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Amor di poeta, di Emerico Giachery, pag
by Domenico
AMOR DI POESIA
di Emerico Giachery
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LA memoria del passato, in questi labili e struggenti anni senili, a volte si fa “musica”: nel senso figurato, ampliato, che questa magica parola può assumere. Tra i motivi “musicali” che s’intrecciano e combinano nella totale sinfonia della memoria-vita spiccano gli incontri: con persone (donne amate e amici, grandi amici che la vita ci ha donato e che ci hanno arricchiti nell’anima); incontri con luoghi, libri, idee. Con la musica, stavolta in senso proprio (quante opere liriche e quanti grandi concertisti e direttori, compresi Furtwängler e Karajan, ascoltati nel corso di una lunga esistenza!). Con la pittura, “finestra aperta sul mondo”, secondo Leon Battista Alberti: primo e tenace amore Piero della Francesca; poi Masaccio, Antonello, Caravaggio, Vermeer; poi l’ultimo, così generoso e creativo, Ottocento francese e tanto bel Novecento anche italiano. Con il teatro, negli anni ormai lontani delle magistrali regie di Strehler,Visconti, Costa, Squarzina, Ronconi, Enriquez. Con il grande cinema, da Carné e Dreyer a Bergman, De Sica, Fellini .
Incontri con la poesia. Sin dalla scuola media: più disettantacinque anni or sono. Le Elegie di Tibullo, studiate a scuola in latino, mi dilettavo a tradurle in plausibili endecasillabi: «Copiose messi e buoni vini, o Dei / a noi donate! Adesso finalmente / contento del mio poco, in questa calma / vivere sempre io possa…». Non è vero (per fortuna!) che la scuola rende sempre sgradevole tutto ciò che insegna. Negli anni adolescenti del ginnasio eccomi già conquistato dall’incanto aurorale dello Stil Novo, quale appariva nelle pagine dell’antologia scolastica. La nostra insegnante di lettere ci fece poi leggere in classe Alexandros di Pascoli. Di un poeta, cioè, che avrei frequentato a lungo in età matura, studiando con emozione i suoi manoscritti conservati a Castelvecchio, dedicandogli corsi universitari, un libro intitolato Trittico pascoliano, e persino - infaticabile promeneur solitaire qual ero in quegli anni - visitando a piedi tutte, o quasi tutte, le contrade della terra barghigiana evocate nei poemetti e divenute poi, anche per me, luoghi dell’anima. Scolaretto quattordicenne già aperto alla poesia, rimasi affascinato dai temi di destino, di musicale mistero, del Pascoli di Alexandros, così diverso dal poeta “ciaramelloso” («Udii tra il sonno le ciaramelle») o “equino” («O cavallina, cavallina storna») incontrato alle scuole elementari; e provai anch’io a scrivere un poemetto intitolato Hannibal, memore delle vite di Cornelio Nepote incontrate in quello che si chiamava ancora ginnasio inferiore. Riuscii ad abbozzarne soltanto due episodi. Nel primo, dall’alto dei Campi d’Annibale, il condottiero contempla estatico, in fondo alla pianura, Roma che sogna di conquistare: «Come splendeva Roma in quell’aurora / fulgida di speranze…». Nell’altro episodio, il vecchio Annibale, deluso e stanco, si offre, docile, alla morte.
A vent’anni chi non ha scritto qualche verso? Può essere capitato anche a me qualche rara volta, senza intenzione di pubblicarli: versi stampati ce ne sono troppi e poi troppi dappertutto. Sull’opportunità di pubblicare versi concordo con John Steinbeck quando dice che le poesie sono come le ostriche: se non sono di qualità eccellente, meglio farne a meno. In una pagina di diario ricordo tuttavia, dono di una notte d’Epifania dei miei trasognati vent’anni, l’inaspettata grazia di sentir nascere versi. Vegliavo ascoltando ritmi interiori che prendevano forma per evocare –emersa chissà da quale recondito vivaio d’archetipi – un’immaginaria fanciulla scomparsa allo sbocciare della prima giovinezza. Attorno, un’atmosfera assorta e remota, quasi omerica, tra ancelle e compagne che, ricordandola, filavano. Commento musicale adatto, anche se proveniente da un mondo ben lontano da quello omerico, sarebbe stato quello che introduce e accompagna l’episodio di Senta, tra fanciulle che filano, nell’Olandese volante, o Vascello fantasma che dir si voglia. «Oltre quei monti azzurri»: era uno di quei mesti versi d’addio (alla mia stessa giovinezza?). “Azzurri” non solo per eco leopardiana, ma per sintonia sia con
quel mio verseggiare in “azzurro diesis minore”, sia col colore in cui meglio mi riconosco. Se tuttavia dovessi scegliere, tra i pochissimi scritti nel corso dell’esistenza, un versoemblema del mio tendere all’Ulteriore e al Divino, opterei per questo verso finale di un breve Notturno dei lontani vent’anni: «Là dove il peso si fa lieve luce».
Amor di poesia, nel senso più ampio e ricco del termine, ha accompagnato, nel vario svolgersi di una lunga vita, il mio tentativo di “abitare poeticamente la Terra”. Secondo un autentico umanista dei nostri tempi, James Hillman, «i fondamenti della nostra mente non sono né ideologici, né biologici, né linguistici, ma poetici. Ed è la materia poetica – metafore, simboli, parole –il mistero fondamentale della mente umana». Affermazione stimolante, ma che andrebbe chiarita e motivata. Ogni lettore può provare a farlo secondo la propria esperienza, il proprio discernimento.
Per il docente di letteratura, per la sua attività così gratificante (come ha bene mostrato anche il capolavoro di Peter Weir L’attimo fuggente con il compianto Robin Williams protagonista), l’amor di poesia è, naturalmente, vitale alimento quotidiano. La ricerca criticameditata e complessa, della vigilia studiosa s’invera nel rito gioioso della comunicazione condivisa. Gioioso, il rito, perché celebra una vittoria della parola poetica sul silenzio e sul nulla, facendo rivivere col testo e nel testo un significativo grumo di vita e di storia in esso coagulato e in attesa di tornare ad esistere con pienezza nell’atto interpretativo.
Emerico Giachery
AFA
Pianura immobile nell’afa, feroce controra. La vita si nasconde nel folto dei rami, nelle tane. L’ora è sospesa. Solo gli alberi non hanno un riparo, un respiro. I miei alberi soffrono in catene.
Ada De Judicibus Lisena
Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La nuova Mezzina, 2017
NEMESI D’AMORE
Se io sono il più ricco e il più importante del mondo, è solo perché ho il tuo cuore, ma prima di conoscere il tuo amore non ero che un negletto mendicante.
S’io son l’anello, tu ne sei il brillante, io l’artistico vaso e tu il suo fiore, io sono il focolare e tu l’ardore della fiamma che sale sfolgorante.
Nelle ore più liete e in quelle meste io son sempre la nave e tu sei il porto che mi proteggerà dalle tempeste.
E quando uno dei due sarà già morto l’altro sarà la terra che lo veste perché nei fiori suoi torni risorto.
Nino Ferrù
Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985
Un momento della cerimonia della presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesca Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore. (La foto, e le altre a seguire, ci sono state fornite da Alfredo Ferraù, nipote del Poeta)