Pomezia Notizie 2021_7

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5350ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma. - Il mensile è disponibile su: http://issuu.com/domenicoww/docs/

Anno 29 (Nuova Serie) – n. 7

- Luglio 2021 -

N° 7 della Serie online

LUCIO ZINNA E LA RISCOPERTA DEGLI AUTORI “FUORI CIRCUITO” DELLA TERRA DI SICILIA di Lorenzo Spurio

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LCUNI anni fa il professore Lucio Zinna, poeta e attento studioso della letteratura e della cultura siciliana alla quale appartiene (è nato a Mazara del Vallo, nel Trapanese


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All’interno: Amor di poeta, di Emerico Giachery, pag. 8 Massimiliano Sacchi, inno alla scienza, di Giuseppe Leone, pag. 10 Il prigioniero di Ushuaia, di Gianni Antonio Palumbo, pag. 12 La donna del ventesimo secolo, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Tutti a scuola, di Leonardo Bordin, pag. 17 I portici di Monte Berico, di Italo Francesco Balbo, pag. 19 Verso lontani orizzonti, di Fabio Dainotti, pag. 20 Itinerari e delicati colloqui, di Antonio Crecchia, pag. 24 Imperia Tognacci e Il prigioniero di Ushuaia, di Anna Aita, pag. 26 Il Canto Glarus di Marcello Falletti di Villafalletto, di Manuela Mazzola, pag. 28 Laura Pierdicchi: Il Portale, di Domenico Defelice, pag. 30 Alfredo Nobel, di Leonardo Selvaggi, pag. 32 Imprinting necessario, di Wilma Minotti Cerini, pag. 37 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 60 Tra le riviste, pag. 63

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Poesie controcorrente e racconti in versi, di Fabio Dainotti, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Voci, di Giannicola Ceccarossi, pag. 42); Isabella Michela Affinito (Eccidio in casa Busco, di Antonio Crecchia, pag. 43); Roberta Colazingari (Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, di Marina Caracciolo, pag. 45); Roberta Colazingari (Colori e stupori della vita e della natura, di Lina D’Incecco, pag. 45); Roberta Colazingari (Il coraggio di amare, di Marcello Falletti di Villafalletto, pag. 45); Roberta Colazingari (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 46); Roberta Colazingari (Poesia intimistica e civile in Bruno Rombi, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 46); Roberta Colazingari (Frammenti di vita, di Manuela Mazzola, pag. 47); Domenico Defelice (Edward Lear Poems Nonsense & Songs, a cura di Virginio Gracci, pag. 47); Domenico Defelice (Carmelo Rosario Viola, di Tito Cauchi, pag. 48); Manuela Mazzola (Giacomo Leopardi percorsi critici e bibliografici, di Giuseppe Manitta, pag. 49); Manuela Mazzola (Carmelo Rosario Viola, di Tito Cauchi, pag. 50).

Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Carolina Ceccarelli Quercia, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Nino Ferraù, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno, Peter Russell

e vive a Bagheria, nell’hinterland palermitano, dopo aver vissuto a lungo nel capoluogo siciliano) ha dato alle stampe un ricco volume nel quale raccoglieva una selezione dei suoi approfondimenti e studi critici sugli intellettuali della Trinacria, terra da sempre feconda in fatto di autori, opere, espressioni e generi letterari. Il volume, dal titolo La parola e l’isola.

Opere e figure del Novecento letterario italiano, venne pubblicato nel 2006 per i tipi dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici di Palermo. Al suo interno erano contenute disamine e considerazioni critiche su, tra gli altri, il narratore Raffaele Poidomani (1912-1979) di Modica (RG) noto per il romanzo Carrube e cavalieri (1954), contenitore


