Design Prossimo | Marco Marseglia (a cura di)

Page 1

a cura di marco marseglia

Design Prossimo



dida

La serie di pubblicazioni scientifiche DIDATesi ospita i risultati delle tesi di laurea condotte all’interno della Scuola di Architettura dell’Università di Firenze che, per l’interesse dei temi trattati, le peculiari modalità di ricerca adottate e l’originalità degli esiti conseguiti nell’ambito del progetto dell’architettura, del territorio, del paesaggio e del design, meritano di essere diffusi al di fuori delle aule universitarie. Le tesi di laurea, che sempre meno si connotano come esercizi accademici, sviluppano in molti casi la continua sperimentazione che unisce ricerca, formazione e progetto nel Dipartimento di Architettura. Spesso le tesi esprimono nel modo più efficace la relazione di cooperazione che il DIDA intrattiene sia con altre Università che con i territori, con le loro Associazioni, ONG, Amministrazioni, Enti ed imprese. Le pubblicazioni scientifiche DIDATesi sono soggette ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari, affidata ad un apposito Comitato Scientifico del Dipartimento, secondo i criteri della comunità scientifica internazionale e dell’editore Firenze University Press. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire una comunicazione e valutazione più ampia ed effettiva, aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.


Il volume raccoglie gli estratti da una selezione di tesi di laurea discusse presso il corso di laurea triennale in Disegno Industriale e Magistrale in Design della Scuola di Architettura di Firenze che affrontano il tema della sostenibilità nella sua accezione più ampia (ambientale - sociale - culturale - economica). I contributi dei giovani designer fanno emergere la complessità della tematica mettendo in risalto la caratteristica di una disciplina in grado di connettere e catalizzare i diversi contributi che concorrono al progetto cogliendo e valorizzando anche i segnali più deboli della contemporaneità.

in copertina Plastiglomerate, 2013. This scientific sample/ready-made is part of an interdisciplinary plastic pollution study by geologist Patricia Corcoran, oceanographer Charles Moore, and artist Kelly Jazvac. Thanks to Professor Kelly Jazvac.

progetto grafico

didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Silvia Cattiodoro Federica Giulivo

didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2020 ISBN 978-88-33381-06-0

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset


a cura di marco marseglia

Design Prossimo



Indice

Design Prossimo. Design | Natura | Antropocene Marco Marseglia

9

Zero Waste Alma Eterea Alessio Tanzini, Valentina Zamorano

21

Material Design Endèmica Francesco Cantini

31

Closing the Loop Rhythmòs 41 Elisa Matteucci Rethinking Materials Entropica 51 Roberto Rubrigi, Daniele Funosi Cyborg Botany Huma 61 Marika Costa Storytelling Tracce Parallele Letizia Capaccio

69

Rituals and relations Foghile. Scenari nuragici Alessia Pinna

79

Waste value QuintoQuarto 87 Giulia Pistoresi Tenere vivi i sogni Giuseppe Lotti

93


Plastiglomerate, 2013. Patricia Corcoran, Charles Moore, Kelly Jazvac.


Design Prossimo


Progettare nel presente richiede una visione di ciò che il futuro potrebbe e dovrebbe essere. Victor Margolin


Design prossimo Design, Natura, Antropocene Marco Marseglia Dipartimento di Archittetura Università degli studi di Firenze

Le urgenze delle questioni ambientali impongono al mondo del progetto una riflessione ampia sul futuro che comprenda tutta la complessità necessaria per affrontare il reale. Un reale che appare mutato dall’azione antropica in grado di modificare, con la stessa forza degli elementi naturali, ma con più velocità, i sistemi dell’intero pianeta. Nell’Antropocene (Crutzen, Stoermer, 2000) il genere umano è divenuto una forza geologica in grado di modificare in modo irreversibile gli ecosistemi della terra. Il nostro modello di sviluppo, quello che da più autori viene definito ‘progresso’, ha provocato modificazioni ambientali sistemiche che influiscono negativamente sui processi vitali del pianeta riversandosi anche nella società, nella cultura e nella politica. Il nostro habitat è mutato. La maggiore modificazione avvenuta è sicuramente quella legata al clima, considerando che le attuali emissioni di biossido di carbonio corrispondono all’epoca del Pliocene, ovvero, quando le creature più prossime al genere umano erano gli australopitechi (Latour, 2020, p. 76). Il cambiamento climatico è il più evidente segno della pressione umana sulla terra ma altre molteplici conseguenze del nostro agire concorrono a questa profonda modificazione. Disparità sociali, crisi economiche, perdita di biodiversità e la recente pandemia COVID19 sono solo alcuni segnali che evidenziano il nostro rapporto sbagliato con il pianeta. I limiti del modello di sviluppo (Meadows, 2004) sin qui adottato ci dimostrano che è insostenibile proseguire su questa strada; molti di questi sono stati superati e “stiamo conducendo un esperimento fuori controllo [che significa] oltrepassare la presunta distanza insuperabile fra la pura descrizione e la vigorosa prescrizione: dobbiamo fare qualcosa - ma non ci è stato detto cosa (Latour, cit., p. 75)”. In sostanza è come se la nostra casa, come direbbe Greta Thunberg (2019), fosse in fiamme, ma non sappiamo cosa fare. Nell’Antropocene abbiamo compreso che non siamo più immersi in una natura idilliaca indifferente all’agire umano ma piuttosto “ci troviamo sprofondati in una terra che non ha mai smesso di retroagire alle conseguenze imprevedibili dei nostri atti di dominazione” (Latour, cit. p. 260). Nelle condizioni attuali, vista l’estrema complessità in cui siamo immersi, “rischiamo di sperimentare nella realtà le conseguenze del progresso umano prima ancora di averle previste e calcolate teoricamente…” (Gandolfi, 1999, p. 189). Alla radice del problema secondo Morin vi è la nostra incapacità di comprendere il presente: “Il presente è percepibile solo in superficie. È lavorato in profondità da solchi sotterranei, da invisibili correnti sotto un terreno apparentemente fermo e solido” (Morin, 2012, p. 5). Il presente è radicato nella cultura e nella società. I segni dell’Antropocene sono figli della complessità della globalizzazione dove interagiscono molteplici fattori che si auto-influenzano - processi economici, sociali, demografici, politici, culturali, ecc…-. Inoltre secondo Morin (idem) il mondo occidentale soffre, senza averne coscienza, di due tipi di carenze cognitive. La prima riguarda la compartimentazione dei saperi che disintegra i problemi fondamentali e globali, la seconda fa riferimento all’occidentalo-centrismo che affida alla razionalità la conoscenza. Questa opera riduzionista ha portato a considerare l’uomo come padrone del mondo e il non umano - compresa la natura - privo di soggettività e di conseguenza oggetto da asservire, manipolare e distruggere (ivi, p. 67).

9


Il rapporto e la separazione tra uomo e natura è alla base delle complesse questioni ecologiche che stiamo vivendo e che ci stanno coinvolgendo in modo sempre più diretto. Il termine natura è una delle parole più ambigue (Bondì, La Vergata, 2014) e controverse di sempre, ed oggi è ancora più difficile definirla, dato che, il naturale e l’artificiale appaiono spesso totalmente mescolati. Una natura che appare molto diversa rispetto al passato e che in qualche modo coinvolge sempre più direttamente quello che definiamo ‘umano’. Se tentiamo di leggere la complessità del reale - ‘umano e non umano’ -, intesa come l’insieme delle caratteristiche di tutti i sistemi presenti sulla terra, ci accorgiamo che questi si trovano ad agire in quella zona metamorfica1 in cui le agency2 si influenzano, modificano e contaminano continuamente. Come direbbe Latour: ‘siamo tutti figli di questa zona metamorfica’. Tutti gli attori del mondo, umani e non umani, vivono in modo non autonomo, la separazione soggetto | oggetto si è trasformata, figlia di quella zona di confine, per diventare altro; Gaia3 è divenuta protagonista e in questa visione l’idea di una separazione Natura/Cultura come quella di una distinzione umano/non umano svanisce; la complessità del reale non permette semplificazioni e schematizzazioni. In questo contesto non è possibile descrivere gli attori che fanno parte del mondo in modo separato. Non esiste più l’uomo animato dotato di capacità soggettive e la natura di sfondo, disanimata e incantata, completamente assoggettata alle volontà dell’umano. Ciò che definiamo con il termine natura entra a far parte con forza nella nostra vita. I plastiglomerati4 (Corcoran et al., 2014) (Antonelli et al., 2019, p. 68) sono un segnale evidente di questa unione. I nostri rifiuti sono diventati parte del quotidiano, parte di quella natura che un tempo consideravamo priva di soggettività, e ci segnalano non solo il cambiamento del nostro habitat ma l’urgente bisogno di un’alternativa al nostro modello di sviluppo. Emblematico su questo tema il progetto Metamorphism5 di Shahar Livne che, stimolata dagli studi succitati relativi ai plastiglomerati, si interroga su un futuro dove la plastica sarà estratta direttamente in natura in forma ibridata con la roccia, ideando una collezione di prodotti che specula, in modo critico, su una nuova estetica figlia dell’Antropocene. Costruire un’alternativa alla costante mutazione del mondo appare quindi come un’urgenza alla quale rispondere in fretta e non più con timidi tentativi come fatto in passato; le risposte dovranno essere veloci e incisive tanto quanto lo sono i mutamenti dei sistemi con i quali condividiamo, nella zona metamorfica, questo mondo. Quella che stiamo vivendo è una crisi ecologica che porta con sé molteplici altre catastrofi, ma ogni crisi porta con sé oltre ai rischi anche importanti opportunità. Ogni sistema complesso affronta periodicamente delle biforcazioni catastrofiche (Gandolfi, 1999, pp. 214-215) che possono portare o al degrado del sistema o ad una modificazione che ne aumenta la complessità. Come sostiene Morin (2012, p. 18), l’improbabile ma possibile è la metamorfosi, ovvero il cambiamento che mantiene l’identità trasformandola nell’alterità. “La nascita della vita può essere considerata come la metamorfosi di un’organizzazione chimico-fisica che, giunta a un punto di saturazione, ha creato una meta-organizzazione, l’auto-eco-organizzazione vivente, la quale, pur con gli stessi costituenti chimico-fisici, ha prodotto qualità nuove , come l’autoriproduzione, l’autoriparazione, l’alimentazione con energia esterna, la capacità cognitiva. […] è nella metamorfosi che si rigenererebbero queste capacità creative. La nozione di metamorfosi è più ricca di quella di rivoluzione. Essa conserva la radicalità innovatrice, ma la lega alla conservazione (della vita, delle culture, dell’eredità dei pensieri e di saggezza dell’umanità)”. Morin (2012, pp. 18-19)


Un radicale cambiamento delle strutture del pensiero e degli approcci progettuali è necessario per trovare una via diversa. Il design è un ingrediente della zona metamorfica che caratterizza l’Antropocene e, come sostiene Antonelli (2019, p. 19), è stato un potente strumento di questa nuova era con la specie umana saldamente al centro. Considerando l’attuale situazione, critica sotto molteplici aspetti, dovremmo davvero iniziare a pensare un design centrato non solo sull’essere umano, ma sul futuro della biosfera (idem, p. 38) o parafrasando le parole di Latour un design per la zona metamorfica che dovrà considerare in modo paritario il mondo umano e non umano. La complessità delle sfide nelle quali ci troviamo immersi, non solo come progettisti, ma più in generale come abitanti della terra, deve essere affrontata in modo da stabilire una partnership attiva tra le entità che fanno parte del mondo, che condividono la vita e di conseguenza l’agency. Con il design possiamo essere una parte attiva del processo naturale (McQuaid in Lippis et. al., 2019, p. 14) e considerando anche le continue innovazioni tecnologiche e le scoperte scientifiche che ci aiutano a decodificare, anche seppur parzialmente, la complessità del mondo, possiamo contribuire alla metamorfosi necessaria per uno sviluppo diverso. Come ricorda Morin le macchine artificiali che abbiamo creato ci hanno permesso di elaborare il concetto stesso di macchina: “Intesa come rampa di lancio e non come modello riduttivo, essa ci ha fatto scoprire l’immenso e prodigioso universo della macchina-sole, dei motori selvaggi, delle macchine viventi, e persino della megamacchina antropo-sociale che l’ha generata” (Morin, rist. 2015, p. 196). In questo contesto assumono importanza le innovazioni tecnologiche e le ricerche scientifiche che permettono di rendere il sistema complesso in cui viviamo intellegibile. Questa nuova condizione porta il design, oramai disciplina riconosciuta nel panorama scientifico (Langella, 2019), ad interagire con altre scienze ed indagare innovazioni praticabili per la vita delle persone. “Il design dell’Antropocene ha un ruolo importante nei processi di decodifica e adeguamento al cambiamento […] poiché è in grado di dare forma e significato ai mutamenti indotti dalla scienza e dalla tecnologia, per trasmetterli alla società mediante immagini, oggetti, dispositivi comunicativi, servizi, espressioni critiche e interpretazioni […] che possano consentire a più persone possibile di conoscere, metabolizzare e utilizzare i risultati dell’evoluzione tecnico-scientifica”. Langella (2019, p. 11) La collaborazione che il design instaura con altre scienze permette di superare la parcellizzazione del sapere propria del passato favorendo una visione più ampia sugli urgenti problemi globali. Anticipatoria di questa direzione progettuale è stata sicuramente la mostra Design and Elastic Mind - MoMA 2008 curata da Paola Antonelli la quale raccontava la capacità dei progettisti di cogliere i cambiamenti epocali nella tecnologia, nella scienza e nella società al fine di riversarli negli oggetti e nei sistemi con i quali quotidianamente interagiamo. Il design che collabora con le altre scienze e che si interroga sulle macro questioni sistemiche, lavora in modo sfumato tra discipline diverse e favorisce, secondo Ito (2016), il passaggio da progettista/osservatore oggettivo a progettista/osservatore che partecipa alla trasformazione del proprio ambiente. Ito citando le esperienze passate della cibernetica evidenzia che questa si è fin troppo specializzata arrivando ad un eccesso di ‘disciplinarità’. Secondo l’autore per far collaborare in modo fruttuoso design e scienza vi è la necessità di definire un contesto di ‘antidisciplinarità’. “Interdisciplinary work is when people from different disciplines work together. But antidisciplinary is something very different; it’s about working in spaces that simply do not fit into any existing academic discipline–a specific field of study with its own particular words, frameworks, and methods”. 11 (Ito, 2016, p.3)


