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Il prigioniero di Ushuaia, di Gianni Antonio Palumbo, pag
by Domenico
IL PRIGIONIERO DI USHUAIA
UN POEMETTO DALL’INCEDERE MAESTOSO
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di Gianni Antonio Palumbo
HA un incedere maestoso e reca in sé una sorta di senso di necessità questo bellissimo poemetto di Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia, pubblicato da Genesi in seconda edizione e in versione italiana e spagnola (la traduzione è di Angela Pansardi), con una lucida ed elegante prefazione di Sandro Gros-Pietro.
L’autrice, nata a San Mauro Pascoli, vanta una solida produzione di poetessa e saggista e, tra gli altri riconoscimenti conseguiti, ha all’attivo anche il “Premio Penisola Sorrentina”, edizione 2008, vinto proprio con il poemetto di cui ci stiamo occupando.
Suddiviso in venti sequenze, Il prigioniero trae ispirazione da un testo poetico che la fictio poematica dichiara prodotto da un ignoto prigioniero della colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco. “Altra fine non merito, crudele pellegrino / attraversai la notte della mia storia / versando sangue umano sul mio cammino”, recitano i bellissimi versi in merito ai quali Gros-Pietro avanza anche l’ipotesi di una riedizione dell’espediente del manoscritto cervantesco e manzoniano.
Da questa fonte di ispirazione scaturisce l’architettura dell’opera della Tognacci, che si apre su un presente di cui l’io lirico attesta l’asfitticità. Esso appare caratterizzato dalla sperimentazione di una prigionia nei limiti dell’esistente, “tra mura di carne” e un “trascinarsi di gesti / entro l’orlatura del domestico campo”, nell’iterarsi di una ritualità logorante scandita da elementi che ammiccano al plazer (“il profumo di caffè”) come all’ennui (il “sottofondo vociante / del piccolo schermo”). A spezzare questi vincoli interviene la parenesi di una voce interiore (“Sii scudo di te stessa / di meta in meta / più vicina sarai al vero”), con l’invito ad auscultare in profondità la propria anima, in ideale congiunzione con l’anima mundi. È da precisare come il senso di prigionia che attanaglia l’autrice sia presentato quale vulnus tipico del genere umano e causa di un costante movimento di rintanamento che “solo la nera Parca” può tranciare. A tale tentazione, Tognacci contrappone l’innescarsi dell’itinerario psichico che la conduce nella colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco.
La forza dirompente del vento “fuggito dal sacco di Eolo” allude al viaggio di Odisseo e determina per l’autrice un volo “senza bussola, impazzito”, che ci pare memore di quello splendido limes tra Vita e Morte ch’era la montaliana “casa dei doganieri”. Del resto, a nostro avviso, un canto limitaneo è anche quello della Tognacci, librato al confine dell’esistere, proteso a sfiorare quel velo che separa il Sacro dal tempo ordinario del vivere.
Per effetto di questa impetuosa rêverie, finisce con lo stagliarsi con contorni estremamente nitidi l’icona di una Natura possente, maestosa come quella della foscoliana Ventimiglia, dominata da presenze che appaiono lari della storia, con l’anima che “corre là dove si orienta il puma / sulla preda balzando, / e il condor si alza nell’azzurro / verso torrioni di monti”. Tognacci riesce mirabilmente nella
declinazione di questa bellezza selvaggia e maestosa al contempo, in un immaginario che reca in sé e fa coesistere le antitesi del fuoco e del ghiaccio, suscitando nel lettore “brividi di luce / per rianimate ombre” e rendendo pienamente l’idea di quella catena di predazioni e rapimenti d’Assoluto che perpetra la parabola dell’universo.
In questo quadro assistiamo alla graduale epifania della figura chiave del poemetto, a cui l’autrice si è ricongiunta per effetto dell’ideale sensazione di prigionia. L’uomo della colonia penale di Ushuaia è creatura viva e poeticissima, che s’imprime nella memoria. Il suo essere “viandante che si arrende / al dolore del suo insuccesso” ne fa un vinto della Storia. V’è in lui qualcosa del Wanderer esistenziale, smarrito nell’errore: “Attraversai la notte del mio tempo, / il pugnale alzai e sangue umano / senza più dimora si disperse”. Emblematico l’interrogativo che l’io poetante gli rivolge: “Da quale inverno sei uscito”? Per il personaggio, infatti, l’inverno sembra assurgere a condizione ontologica; egli appare un “gigante impietrito”, “si sbizzarrisce il gelo a ricamare / trame gelate sulla sua chioma”. È come se questa stagione impietosa fosse il correlativo oggettivo della cristallizzazione della sua anima in un rimorso che l’induce a sentirsi spirito traviato. L’autrice, invece, coglie in lui il germe del bene, ne fa un ‘veglio’ dalla dignità quasi catoniana. “Non è tatuata nell’anima / la perdizione. S’intrecciano / i fili del male ai fili del bene”, scrive e sono versi che restituiscono l’essenza del genere umano, nel suo complesso garbuglio di luce e oscurità.
Se forte è l’impronta di una Natura selvaggia e glaciale, e chiara appare l’espressione della caducità dell’uomo (“Neve siamo che un raggio di sole / ricama come fragile merletto / prima di scioglierla nel fango”), profondo è anche lo slancio fideistico in Dio. Nitida è la percezione di una presenza metafisica, la quale trova la sua ipostasi nella costellazione della Croce del Sud, che spicca nelle sequenze conclusive, testimone silenziosa dello straordinario potere della Poesia, altro tra i motivi fondamentali del canto. È infatti proprio quest’ultima a fungere da mediatrice tra i due prigionieri, rendendo possibile l’incontro d’anime al di fuori dei confini del tempo e dello spazio; come ha evidenziato Marina Caracciolo, essa è “quel soffio di origine divina che ha risvegliato e riscattato il prigioniero”.
Di fronte a questi grandi misteri, la ragione rivela tutta la sua insufficienza e subisce un inevitabile scacco: tale facoltà non può “intrappolare l’oceano dell’anima”, le cui “onde misteriose” ci pongono in connessione con “il tempio dell’infinito”. Su quest’immagine, che, lontana da qualunque tentazione nichilistica, coglie la sacralità degli immensi spazi che si schiudono al volo dell’anima, si conclude, con un bellissimo suggello, il poemetto. Un solenne e intenso cantico d’amore cosmico, pregno di pietas e di sacra apertura al movimento della Vita.
Gianni Antonio Palumbo
Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia. El prisioniero de Ushuaia, Genesi, Torino 2021, Euro 15
SOLSTIZIO D'INVERNO
Dura a notte la pioggia sul tuo volto, mentre rincasi e sogni il caldo bene dell'amica dimora che ti attende, dov'è dolce ripetere i pensieri e le parole d'ogni giorno. È tardi ormai in questo solstizio dell'inverno che gelido s'approssima e cancella gli ultimi avanzi dell'autunno. - Solo quell'attesa ti resta e la speranza del nuovo anno che s'appressa. Forse sarà a te più propizio e dal suo avvento te ne verrà più luce. Quella luce di già s'accende sopra la tua via, mentre dura la pioggia sul tuo volto gelida scende e tutto il mondo opprime.
Tu l'accogli, rapito nell'ascolto.
Elio Andriuoli
Napoli