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POMEZIA-NOTIZIE

Luglio 2021

IL PRIGIONIERO DI USHUAIA UN POEMETTO DALL’INCEDERE MAESTOSO di Gianni Antonio Palumbo

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A un incedere maestoso e reca in sé una sorta di senso di necessità questo bellissimo poemetto di Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia, pubblicato da Genesi in seconda edizione e in versione italiana e spagnola (la traduzione è di Angela Pansardi), con una lucida ed elegante prefazione di Sandro Gros-Pietro. L’autrice, nata a San Mauro Pascoli, vanta una solida produzione di poetessa e saggista e, tra gli altri riconoscimenti conseguiti, ha all’attivo anche il “Premio Penisola Sorrentina”, edizione 2008, vinto proprio con il poemetto di cui ci stiamo occupando. Suddiviso in venti sequenze, Il prigioniero trae ispirazione da un testo poetico che la fictio poematica dichiara prodotto da un ignoto prigioniero della colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco. “Altra fine non merito, crudele pellegrino / attraversai la notte della mia

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storia / versando sangue umano sul mio cammino”, recitano i bellissimi versi in merito ai quali Gros-Pietro avanza anche l’ipotesi di una riedizione dell’espediente del manoscritto cervantesco e manzoniano. Da questa fonte di ispirazione scaturisce l’architettura dell’opera della Tognacci, che si apre su un presente di cui l’io lirico attesta l’asfitticità. Esso appare caratterizzato dalla sperimentazione di una prigionia nei limiti dell’esistente, “tra mura di carne” e un “trascinarsi di gesti / entro l’orlatura del domestico campo”, nell’iterarsi di una ritualità logorante scandita da elementi che ammiccano al plazer (“il profumo di caffè”) come all’ennui (il “sottofondo vociante / del piccolo schermo”). A spezzare questi vincoli interviene la parenesi di una voce interiore (“Sii scudo di te stessa / di meta in meta / più vicina sarai al vero”), con l’invito ad auscultare in profondità la propria anima, in ideale congiunzione con l’anima mundi. È da precisare come il senso di prigionia che attanaglia l’autrice sia presentato quale vulnus tipico del genere umano e causa di un costante movimento di rintanamento che “solo la nera Parca” può tranciare. A tale tentazione, Tognacci contrappone l’innescarsi dell’itinerario psichico che la conduce nella colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco. La forza dirompente del vento “fuggito dal sacco di Eolo” allude al viaggio di Odisseo e determina per l’autrice un volo “senza bussola, impazzito”, che ci pare memore di quello splendido limes tra Vita e Morte ch’era la montaliana “casa dei doganieri”. Del resto, a nostro avviso, un canto limitaneo è anche quello della Tognacci, librato al confine dell’esistere, proteso a sfiorare quel velo che separa il Sacro dal tempo ordinario del vivere. Per effetto di questa impetuosa rêverie, finisce con lo stagliarsi con contorni estremamente nitidi l’icona di una Natura possente, maestosa come quella della foscoliana Ventimiglia, dominata da presenze che appaiono lari della storia, con l’anima che “corre là dove si orienta il puma / sulla preda balzando, / e il condor si alza nell’azzurro / verso torrioni di monti”. Tognacci riesce mirabilmente nella


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