In questo contesto Langella evidenzia come designer e scienziati si osservano con un interesse crescente individuando punti di contatto e occasioni di scambio e contaminazione al fine di cooperare e trarre vantaggi reciproci e prefigurare insieme nuovi futuri possibili (Langella, 2019, p. 14). Il design che collabora con la scienza è chiamato quindi a svolgere un ruolo strategico di esplorazione, configurazione e di prefigurazione dei nuovi mondi ibridi generati dalle ricerche scientifiche (Langella, 2019a). Emblematiche in questa direzione appaiono due esibizioni recenti - Broken Nature XXII Triennale Milano e Nature Cooper Hewitt Design Triennal New York 2019 e Kerkrade (NL) 2020 - che evidenziano non solo l’intersezione tra design e scienza ma il costante impegno di designer, ingegneri, biologi, sociologi e altre figure provenienti da discipline diverse a collaborare con l’obiettivo di prefigurare idee di mondo migliori e possibili. Le due esposizioni presentano in parte progetti simili proponendo soluzioni dove i due mondi separati dalle scienze tradizionali si intersecano e collaborano per un futuro diverso. Nella lettura di queste due esposizioni, che non sono solo simbolo del rapporto contemporaneo tra design e scienza, ma anche quello di un rinnovato rapporto tra uomo e natura, può essere letta più in generale una presa di coscienza dell’importanza delle questioni sociali e culturali che devono essere considerate dal progetto. Nelle due esposizioni coesistono e si ibridano progetti tra loro molto diversi: alta tecnologia - non solo per la produzione di oggetti ma anche per l’autoproduzione di cibo -; progettazione biologica - dove il progetto agisce come un hacker (Lucibello, 2019); recupero delle conoscenze tradizionali e pratiche ancestrali; progetti per il recupero dei rifiuti prodotti dall’uomo - in parte relativi ai concetti di riuso e riciclo propri del Design per l’economia circolare (Lotti et al., 2020) -; progettazione di nuovi materiali - naturali, biologici o sintetici -; progetti di tipo sociale; oggetti dove l’agente naturale partecipa alla progettazione del prodotto attraverso processi naturali o che coinvolgono la natura come co-worker nei processi di bio-fabbricazione (Collet, 2017 in Lucibello, 2019). L’elenco sopra riportato offre una parziale visione dei progetti presentati, ma possiamo affermare che le due esposizioni dimostrano che ciò che viene definito design per la sostenibilità, con particolare riferimento al design di prodotto e servizio (Vezzoli et al., 2014), che più volte è stato ritenuto inadeguato ad offrire quel radicale cambiamento necessario per la sostenibilità ma soprattutto inadeguato per l’attitudine abduttiva del progettista (Marseglia, 2018), sposta i suoi contenuti ad un design che ha a che fare con gli ampi temi globali e che si interroga in modo critico sul futuro della società. Gli scenari descritti aprono nuove possibilità al design, disciplina che per natura è in grado di trasferire in modo concreto i risultati delle ricerche scientifiche e più in generale di rendere l’innovazione facilmente spendibile in termini di mercato. Progetti, in parte fin troppo speculativi, ma, come evidenzia Langella, che fanno “emergere il carattere visionario del design che, attraverso strategie creative non convenzionali riesce a facilitare il dissolvimento delle barriere […]. Il design diviene uno strumento per avvicinare diversi target di persone ai progressi della scienza che possono influire sulla loro vita, mediante esperienze più che prodotti, che coinvolgono aspetti come la curiosità, il divertimento e l’emotività, non per rimanere in superficie ma piuttosto per approfondire, per imprimere concetti, conoscenze e messaggi […]” (Langella, 2019, p. 19). Un design con la scienza, per e con la natura, che non si lega soltanto a scoperte e sperimentazioni scientifiche eclatanti ma che, come nel caso di Honey Factory, arnia urbana progettata da Francesco Faccin, concepisce oggetti semplici in grado di avere una ricaduta importante sia per il mondo naturale che per la vita delle persone. Direttamente dalle parole del designer:


“Le ricadute dell’estinzione delle api non sono solo bucoliche, ma anche politico-economiche: il 75% dell’agricoltura industriale dipende ancora oggi dalle api e dall’impollinazione. Le api minacciate scappano dalle campagne e arrivano in città, dove trovano un ambiente meno ostile, una situazione assurda e significativa di questa nuova natura un po’ distopica” (intervista di Mascheroni L. in domusweb, 2017). Approccio critico e concettuale, libero da committenze tradizionali e con un’idea di futuro diversa, caratterizza, in parte, quello che possiamo definire design dell’Antropocene, portatore inoltre di nuove logiche di progettazione, produzione, consumo - e recupero -, compatibili con le urgenti questioni ambientali, sociali e culturali. Un’idea di futuro diverso, critico e libero dalle logiche di mercato, è quello che caratterizza il design dell’Antropocene. Ma come progettisti come possiamo comprendere il futuro migliore che dobbiamo progettare? Progetto e futuro Il design, disciplina che per natura lavora sull’innovazione, è spesso in grado di offrire, attraverso il progetto o dei concept, una visione su ciò che il futuro potrebbe essere. Il Design descritto precedentemente ci racconta questo. Nel caso dello speculative o critical design (Dunne e Raby, 2013) il progetto si spinge addirittura oltre proponendo scenari che hanno lo scopo di aprire la questione sul tipo di futuro che le persone vogliono e anche su quello che non vogliono. Il design speculativo fa leva sull’individuazione del problema di progetto piuttosto che sulla sua risoluzione. Apre quindi al design maggiore possibilità esplorative in quello che viene definito problem finding. Per comprendere quale sia la strada migliore per progettare il futuro è bene partire dalle prime definizioni metodologiche della disciplina. Il design è una disciplina progettuale che opera nel complesso mondo delle azioni umane (Buchanan, 2004) con l’obiettivo di trasformare una situazione esistente in una desiderabile e migliore (Simon, 1988, p. 55). La condizione di futuro è impressa nel concetto stesso di progetto. Partendo da questa definizione generica di design, che pone le basi disciplinari del fare progettuale, è giusto chiedersi quali siano oggi le responsabilità delle discipline del progetto calate nell’Antropocene che, oltre alle questioni ambientali, porta con sé profonde modificazioni delle strutture sociali, produttivo-tecnologiche, culturali e politiche. Progettare è dunque, o almeno dovrebbe essere, un processo di cambiamento che trasforma il presente in un futuro migliore. Il nodo cruciale di questo processo, come fa notare Findeli (2018, p.105), risiede nel significato di ‘futuro migliore’. Chi è che decide la migliore condizione futura da progettare? In termini di sostenibilità molti autori (Lofthouse, 2004 e 2006) (Thackara, 2005) (Vezzoli, Manzini, 2007) sono concordi sul fatto che la maggior parte dell’impatto ambientale - e non solo - del progetto si determina nelle primissime fasi di progettazione. Dai recenti studi sul design per la sostenibilità (Marseglia, 2018) abbiamo compreso anche che la strada del progetto non può essere quella dell’applicazione di metodi e strumenti di natura analitica (Life Cycle Design e Life Cycle Assessment). La loro applicazione è contraddittoria al concetto stesso di progetto che, soprattutto nelle fasi iniziali, deve dotarsi di un pensiero divergente orientato all’individuazione e alla risoluzione dei cosiddetti wicked problem (Buchanan, 1992). Se prendiamo come riferimento le più importanti teorie relative al flusso progettuale sin dalle prime definizioni metodologiche, come ad esempio il concetto di “macrostruttura” di Bonsiepe (1993), il ‘Problema-Soluzione’ di Munari (1996) o il più recente ‘Double Diamond’ del Design Council (2005), tutte queste nelle primissime fasi di progetto fanno riferimento ad un’analisi e ad una strutturazione del problema (pensiero analitico) per poi passare alla fase di azione creativa e progettuale (azione). Questo passaggio dal pensiero all’azione, come evidenziato da Panetti (2017), è spesso frutto di una no13 stra modalità di impostazione mentale che continua automaticamente a far riferimento al passato per ri-


proporre qualcosa di leggermente diverso nel futuro. Panetti, con riferimento alla Theory U proposta da Otto Scharmer del MIT di Boston, sostiene che per generare innovazione profonda è necessario smettere di fare il downloading dal passato. Secondo l’autore: “Rischiamo di passare gran parte della nostra vita in questo stato: il downloading [...] È come cercare il tesoro andando a scavare sempre nella stessa porzione di terreno” (Panetti, 2017, p. 24). La teoria proposta da Scharmer si basa essenzialmente su tre fasi che possono permetterci di generare innovazioni profonde: sensing (percepire), persencing (volontà), realizing (azione). Secondo questa teoria le innovazioni radicali e profonde si generano facendo leva su questi tre aspetti. Il primo riguarda la percezione dove è necessario ‘aprire la mente’ e attivare le capacità di pensiero laterale (De Bono, 1970) al fine di definire e vedere il problema da diversi punti di vista. Il secondo riguarda la volontà, ovvero la condizione interiore che definisce chi siamo attualmente e quale potrebbe essere il nostro futuro; questa è la componente più importante di questa teoria che include in un processo di innovazione gli aspetti profondi dell’essere umano come il pensiero, l’intenzione ed il sentimento. Il terzo passo è l’azione ovvero la concretizzazione dell’idea. Findeli (2018) fa notare, sovrapponendo la Theory U con il Double Diamond, che la differenza principale è che il modello proposto dal Design Council, che è anche quello più utilizzato a livello mondiale dalle scuole di design nella didattica, sembra comprendere soltanto le componenti cognitive mentre la Theory U “discloses a certain human depth by differentiating three anthropological/ experiential dimensions corresponding to the three main faculties of the human psyche, respectively thinking (the cognitive), feeling (the af- fective), willing (the conative)” (Findeli, 2018, p.109). Questo è esattamente ciò che costituisce la principale differenza tra i due modelli. Non ci sono dubbi che, seppur in modo sfumato, l’attuale metodo formativo in design faccia riferimento al modello di produzione industriale, ma possiamo dire che tale modello è in trasformazione e i suoi attori non fanno più parte di un’organizzazione sociale tradizionale. Il vecchio modello determinato dal rapporto profitto-consumo e offerta-domanda, dove un tempo si collocava il design, non appare più come univoco e di conseguenza, come evidenzia Di Lucchio (2018, p. 6), anche i progettisti si trovano ad affrontare i problemi complessi della contemporaneità con strumenti concettuali e metodologie sempre meno adeguate considerando anche il contesto di transdisciplinarietà e antidisciplinarità introdotto al paragrafo precedente. L’autrice in questa turbolenta trasformazione individua soprattutto due punti fondamentali che il design dovrà tenere come riferimento. Il primo riguarda il ruolo del progettista che non è più l’unico autore del progetto ma, come visto anche al paragrafo precedente, una figura che lavora in gruppi progettuali ampi composti da diverse figure disciplinari a favore delle ‘persone’ e non più dei ‘consumatori’. Il secondo aspetto riguarda il passaggio dal problem solving al problem finding. In questo contesto quindi il pragmatismo del passato lascia spazio a pensieri progettuali di tipo idealistico e abduttivo relativi ai possibili scenari futuri. “A predictive scenario is based on what could happen. Its methodologies involve gathering data and organizing it into patterns that make reflection on future possibilities more plausible. Creators of predictive scenario recognize that the events or activities they study are too complex to control by fiat. In contrast, prescriptive scenarios embody strongly articulated visions of what should happen. Data plays a subordinate role in the argument for a specific course of action. Predictive scenarios tend to be pragmatic, while prescriptive ones are idealistic” (Margolin in Di Lucchio et.al., 2018 p. 7). Panetti (2017, p. 160), con riferimento alla Theory U sopra accennata, sostiene che qualsiasi processo di cambiamento deve far fronte a tre domande: ‘cosa siamo’, ‘cosa potremmo essere’, ‘cosa dovremmo essere’.


Troppo spesso, con riferimento ai modelli del passato, sono stati affrontati i problemi progettuali saltando direttamente dal ‘cosa siamo’ al ‘cosa dovremmo essere’ proprio per far fronte alla contingenza ed alle necessità del vecchio modello di produzione e consumo. Secondo Margolin, progettare (nel presente) richiede una visione di ciò che il futuro potrebbe e dovrebbe essere. Di Lucchio (2018, p. 7) evidenzia che il termine ‘potrebbe’ mette in gioco il condizionale e il ‘dovrebbe’ il prescrittivo. “Margolin afferma quindi che il design, progettando il futuro, non deve lavorare solo sulla contingenza delle scelte umane, ma deve guidarle, dare loro una possibilità. Il design contemporaneo quindi, più che altro, lavora con un’idea di possibilità, ne fa uno strumento del mestiere” (Di Lucchio et. al., 2018, p. 7). Secondo queste considerazioni l’idea di possibilità futura per un progetto risiede appunto nelle prime fasi del flusso progettuale dove, come sostiene Sanders, spesso si definisce anche quello che non deve essere progettato (Sanders E.B.N, 2008, p.7). In questo senso prende valore il concetto di ‘volontà’ proposto dalla Theory U dove quello che è necessario fare è una trasformazione del nostro pensiero, del nostro ‘io’, del nostro essere progettisti e allo stesso tempo parte di un mondo complesso che necessita di essere osservato da molteplici punti di vista. Secondo la Theory U dopo una profonda fase di osservazione dobbiamo soffermarci e riflettere su di noi, sul nostro ruolo nel mondo, al fine di far emergere, nel modo più autentico, il futuro. Nelle tesi presentate in questo testo, sembrano emergere scenari futuri che si svincolano dal vecchio rapporto profitto-consumo e offerta-domanda. Lo studente, nella fase della tesi, privo da condizionamenti di mercato e aziendali, riesce a cogliere e valorizzare i deboli segnali che la società esprime ed esplicitarli in progetto. “Ma questi segnali non sono mai evidenti, potenti e ben definiti: si tratta di comportamenti, attitudini, prodotti e servizi dell’oggi che annunciano il futuro in forma “debole” (Di Lucchio et al., p. 7)”. Secondo l’autrice il concetto di ‘debole’ non ha un significato riduttivo: “ma evoca la nozione di prime avvisaglie di fenomeni che potrebbero diventare importanti in futuro. E dunque al design spetta il compito di lavorare proprio con questi ‘segnali deboli’ che vanno riconosciuti, focalizzati ed espansi”(idem). Le ricerche di tesi presentate in questo testo indagano sui segnali deboli espressi dalla società contemporanea e si collocano in quello che nel paragrafo precedente abbiamo definito design dell’Antropocene. Zero waste Un tema sicuramente debole e diffuso è quello dello Zero Waste in cucina, presentato nella tesi di Alessio Tanzini e Valentina Zamorano. Pensiamo a quanto spreco di cibo e a quanta energia consumiamo per nutrirci. La tesi presentata mira a far ristabilire alle persone un rapporto più corretto con il cibo evitando gli sprechi alimentari. Il progetto propone una collezione di prodotti, a cavallo tra bassa e alta tecnologia, recuperando in parte conoscenze tradizionali legate alla conservazione dei cibi. Material Design Il progetto Endèmica proposto da Francesco Cantini riguarda il rapporto uomo-natura con una ricerca che indaga le potenzialità delle biomasse e delle resine naturali estratte dalle specie endemiche delle coste mediterranee muovendo dall’assunto che la sostenibilità è in prima istanza un fatto locale. La tesi presenta una sperimentazione sui materiali (material tinkering) e un’applicazione pratica su alcuni prodotti d’arredo.

