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64 Ivi, pag
nell‟opera De inventione di Cicerone, per cui “semper ad utilitatem rei publice leges interpretande sunt” (I, 68), citato da Dante, la cui definizione del diritto come “ius realis et personalis hominis ad homenem proportio, que servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit”,678 non soltanto non coincide con la descrizione “per notitiam utendi” del Digesto, ma neanche con l‟esprit ermeneutico che anima l‟esegesi romana, la quale intende il “bonum comune” e il relativo “finis societatis”, come salvaguardia dello Stato e non certo della “hominis ad hominem proportio”, per cui il “finis iuris” in senso romanistico di “bonum rei publice” non è lo stesso bene soteriologico dei cristiani, che vedono lo Stato come strumento e non come fine per l‟uomo. Pensare che Dante criticasse la mondanità della Chiesa romana per mettere al suo posto lo Stato sarebbe certamente incongruo, ma soprattutto sbagliato, e l‟errore nascerebbe dalla indebita identificazione del “romanus populus” con il “genus humanum”, e la romana “ pax” con la cristiana “libertas”, da cui l‟identità tra la “gloria” romana con la “salus” del genere umano.679 Eppure tale incongruità è presente nel testo dantesco, proprio perché la fruizione anfibologica delle stesse categorie giuridiche provoca un complessivo sincretismo teorico che rende ambigua l‟esegesi del testo in un duplice possibile senso, aperto tanto alla riabilitazione dell‟Impero romano (in senso anti-agostiniano), che all‟inveramento del suo principio imperiale (in funzione mitopoietica cristiana), e pertanto il riferimento alla fattualità dei “signa exteriora” per la determinazione della “intentio ex electione” di chi agisce non è punto risolutiva, come invece vorrebbe Dante.680 Infatti, gli stessi gesti caritatevoli di Gesù - e dei successivi martiri della fede cristiana –possono essere intesi come manifestazione visibile della radicale bontà divina, da chi ha fede in Lui, e viceversa come pericolose minacce all‟ordine religioso dello Stato da parte dei suoi detrattori e avversari all‟interno della logica esclusiva dell‟orizzonte politico, senza che Gesù, com‟è noto, abbia mai pensato di costituirsi esplicitamente ed intenzionalmente come parte polemica in senso politico.
678 Dante, Monarchia, II, V, 2-4, pag. 184. 679 Ivi, 20- 25, pagg. 185-186. 680 Ivi, 28-29, pag. 186.
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Ora, si dà il caso che Dante, alla stregua della tradizione teologica cristiana, si sia posto oggettivamente all‟interno dell‟orizzonte politico, ossia all‟interno di quella necessità metafisica che caratterizza l‟orizzonte di sapere naturalistico greco, rispetto al quale la prospettiva spiritualistica della fede cristiana è “follia”. Il punto di mediazione tra i due universi di senso, rispettvamente pagano e cristiano, è costituito dall‟universalismo razionalistico, che la teologia cristiana ha adottato come all‟interno del proprio orizzonte di fede escatologica. In altri termini, la teologia cristiana ha adottato l‟insania pagana come remedium logicum all‟ineffabilità teoretica della nuova prospettiva spriitualistica emancipatasi dalla tradizione ebraica, verso la quale si è posta come una rielaborazione di tipo filosofico. L‟adozione dell‟insania consiste nella ricezione del principio razionalistico di universalità come legge di verità, alla maniera della scienza naturalistica profana, identificandolo con il proprio principio di verità, che è la totalità singolare di ogni essere umano quale creatura spirituale, di cui ognuna, in quanto singolarità spirituale, rappresenta, per la gnosi razionale, un mistero. In tal senso, dal punto di vista spiritualistico cristiano, la verità ha per oggetto il mistero dell‟homo spiritualis (), e non l‟ente dell‟Essere, per cui la verità in senso cristiano non può essere mai oggettiva e universale ma sempre e solo soggettiva in quanto singolare. Ciò comporta che la conoscenza dell‟uomo in quanto creatura spirituale non può essere affrontata con le categorie della metafisica greca, ossia con l‟onto-logia dell‟Essere-che-è in quanto fenomeno, poiché la conoscenza spirituale non riguarda la sequenza causale degli adesso (Jetzt) presenti alla coscienza in cui si scompone la