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di elementi prodromici de Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa (1896-1957); il drammaturgo e scrittore nisseno Rosso di San Secondo (1887-1956); il poeta dialettale Alessio Di Giovanni (1872-1946). Sono, questi, nomi che – purtroppo – e nella maggior parte dei casi all’italiano medio poco – se non nulla – dicono, evocano, permettono di richiamare opere o messaggi. Di certo non va dimenticata una delle creazioni più importanti di Lucio Zinna ovvero la rivista «Arenaria» sulla quale hanno scritto voci eminenti della nostra letteratura, che fu attiva dal 1984 al 1997 e la sua recente derivazione, in formato digitale, dei «Quaderni di Arenaria – Nuova Serie»; su entrambe, nel corso del tempo, sono stati pubblicati vari interventi critici, veri e propri saggi e note di lettura ad opere e di riscoperta di autori della Trinacria che, per vari ordini di motivi, sono stati tralasciati dalla critica ufficiale decretandone la relegazione in una dimensione di sonnolenza. Sulla rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe», inoltre, sono apparsi due interventi degni di menzione su intellettuali che, pur non nati in Sicilia, hanno avuto un profondo legame con questa terra: “Elvezio Petix, cantore di chi resta dietro la porta” (uscito su «Euterpe» n°32, dicembre 2020) e “Giselda Fojanesi e la sua avventura siciliana” (uscito su «Euterpe» n°33, giugno 2021). La questione posta da Zinna nel suo ultimo saggio con l’accezione di “fuori circuito” è di indubbia importanza e di necessaria trattazione da parte della critica e impone l’obbligo di una condanna netta verso quella damnatio memoriae che per troppo tempo (e da troppo tempo) contraddistingue una certa letteratura considerata di nicchia, localista, intellettualizzata, lontana dai grandi marchi e per questo destinata a una parziale e non capillare diffusione, a un facile oblio. Ci si è riferiti spesso a questo universo sempre più desolante del quale in pochi si sono fatti carico con sensibilità e urgenza in relazione a una sedicente configurazione di “minori”, di autori in qualche modo inferiori ad altri (ma a

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quali? E in che cosa a essi inferiori?) dipendenti o relegati, sottomessi o sottaciuti dai nomi dati dalle Auctoritas, dalla classicità, dai canoni del momento, dai fenomeni di mercato. Insomma: è sempre stato compito del critico indagare con il lanternino nel mare magnum dell’indifferenza scantonando visioni settarie e dogmatiche per far risaltare il vero e la qualità, pur negli ambiti del non conformismo, della novità e dell’avanguardia, finanche in quegli autori che, non fortunati come altri – per mezzi, conoscenze, influenze di vario tipo o forse mancanza d’autostima e labile intraprendenza – hanno avuto tutt’altro esito. Si capisce, allora, come la definizione abusata di “minori” dinanzi a una supposta ufficialità dei maggiori che non può esistere perché non può esserci un unico, uniformato e certificato metodo di valutazione, sia errata e causa, essa stessa, di grandi malintesi, storture, incongruità diffuse. Chi può dirci, infatti, che un poeta quale Ignazio Buttitta – uno dei maggiori dialettali del Secolo scorso, ma anche grande animatore e difensore dei diritti civili – sia inferiore a un Elio Vittorini o a un Leonardo Sciascia? Chi è convinto di sostenere che l’esperienza di Giardina e Civello non meriti ben altro a un mero accenno stringato e veloce quando si parla di futurismo in Italia, dispensando abbondanti pagine a Marinetti, Govoni e Folgore? Chi decide e in base a cosa? Daniele Moretto recensendo l’opera di Zinna alla quale ci siamo poco fa riferiti, sulla rivista «Pagine» nel 2008, in relazione a questa capacità innata e questa esigenza insopprimibile di Zinna di ricercare nel sommerso della letteratura per far risaltare gli autori di pregio – dimenticati velocemente per circostanze variegate – aveva avuto modo di osservare: «Zinna fa per la letteratura siciliana ciò che i poeti-critici della “costellazione ermetica” (Macrì) fecero per quella italiana a inizio Novecento: un’opera di sprovincializzazione. Il lavoro letterario di Lucio Zinna, nel suo complesso, fa pensare a quello dei poeti-critici della Terza Generazione, i cosiddetti ermetici fiorentini (Mario Luzi, spesso a Palermo,