15


Closing the loop Nella tesi presentata da Elisa Matteucci il tema è invece quello del recupero e riuso delle lane rustiche partendo dal concetto che lo ‘scarto’ può essere una risorsa avere potenzialità di progetto. L’output della ricerca è un abaco-campionario di soluzioni tessili applicabili nel settore arredo e complemento. Rethinking materials La ricerca di tesi presentata da Roberto Rubrigi e Daniele Funosi indaga invece le potenzialità dei materiali di scarto dell’industria tessile in ottica di economia circolare con l’obiettivo di elaborare nuovi sistemi produttivi necessari per la creazione di filiere maggiormente sostenibili rispetto a quelle attuali. La ricerca presenta una serie di campioni di materiali molto sperimentali in termini di linguaggio visivo realizzati con bio resine e scarti tessili. Cybor Botany Nella ricerca presentata da Marika Costa il design prende in prestito le ricerche svolte da numerosi studiosi (biologi, botanici) relative alle modalità di comunicazione del mondo vegetale. L’oggetto proposto utilizza le recenti tecnologie definite ‘abilitanti’ - nello specifico sensori, schede di controllo, attuatori -, mettendo in relazione il mondo delle piante con gli esseri umani al fine di promuovere la comprensione e la comunicazione interspecie. Storytelling La ricerca di Letizia Capaccio indaga le opportunità che possono nascere progettando con un pensiero di tipo sistemico in ottica di economia circolare. La tesi propone un nuovo materiale composto da scarti in marmo e cemento che valorizza l’attuale gestione dei rifiuti lapidei mutando una “risorsa negativa” in materia prima seconda e utilizzando lo storytelling, la realtà aumentata e la blockchain come metodo di comunicazione per la sostenibilità. Rituals and relations La ricerca presentata da Alessia Pinna indaga il territorio sardo da un punto di vista storico, sociale e culturale con l’obiettivo di individuare nuove gestualità al fine di mettere in relazione le persone. Foghile si confronta quindi con la società contemporanea e attiva una riflessione sui modi di vivere e di relazionarci con gli altri fortemente influenzati da una cultura globalizzata e individualistica. La collezioni di oggetti proposta fa riferimento alla tavola considerato il luogo dove si può esprimere una maggiore relazione con l’altro. Le scelte formali enfatizzano il tema della gestualità e delle relazioni oltre all’incontro dell’estetica nuragica con la contemporaneità. Waste value La ricerca di tesi presentata da Giulia Pistoresi indaga le possibili applicazioni di cascami provenienti dalla lavorazione della pelle conciata al vegetale come critica al forte impatto ambientale dell’industria conciaria. Quinto Quarto, nome della collezione di accessori presentata, fa riferimento alla tradizione culinaria Toscana che da sempre si è dimostrata capace di valorizzare ogni materia a disposizione, a partire dalle più povere. I prodotti scaturiti non vogliono essere soltanto una denuncia allo spreco degli scarti ma soprattutto uno stimolo a riflettere sui nostri comportamenti.


In queste tesi si colgono alcuni aspetti del prossimo futuro che possono essere così riassunti e ulteriormente sviluppati: prodotti ibridi tra alta e bassa tecnologia, recupero di conoscenze tradizionali, miglioramento del rapporto con le nostre azioni quotidiane (stili di vita), ristabilire il rapporto con la natura, pensare la produzione in modo circolare, senza rifiuti e valorizzando lo scarto. Nelle tesi presentate in questo testo sembrano emergere intenzioni e sentimenti verso un futuro molto diverso rispetto alla condizione attuale e i progetti, seppur in forma debole, annunciano un ‘design prossimo’ caratterizzato da un approccio problem finding. Design, nelle sue mille accezioni, come fa notare Flusser (2003, p. 1), significa anche ‘intenzione’, che, nel caso degli scenari futuri, deve comprendere gli aspetti profondi dell’essere umano, il pensiero ed il sentimento per un futuro ed un design prossimo migliore, per e insieme alla natura. Un design che mantiene inalterata la sua identità attraverso la capacità di far vedere e immaginare mondi diversi ma che allo stesso tempo mostra l’alterità del presente. Il design dell’Antropocene deve essere quindi in grado di far vedere come potrebbe e come dovrebbe essere il mondo.

Note di chiusura L’autore francese definisce zona metamorfica il luogo in cui le entità del mondo, una tempo distinte come soggetto|oggetto, si incontrano e condividono la propria agency (cfr. nota successiva). Nell’Antropocene tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole che non può essere inquadrato nella divisione soggettività|oggettività.

1

Il termine è consolidato in ambito sociologico ed in generale nelle scienze e significa “potenza di agire”. Essere un soggetto non significa secondo l’autore agire in modo autonomo in rapporto ad un contesto oggettivo, ma piuttosto condividere l’agency con altri soggetti che hanno perso la loro autonomia perché influenzati dalle agency degli altri soggetti.

2

Gaia è una teoria proposta da Jim Lovelock e Lynn Margulis, molto criticata da alcuni scienziati, che viene però presa in seria considerazione dalla scienza della complessità. Gaia è il primo tentativo basato su simulazioni e dati sperimentali, di considerare la Terra un sistema globale vivente, capace di mantenere un’omeostasi a livello planetario (Gandolfi, 1999 p. 200). Latour (2020), prende in difesa l’ipotesi di Gaia rimuovendo la tendenza (degli scienziati e dei critici) a personalizzare Gaia in una totalità autosufficiente in grado di autoregolarsi. Secondo l’autore francese Gaia è un’interazione tra enti i cui effetti si muovono come per onde di azione (ivi, p.152), Gaia non è un organismo e non le si può applicare un modello tecnico o religioso. “Ella ha forse un ordine, ma non una gerarchia; non è ordinata per livelli, ma non è neppure disordinata” (ivi, p.159). 3

Il plastiglomerato secondo le parole dei ricercatori che l’hanno individuata è una nuova ‘pietra’ formata dalla mescolanza di plastica fusa, sedimenti di spiaggia, frammenti di lava basaltica e detriti organici rinvenuta sulla spiaggia di Kamilo Beach, un’isola delle Hawaii. Secondo i ricercatori questo rinvenimento può essere un importante marcatore dell’Antropocene.

4

Per approfondimenti: https://www. shaharlivnedesign.com/metamorphism 5

17


Bibliografia Antonelli P., Tannir A., 2019, Broken Nature, Mondadori Electa, Milano Bondì R., La Vergata A. 2014, Natura, Il Mulino, Bologna Bonsiepe G., 1993, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli Editore, Milano, prima edizione fuori collana - prima edizione in sc/10 anno 1975 Buchanan R., 2004, Design as inquiry: The Common, Future and Current Ground of Design, in Futureground, atti del convegno, Melburne 17-21 novembre 2004 Buchanan R., 1992, Wicked Problems in Design Thinking, MIT Press Journal, Design Issue, Vol. 8, n. 2, (pp. 5-21) Corcoran P. L., Moore C. J., Jazvac K., 2014, An anthropogenic marker horizon in the future rock record, GSA Today, v. 24, no. 6, doi: 10.1130/GSAT-G198A.1 Crutzen, P.J., Stoermer, E.F., 2000, The Anthropocene. IGBP Newsletter, n. 41: pp. 17-18. De Bono E. , rist. 2016, Creatività e Pensiero Laterale, Rizzoli Libri/BUR Rizzoli (2016), Venezia, traduzione di Francesco Brunelli – titolo originale: Lateral Thinking. A Textbook of Creativity (1970), Mica Management Resources (UK) inc Design Council, 2005, A study of the design process, documento consultabile al link: http://www. designcouncil.org.uk/ sites/default/ files/asset/ document/ ElevenLessons_ Design_Council%20(2). pdf. Di Lucchio L., Giambattista A., 2018, Design & Challenges. Riflessioni sulle sfide contemporanee del Design, LISt Lab, Barcelona Dunne A., Raby F.,2013, Speculative Everything. Design, Fiction, and Social Dreaming, MIT Press Ltd

Faccin F. (Intervista a cura di Mascheroni L.), 2017, Francesco Faccin: le sfide del design in una società distopica in domusweb. Artcicolo consultabile al link: https://www.domusweb.it/it/design/2017/12/13/francesco-faccin-le-sfide-del-design-in-una-societ-distopica. html Findeli A., 2018, The Metamorphosis of the Designer: A Prerequisite to Social Transformation by Design, DOI: 10.14361/9783839443323-011, in: Un / Certain Futures – Rollen des Designs in gesellschaftlichen Transformations prozessen, (pp.103-114) Flusser V., 2003, Filosofia del Design, Mondadori, Milano - prima edizione 2001 by Edith Flusser, New York. Gandolfi A., rist. 2008, I Ed. 1999, Formicai, Imperi, Cervelli. Introduzione alla scienza della complessità, Bollati Boringhieri editore, Torino Ito J., 2016, Design and Science. Journal of Design and Science. Consultabile al link: https://doi.org/10.21428/f4c68887 Langella C., 2019, Design e Scienza, LISt Lab Langella C., 2019a, Mutualismi tra Design e Scienza, In diid, disegno industriale|industrial design, Design e Scienza n. 69/2019 Latour B., 2020, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, trad. Donatella Caristina, Meltemi, Milano. Titolo originale: Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, Édition La Découverte, Paris, 2015 Lippis A., McQuaid M., Condell C., Bertrand G., 2019, Nature: Collaborations in Design. Cooper Hewitt Design Triennial e Cube Design Museum, ARTBOOK, New York Lucibello S., 2019, Design, Natura e Artificio: verso un nuovo modello autopoietico? In diid, disegno industriale|industrial design, Design e Scienza n. 69/2019

Lofthouse V., 2004, Investigation into the role of core industrial designers in ecodesign projects, Loughborough University, «Elsevier Design Studies» n.25 (pp. 215–227) Lofthouse V., 2006, Ecodesign tools for designers - defining the requirements, Loughborough University, «Journal of Cleaner Production», 14(15-16) (pp. 13861395) Lotti G., Trivellin E., Giorgi D., Marseglia M., 2020, Circular Craft. New perspectives of making, DIDA press, Firenze Margolin V., 2007, Design, the Future and the Human Spirit, Design Issues, 23(3), (pp. 4-15) Marseglia M., 2018, Progetto | Sostenibilità | Complessità, DIDA press, Firenze Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J. 2004, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio, Oscar Mondadori, Milano, titolo originale: The Limits to Growth. The 30-Year Update, 2004 Munari B., 1996, Da cosa nasce cosa, dodicesima edizione (2008) Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Morin E., rist. 2015, Il Metodo 1. La Natura della Natura, Raffaello Cortina editore, Milano, trad. Bocchi G. e Serra A., titolo originale: Le Méthode. 1.La Nature de la Nature, Édition du Seuil, 1977 Morin E., 2012, La via, Raffaello Cortina editore, Milano. trad. Susanna Lazzari, Titolo originale: La Voie, Librairie Arthème Fayard, 2011 Panetti R., 2017, Theory U, Learning Organization e Design Thinking. Strategie, strumenti e tecniche per l’innovazione profonda, Franco Angeli, Milano Sanders E. B.-N., Stappers P. J., 2008, Co-creation and the new landscapes of design, Co-design International Journal of CoCreation in Design and the Arts, 4:1 (pp.5-18)

Simon H. A., 1988, Le scienze dell’artificiale, il Mulino, Bologna, titolo originale: The Sciences of the Artificial, Cambridge, MIT Press, 1968) Thackara J., 2005, In the bubble. Designing in a complex world, Cambridge (Mass.), London trad. italiana In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Torino 2008 Thumberg G., Thunberg S., Ernman B., Ernman M., 2019, La nostra casa è in fiamme. La nostra battaglia contro il cambiamento climatico, trad. Stringhetti A., Albanese T., Mondadori, Milano Vezzoli C., Manzini E., 2007, Design per la Sostenibilità Ambientale, Zanichelli, Bologna Vezzoli C., Kohtala C., Srinivasan A. (2014), Product-Service System Design for Sustainability - LENS Learning Network on Sustainability, Greenleaf Publishing


Zero Waste 19


Bisogna, di fronte al tempo veloce del capitalismo, pensare in maniera più umana. Recuperare un tempo lento che crea qualità e non quantità. Andrea Segrè


Alma Eterea Alessio Tanzini Valentina Zamorano Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti Correlatore Sylvia Labèque Settembre 2018

Antropocene: fase nella scala geologica in cui l’uomo ha portato il pianeta Terra oltre i suoi limiti naturali. La pressione antropica generata da noi esseri umani sulla maggior parte degli ecosistemi ambientali, ha condotto al veloce esaurimento delle risorse primarie, alterando il delicato equilibrio dei cicli naturali creatosi nel corso di millenni. L’uomo è un soggetto consumatore, fortemente incline all’assoluto bisogno dell’immediato, del tutto e subito, sempre più circondato da prodotti che lo soddisfano in parte o che allietano per periodi sempre più ridotti: ‘prendi, produci, consuma e butta’. Appare chiaro come sia fondamentale semplificare il modo di vivere, ridurre il quantitativo di cose di cui ci circondiamo, con cui interagiamo o ‘cosa mangiamo’ a fronte di una sostanziale diminuzione del quantitativo di rifiuti che produciamo. In questo contesto ed alla base del nostro progetto, il ‘mangiare sostenibile’ appare come uno dei concetti

base del cambiamento: il nostro rapporto con il cibo dovrebbe essere prima di tutto un insieme di regole di buon senso, si tratta soprattutto di ottimizzare i nostri consumi, eliminando gli sprechi e il superfluo. Il progetto, appunto, si muove nella direzione del Rifiuto Zero ed ha lo scopo di aiutare le persone ad intraprendere uno stile di vita più consapevole, cercando di facilitare il passaggio verso pratiche più responsabili in cucina. L’idea è stata di riportare dal passato azioni e materiali strategici per progettare una linea di oggetti che permettessero di ridurre la quantità di rifiuti generati, concedendo all’utente gli strumenti necessari per condurre uno stile di vita Zero Waste. Alma Eterea è una collezione di quattro oggetti realizzati in terracotta, legno, ferro e midollino, legati alle quattro principali azioni dello Zero Waste (comprare sfuso, conservare frutta e verdura correttamente, ricrescere e compostare) e progettati ruotando intorno a tre concetti chiave: ‘Tornare alle origini’,

