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POMEZIA-NOTIZIE

Luglio 2021

AMOR DI POESIA di Emerico Giachery

L

A memoria del passato, in questi labili e struggenti anni senili, a volte si fa “musica”: nel senso figurato, ampliato, che questa magica parola può assumere. Tra i motivi “musicali” che s’intrecciano e combinano nella totale sinfonia della memoria-vita spiccano gli incontri: con persone (donne amate e amici, grandi amici che la vita ci ha donato e che ci hanno arricchiti nell’anima); incontri con luoghi, libri, idee. Con la musica, stavolta in senso proprio (quante opere liriche e quanti grandi concertisti e direttori, compresi Furtwängler e Karajan, ascoltati nel corso di una lunga esistenza!). Con la pittura, “finestra aperta sul mondo”, secondo Leon Battista Alberti: primo e tenace amore Piero della Francesca; poi Masaccio, Antonello, Caravaggio, Vermeer; poi l’ultimo, così generoso e creativo, Ottocento francese e tanto bel Novecento anche italiano. Con il teatro, negli anni ormai lontani delle magistrali regie di Strehler,Visconti, Costa, Squarzina, Ronconi, Enriquez. Con il grande cinema, da Carné e Dreyer a Bergman, De Sica, Fellini . Incontri con la poesia. Sin dalla scuola media: più di settantacinque anni or sono. Le Elegie di Tibullo, studiate a scuola in latino, mi dilettavo a tradurle in plausibili endecasillabi: «Copiose messi e buoni vini, o Dei / a noi donate! Adesso finalmente / contento del mio poco, in questa calma / vivere sempre io possa…». Non è vero (per fortuna!) che la scuola rende sempre sgradevole tutto ciò che insegna. Negli anni adolescenti del ginnasio eccomi già conquistato dall’incanto aurorale dello Stil Novo, quale appariva nelle pagine dell’antologia scolastica. La nostra insegnante di lettere ci fece poi leggere in classe Alexandros di Pascoli. Di un poeta, cioè, che avrei frequentato a lungo in età matura, studiando con emozione i suoi manoscritti conservati a Castelvecchio, dedicandogli corsi universitari, un libro intitolato Trittico pascoliano, e persino - infaticabile promeneur solitaire qual

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ero in quegli anni - visitando a piedi tutte, o quasi tutte, le contrade della terra barghigiana evocate nei poemetti e divenute poi, anche per me, luoghi dell’anima. Scolaretto quattordicenne già aperto alla poesia, rimasi affascinato dai temi di destino, di musicale mistero, del Pascoli di Alexandros, così diverso dal poeta “ciaramelloso” («Udii tra il sonno le ciaramelle») o “equino” («O cavallina, cavallina storna») incontrato alle scuole elementari; e provai anch’io a scrivere un poemetto intitolato Hannibal, memore delle vite di Cornelio Nepote incontrate in quello che si chiamava ancora ginnasio inferiore. Riuscii ad abbozzarne soltanto due episodi. Nel primo, dall’alto dei Campi d’Annibale, il condottiero contempla estatico, in fondo alla pianura, Roma che sogna di conquistare: «Come splendeva Roma in quell’aurora / fulgida di speranze…». Nell’altro episodio, il vecchio Annibale, deluso e stanco, si offre, docile, alla morte. A vent’anni chi non ha scritto qualche verso? Può essere capitato anche a me qualche rara volta, senza intenzione di pubblicarli: versi stampati ce ne sono troppi e poi troppi dappertutto. Sull’opportunità di pubblicare versi concordo con John Steinbeck quando dice che le poesie sono come le ostriche: se non sono di qualità eccellente, meglio farne a meno. In una pagina di diario ricordo tuttavia, dono di una notte d’Epifania dei miei trasognati vent’anni, l’inaspettata grazia di sentir nascere versi. Vegliavo ascoltando ritmi interiori che prendevano forma per evocare – emersa chissà da quale recondito vivaio d’archetipi – un’immaginaria fanciulla scomparsa allo sbocciare della prima giovinezza. Attorno, un’atmosfera assorta e remota, quasi omerica, tra ancelle e compagne che, ricordandola, filavano. Commento musicale adatto, anche se proveniente da un mondo ben lontano da quello omerico, sarebbe stato quello che introduce e accompagna l’episodio di Senta, tra fanciulle che filano, nell’Olandese volante, o Vascello fantasma che dir si voglia. «Oltre quei monti azzurri»: era uno di quei mesti versi d’addio (alla mia stessa giovinezza?). “Azzurri” non solo per eco leopardiana, ma per sintonia sia con


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