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aveva in Lucio Zinna uno dei fidi amici). Il lavoro critico è, per un poeta, inevitabile estrinsecazione della facoltà ermeneutica e risponde a due necessità: quella intellettuale di “scoprire” altri percorsi creativi e quella artigianale di ridisegnare il mondo con gli altrui segni. […] La dimensione etica dell’opera letteraria, per Zinna «è presente allorché la lettura (o la scrittura) di un libro produca interiori modificazioni … per cui si avverte dopo la lettura (o la scrittura) di non essere più esattamente gli stessi»1. Gli innumerevoli testi recensiti da Zinna lungo la sua carriera letteraria, inevitabilmente diventano pretesti per la continua rielaborazione di ogni topos o tropus – le immagini poetiche, queste pepite dei cercatori-trovatori, questi “fiori della meditazione” – per la riflessione sullo stile, per l’incessante meditazione, vuoi più ironica vuoi più lacerata, sull’esistenza. Le varie isole-parole, cioè i vari autori dell’arcipelago siciliano, così come lo vede Zinna, sono tessere più o meno luminose – come le stelle nel firmamento – del più vasto mosaico della letteratura di ogni tempo»2. Zinna in effetti ha proseguito su questo genere di cammino e ne è testimonianza il recente saggio che porta come titolo Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito edito nella collana Sisifo della Mimesis Edizioni di Milano nel 2020. Questo testo – va subito detto – non mira a porre la questione dei “minori” in quanto a mera lamentazione e scostamento da una critica negletta e disattenta, ma a fornire validi esempi, enucleati nei vari capitoli che compongono il saggio, di intellettuali siciliani che la storiografia ha indecorosamente dimenticato o

semplificato in maniera ridicola, permettendo quella fagocitazione spicciola in cui il pesce grande mangia quello piccolo. La disattenzione verso determinati autori scomparsi da tempo che – fortuna o condanna loro – non sono giunti alle major editoriali e di cui pochi critici – scomparsi da tempo ormai anch’essi – hanno studiato e richiamato nelle loro opere non deve – come Zinna ben dimostra – portarci ad acquisire – a subire, diremmo – unicamente la letteratura e i suoi esponenti che il canone – dettato dai programmi scolastici anche, s’intende – ha portato a determinate scelte che a loro volta ne hanno dettate altre di rifiuto, di sacrificio, di minimizzazione della validità contenutistica e formale di autori che, ripresi e affrontati con attenzione, siamo certi di poter dire imprescindibili. Pensiamo – solo per rimanere al caso del Meridione che è quello più evidente – esponenti come Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli, Albino Pierro e Salvatore Toma – che salvo in sparute circostanze quali gli anniversari di morte o nascita degli stessi vede l’attuazione di iniziative che permettono un approfondimento. Lettere siciliane raccoglie otto saggi critici di varia lunghezza che sono già apparsi su riviste letterarie o che sono stati pronunciati nel corso di conferenze. Il volume si apre con un attento testo critico dal titolo “Il carteggio Antonio Pizzuto – Salvatore Spinelli” nel quale – riportando brani di corrispondenza tra i due intellettuali – si ripercorre il tracciato di una collaborazione fattiva pervasa da grande acume intellettivo. Segue un “Profilo di Ignazio Buttitta”3, poeta vernacolare che negli ultimi decenni ha visto una significativa

1 Lucio Zinna, Gli equilibri della poesia, «Quaderni di Arenaria», 2003, p. 16. 2 Daniele Moretto, Recensione a Le parole e l’isola. Opere e figure del Novecento letterario italiano di Lucio Zinna, «Pagine», n°55, 2008. La recensione è stata ripubblicata su «Literary», link: http://www.literary.it/dati/literary/moretto_dan/la_ parola_e_lisola.html (Sito consultato il 22/05/2021). 3 Segnalo un mio precedente approfondimento su

Ignazio Buttitta a partire dall’analisi di un saggio monografico del poeta e critico siciliano Marco Scalabrino su di lui: Lorenzo Spurio, “Quando la poesia si fa impegno e denuncia: Ignazio Buttitta”, «Lumie di Sicilia», n°43, novembre 2019, pp. 1316; ripubblicato su «Voci Dialettali», rivista dell’Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali (A.N.PO.S.D.I.), n°227/42, anno LXVII, dicembre 2019, pp. 13-16.