‘Assenza di tecnologia’, ‘Pensare al fine vita’. Tornare alle origini vuol dire guardare al passato, a come i nostri nonni o prima ancora i nostri avi costruivano le cose, riscoprire le tradizioni, sostenere la conoscenza, il saper fare, la manualità e l’artigianato. Assenza di tecnologia: in un mondo dove la dimensione tra reale e digitale si sovrappongono, la tecnologia presente in Alma Eterea è la solita utilizzata un tempo, quella dettata dalla conoscenza del materiale, dall’esperienza. Pensare al fine vita: per un pratico e veloce smontaggio delle componenti per eventuali riparazioni o sostituzioni cercando di rispecchiare quelli che sono i canoni dell’economia circolare. Puken, Rimu, Pewu e Walung sono i nomi dei quattro oggetti in lingua Mapuche, popolazione millenaria originaria del sud del Cile e dell’Argentina. La parola ‘Mapuche’ deriva dalla combinazione di ‘Terra’ e ‘Po21 polo’. Ogni prodotto è



in questa pagina e nella precedente WALUNG: Contenitore per alimenti sfusi, dotato di un corpo in vetro e un doppio disco dispensatore in legno e terracotta posto alla base, utile alla fuoriuscita degli alimenti posti più in basso (i più vecchi). Un sacchetto in juta per fare la spesa a rifiuto zero, completa l’oggetto

stato accuratamente abbinato sia alle quattro azioni Zero Waste che ad una stagione, in lingua mapudungun, andando ad indagare le tipologie di rapporto che il popolo Mapuche ha con la ciclicità del tempo, tentando così di raccontare (con molto rispetto) la coerenza dei prodotti attraverso il trinomio: azione, funzione e stagione che meglio lo rappresentava. Walung- Estate (tempo di abbondanza), Puken-Inverno (tempo per conservare), Rimu-Autunno (tempo di riposo), Pewu-Primavera (tempo di germogli). Walung, il primo prodotto della linea Alma Eterea, permette all’utente di fare la spesa a rifiuto zero attraverso la bag in juta diminuendo la quantità

di packaging a monte delle enormi quantità di buste che portiamo a casa al momento in cui facciamo la spesa. Il sacchetto, attraverso le ridotte dimensioni, dichiara quanto sia importante comperare non più del necessario. Walung possiede un disco dispensatore posto alla base utile alla fuoriuscita degli alimenti, così che si ha la certezza di mangiare quelli posti più in basso (più vecchi). Puken, il secondo prodotto della linea, propone il concetto della conservazione a freddo senza bisogno di elettricità, riducendo il consumo elettrico. Progettato con un doppio contenitore in terracotta, viene posta acqua e sabbia tra lo spazio che si interpone tra i due vasi e grazie

alla dissipazione / evaporazione dell’acqua verso l’esterno, si ottiene un abbassamento della temperatura interna consentendo la conservazione in fresco di alcuni alimenti (frutta e verdura). Rimu, terzo prodotto della collezione, ci aiuta ha riutilizzare i residui alimentari compostandoli. Dotato di un doppio cestino forato in alluminio, è possibile gettare all’interno di esso scarti organici, lombrichi o vermi da giardino (appositamente comprati in allevamento) e terriccio (anch’esso apposito e contenente la giusta misura di ph utile alla vita dei lombrichi). I lombrichi, cata23 lizzatori del processo di



nella pagina precedente PUKEN: Contenitore frigorifero per la conservazione al fresco di alimenti (frutta e verdura) che non utilizza corrente elettrica grazie al doppio contenitore in terracotta e un cappotto termico formato da acqua e sabbia, posizionato nell’intercapedine tra i due vasi in cotto

in questa pagina PEWU: Elemento in terracotta utile alla ricrescita di verdure, con due sezioni distinte per la ricrescita in acqua e in terra, separate da una “lastra” in cotto che permette il passaggio dell’acqua al terreno in modo da tenerlo umido a sufficienza senza dover annaffiare quest’ultimo


in questa pagina RIMU: Contenitore compostiera utile per il compostaggio casalingo. Dotato di due cestini in alluminio forati, permettono il passaggio dei lombrichi da giardino (catalizzatori del compostaggio) che mangiando i residui organici miscelati con il terriccio trasformano il contenuto in humus. Il residuo liquido (fertilizzante) viene immagazzinato dal corpo in terracotta

nella pagina successiva La collezione viene implementata da un’app che fornisce consigli utili sul funzionamento degli oggetti, montaggio / smontaggio, corretto utilizzo, regrow. Infine tiene il conteggio dei giorni per il ricambio dell’acqua, della sabbia o del tempo di compostaggio

compostaggio, trasformano gli scarti organici in humus, ottimo fertilizzante per le piante dei nostri appartamenti. Il residuo liquido che si ottiene dal processo di compostaggio, anch’esso fertilizzante naturale, cola attraverso i fori e viene immagazzinato all’interno del corpo (semisferico) in terracotta. Pewu è il quarto oggetto della collezione e consente la ricrescita di alcuni scarti alimentari (verdura) in modo da poterli mangiare nuovamente. L’oggetto è dotato di due sezioni: una prima

per lo sviluppo in acqua (idroponica) ed una seconda in terra, separate da una lastra in terracotta che permette il passaggio capillare dell’acqua consentendo al terreno presente nella seconda sezione di rimanere sempre umido.


Bibliografia Bompan E. 2016, Che cos’è l’economia circolare, Edizioni Ambiente, Milano. Connet P., Ercolini R. 2012, Rifiuti Zero, una rivoluzione in corso, Dissensi, Viareggio. Iraldo F., Melis M. 2012, Green Marketing. Come evitare il green washing comunicando al mercato il valore della sostenibilità, Il Sole 24 Ore Edizioni, Milano. Johnson B. 2017, Zero rifiuti in casa. 100 astuzie per alleggerirsi la vita e risparmiare, Logart Press, Roma.

Martin P., Viola A. 2017, Trash. Tutto quello che dovreste sapere sui rifiuti, Codice, Torino. Mancuso S. 2017, Plant revolution, le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti Editore, Firenze. Nesi F., Rettore V. (a cura di) 2008, Cibo, cultura e identità, Carocci, Roma. Segrè A. 2013, Vivere a spreco zero. Una rivoluzione alla portata di tutti, Marsilio, Venezia.

Tosi, F., Lotti, G., Follesa, S., Rinaldi, A. 2015, “Introduzione”, in Tosi F., Lotti G., Follesa S., Rinaldi A. Artigianato Design Innovazione, Didapress, Firenze. Vezzoli C., Mazzini E. 2007, Design per la sostenibilità ambientale, Zanichelli, Firenze. Zurlo F. 2012, Le strategie del design. Disegnare il valore oltre il prodotto, Libraccio Editore, Milano.

27



Material Design

29


Gli approcci del design non sono finalizzati solo a correggere il corso distruttivo dell’umanità, ma anche a ricostruire il nostro scambio con il contesto naturale in cui siamo nati. Paola Antonelli


Endèmica Francesco Cantini Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti Correlatore Marco Marseglia Settembre 2018

Endèmica: agg. femm. [dal fr. endémique, der. di endémie: v. endemia] (pl. m. -ci). – 1. Proprio di un determinato territorio, In senso fig.: In zoologia e botanica, di specie, generi, razze, ecc., che si trovano esclusivamente in un determinato territorio (Treccani). Endèmica è una tesi sul Mare Mediterraneo che lo analizza sia come luogo di culture che come bioma, ovvero come habitat composto da specie vegetali che si trovano solo ed esclusivamente lungo le rive di questo mare. Alcune di queste specie rappresentano una risorsa materiale sottovalutata e uno degli obiettivi della tesi è proprio quello di creare un nuovo linguaggio, una nuova estetica dei materiali naturali. Il progetto nasce dunque dal bisogno di strutturare una collezione di prodotti che dimostrino la possibilità di costituire una filiera sostenibile a partire dalle risorse autoctone del bioma mediterraneo, una ri-localizzazione materiale. In particolare sono state

analizzate, lungo una approfondita ricerca, le potenzialità delle biomasse e delle resine naturali estratte dalle specie endemiche delle coste mediterranee. Il progetto vuole apportare un’innovazione di processo consapevole del fatto che la sostenibilità è una questione locale e che un prodotto/processo potrà essere definito sostenibile solo quando sarà connesso ai flussi locali di materiali e di energia, ai consumi, alle necessità e ai gusti locali, in rispetto delle specificità naturali e culturali. Il processo opera in ottica di design circolare, una progettazione quindi, che cerca di inserirsi nei flussi naturali dell’energia e delle risorse sfruttando gli output del sistema naturale come input del sistema industriale. P o s i d o n e ( o P o s e i d o n e ; g r. Ποσειδῶν), divinità degli antichi Greci, identificata dai Romani con Nettuno. Secondo un antico mito, nella divisione del mondo tra i figli di Crono, a Poseidone spettò il mare e in genere

il regno delle acque. Divinità già conosciuta nell’età micenea, Posidone è tra le maggiori del pantheon greco. La sua figura ricorre in molte delle culture mediterranee (Treccani). Il tavolo si presenta come un oggetto eterogeneo, dal profilo libero. L’affaccio su questo tavolo infatti è sempre differente, chiunque si sieda avrà una visione diversa del piano e di conseguenza dell’altro. Questa condizione non è che la metafora del Mediterraneo, mare delle molte culture e dei molti popoli. Posidone, sineddoche materiale del Mediterraneo, rifiuta l’esistenza di principi unici e immutabili di bellezza proponendo l’estetica della diversità. La figura di Teti (gr. Τηϑύς, lat. Tethys) nella mitologia greca era considerata una delle Nereidi ovvero una dea del mare. Talvolta si vede nel suo nome una trasformazione dell’accadico tiamtu o tâmtu, ‘il mare’, che è riconoscibile in Tiāmat, la dea babilonese delle acque salate. Il suo

31


sopra Due campioni di materiale composito ottenuto dalla foglia e dal rizoma della posidonia

nella pagina successiva un dettaglio del tavolo Posidone

epiteto Halosydne (‘allevata dal/nel mare’) è condiviso da Anfitrite. Teti è uno sgabello con un sedile in materiale composito di bioresina e fibra di posidonia. La forma modesta esalta le asperità del materiale e imita le egagropili, ovvero le piccole sfere fibrose di posidonia da cui deriva il materiale di cui è composta. Queste egagropili, che si accumulano sui litorali mediterranei, sono il frutto dello sfilacciamento dei residui fogliari fibrosi che circondano il rizoma della pianta e della loro aggregazione ad opera della risacca marina. Questo fenomeno naturale, che caratterizza il materiale, stabilisce una similitudine con il mito di Teti.

Le Driadi, [dal lat. Dryas -ădis (plur. Dryădes), gr. Δρυάς -άδος, der. di δρῦς «quercia»] nella mitologia greca, erano considerate le ninfe delle piante, sotto cui vivevano. Nel caso specifico delle Driadi era naturale che la stessa vita organica degli alberi e la mobilità dei loro rami suggerisse l’idea di una creatura vivente che li animasse (Treccani). Driade è una lampada le cui forme riprendono il mito delle driadi. Il corpo lampada è realizzato in terracotta con finitura a cera naturale, sulla parte inferiore è stato applicato del fogliame di posidonia che dopo la cottura lascia la sua traccia come un motivo decorativo. La calotta superiore è realizzata in resina

naturale Sandracca, una resina che viene estratta da una specie naturale arborea mediterranea. In questo caso è evidenziato il parallelismo tra il fenomeno naturale della resinazione dell’albero e la figura mitologica delle driadi, che nella narrazione classica vivevano negli alberi e ne incarnavano la forza e il rigoglio vegetativo. In tutti questi prodotti il materiale diventa protagonista, portando un’estetica nuova, un’idea diversa di bellezza che mira a stravolgere i canoni contemporanei del design arricchendoli di materiali grezzi e forme incompiute. Endèmica non è da considerarsi un progetto chiuso, un’opera sincronica in un momento storico

preciso, bensì una porta aperta che possa prefigurare scenari. Un progetto che stimoli dunque le capacità creative per trovare nel materiale nuovi significati. Le forme in cui è stato racchiuso questo progetto sono, pertanto, solo l’ultima parte di un lungo processo che può essere ripreso, reinterpretato e portato altrove.


33


Il tavolo Posidone con foglie di posidonia spiaggiata


Lo sgabello Teti, con alcune egagropili di posidonia mediterranea

35



sopra Fase di raccolta della Posidonia

Bibliografia

nella pagina precedente Lampada Driade con calotta in resina naturale e corpo in terracotta

Ashby M. Johnson K. 2005, Materiali e Design, Editrice Ambrosiana, Milano. Branzi A. 2007, Capire il Design, Giunti Editore, Scala Group, Firenze. Capodieci P. 2018, Neomateriali nell’Economia Circolare. Packaging, Edizioni Ambiente, Milano. Franklin K., Till C. 2018, Radical Matter: Rethinking. Materials for a Sustainable Future, Thames and Hudson, London.

Mancuso S. 2017, Plant revolution, le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti, Firenze. Marseglia M., Ciampoli D. 2018, Attorno al Mediterraneo, DIDAPress, Firenze. McDonough W., Braungart M. 2003, Dalla culla alla culla, Blu Edizioni, Torino. Solanky S. 2018, Why Materials Matter, responsible design for a better world, Prestel, Londra.

Latouche S. 2007, La Scommessa della Decrescita, Fertrinelli Milano. Lotti G. 2015, Design Interculturale. Progetti dal mare di mezzo, DIDAPress, Firenze. Manzini E. 1986, La Materia dell’Invenzione, Arcadia Edizioni, Milano. Manzini E. 1991, Neolite, Metamorfosi delle Plastiche, Domus Academy Edizioni, Milano.

37



Closing the Loop

39


Ho dietro di me millenni di silenzi, di tentativi di poesia, di pani delle feste, di fili di telaio. Maria Lai


Rhythmòs Elisa Matteucci Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti

Correlatori Tessa Moroder (Lottozero), Eleonora Trivellin (Università di Ferrara) Aprile 2019

La tesi si articola nell’ambito del progetto Circular Wool (Lottozero e R.S. Ricerca & Servizi Srl), il cui intento è indagare le effettive potenzialità delle lane rustiche, ossia quelle lane che possiedono caratteristiche fisiche che mal si adattano all’utilizzo nel campo dell’abbigliamento, poiché risultano grossolane e ruvide al tatto. Attualmente questo tipo di lana è considerata scarto per molti allevamenti europei; l’obiettivo è quindi quello di trovarne un utilizzo pratico nel campo del design del prodotto e del complemento d’arredo. Attraverso l’applicazione delle conoscenze tecniche tradizionali proprie del distretto industriale pratese, è stato possibile avviare un processo di lavorazione della materia grezza il cui risultato si concretizza in un filato lavorabile sia manualmente che a macchina. La sfida sta nell’attribuire valore al prodotto finale attraverso la conoscenza tecnica, le competenze tradizionali e l’attività di ricerca contemporanea.

Trattare un materiale come questo potrebbe rivitalizzare una parte importante del settore primario e minimizzare lo spreco delle risorse attualmente a disposizione. Sul territorio nazionale sono presenti circa 7 milioni di allevamenti, che producono ogni anno 500 tonnellate circa di lana rustica, l’equivalente di 450.000 metri di stoffa di lana o di 150.000 capi di abbigliamento finiti. Lo spreco di materiale potenzialmente utilizzabile è solo una parte del problema, l’altra parte riguarda il quantitativo di lana rustica che viene letteralmente abbandonato sul territorio, rappresentando un notevole rischio per l’ambiente. Nella maggioranza dei casi, pastori e allevatori, non avendo un mercato di vendita per questa lana, non riescono a recuperare né i costi dovuti alla tosatura, la quale è necessaria per il benessere fisico delle pecore, né quelli necessari allo smaltimento, ricorrendo a pratiche abusive come l’incenerimento e la sepoltura1.