temporalità della storia fattuale, ma inerisce alla relazione simbolica che i “signa” stabiliscono in quanto eventi fattuali (“exteriora”) con la dimensione dell‟eterno, rispetto alla quale la realtà degli enti non è necessariamente quella che appare attualmente, ma è la realtà possibile. In tal senso la categoria con la quale vanno interpretati gli eventi simbolici della realtà spirituale è quella della Possibilità, che è la modalità propria dell‟Essere spirituale. La caratteristica dell‟Essere-possibile consiste nella sua stessa possibilità d‟essere ciò che non è attualmente in essere come ente fenomenico, ossia la sua totalità, in virtù della quale ogni determinazione attuale della sua possibilità d‟essere ciò-che-è rimanda ogni volta alla possibilità d‟essere altro da ciò che è, e quindi al suo non-essere ciò che appare. Ciò vuol dire 316
che la Possibilità è quella categoria del pensiero attraverso la quale si perviene alla conoscenza dell‟Essere-possibile, ovvero del Tutto. Tale Tutto, diversamente dall‟Universale del concetto razionale, non consiste nell‟unità in-definita degli enti fenomenici conosciuti nella loro attualità fattuale; non consiste, cioè, nel modello ideale perfetto in cui si rispecchiano tutti gli enti fattuali imperfetti. Il Tutto consiste invece nella in-finita possibilità d‟essere di ciò che non-è attuale, ma appunto possibile, richiamata simbolicamente dall‟ente in quanto Essere-che-è attuale o fenomeno. Il richiamo simbolico a ciò che non è attuale attraverso ciò che lo è, lo abbiamo indicato col termine di , che consiste nella corrispondenza mnemonica che le parole che indicano gli enti fenomenici evocano delle cose attraverso l‟immaginazione simbolica. L‟orizzonte di senso immaginifico all‟interno del quale si comprende la possibiità d‟essere del Tutto è il Mito, da cui ha origine ogni possibile determinazione di senso dell‟Essere, la quale si costituisce come una sua rielaborazione (traductio) razionale, ovvero come una mito-logia. Ed è appunto attraverso la lettura categoriale della Possibilità che Dante ha interpretato i “signa exteriora” della storia romana come eventi dotati di senso teologico. Un senso, dunque, non univoco, ma simbolico, che trascende i fenomeni stessi, liberandoli dalla loro necessità fatuale e consegnandoli alla loro Possibilità, che dunque perviene alla coscienza come sentimento di libertà dal destino. Proprio in quanto tensione trascendente la fattualità del destino che determina la libertà, l‟essenza costitutiva della Possibilità è intimamente tragica. Nella tragedia infatti la Possibilità dell‟Essere di determinarsi in una piuttosto che in altra fattualità si rappresenta come una decisione tra il campo morale e quello dell‟utile, che pur con-possibili non sono dialettizzabili in termini hegeliani ma co-esistono all‟interno della Possibiità come rimando di ogni determinazione finita al Tutto in-finito che la trascende e che, permanendo nella sua negativa possibilità, rimane un mistero per la gnosi determinativa. Questo mistero che immane sull‟ente determinato come Essere-attuale e lo pervade provoca nella coscienza spirituale il sentimento tragico dell‟angoscia della finitezza della condizione umana come esistenza storica. Senza tale sentimento tragico non si comprenderebbe la possibilità di una trascrizione attualizzante del senso degli eventi dell‟Impero romano da parte di Dante, significativi nella sua epoca. La rielaborazione in chiave simbolica degli 317
eventi fattuali richiama infatti la loro fruibilità significativa all‟interno di un universo di senso non originario, entro il quale vengono trasvalutati ermeneuticamente. La credibilità esegetica di tale nuova trascrizione semantica è legata alla stessa fede nei fondamenti ermeneutici che la sorreggono, in virtù dei quali la traslatio legittima razionalmente il suo impianto rappresentativo. Di conseguenza, il presupposto di credibilità di ogni rappresentazione simbolica della realtà è costituito dalla fede nella sua verità, cioè da una credenza pre-giudiziale, che l‟Essere così e non altrimenti determinato sia il Tutto. Ma poiché qualunque determinazione dell‟Essere comporta una negazione della sua possibilità di libertà, il passaggio () da una ad altra determinazione d‟essere rappresenza tragicamente