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riscoperta, anche grazie all’attenta produzione di saggi di approfondimento (tra cui uno di Marco Scalabrino) e all’attività della Fondazione che porta l’augusto nome del celebre poeta in piazza. Zinna ben delinea l’origine modesta di Buttitta, il retroterra culturale della Bagheria d’allora, le battaglie civili e le manifestazioni di condanna contro la mafia e il banditismo. Notevoli furono il Lamentu d’una matri (1953) e il Lamentu pi Turiddu Carnivali (1956), come pure la sua dichiarazione di poetica, vocazione quale vera “chiamata” misterica e compagna di vita. Curioso e luminoso l’avvicinamento di Buttitta al Lorca tragico del lamento per la morte del torero Ignacio Sánchez Mejías (1891-1934) scritto nel 1934 scandito dal doloroso ritornello “Alle cinque della sera”. Così scrive Zinna: «Nel 1956 esce il Lamentu pi Turiddu Carnivali, in ottave, in cui la morte, per mano mafiosa, del sindacalista siciliano è cantata con toni accesi e dolenti come nel famoso Llanto di García Lorca per Ignacio Sánchez, ma su classiche fondamenta: da chanson de geste»4. Il poeta spagnolo, barbaramente fucilato nel 1936, sarà oggetto privilegiato d’ispirazione del quadro “Fucilazioni in campagna” (1938) di Renato Guttuso (19111987), altro eccelso bagherese. Segue un saggio sul poeta Nobel per la letteratura nell’anno 1959 il modicano Salvatore Quasimodo (1901-1968) padre della stagione ermetica ed esponente della nudità della parola. In “La dimensione etico-religiosa nella poesia di Salvatore Quasimodo” (tema che lo studioso prof. Domenico Pisana ha particolarmente a cuore ed approfondito in

una serie di volumi e presenze in conferenze5) Zinna traccia la natura prettamente civile del poeta Quasimodo ravvisabile nella trattazione di una poetica a tratti cruda e viscerale, magmatica e dolente con i suoi contenuti di solitudine, sofferenza e alta tensione morale. Con opportuni rimandi a un melieu di critici d’alta levatura (il compianto Giorgio Bàrberi Squarotti e Neria De Giovanni6), Zinna affronta da varie prospettive l’ipotesi di una religiosità insita nella lirica quasimodiana alla quale si riferisce nei termini di «tendenza all’oltrità»7. L’impegno civile di Quasimodo vien richiamato in un poco noto (e pertanto motivo di ricerca, lettura e di considerazione critica) discorso datato 1959 dal titolo Il poeta e il politico nel corso del quale ebbe a sostenere che «il fattore religioso può spingere ancora a imprigionare l’intelligenza dell’uomo»8. Lasciato il capitolo – tra i più interessanti, va detto – relativo a Quasimodo entriamo, con i successivi, in quel percorso di cui si diceva, tra esponenti di una stagione non divenuta canone, ovvero ai “fuori circuito”. È il caso di Orazio Napoli (1901-1979) concittadino dello stesso Zinna in quanto nato in quel di Mazara del Vallo (TP) che ci viene ricordato come narratore apprezzato da alcuni “Grandi”, autori “dentro circuito” quali Vincenzo Cardarelli, Umberto Saba e lo stesso Quasimodo. Poeta ai margini della nostra tradizione celebrata e perpetuata, molto defilato ma, come richiama l’Autore, «poeta della concretezza […] [dalla] parola precisa e decisa, sicura nei contorni»9, oltre che autore di un saggio su Jacopone da Todi e che, per-

4 Lucio Zinna, Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito, Mimesis, Milano, 2020, pp. 29-30. 5 Domenico Pisana, Quel Nobel venuto dal Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria e oblio, Argo Software, 2006. 6 Per approfondimenti: Giorgio Bàrberi Squarotti, “La critica quasimodiana”, in AA.VV., Quasimodo: l’uomo, il poeta, Cittadella, Assisi, 1983; Neria De Giovanni, “I due livelli etici della

poesia nel “labirinto armonico” di Salvatore Quasimodo” in Sebastiano Satta a Eugenio Montale, Giardini, Pisa, 1984; Neria De Giovanni, Salvatore Quasimodo. Un Premio Nobel dimenticato, Nemapress, Alghero, 2004. 7 Lucio Zinna, Lettere siciliane, op. cit., p. 38. 8 Salvatore Quasimodo, Il poeta e il politico e altri saggi, Mondadori, Milano, 1960, p. 51. 9 Lucio Zinna, Lettere siciliane, op. cit., p. 59.