In Italia, gli allevamenti hanno giocato sempre un ruolo molto importante, specialmente nelle zone rurali e poco sviluppate, dove il sistema di produzione è strettamente connesso alle tradizioni locali. Il sopraggiungere di allevamenti intensivi e la preferenza per un allevamento di tipo industriale ha portato i pastori a rinunciare a molti dei genotipi autoctoni. Per risollevare le sorti di alcune di queste aree rurali sarebbe utile promuovere l’allevamento di razze autoctone e incentivare il processo tradizionale di produzione della lana, trovando allo stesso tempo campi di impiego alternativi per questo materiale grezzo. La città di Prato è considerata uno dei più grandi distretti industriali in Italia, il maggiore centro tessile a livello europeo e uno dei poli più importanti a livello mondiale per le produzioni di filati e tessu41 ti di lana. L’alto grado di


sopra Lana rustica in batuffolo e fiocco nella pagina successiva Filati di medio e alto titoli ottenuti dalla lavorazione della lana rustica

specializzazione uniti alla capacità di produrre innovazione fanno di questa città una realtà unica nel suo genere. I pratesi sono noti per la loro capacità inventiva, la continua sfida nel rinnovarsi e nel credere nella potenzialità delle risorse locali. Non è un caso, che già a partire dal secondo dopoguerra, è proprio a Prato che si inizia a parlare di riciclo. In un periodo in cui questo termine non era sicuramente di uso comune, si intuisce quanto fosse importante il riutilizzo degli scarti di lavorazione e

dei ritagli di confezione, ed è così che nasce il processo della lana ‘rigenerata’ o ‘meccanica’. Un processo, per il tempo, davvero rivoluzionario, che prevedeva il recupero dei cosidetti ‘stracci’ per creare nuovo tessuto. Questi prodotti sono frutto di un know-how specialistico che unisce la conoscenza tecnica dei tessuti con la chimica e l’ingegneria meccanica. Il trasferimento tecnologico dal tessile ad altri settori è facilitato dalla convivenza nello stesso territorio di aziende specializzate, dalle filature,

alle tessiture e ai lanifici, dalle aziende chimiche a quelle meccaniche (rifiniture e tintorie, laboratori di analisi, meccanotessile). Questo desiderio di continua sperimentazione ha portato alla nascita di piccoli focolai, spazi ibridi, luoghi di aggregazione in cui l’unione di competenza artigianale e attitudine contemporanea si incontrano generando qualcosa di unico nel suo genere. Lottozero, Chìna, Tribeca Factory, TAI, sono solo alcuni degli esempi di come sia possibile dare nuova

vita a spazi di archeologia industriale creando allo stesso tempo spazi collettivi stimolanti e produttivi. Possiamo definire questo come un buon punto di partenza per la rinascita di una nuova città fabbrica, dove si crea, si produce e si lavora coinvolgendo la collettività. La mixité culturale garantisce un terreno fertile per la creazione di realtà nuove, unendo il sapere locale con le tradizioni e i costumi stranieri. L’intento della tesi è così quello di dimostrare l’effettiva usabilità delle


43


sopra Libro campionario. Filati di diverso titolo non colorati nella pagina successiva Libro campionario. Filati colorati con tintura acida con attenzione alle tematiche di filiera sostenibile in fase di lavorazione (Tintoria Gruppo Colle)

lane rustiche, sfruttandone le caratteristiche intrinseche in modo da trasformarle da difetto in virtù, attraverso la lavorazione con telaio manuale. Quello che verrebbe spontaneo fare, infatti, trovandosi difronte ad un materiale così rustico e grossolano, sarebbe declassarlo a semplice elemento funzionale (riempitivo, isolante, fonoassorbente…), limitando del tutto il processo estetico e creativo e svalutando le caratteristiche della lana stessa. La finalità di questo progetto è invece quella di lavorare sulle potenzialità di questa lana sviluppando elementi dalla finalità puramente estetica.

Muovendo dagli stimoli suggeriti dalla lana, dal processo di tessitura a mano e dalle caratteristiche del territorio pratese, sono emerse nove parole chiave (Etica, Legame, Dialogo, Protezione, Tempo, Resilienza, Sviluppo, Origine, Densità) spunto progettuale per la realizzazione di nove prototipi dalle differenti caratteristiche formali e materiche. L’output prevede la realizzazione di un campionario di tessuti per tappezzeria o arredamento d’interni.


45



nella pagina precedente Prove di tessitura a mano, alternando lana rustica e altri materiali di riuso (cordini, tubolari in plastica, ritagli di lana cotta) a destra Ipotesi di Arazzo a partire da uno dei campioni realizzati

Note

Bibliografia

1 Journal of Natural Fibers: A Preliminary Characterization of Wools from Italian Native Sheep Breeds: Opportunities for New Productions and the Development of Rural Areas.

Artusi L., 2005 Le arti e i mestieri di Firenze, Newton & Compton, Roma. Barison M. (a cura di) 2009, Paul Klee. Teoria della forma e della figurazione, Mimesis, Sesto S. Giovanni (MI). Bortoletto N., Federici C., 2013, Lo sviluppo endogeno e i saperi tradizionali come risposte alla crisi, Franco Angeli, Milano. Giordano M., 2012, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia Books, Milano.

McDonough W., Braungart M., Sklar A. 2013, The Upcycle: Beyond sustainability – designing for abundance, Tantor Media Inc, Old Saybrook, Connecticut. McDonough W., Braungart M. 2010, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, North Point Pr., New York. Latouche S., 2014, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano. Lotti G., 2016, Interdisciplinary Design. Progetto tra relazioni e saperi, Didapress, Firenze.

Pontiggia E., 2018, Maria Lai. Arte e relazione, Ilisso Edizioni, Nuoro. Solanki S, 2018, Why Materials Matter: Responsible Design for a Better World, Prestel Pub, New York-London. Wortmann Weltge S. 1998, Bauhaus Textiles: Women Artists and the Weaving Workshop, Thames and Hudson, London. Zolla E. 1990, Archetipi, Marsilio, Padova.

47



Rethinking Materials

49


Devi andare a fondo per capire il perché qualcosa esiste e a cosa serve. Seetal Solanki


Entropica Roberto Rubrigi Daniele Funosi Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti Correlatore Francesco Cantini Luglio 2019

Il progetto nasce dal bisogno di sensibilizzare il settore tessile industriale verso quelle opportunità che possono offrire i materiali di scarto, non solo in virtù di un loro possibile utilizzo in altri ambiti, ma verso l’elaborazione di nuovi sistemi produttivi necessari per la creazione di filiere maggiormente sostenibili rispetto a quelle attuali. Attraverso un’approfondita ricerca, sono state analizzate, le potenzialità che questi scarti di produzione avrebbero una volta riutilizzati e i benefici scaturiti da una loro corretta gestione sia ambientale che in termini economici per le aziende. L’obbiettivo è stato quindi quello di creare un materiale partendo dall’uso di tessuti giunti a fine vita destinati alla distruzione, riportandoli alla loro forma primaria e manipolandoli il meno possibile, così da poter essere riutilizzati sotto forma di materia prima pura. Con l’obiettivo di sottrarli alla logica dell’usa e getta che oggi domina i sistemi produttivi moderni. Inizialmente abbiamo

pensato di usare le fibre di questi tessuti solo come elemento di rinforzo unito ad una bio-resina, ma attraverso numerose sperimentazioni eseguite su vari campioni abbiamo notato che la fibra, oltre alle caratteristiche legate alla tecnicità e alle prestazioni, ha anche la capacità di cambiare ogni volta in un ‘caos ordinato’. Un mutamento che possiamo definire entropico, calcolato, che dà origine a motivi e texture che simulano altri materiali come ad esempio il marmo. In questo modo si ristabilisce quella consapevolezza, ormai scontata che l’utente ha della materia con cui è a contatto tutti i giorni, facendo però intendere che la materia è sì finita, ma se si vuole anche infinita. Entropica vuole essere anche un progetto che cerca di ristabilire quel contatto sempre più sottile tra industria e natura, ricostruendo una simbiosi tra i cicli industriali e naturali in modo da generare un’alternativa ai soliti ibridi mostruosi innescando quel processo di ri-evoluzione industriale.

L’elaborazione del concept nasce dall’obiettivo di nobilitare e allungare la vita dei cascami e residui di lavorazione tessili, trasformandoli in una nuova materia prima seconda, così da sradicare la loro considerazione comune e dura a morire di rifiuto senza valore. Questa intenzione si traduce nella sperimentazione e ricerca di un nuovo materiale con i relativi ambiti di applicazione. Le tre collezioni che prendono il nome di Trame, Origini e Suggestioni, rivelano tre aspetti di Anachite: la storia, l’estetica e il fascino/emozioni trasmesse secondo forme e usi tra loro differenti, utili ad incentivare il settore industriale ad un approccio produttivo basato su sistemi economici a ciclo chiuso. Dal punto di vista formale, vi sono riferimenti all’arte di Donald Judd e alla visione del non-spreco di Paolo Ulian. Del primo è stato adottato lo stile minimale e puro da qualsiasi commento

51


sopra Campioni di bioresina e scarti post-consumo nella pagina successiva Lo sgabello della collezione Trame. Il particolare disegno ottimizza l’uso della superficie, evitando sfridi di lavorazione

soggettivo, mirato a sottolineare l’imponenza estetica e cromatica della materia ; mentre del secondo è stato adottato il metodo progettuale osservabile nel vaso Vago di Ulian. Origini vuole raccontare la genesi di Anachite, illustrando le mutazioni che la fibra subisce durante il suo ciclo di vita, da materia prima (utilizzata per il confezionamento di capi di alta moda), a scarto tessile, con l’obiettivo di dare a questa materia nuova identità, fedele al suo settore di nascita (moda). In questo caso, i

ritagli e i cascami tessili ricavati dalla produzione di abiti si prestano ad un nuovo uso, quali bottoni e fibbie, risultando così parte dell’abbigliamento appena realizzato. Trame, vuole sottolineare l’appeal estetico del nuovo materiale Anachite, ponendo l’attenzione sulle texture superficiali date dalla disposizione delle fibre tra loro sovrapposte. La collezione si compone da uno sgabello e una linea di tavolini di differenti altezze, in cui i singoli elementi sono sagomati tramite taglio water

jet da un’unica lastra, così da ridurre al minimo lo spreco di materiale. Ognuno di questi possiede una struttura autoportante costituita da piani uniti attraverso l’uso di incastri, evitando in questo modo la presenza di elementi di giunzione come le viti. In conclusione, l’incontro dei pannelli verticali e orizzontali ricorda metaforicamente l’intreccio del tessuto. Infine, Suggestioni vuole mostrare i diversi cromatismi prodotti dal contratto tra la sorgente luminosa e la superficie del materiale sottoposta

a rifrazione. La lampada è il frutto di una sperimentazione con la luce. Dopo una serie di tentativi, abbiamo notato come l’area illuminata, rispetto a quella in ombra possegga delle nuances di colori più vive e accese, valorizzando la natura cromatica dei singoli filati scelti. Da qui la volontà di progettare un oggetto ‘metamerico’ contraddistinto da piani tra loro sovrapposti tali da creare punti di luce e altri d’ombra. In conclusione, Entropica e in particolare Anachite vogliono essere allo


53


a sinistra Un dettaglio del tavolo Trame in bioresina e scarti di lana pre-consumo


sopra Lampada della collezione Suggestioni in bioresina e lana pre-consumo

stesso tempo una riflessione, provocazione e rivoluzione. Il progetto non focalizza l’attenzione sull’elaborazione di prodotti fini a sé stessi e privi di ‘anima’, ma intende trasmettere un messaggio ben preciso: rivalutare quei materiali da noi considerati rifiuti, dimostrandone il loro potenziale inespresso. Da qui la nascita di Anachite e delle sue applicazioni, volte a promuovere

un’azione di sensibilizzazione nei confronti di una gestione aziendale/ economica lineare in cui predomina il modello produci-consuma-getta. Il nuovo materiale, composto da scarti post/pre-consumo derivanti dai processi di lavorazione tessile e resti di capi demodé, vuole condurre le aziende ad attuare una strategia organizzativa più coscienziosa, in cui non esistono ‘rifiuti’, ma solo risorse.

Qui la rivoluzione avviene a monte: bisogna programmare il ciclo di vita del prodotto dalla sua ‘nascita’ alla sua ‘rinascita’. In conclusione, alla luce di quanto emerso, Entropica non vuole mostrarsi solo come progetto esecutivo, ma come potente mezzo di comunicazione.

55



sopra Accessori moda in bioresina e scarti tessili nella pagina precedente Dettaglio della lampada illuminata

Bibliografia AA.VV. 2019, Sustainable thinking. Museo Salvatore Ferragamo, Catalogo della mostra, Mondadori Electa, Milano.

Frisa M. L., Ricchetti M. 2011, Il bello e il buono, le ragioni della moda sostenibile, Marsilio, Venezia.

Ashby M., Johnson K. 2005, Materiali e Design, Editrice Ambrosiana, Milano.

Iacchetti G. 2009, Oggetti disobbiedenti, Mondadori Electa, Milano.

Barat B., Karana E. 2015, “Material Driven Design (MMD): a Method to Design for Material Experience”, «International Journal of Design», Vol 9, No 2.

Judd D., Petzinger R. 1993, Raume Spaces, Cantz, Stuttgart.

Corradini S., Tartaglione C. 2013, Il “fine” vita dei prodotti moda, Fondimpresa, Roma. Franklin K., Till C. 2018, Radical Matter: Rethinking Materials for a Sustainable Future, Thames & Hudson, London.

Karana E., Pedgley O., Rognoli V.(a cura di) 2013, Materials Experience: Fundamentals of Materials and Design, Butterworth-Heinemann, Oxford.

Marseglia M. 2018, Progetto, sostenibilità, complessità. Metodi e strumenti per la progettazione di prodotti e servizi, DIDApress, Firenze. McDonough W., Braungart M. 2003, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino. Munari B. 2017, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, Laterza, Bari.

Lotti G., Giorgi D., Marseglia M. 2018, Prove di design altro. Cinque anni di progetti per la sostenibilità, DIDApress, Firenze. Lotti G. 2016, Interdisciplinary Design, progetto tra relazioni e saperi, DIDApress, Firenze.

