virgilio nel IV libro dell‟Eneide, per il popolo romano, il quale appunto “subiciendo sibi orbem de iure ad Imperium venit”.695 La correlazione storica del iustum col factum, che è implicita nella identità metafisica del factum col verum quale presupposto dell‟ontologia greca, viene però radicalmente smentita dall‟esperienza cristiana a partire dalla passione di Cristo, che è l‟evento storico più reale dell‟umanità quanto il più ingiusto, a partire dal quale si dispiega una fenomenologia storica fondata su categorie spirituali che, assegnando un grande significato escatologico a realtà fenomeniche inattuali, risultano negative rispetto alla positività di quelle razionalistiche greche, basate sulla esclusiva rilevanza teoretica del fattuale. Infatti la prospettiva cristiana ribalta la visuale noetica greca, assegnando all‟altroda-ciò-che appare un valore d‟essere superiore a quello di ciò che attualmente è. Un valore di verità che, restando invisibile alla logica del Potere, rimane inaccessibile alla cognizione di Pilato, rappresentante dell‟Imperium romano per antonomasia. Dante dunque un teorico pagano? No, in quanto da cristiano egli ammette l‟insufficienza della ragione umana di fronte ad eventi superiori all‟esperienza comune o singolare, alla cui bisogna soccorre la fede, che perviene “de gratia spetiali” a cogliere, “aut expresse, aut per signum”, la

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693 Ivi, VI, 10-15, 19-22, pagg. 193 e 194. 694 Ivi, VI, 26-36, pagg. 194-195. 695 Ivi, VI, 51-60, pag. 195.

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volontà divina.696 I signa vanno interpretati, certo, ma l‟aleatrietà del responso cade alorquando è la volontà di un popolo a imporsi su ogni altre simile impresa, la conquista del mondo, tentata da Assiri, Egiziani, Persiani e Macedoni ma perseguita favorevolmente solo dai Romani, che “prevalsero sugli altri popoli per decreto divino, ottenendo perciò di diritto l‟Impero da Dio”.697 Il caso dei Romani è regolato in grande dalla stessa misteriosa ragione per cui il responso divino in un duello cada sul vincitore, il cui esito non è legato alla sola forza o fortuna del primario, ma al valore di giustizia attribuito al combattimento non proposto e accettato per odio o per bassa rivalsa, ma solo a derimere un confitto non altrimenti risolvibile, in cui conta dunque “lo spirito” con cui si affronta la contesa, in quanto condiviso dalle parti, più che l‟esito stesso casuale. Dante, richiamando il gesto del “generoso” Pirro di liberare i prigionieri romani senza alcun compenso, a esempio di giusta contesa, accosta Hera alla Divina Provvidenza,698 identificando la pagana e cieca Fortuna col misterioso disegno soteriologico cristiano, comprova la speciosità della fruizione dell‟universo concettuale antico in ambito teorico cristiano, costituendo un tipico esempio di quella “traslazione” (Uebertragung) di senso che verrà a sua volta eseguita dal pensiero moderno a partire dai paradigmi teologici, essi stessi pregni di elementi concettuali pagani, che quella traslazione riporterà in auge attualizzandoli alla funzionalità nel nuovo contesto storico-culturale. La visione di Dante intedeva proporre una nuova sintesi etico-politica a fondamento religioso, che fosse a un tempo “espressione di una convinzione scientifica, che scorgeva in uno Stato mondiale monarchco la salvezza dell‟umanità”, e offrisse “a tutto il mondo occidentale diviso nei due campi nemici del papato e dell‟impero”699 un modello lungimirate di “pace” che fosse incentrato su fondamenta religiose cristiane, e tale da consentire all‟Europa cristianizzata di rappresentare il proprio destino

696 Ivi, VII, 20-34, pagg. 196-197. 697 Ivi, VIII, 76-78, pagg. 203-204.

698 Ivi, IX, 46-47, pag. 206. 699 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri (1905), tr. it., Bologna, 1974, pag. 19.

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storico nei termini di una missione imperiale di civilizzazione universale che superasse le inevitabili lacerazioni intestine dei molteplici popoli che la compongono, divisi per lingua, interessi e tradizioni, ma congiunti da un passato comune a da una comune identità religiosa che sul passato imperiale ha trovato la sua legittimazione storica. A posteriori, pensando alle secolari divisioni dei popoli europei, sempre alla ricerca di una identità comune meta-politica, possiamo constatare la portata profetica della visione dantesca, che individuava nel binomio di cultura e religione una espressione secolarizzata di quella sintesi teologica di fede e ragione che le intelligenze più avvertite del suo tempo già preconizzavano essere molto problematica entro la polarizzazione del conflitto istituzionale Chiesa vs.Impero. Infatti ognuno dei due antagonisti aspirava a quel fine universale che, in nome rispettivamente della fede e della ragione, volevano porre a fondamento della convivenza comune. In questo senso, la Monarchia proposta da Dante acquistava significato non soltanto eticopolitico ma anche e soprattutto metafisico-religioso di organismo storicoculturale disposto al fine di realizzare universalmente l‟unità misticosociale delle due nature umane, costitutiva dell‟antropologia cristiana; unità che la Chiesa esprimeva per il versante mistico e l‟Impero per quello socio-politico, e che la comune aspirazione universalistica rendeva incompatibilmente antagonistica. L‟intento di Dante è quello di offrire un nuovo paradigma universale che, a partire dalla tradizione romana, ritrovi un omologo senso politico internazionale, legato – e in ciò la sfumatura cristiana – non a una mera volontà di potenza, ma a un “diritto” fondato sulla missione redentrice della religione cristiana, che la potenza militare non farebbe che confermare empiricamente ma inscritto nel destino originario di Roma, città universale  ‟, divenuta col Cristianesimo strumento della missione evangelizzazatrice della Chiesa di Cristo. E infatti, negli ultimi due capitoli del Libro II, Dante, dopo aver trattato l‟argomento del saggio “per rationes”, intende proporlo “ex nunc ex principiis fidei cristiane”.700 In virtù della sua fede, il cristiano deve ammettere, egli afferma dunque, che Cristo, nascendo uomo imperante Roma, intese sanzionare che quello di Augusto fosse un “iustum

700 Dante, Monarchia, II, X, 1-3, pag. 212. 331

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