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tanto, merita un sorvolo curioso e una rilettura, se non proprio un recupero. C’è poi il saggio dedicato alla riscoperta di Virgilio Titone (1905-1989), altro esponente del Trapanese, questa volta di Castelvetrano, che con la sua opera narrativa analizzò miserie e disagi della società di provincia del periodo giungendo ad analisi amare sulla condizione di questo popolo fiaccato da furberia, malaffare e impostura. Autore, tra le tante opere, di saggi antropologici degni di attenzione: Storia, mafia e costume in Sicilia (1964) e il curioso Dizionario delle idee comuni (1976). È poi la volta dell’intervento critico dal titolo “Santino Caramella e la “certezza” della poesia” dedicato a un illuminato uomo di lettere, il filosofo Santino Caramella (19021972), originario di Genova, ma la cui presenza e influenza furono importanti nella cultura palermitana. Testo che è precedentemente apparso sulla rivista triestina «Terzo Millennio» nel 2009. A chiudere il volume sono due tra i contributi che – a parere del sottoscritto – risultano più interessanti, il primo dei quali atto a ricordare la figura del futurista Castrense Civello mentre il secondo, dal taglio leggermente più personale, l’Autore ha deciso di dedicarlo ad alcuni aspetti della Nuova Avanguardia che interessò Palermo e che, in qualche misura – come vedremo – lo coinvolse in prima persona. In “Castrense Civello: da Marinetti al Gruppo Beta” si ripercorre la vicenda dell’adesione del poeta bagherese Castrense Civello (1909-1982) all’avanguardia futurista. Civello, che pure fu assieme a Giacomo Giardina (1901-1994) massimo esponente del futurismo in Sicilia, era stato definito da Marinetti – il grande ideologo di questa avanguardia – come «il più piccolo e discolo guerriero sovversivo del futurismo isolano», definizione, questa, che nell’accezione di “sovversivo” – detta per altro da Marinetti, il più

sovversivo di tutti – fa senz’altro ragionare. Questo perché non solo Civello aderirà al futurismo, ma lo supererà in maniera inedita e personale, contribuendo a darne una sua lettura, e anche l’anticipo per il suo immancabile deterioro. Proprio a Bagheria era nato prima il gruppo futurista “Conca d’Oro”, raccogliendo vari intellettuali e, dopo che il suo libro Aria Madre (elaborato sui parametri del Manifesto dell’Aeropoesia, anticipato da una prefazione di Marinetti) ebbe ottenuto successo, questo divenne il nome del nuovo gruppo futurista. Il saggio si chiude con l’intervento dal titolo “1971: Neoavanguardia a Palermo tra passione e ideologia” i cui contenuti sono in parte anticipati nel precedente saggio. Qui Zinna parla ampiamente della stagione della Neoavanguardia e del Gruppo ’63, la stagione della decostruzione e della grande sperimentazione dalla quale prende le distanze non mancando di evocare l’esperienza – pur breve – alla quale aderì, quella del poco noto Gruppo Beta. Come si legge nel saggio: «Il Gruppo Beta si chiedeva se potesse esserci un’arte nuova senza un uomo nuovo. Nato per effetto delle suggestioni esercitare dal Gruppo ’63 (che, come noto, aveva avuto il suo battesimo a Palermo), non era con esso coincidente e non ne era satellite. Il “Beta” condivideva con i Novissimi e con la “scuola di Palermo” […] l’esigenza di un rinnovamento del linguaggio, ma ne rifiutava certe insistite tendenze neoformalistiche»10. Zinna osserva pure come la stagione del Gruppo Beta fu qualche anno più lunga di quella del Gruppo ’63, che si esaurì nel 1968, e di come ad oggi rimangano pochi documenti di quella fase avanguardistica, tra cui degli appunti per la definizione di uno “Schema di Ricerca” atto a delineare le peculiarità formali della nuova espressione11. Tra le caratteristiche contenutistiche del Gruppo Beta che, in qualche modo lo resero un esperimento inedito per il