57



Cyborg Botany

59


L’uomo non è assolutamente in grado di eliminare la vita delle piante, siamo al massimo in grado di eliminare noi stessi. Siamo solo tracce. Stefano Mancuso


Huma Marika Costa Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Gianni Sinni Correlatore Giuseppe Lotti Dicembre 2019

Huma nasce come un’idea progettuale basata sulla costruzione e metodologia narrativa della Design Fiction, che si presenta come un’interpretazione, quasi artistica, di uno scenario futuro in cui la Natura e gli Umani comunicano e coesistono in maggiore armonia. Permettere alle persone di ‘parlare’ ad una pianta e ‘ricevere’ una risposta, abbatte la barriera che da sempre separa i due mondi così apparentemente diversi, ma più simili di quanto si pensi. La Design Fiction spesso si basa su domande: ‘What if?’ – ‘che cosa succederebbe se?’ – creando così un quadro provocatorio per la speculazione sin dall’inizio. Diversi, dunque, sono stati gli interrogativi posti durante la fase di progettazione: “E Se le piante potessero parlare con noi, cosa direbbero? Come potrebbero risponderci se potessimo conversare con loro? In che modo queste conversazioni potrebbero

evolversi così da potenziare la nostra capacità di relazionarci con il mondo naturale?” È ampiamente accettato dalla comunità scientifica che le piante comunicano tra loro e che noi non riusciamo a ‘sentirle’ e ciò dipende dalla nostra incapacità di ‘ascoltarle’. Le piante, infatti, hanno un ricchissimo sistema di comunicazione costituito da una varietà di molecole (amminoacidi, zuccheri, metaboliti secondari, sostanze volatili) con cui ‘dialogano’ con le proprie vicine o con gli animali. Sempre sul fronte della comunicazione, è recente la scoperta di un sistema interno di trasmissione delle informazioni posto a livello delle radici che può essere considerato, in qualche modo, analogo al sistema nervoso degli animali. Le piante non parlano lingue diverse, sono costituite da reti interne chimicamente e organicamente autosufficienti, usano segnali elettro-chimici per comunicare ed

attivare processi al loro interno, reagendo agli stimoli esterni in modo diverso, da specie a specie. Numerose sono state le ricerche e i progetti che hanno portato allo sviluppo di piante-ibridi, con lo scopo principale di esplorare i modi in cui Umani e Piante possono coesistere e collaborare attraverso la tecnologia. Questi progetti con l’ausilio della robotica, dei sensori, degli elettrodi, o di una loro combinazione, hanno consentito un’interazione tra piante e umani. Il lavoro di tesi si pone come obiettivo la creazione di un’interfaccia ‘Plant-Human Experience’ costruita su un’analisi scientifica della pianta e del suo ecosistema. Accoppiato alla capacità di ricevere input umani, la pianta può restituire una risposta, promuovendo così un’esperienza di conversazione bidirezionale. Il lavoro esplora l’idea di migliorare le relazioni tra le piante e gli esseri umani e illustrare l’invisibile, combinando biologia, de61 sign e nuove tecnologie,


sopra La pianta è stimolata ed “eccitata” dalle frequenze luminose emesse dalla struttura. Per il “fototropismo”, processo naturale interno alla pianta, quest’ultima reagisce attraverso il rilascio di potenziale d’azione

nel tentativo di promuovere la comprensione inter-specie. Perché Huma? Etimologicamente la parola ‘Huma’, ovvero ‘Luce’, risale da un termine di origini indiane. Deriva da una divinità hindu, spesso identificata con la dea Parvati-Sakti che rappresenta la Conoscenza. Il progetto implica un’interazione diretta, tramite interfacce, sistemi di informazione, progettazione di visualizzazione e dispositivi di comunicazione per stabilire una connessione emotiva e intellettuale con gli utenti. Il progetto prevede la relazione di un sistema che permette di espandere questo concetto di collegamento e trasferirlo nel mondo naturale,

sfruttando la pervasività della tecnologia avanzata di rilevamento, in grado di monitorare e comprendere i parametri vitali delle piante quali: umidità, luce, temperatura e benefici ambientali. Nel prototipo è stato sviluppato un impianto dotato di diversi componenti tecnologici capaci di tradurre i segnali chimici e modulari della pianta in una risposta di testo per l’utente. Il ciclo di funzionamento avviene in due diverse fasi: codifica e decodifica. L’utente digita un messaggio di testo attraverso l’applicazione presente sul device collegata via bluetooth al dispositivo. Una volta inviato il messaggio questo viene captato e analizzato dalla

scheda Arduino e codificato sotto forma di frequenze luminose, attraverso dei led RGB e infrarossi. Le diverse frequenze luminose variano in base a differenti parametri vitali presi in esame della pianta: acqua, luce e temperatura. La pianta, una volta assorbita la quantità di luce emessa dai led, in base alla domanda fatta e alle necessità vitali dei segnali elettrici cellulari, rilascia un potenziale d’azione che è sottoposto ad un costante monitoraggio da parte degli elettrodi collegati alle radici e all’impianto. Il potenziale d’azione catturato, viene analizzato e decodificato da Arduino, sotto forma di messaggio testuale ed inviato come risposta al

device. Inoltre l’impianto è dotato di un HUB sensoriale: igrometro, intensità luminosa e colorimetria della luce. Questo permette di ottenere dei dati quantitativi sulle diverse necessità della pianta, in modo tale da assicurarsi dati di confronto ottimali per il giusto funzionamento del sistema. Se la pianta ha bisogno del tuo aiuto i sensori e gli elettrodi, in funzione, registrano le necessità; perciò, sarà la pianta per prima a comunicare con l’utente, inviando un messaggio di testo. Il sistema è stato programmato attraverso il funzionamento del Machine Learning, ovvero apprendimento supervisionato. La pianta, una volta inserita nel nuovo ecosistema e attraverso


in questa pagina UI design. Interfaccia grafica: wireframe chat. L’app offre la possibilità all’utente di mettersi in contatto con la propria pianta per comprendere le necessità e i bisogni legati ai parametri monitorati

le prime connessioni e conversazioni, inizia ad imparare ed apprendere da sola, acquistando indipendenza e autonomia. Tutto ciò tende a combinare il computazionale con il biologico, per eliminare la separazione tra artificiale-umano e naturale-inumano.



Nella parte superiore del prototipo sono situati i led RGB. L’impiato decodifica i messaggi digitati dell’utente in apposite frequenze luminose (rosse e blu) in base al parametro preso in considerazione

Una volta collegato il device all’impianto elettronico situato nella parte inferiore del prototipo, l’utente è in grado di iniziare una conversazione bidirezionale con la propria pianta

Bibliografia Antonelli P. 2008, Design and elastic mind, The Museum of Modern Art, New York. Bassi N. 2000, Open source – analisi di un movimento, Apogeo, Adria (Ro). Bell F., Fletcher G., Greenhill A., Griffiths M., McLean R. 2013, “Science fiction prototypes: Visionary technology narratives between futures”, «Futures» 50, June: 15–24. Bleecker J. 2009, Design Fiction: A short essay on design, science, fact and fiction, Near Future Laboratory.

Botta M., Cangiano S. 2014, !O come open design!, in «Ottagono» n. 266. Brenner E., Stahlberg R., Mancuso S., Vivanco J., Baluska F., Van Volkenburgh E. 2019, Plant neurobiology: an integrated view of plant signaling, Elsevier Ltd, Amsterdam. Cairo A. 2013, L’arte Funzionale. Infografica e visualizzazione delle informazioni, Pearson Italia, Milano. Chamavitz D. 2012, What a Plant Knows, Oneworld, London.

Mancuso S. 2009, Neurobiologia vegetale: percezione di stimoli, trasmissione di segnali e comportamenti adattivi nelle piante superiori, intervento Assemblea della “Sezione Internazionale di Bruxelles”, 15 Maggio. Ratti C. 2014, Architettura Open Source, Einaudi, Torino. Saffer D. 2007, Design dell’interazione, Bruno Mondadori, Milano.

65



Storytelling

67


Chiudi una miniera di carbone e potrai attenuare il riscaldamento globale per un giorno; interrompi i rapporti che costituiscono la miniera di carbone e potrai fermarlo una volta per tutte. Jason Moore


Tracce parallele Letizia Capaccio Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti Correlatore Francesco Taviani (Studio Lievito) Giugno 2020

Il progetto di tesi Tracce Parallele ha un duplice obiettivo, da un lato rivalutare l’attuale gestione dei rifiuti lapidei mutando una ‘risorsa negativa’ in materia prima seconda, dall’altro riflettere sul consolidato significato del marmo come ‘pietra’ lussuosa e privilegiata, in favore di un contenuto ‘popolare’. L’attuale filiera produttiva è dominata da pratiche di approvvigionamento e lavorazione della roccia metamorfica errate, o, per meglio dire, non programmate al fine di prevenire la comparsa degli scarti ottenuti. Il paesaggio apuano mostra le tracce indelebili della cosiddetta ‘architettura negativa’, costruita da incoscienti azioni di sfruttamento dei litotipi, mentre le derive capitaliste e la visione della natura come semplice merce vendibile, esente da imperfezioni, hanno generato ingenti volumi di materiali di risulta. Se in epoche passate l’immaginazione e il magistero esecutivo degli artisti sono state scusanti prevalenti per i profondi segni lasciati dall’escavazio-

ne sul paesaggio carrarese, ad oggi non possono e devono essere attuate scelte che incrementano lo spreco di una fonte non rinnovabile. Concretamente nelle montagne metamorfiche la recisione di cime e speroni rocciosi, l’edificazione di strade di arroccamento e la presenza di notevoli volumi di rifiuti depositati presso i piazzali di cava o ravaneti, indeboliscono la saldezza di interi versanti e amplificano la nascita di fenomeni di dissesto geologici. L’insieme di questi fattori, è presagio di un futuro disastroso; ancor prima dell’esaurimento della materia, si giungerà ad un momento in cui le montagne risulteranno totalmente inagibili. Tracce Parallele, si prefigura come compito quello di incentivare una strategia economica di tipo circolare, donare valore alla materia considerata scarto privo di valore, individuandovi una nuova identità attraverso la nascita del composito Alchite. Alchite non vuole essere solo il frutto di una progettazione eco-efficace o uno spunto di riflessione circa

le consuete logiche industriali, bensì vuole restituire un’ulteriore esperienza fruitiva della materia litica, agendo sulla sollecitazione sensoriale e sulla composizione di nuovi contenuti immateriali. La ricerca di nuove vocazioni si traduce nell’impiego di un aggregato, o, per meglio dire, legante cementizio. Ecco che nel composito convivono due volti opposti, mentre il marmo detiene il ruolo di ‘pietra’ lussuosa ed elegante, materia ‘status symbol’ necessaria per esibire un potere sociale, il cemento è considerato ‘eminenza grigia del costruire’ e uno dei pochi materiali in grado di comunicare un forte brutalismo formale. La somma dei due materiali fa sì che il primo ceda parte del suo significato costoso e acquisti la capacità espressiva propria della pasta cementizia, e viceversa il secondo si arricchisca di una connotazione più nobile. Il nome Alchite sottintende il passaggio di conte69 nuto simbolico tra i due


sopra Campioni del composito alchite ottenute accoppiando sfridi lapidei e leganti a base cementizia nella pagina successiva Cilindri in alchite, composti da faligne danneggiate e da cocciame lapideo alternato a strati di malta cementizia. Prototipi realizzati in collaborazione con UP Group Srl

elementi; come secondo il pensiero alchemico era possibile mutare il metallo in oro elaborando un elisir della vita eterna, così la soluzione cementizia addizionata ad un minerale ricco muta la sua natura in ‘nobile’. Seguendo “il filo rosso della riflessione, delle suggestioni ottiche e tattili materiche”, ne succede l’elaborazione della collezione Racemo Stone, composta da uno specchio, un set di vassoi da tavolo e il porta libri. La definizione del contesto d’uso dei manufatti non è casuale, non so-

no stati concepiti per arricchire una sala qualunque della casa, ma s’inseriscono con ‘prepotenza’ all’interno di uno spazio definibile come ‘luogo-simbolo’ dello status sociale dell’abitante o il punto di ricevimento degli ospiti, trattasi della sala da giorno. L’introduzione di Alchite, impone un ripensamento delle antiche tradizioni, “all’alzata in argento o vetro, ai vassoi con il servizio di caffè in porcellana eccessivamente decorato, o ai sfarzosi tavoli da pranzo”, suben-

trano complementi costituiti da “rifiuti lapidei” abbinati a malte cementizie. I tre arredi adempiono ad un secondo fine, esaltare parte dei momenti quotidiani svolti durante l’arco della giornata. Lo specchio identifica l’attimo della cura della propria immagine. Il suo componente di punta è il monolite, composto alternando le faligne o il cocciame lapideo con colate di malta cementizia, all’interno di uno stampo in polistirolo. La scelta di una

silhouette cilindrica risponde alla necessità di voler elaborare una diversa percezione del composito. Lo studio della struttura visiva della superficie tridimensionale e il processo di tornitura assegnato al blocco ha generato una deformazione dei residui lapidei, in irregolari segni grafici. Il vassoio corrisponde al momento del convivio. La serie di vassoi progettati vuole accentuare l’impressione di volumi primitivi, pesanti e a primo colpo d’occhio quasi rudimentali, adottando dei basamenti cilindrici di


71



sopra Vassoio della collezione Racemo Stone con struttura in alluminio verniciato e inserto decorativo in cocciame lapideo e malta cementizia nella pagina precedente Specchio della collezione Racemo Stone composto da una superficie con finitura cromata bifacciale e base in faligne danneggiate e malta cementizia, accompagnato dal secondo monolite tornito in cocciame triangolare e cemento Prototipi realizzati in collaborazione con UP Group Srl

differenti altezze, sormontati da un piano orizzontale. Per ciascun piano è stato concepita una lastra in Alchite. Il porta libri si riconduce all’attimo dello svago e della lettura. Il prodotto funge da certificazione tangibile di una linea economica circolare, in cui lo scarto è rintrodotto nella filiera produttiva, trasformandosi esso stesso in un manufatto vendibile. Il blocco cavo, frutto della tornitura, induce l’utente a scoprire la superficie nascosta, motivandolo a soffermarsi e a riflettere sul messaggio intrinseco di cui è portavoce: “tutto ciò che è stato lasciato alle spalle, si riappropria o rinvigorirà il giorno seguente in qualcosa di completamente irriconoscibile”.

In conclusione, il progetto di tesi non vuole avere la presunzione di essere una soluzione ‘certa’ ed immediata alla questione dei rifiuti e tantomeno può totalmente sovvertire una convinzione sociale radicata del tempo, ma vuole rappresentare un tentativo, o meglio, uno strumento per comunicare i valori intangibili. Non a caso, ciascun manufatto è accompagnato da un etichetta di garanzia caratterizzata da un codice Augmented Reality, con cui l’utente può accedere ai diversi contenuti multimediali. La realtà aumentata annessa al sistema della Blockchain, rappresenta il canale migliore per stimolare lo sviluppo di scelte circolari.