la tensione maieutica tra le forze che trattengono () il senso originario, e le forze che evergono da quel senso originario, per cui l‟esito di ogni “traslazione” (Uebertragung) è sempre sospeso tra la confermazione nella fede () antica e la sua deiezione () razionalistica verso il senso rinnovato da un nuovo paradigma di fede. Le rappresentazioni che riescono a contenere entrambe le tensioni rendendole vicendevolmente rappresentative in virtù della compiutezza del reciproco richiamo simbolico, sono dette “classiche”, in quanto riflettono consapevolmente al loro interno la tragedia dell‟Essere, sospeso tra le opposte tensioni della necessità e della libertà. In esse si compendia appunto l‟eterno processo del divenire () del Tutto da una ad altra determinazioe, di cui ogni rappresentazione epocale non è che una variazione mito-logica sul tema, ossia una letteraria digressione () sullo stesso paradigma epocale. Ogni rappresentazione consapevole di un‟epoca, nello stesso tempo in cui la determina anche la nega in relazioneal Tutto, che rimane incognito. L‟ineffabilità di Dio rimanda esattamente al Suo Mistero come in-finitezza del Tutto. Il logos apofantico, cioè determinativo, nell‟atto in cui determina la realtà di ciò che è, può negarla in relazione al Tutto, ovvero può negare il Tutto in relazione all‟Essere-che-è, all‟ente fenomenico. In questa possibilità si declina la decisione metafisica in senso ontologico ovvero in senso trascendentale. Ma la decisione è possibile in quanto la Possibilità è costitutiva dell‟Essere totale, ossia del Tutto. Allorquando la decisione metafisica è nel senso dell‟ontologia, cioè della rappresentazione dell‟Essere nei termini dell‟Essereche-è, cioè dell‟ente, l‟orizzonte entro il quale si determina la 318
Possibilità è essenzialmente naturalistico. Viceversa, se la decisione metafisica si orienta verso una rappresentazione dell‟Essere determinato come negazione del Tutto, allora la Possibilità si declina in termini di rimando all‟in-effabile perché in-determinato. Nel primo caso, in cui l‟Essere possibile è esclusivamente l‟ente fenomenico, la conoscenza dei fenomeni si determina nella loro relazione etiologica. In tal caso, l‟ diventa la ragione della relazione tra i fenomeni, la causa del loro processo fenomenico. Il nesso causale, astratto dalla originaria fenomenologia in cui si è manifestato e reso universale si assume come legge di movimento (), la cui caratteristica gnoseologica è la ripetitività, grazie alla quale si può pervenire alla prevedibilità dei processi. Nell‟altro caso, in cui la Possibilità incombe sull‟attualità dell‟adesso come senso di incompiutezza della realtà, la conoscenza dei fenomeni si stabilisce nel loro rimando al Tutto, ossia alla loro relazione archetipa orignaria. In questo caso, il referente non è normativo, in quanto ogni evento è in sé significativo in quanto rimanda al Tutto, all‟indeterminato, e dunque al Mistero della sua possibile determinazione. Il fenomeno, in quanto e-viene dal Tutto, cioè dal Mistero, è, nel suo stesso apparire, misterioso, e perciò conoscibile soltanto in relazione all‟ da cui pro-viene. Se noi indichiamo come Dio l‟infinita Possibilità dell‟Essere di manifestarsi, e dunque la realtà in-finita del Tutto, e dunque non solo la sua attualità, ogni manifestazione del Tutto rimanda al Tutto, quale “traccia” (Jaspers) della Sua trascendenza, e pertanto ogni discorso sull‟Essere è un parlare di Dio (). Rispetto al concetto greco di Physis, il Dio cristiano non è soltanto tutto l‟Essere, ma è l‟Essere-Tutto, compresa la Possibilità non manifestatasi nell‟attualità di ciò-che-è adesso. E pertanto, se l‟Essere naturalistico “è” ciò che “appare”, per cui tutto l‟Essere è tutto ciò che appare, l‟universalità dell‟apparenza ontica, l‟Essere in senso cristiano è solo un segno fenomenico della in-finita Possibilità d‟Essere di Dio, ossia la traccia del Mistero che incombe su ogni essente. In tal senso, ogni rappresentazione ontica è un rimando simbolico alla trascendenza di Dio, al Mistero della sua in-finita Possibilità, sicché senza tale rimando trascendentale, ogni evento perde il suo significato simbolico, che ne garantisce la sua realtà. La “fede” () in Dio non è altro che la “cura” (Sorge) di questa relazione simbolica col Tutto. 319