73



nella pagina precedente Inserti decorativi in cocciame lapideo e malta cementizia a destra Porta libri della collezione Racemo Stone con lamiera in alluminio verniciata e corpo in cocciame lapideo e malta cementizia Prototipi realizzati in collaborazione con UP Group Srl

Bibliografia Andriani C., 2016, Le forme del cemento. Sostenibilità, Gangemi Editore, Roma. Braungart M., McDonough W., 2003, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino. Lotti G., 2016, Interdisciplinary Design. Progetto tra relazioni e saperi, DIDApress, Firenze. Md Journal.Rivista scientifica di design Open Access 2018, Stone Design, numero 6 (direzione scientifica: Acocella A., Dal Buono V., Scodeller D.). Moore J. W., 2017, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Editore Ombre Corte, Milano.

Pagani C. 2018, L’ornamento non è + un delitto. Spunti di riflessione sulla decorazione contemporanea, FrancoAngeli, Milano. Rosso F., 2018, Involucro lapideo. Innovazione,sfide e valorizzazione del materiale per il risparmio di energie e risorse, FrancoAngeli, Milano.

Turrini D., Narrazioni di design litico, Tre Lune Editore, Mantova, 2014. Vergine A. L., 2008, Pezzame di marmo: rifiuto, non rifiuto o sottoprodotto?. Dott A. Giufrè Editore, Milano.

Solanki S. 2018, Why Materials Matter, Prestel, London. Trincherini D., Turrini D., 2015, Creativa produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Edizioni Fondazionie Ragghianti studi sull’arte di Lucca, Lucca. Turrini D., 2017, Le pietre dell’identità italiana. Materiali, lavorazioni, design, Pacini Editore Industrie Grafiche, Pisa.

75



Rituals and relations

77


In su bucconi pretziu s’ngelu si dui sezzit. Tra due che condividono anche solo un boccone sta seduto un angelo. detto sardo


Foghile Scenari nuragici Alessia Pinna Corso di laurea triennale Disegno industriale Relatore Marco Marseglia Correlatore Margherita Vacca Aprile 2020

Ai giorni nostri, i ritmi frenetici spesso imposti dal lavoro o dagli impegni, ci impediscono di creare e mantenere dei rituali quotidiani condivisibili con gli altri, anche con le persone con cui viviamo. Questo genera minore occasione di incontro e di scambio, e di conseguenza una minore empatia e comprensione verso i bisogni degli altri. Il progetto Foghile, traendo ispirazione dall’antica popolazione della Sardegna, propone il recupero di questi valori tramite l’utilizzo di oggetti e nuove gestualità che ci mettano necessariamente in relazione con le altre persone. Uno sguardo al passato per ripensare degli scenari di vita contemporanea e investigare nuove possibilità di relazione. L’idea di progetto muove a partire da un’importante ricerca sul territorio, che va dai dati storici e archeologici fino alle ricostruzioni degli studiosi sulla società e sul modo di vivere della popolazione. La fase iniziale di ricerca aveva come fine una conoscenza più profonda degli avvenimenti e delle cause che hanno caratterizza-

to la vita sull’isola, portando alla costruzione di una cultura materiale e sociale unica nel suo genere. La seconda fase, quella progettuale, si è concentrata poi su un confronto con la società contemporanea sarda (e non solo), scatenando una riflessione sui modi di vivere e di relazionarci con gli altri, ora fortemente influenzati da una cultura più globalizzata e individualistica. Foghile è un percorso di riscoperta, uno sguardo al passato per recuperare e rinforzare i valori di collaborazione e condivisione nella vita di tutti di giorni. Il momento dei pasti diventa il rituale perfetto per immedesimarsi nell’altro, per ripensare i gesti della quotidianità e dilatare i tempi di interazione. Gli oggetti della collezione vanno ad enfatizzare i legami non espliciti che si nascondono dietro gli oggetti stessi e chi li usa. La scelta del nome e del logo fanno riferimento ai ‘contos de foghile’, l’antica usanza di raccontare storie seduti intorno al focolare, che veniva posizionato al centro della ca-

panna. Le suggestive immagini aeree delle capanne nuragiche in pietra diffuse in tutta l’isola mostrano tre elementi principali: i muri esterni circolari, il braciere centrale e lo spazio tra i due in cui le persone prendevano posto. Il logo della collezione rappresenta questi tre elementi come simbolo di comunità, collaborazione e condivisione. In particolare, ciò che viene evidenziato è lo spazio tra di essi, in modo da enfatizzare l’importanza delle relazioni più degli elementi stessi. La collezione è composta da tre oggetti: la brocca Cumbira, il piatto Innantis e il cestino Bodiri. In sardo ‘Cumbirai’ significa ‘condividere’. La scelta di questo nome deriva dalle due ‘bocche’ della brocca che impone a chi la usa di versare la bevanda in due bicchieri contemporaneamente. Questo gesto riflette la necessità di pensarci in relazione agli altri, di ricordarci che condividiamo gli stessi bisogni, e allo stesso tem79 po ci permette di mante-


Piatto “Innantis” per l’offerta e la condivisione del cibo. Base in basalto realizzata dall’artigiano Roberto Pani (Sant’Antioco) e piatto realizzato dal ceramista Walter Usai (Assemini).


Brocca “Cumbira” e bicchieri coordinati realizzati dal ceramista Walter Usai (Assemini).

nere una connessione con le persone che stanno al tavolo con noi, anche nel momento in cui non interagiamo. Durante la realizzazione, l’artigiano Walter Usai ha applicato un leggera pressione nei punti in cui l’oggetto va afferrato, parte che è stata lasciata senza smalto. Queste scelte formali enfatizzano il tema della gestualità e l’incontro dell’estetica nuragica con la contemporaneità. A seguire, Innantis è un piatto ispirato i bronzetti offerenti, quei particolari bronzetti votivi rappresentati

con le braccia protese in avanti e un dono nelle mani. Le tombe e i riti funebri nuragici erano collettivi. I doni ritrovati erano destinati agli antenati per ciò che avevano costruito e come buon auspicio per il futuro. La parola ‘innantis’ significa ‘in avanti’ e si riferisce al gesto di offerta dei bronzetti sopraccitati. L’oggetto è costituito da due parti, una base in basalto, realizzata dal marmista Roberto Pani e un piatto in ceramica (Walter Usai). Il fondo del piatto è stondato e viene inserito nella base forata che fa da

supporto. Le caratteristiche fisiche dei materiali e il modo in cui si incastrano, rimanda simbolicamente alla relazione tra gli antenati che hanno fondato la civiltà nuragica (pietra) e la popolazione, più fragile (ceramica), che li onora con doni e preghiere. L’ultimo oggetto è legato alla produzione del pane, la quale ha accompagnato l’evoluzione umana. Secondo alcune vecchie credenze sarde, il pane, se tagliato col coltello, porterebbe sfortuna alla famiglia, e andrebbe perciò sempre spezzato con le mani.

Il pane carasau, tipico della Sardegna e con origini antichissime, per la sua particolare forma e consistenza viene tutt’ora spezzato con le mani. Ad esso è dedicato il terzo oggetto il cui nome ‘Bodiri’ significa ‘collezionare’, in quanto ha la funzione sia di contenitore per il pane che di ‘tagliere’ in cui spezzare il pane e offrirlo. Il cestino è realizzato in giunco da Alessandra Floris secondo la tradizione di Sinnai.La parte superiore invece è sta81 ta realizzata a mano in le-


Cesto “Bodiri” per la condivisione del pane carasau. Cesto in giunco intrecciato dall’artigiana Alessandra Floris (Sinnai) e coperchio in legno d’ulivo realizzato a mano da Alessia e Salvatore Pinna (autoproduzione, Sant’Antioco).

gno di ulivo locale da Alessia e Salvatore Pinna. La collezione Foghile, costituita al momento da tre oggetti, è un progetto aperto. Il tema della convivialità è solamente uno dei temi che possono emergere dallo studio della civiltà nuragica. Le soluzioni formali incontrate in questo percorso partono da concetti che oggi più che mai necessitano di essere riscoperti e valorizzati. L’utilizzo di questi oggetti invita alla riflessione e al confronto, fungendo allo stesso tempo da

collegamento con la storia e con alcuni frammenti della nostra identità. Ristabilire un rapporto con il luogo in cui si vive e con la sua storia, la sua natura e i suoi spazi, necessita una dimensione di tempo più dilatata, che ci permetta di osservare, percepire e generare relazioni. In questo contesto di riscoperta, gli oggetti si fanno portatori di elementi simbolici e suggeriscono nuovi scenari da esplorare.


Brocca “Cumbira” e piatto “Innantis”.

Bibliografia Angioni G. (a cura di), 2007, Cartas de logu: Scrittori sardi allo specchio, CUEC Cagliari Bauman Z., Vecchi B. (a cura di), 2003, Intervista sull’identità, Laterza, Roma Branzi A. (a cura di), 2007, Capire il design, Giunti Editore, Firenze Bodei R., 2011, La vita delle cose, Laterza, Bari Canestrini D., 2001, Trofei di viaggio. Per un antropologia dei souvenir, Bollati Boringhieri, Torino Cella P., 2006, Tracciare confini, Il mulino, Bologna

Ciampoli D., Marseglia M., 2018, Attorno al Mediterraneo, DidaPress, Firenze

Lotti G., Giorgi D., Marseglia M., 2017, Prove di design altro, DidaPress, Firenze

Fabietti U., 2013, L’identità etnica, Carocci, Roma

Lupo E., 2009, Il design per i beni culturali, Franco Angeli, Milano

Fois M., 2018, In Sardegna non c’è il mare, Laterza, Bari

Moravetti A., Alba E., Foddai L. (a cura di), 2014, La Sardegna nuragica: storia e materiali, Carlo Delfino Editore, Sassari

Follesa S., 2013, Design & Identità, Franco Angeli, Milano Gimbutas M., 2005, Le dee Viventi, Medusa, Milano Iamundo De Cumis M., 20015, La sacralità del pane in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari Lotti G., 2010, Territori e connessioni, Edizioni ETS, Pisa

Moravetti A., Alba E., Foddai L. (a cura di), 2017, La Sardegna nuragica: storia e monumenti, Carlo Delfino Editore, Sassari

Murgia M., 2008, Viaggio in Sardegna: undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi, Torino Raccolta, 2018, Il tempo dei nuraghi, Ilisso, Nuoro Raccolta, 2011, Intrecci, Ilisso, Nuoro Tosi F., Lotti G., Follesa S., Rinaldi A. (a cura di), 2015, Artigianato, Design, Innovazione, Dida Press, Firenze Vittorini E., 2014, Sardegna come un’infanzia, Bompiani, Milano

Morittu R., Pau A., 2012, L’eredità del fare, Edizioni ETS, Pisa Morittu R., Pau A., Lotti G., 2011, Tessere conoscenze, Edizioni ETS, Pisa

83



Waste value

85


Il tipo di spreco più pericoloso è quello che non siamo in grado di riconoscere. Shigeo Shingo


QuintoQuarto Giulia Pistoresi Corso di Laurea Magistrale Design Relatore Giuseppe Lotti Giugno 2020

Il progetto di tesi QuintoQuarto indaga i temi della sostenibilità, degli sprechi e della relazione tra design e il territorio Toscano. Il tema nasce da riflessioni sugli atteggiamenti, le usanze e lo stile di vita che erano presenti sul territorio. In particolare, dalla tradizione culinaria Toscana è possibile comprendere indirettamente varie logiche, fra cui l’importanza di valorizzare ogni materia a disposizione, a partire dalle più povere. A dimostrazione di ciò, alcuni piatti sono diventati un simbolo del territorio, come la trippa fiorentina e il lampredotto, realizzati con ‘scarti di macelleria’, noti anche come ‘quinto quarto’. Riprendendo questa tradizione, il progetto vuole utilizzare una materia apparentemente priva di potenziale per valorizzarla al meglio. Nello specifico, vengono impiegati i cascami della pelle conciata al vegetale. Tale scelta è stata guidata dal forte impatto ambientale dell’industria conciaria, e dall’importanza che questo settore riveste nel territorio.

QuintoQuarto è una collezione di prodotti incentrata sul tema dello spreco, dalla forte impronta concettuale e provocatoria. Ogni prodotto non vuole essere solo una risposta materiale allo spreco di pelle, ma soprattutto uno stimolo per riflettere sulle nostre abitudini. Gli sprechi analizzati nella collezione sono: spreco di denaro, di tempo e di conoscenze. Questi generalmente sono meno considerati rispetto a quelli alimentari, di risorse idriche ed energetiche, ma al pari di essi rappresentano la società odierna. Lo spreco di denaro è strettamente legato al consumismo e agli acquisti impulsivi. Infatti, molti degli acquisti effettuati ogni giorno sono realizzati senza una reale necessità. Sociologi e psicologi consigliano di compiere una breve riflessione prima di ogni acquisto per comprenderne la reale utilità. Sulla base di questa considerazione nasce il ‘portafoglio prenditempo’ che ha lo scopo di aiutare a dare importanza all’azione del pagamento. La caratteristica di questo

prodotto consiste nel mettere in difficoltà l’utente nell’estrarre il denaro, concedendo in questo modo un piccolo varco temporale in cui poter riflettere sull’effettiva importanza dell’acquisto. L’azione del pagamento viene rallentata dalla chiusura del portafoglio e dal labirinto interno formato dalle eccedenze di materiale impiegato. Lo spreco di tempo e di conseguenza la mancanza di tempo libero sta diventando un fattore comune alla maggior parte delle persone a causa delle abitudini frenetiche e degli orari di lavoro dilatati. La tecnologia è diventata una concausa di questo spreco, creando il desidero-necessità di essere sempre raggiungibili e l’illusione di avere tutto sotto controllo, a discapito di relazioni ed emozioni. Attività apparentemente innocue, della durata di 15-30 minuti al giorno, se ripetute ogni giorno si accumulano, trasformandosi in giorni, settimane e mesi di tempo 87 letteralmente sprecato.



Dettaglio degli eccessi di materiale all’interno del portafoglio Prenditempo.

nella pagina precedente Collezione QuintoQuarto, realizzata con scarti di pelle conciata al vegetale. Portafoglio Prenditempo, calendario Riflessivo ed etichetta Fugace.

Questa problematica viene affrontata tramite il ‘calendario riflessivo’, un calendario composto da fogli di pelle che consentono di visualizzare concretamente quanto tempo viene perso ogni mese. Questo prodotto sfrutta una delle caratteristiche proprie della pelle conciata al vegetale ovvero l’attitudine a variare di colore a seguito dell’esposizione al sole. Nel calendario sono visibili meno giorni di quelli effettivamente presenti in un mese, che rappresentano quelli vissuti a pieno. Durante il me-

se il calendario esposto alla luce inizia il processo di virazione del colore, fino a quando lo sfondo e i giorni inizialmente visibili diventano del solito colore, e dunque non più leggibili. Allo stesso tempo, appaiono i giorni sprecati, sui quali era stata applicata la protezione solare, apparendo dunque più chiari. Lo spreco di conoscenze è probabilmente tra quelli che comportano una maggiore frustrazione dell’individuo. Sempre più spesso le persone si ritrovano a svolgere ruoli in

cui non sono valorizzate al massimo delle loro potenzialità, determinando in molti casi la problematica ‘fuga di cervelli’. L’ultimo prodotto della collezione QuintoQuarto è ‘Fugace’, un’etichetta da bagaglio. L’obiettivo di questo oggetto è di trasmettere il senso di frustrazione che prova chi è costretto a lasciare il proprio paese per delle possibilità lavorative migliori. La sensazione di smarrimento e frustrazione viene trasmes89 sa in questo prodotto dal


Variazione cromatica del calendario Riflessivo dopo un mese di esposizione solare.

packaging. La confezione, infatti, presenta una vistosa scritta ‘istruzioni per l’uso’, seguita da una notevole quantità di informazioni. In questo modo l’utente si approccia al prodotto apprendendo nozioni che non sono utili al fine di servirsi del prodotto, generando senso di delusione e frustrazione. Oltre ai prodotti, il progetto QuintoQuarto include un sito web in cui l’utente può trovare informazioni relative al materiale, agli sprechi e lo shop. Sul sito è inoltre presente una

sezione dove le aziende possono valutare quanto sono virtuose, confrontandosi con le altre presenti sul territorio. Un ulteriore compito che assolve questo sito è quello di fare da tramite con le concerie per reperire gli scarti di pelle. Infine, il sito mette a disposizione lo shop per promuovere i prodotti realizzati. QuintoQuarto mette in evidenza alcune criticità legate al settore conciario e alle cattive abitudini della società contemporanea, cercando di essere uno stimolo per nuove solu-

zioni, senza mai porsi, però, come il metodo risolutivo alle problematiche emerse. Infine, QuintoQuarto traendo insegnamento dal passato, mette in luce come punti di vista differenti possano individuare risorse laddove prima venivano identificate difficoltà.


Sezioni del sito web QuintoQuarto mostrate su diversi device.

Bibliografia Braungart M., McDonough W., 2003, Dalla culla alla culla. Come conciliare la tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu edizioni, Torino. Calvino I., 1996, Le città invisibili, Mondadori, Milano.

Lotti G., 2016, Interdisciplinary Design, progetto tra relazioni e saperi, DIDApress, Firenze.

Tosi F., Lotti G., Follesa S., Rinaldi A., 2015, Artigianato Design Innovazione. Le nuove prospettive del saper fare, DIDApress, Firenze.

Massarutto A., 2019, Un mondo senza rifiuti? viaggio nell’economia circolare, Il Mulino, Bologna.

Trivellin E., 2013, Intreccio e design, Alinea, Firenze

Munari B., 2017, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, Laterza, Bari.

Vallini V., 2013, Concia al vegetale. Storia, produzione e sostenibilità del distretto toscano della pelle. Santa Croce sull’Arno e Ponte a Egola, EDIFIR, Firenze.

Iacchetti G., 2009, Oggetti disobbedienti, Mondadori Electa, Milano.

Museo Salvatore Ferragamo, 2019, Sustainable thinking. Catalogo della mostra, Mondadori Electa, Milano.

Vezzoli C., Manzini E., 2007, Design per la sostenibilità ambientale, Zanichelli, Editore Spa.

Lotti G., Giorgi D., Marseglia M., 2018, Prove di design e altro. Cinque anni di progetti per la sostenibilità, DIDApress, Firenze.

Tamborrini P., 2009, Design sostenibile, sistemi e comportamenti, Mondadori Electa, Milano.

Weber M.,1991, L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano.

Debord G., 1967, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano. Follesa S., 2013, Design e identità. Progettare per i luoghi, Franco Angeli, Milano.

91


Questo tempo è gravido di avvenimenti (…) non lo sprecate. Quando ci libereremo dalla superstizione, dai pregiudizi, quando trionferà la verità, il diritto, la ragione, la virtù se non adesso? Quando risorgerà l’amore per la patria? Quando? Sarà morto per sempre? Non ci sarà più speranza? Io parlo a voi (…) Ora è il tempo (…) O in questa generazione che nasce, o mai. Abbiatela per sacra, destatela a grandi cose, mostratele il suo destino, animatela. Giacomo Leopardi, Dell’educare la gioventù italiana


Tenere vivi i sogni Giuseppe Lotti Presidente Corso di Laurea Magistrale in Design Università degli Studi di Firenze

Troppo spesso negli ultimi anni abbiamo legato il valore delle scuole di design alla capacità di strutturare rapporti con le aziende: un elemento sicuramente importante, ma altrettanto importante appare l’idea di una scuola come capacità di sviluppare un approccio critico e proporre visioni di futuro, magari altro. “Il campo linguistico dei prodotti non può essere rivoluzionato di colpo, pena il rifiuto, ma deve essere continuamente forzato, con una operazione paziente e tenace che rende solo alla distanza. La scuola, finché sarà ancora libera da condizionamenti politici e industriali, può e deve contribuire, libera com’è da scadenze immediate e da necessità produttive a indirizzare correttamente la progettazione di oggetti d’uso verso le nuove, inquietanti prospettive” (Giovanni Klaus Koenig, Design per la comunità, «La Biennale di Venezia» n.66, 1970). Più recentemente Giuseppe Furlanis, direttore dell’Isia: “Oggi abbiamo invece (rispetto alla cultura dell’internazionalizzazione che conteneva in sé i germi della dominanza dell’Occidente sulle altre culture, n.d.r.) compreso che l’unificazione dei linguaggi e delle culture crea una sorta di asfissia, una perdita di identità specifiche. Tutto ciò sta alla base del mio modo di intendere una scuola di progettazione il cui principale scopo è quello di insegnare agli studenti ad elaborare una propria cultura del progetto che è sì tecnica, ma anche fondata su una capacità critica, su uno slancio ideale” (Giuseppe Furlanis, Educare all’equilibrio. Intervista a Giuseppe Furlanis a cura di Giuseppe Lotti, «Ecologicamente» n.1, 1999, p.42). E, a rafforzare il pensiero di Furlanis, François Burkhardt: “l’intenzione di formare la personalità del futuro professionista munendolo di un bagaglio critico che lo renda indipendente e alternativo invece che integrato e subordinato, salvaguardandone cioè l’autonomia culturale (…) Si cerca cioè di vedere nella scuola un ‘laboratorio’, uno strumento catalizzatore del dibattito sul design capace di elaborare un programma agendo sulla realtà, ma anche proponendo scenari prospettici” (François Burkhardt, Design, qualità e valore. L’insegnamento del design al servizio della società, in François Burkahardt, Giuseppe Furlanis, Angelo Minisci, 2005, pp.34-35). I progetti qui presentati - frutto delle tesi di Laurea Magistrale in Design dell’Università di Firenze - questo ci raccontano, come contributo alle difficili sfide della sostenibilità. Una sostenibilità che avverte le difficoltà del presente, ma non le affronta con i proclami ma con la politica dei piccoli passi e delle piccole cose. Così Andrea Branzi, curatore della mostra The new Italian Design alla Triennale di Milano del 2013, individua Seven Degrees of separation, per il giovane design italiano, “a sort of anthropological disaster produced by the vertical collapse of project ethics and the aesthetic of form”, mentre in realtà un “change has taken place” e produce “most glaring and positive effects” (…) tra i fenomeni.I “Seven Degrees of separation that might lie at its origin […] molecular politics. This political practice occurs without theorization. It coincides with a silent praxis that matches the behavior of an increasing number of people, they react in a imaginative manner to an aesthetic, creative and even political

93


necessity that can be defined as being weak but wide-spread, in the sense that its action follows a molecular strategy, a sort of enzymatic energy that does not produce traumatic change but slow transformation [… ]. The twenty-first century teaches us that now just large structural plans are capable of making changes but also domestic economy. Not just urban mega-projects but also flower vases” (Branzi, 2013, in Annichiarico S., Branzi A. 2013, p.16). E recupera il senso della cura per la natura e tutti gli esseri viventi. “Fino ad oggi gran parte del design è stato uno strumento potente dell’antropocene, con la specie umana saldamente al centro e gli interessi umani al cuore dei suoi obiettivi […] Il design dovrebbe essere centrato non solo sull’essere umano, ma sul futuro della biosfera” (Antonelli, 2019, p. 19, 38). Con conseguenti critiche all’user centred design che “può benissimo essere considerato sinonimo di design centrato sulle grandi aziende […] il design incentrato sulla persona riflette in realtà una visione antiquata e antropocentrica della realtà. È tempo di rimediare con una buona dose di design altruistico e allocentrico” (Antonelli, 2019, p. 21). È “il concetto di design ricostituente” che “studia i molteplici legami che collegano gli esseri umani ai loro ambienti (economico, sociale, culturale e politico) e ad altre specie (animali, piante, microrganismi o l’intero albero della vita), in ogni ordine di grandezza e in tutti i sistemi” (Antonelli, 2019, p. 19). Nella consapevolezza dell’importanza di un approccio interdisciplinare, senza per questo perdere il ruolo centrale del design. Così sul catalogo della mostra Nature collaborations in design del Cooper-Hewitt Museum: “The approach is transdisciplinary and involve scientists, engineers, advocates for social environmental justice, artists, and philosophers, who apply their conjoined knowledge toward a more harmonious and remunerative future […] The challenges to our planet today are so complex that they cannot be solved by one discipline. Design is the bridge. It translates scientific ideas and discoveries into real-world applications” (McQuaid, 2019, pp. 6-9). I progetti ci presentano una sostenibilità che si presenta, inevitabilmente, complessa. Spesso conciliazione tra gli opposti: tra naturale ed artificiale, innovazione e recupero di tradizioni antiche, soluzioni globali e radicamento territoriale. “La cultura industriale classica pensava ad un mondo semplificato e trasparente come una catena di montaggio. Quello che invece appare è un mondo complesso, in cui l’alta tecnologia può combinarsi nelle più diverse forme con tecnologie mature ed anche con l’artigianato, in cui antiche conoscenze possono essere riciclate per nuovissimi campi di impiego; in cui insomma, invece dell’attesa omogenizzazione dei modelli culturali e produttivi ad un’unica razionalità dominante, si riscoprono le diversità” (Manzini, 1990, p. 65). Nel caso di Alessio Tanzini e Valentina Zamorano è recupero di traditional knowledge come contributo alla sostenibilità in un particolare mix tra low tech – energia zero, compostaggio, conservazione tradizionale – high tech – supporto di app e piattaforma. Elisa Matteucci lavora sulle potenzialità di riuso delle lane rustiche, oggi non più impiegate intervenendo su un problema ambientale, spesso sottovalutato.


Bibliografia Annichiarico S., Branzi A. 2013, The Italian design, Triennale Design Museum, Udine.

Nel lavoro di Francesco Cantini sono sperimentati gli scenari dell’economia circolare, con una particolare attenzione alle sinergie tra filiere – naturale e del manifatturiero, nell’affrontare un difficile problema legato all’utilizzo della posidonia. Mentre nel caso di Roberto Rubrigi e Daniele Funosi è sviluppato un progetto di economia simbiotica attuando il recupero e inserimenti degli scarti post-produzione e post-consumo nella filiera del tessile.

Antonelli P. 2019, “Broken nature”, in Antonelli P., Tannir A., Broken nature XXII Triennale di Milano, La Triennale di Milano Electa, Milano.

Nel progetto di Marika Costa si sviluppa l’interazione uomo-natura-piante, con evidenti riferimenti al pensiero di Stefano

Burkahardt F., Furlanis G., Minisci A., 2005, a cura di, Design qualità e valore. Dieci anni di design al servizio della società, Gangemi, Roma.

Nel progetto di Letizia Capaccio è evidente che il design può dare un importante contribuito non solo alla defini-

Furlanis G. 1999, Educare all’equilibrio. Intervista a Giuseppe Furlanis a cura di Giuseppe Lotti, “Ecologicamente” n. 1.

Nel progetto di Alessia Pinna il rituale del cibo diventa stimolo progettuale per oggetti portatori di rinnovate

Galimberti U. 2007, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano. Galimberti U. 2018, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli, Milano. Mancuso S. 2017, Plant revolution. Le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti, Firenze.

Mancuso (Mancuso S., 2017; Mancuso S., Petrini C. 2015), sperimentando un particolare, forse corretto, mix tra natura e artificio.

zione di nuovi materiali in ottica di economia circolare ma anche dal punto di vista dello storytelling come strumento di comunicazione per la sostenibilià. gestualità e relazioni. Nella ricerca di tesi di Giulia Pistoresi lo scarto e lo spreco divengono elementi progettuali per prodotti riflessivi. Ma nella presentazione dei lavori mi piace evidenziare che investono fattori di carattere formativo e, più in generale, culturale. Qualche anno fa a conclusione del libro Territori & connessioni. Design come attore della dialettica tra locale e globale, citavamo Umberto Galimberti che, a proposito del disagio culturale di tanti giovani scriveva: “e se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità o, per dirla in gre-

Mancuso S., Petrini C. 2015, Biodiversi, Giunti, Slow food, Firenze - Bra.

co, del proprio daimon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonia? In questo caso il

Manzini E. 1990, Artefatti: verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Domus Academy, Milano.

perimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta limitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del

McQuaid M. 2019, “Introduction”, in McQuaid M., Lipps A., Condell C., Nature: collaborations in Design, Thames And Hudson, New York.

stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà Métron)” (Umberto Galimberti, 2007, p. 14).

nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il revivere (téchne tou biou) come dicevano i greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seau-ton, conosci te

Lo stesso Galimberti più recentemente rileva come sia presente una percentuale “non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna e si promuove in tutte le direzioni nel tentativo molto determinato di non spegnere i propri sogni” (Galimberti, 2018, p. 13). Anche questo mi sembra emergere nei progetti qui raccontati, l’idea che il progetto, con gli inevitabili limiti, possa contribuire ad un modello di sviluppo altro, più sostenibile sul piano ambientale e socio-culturale.

95


Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Luglio 2020



Le urgenze delle questioni ambientali impongono al mondo del progetto una riflessione ampia e complessa nei confronti del futuro. Nell’Antropocene è stato compreso che l’uomo non è più immerso nella natura idilliaca del passato, indifferente all’agire umano, piuttosto si è trovato di fronte una terra che retroagisce agli atti di dominazione. Un radicale cambiamento delle strutture del pensiero e degli approcci progettuali è necessario per trovare una via diversa per il futuro. Ma come progettisti in che modo possiamo comprendere il futuro migliore che dobbiamo progettare? Il testo introduce il rapporto uomo-natura-progetto con riferimento all’Antropocene, presentando otto tesi di laurea, discusse nell’ambito dei corsi di laurea magistrale in design e triennale in disegno industriale, che indagano i temi succitati. Marco Marseglia (1982), PhD in Design, ricercatore a tempo determinato presso il Dipartimento DIDA. Collabora come ricercatore nell’ambito del Laboratorio di Design per la Sostenibilità dal 2012. Docente di Product Design (corso di laurea magistrale in Design) e Progettazione 1 (corso di laurea triennale in disegno industriale).


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.