10 Ivi, p. 99. 11 Di questo ha parlato anche in una recente

intervista, molto approfondita e a trecentosessanta gradi sulla sua attività letteraria, alla quale rimando


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periodo, ci fu l’aver posto attenzione sul tema della meccanizzazione e della robotizzazione ma anche l’aver ammiccato alla dirompente letteratura beat americana che, grazie all’intermediazione in fatto di traduzione e interpretariato di Fernanda Pivano, si diffondeva e veniva apprezzata largamente in ambiti giovanili. Ritengo che la versatilità dei contenuti – tutti tesi a omaggiare esponenti importanti della cultura siciliana seppur non consacrati come Grandi in studi critici e antologie generazionali – unita alla perizia esegetica e all’affabulante esposizione degli argomenti che contraddistingue questo volume, così come l’opera di Zinna in senso generale, siano ingredienti che ben si amalgamano in tale situazione e che il lettore saprà ben gradire. Le dissertazioni, mai particolarmente lunghe, eppure sempre sostenute da opportune citazioni, riferimenti e puntuali note bibliografiche, si prestano a un efficace supporto agli studi di settore e alimentano ulteriormente investigazioni di questa tipologia, atte e sensibili a togliere polvere di dosso da personaggi che poco vengono ricordati, celebrati e studiati e che, al contrario, molto hanno dato in termini di conoscenze e arricchimento al patrimonio che, in quanto a bene culturale, è di tutti. Pertanto questa è anche e soprattutto un’opera di valorizzazione di eccellenze poste indebitamente in sordina dal tempo e da una critica disattenta, tendenzialmente miope o ammorbata da qualche faziosità. Lorenzo Spurio Jesi, 22/05/2021

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È IN TRADUZIONE NEGLI USA la silloge di poesie 12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dott.ssa scrittrice e poetessa Aida Pedrina-Soto Ecco un brano nell’originale e nella traduzione: SOGNARE… …vagare tra solchi di nubi, tra luci fulgenti, nel bruno del Cosmo senza fine, o da bocca di fonte, penetrar nei visceri di questa terra e sangue scorrerle eternamente per le vene. Sognar di vivere in quegli abissi marini ove l’animo si spaventa. Sognare il nome mio sulle tue labbra per sempre. TO DREAM ....To walk among furrows of clouds, among glittering lights, in the dusk of the endless cosmos. Or from the well of a spring penetrate the depths of this Earth and have blood flowing eternally through her veins. To dream to live in those profound depths of oceans where the very soul is quivering with fright. To dream my name on your lips forever.

per maggiori approfondimenti: Giovanni Dino, La scrittura il luogo e il tempo. Intervista-

conversazione con Lucio dell’Autrice, Venezia, 2020.

Zinna,

Edizioni


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AMOR DI POESIA di Emerico Giachery

L

A memoria del passato, in questi labili e struggenti anni senili, a volte si fa “musica”: nel senso figurato, ampliato, che questa magica parola può assumere. Tra i motivi “musicali” che s’intrecciano e combinano nella totale sinfonia della memoria-vita spiccano gli incontri: con persone (donne amate e amici, grandi amici che la vita ci ha donato e che ci hanno arricchiti nell’anima); incontri con luoghi, libri, idee. Con la musica, stavolta in senso proprio (quante opere liriche e quanti grandi concertisti e direttori, compresi Furtwängler e Karajan, ascoltati nel corso di una lunga esistenza!). Con la pittura, “finestra aperta sul mondo”, secondo Leon Battista Alberti: primo e tenace amore Piero della Francesca; poi Masaccio, Antonello, Caravaggio, Vermeer; poi l’ultimo, così generoso e creativo, Ottocento francese e tanto bel Novecento anche italiano. Con il teatro, negli anni ormai lontani delle magistrali regie di Strehler,Visconti, Costa, Squarzina, Ronconi, Enriquez. Con il grande cinema, da Carné e Dreyer a Bergman, De Sica, Fellini . Incontri con la poesia. Sin dalla scuola media: più di settantacinque anni or sono. Le Elegie di Tibullo, studiate a scuola in latino, mi dilettavo a tradurle in plausibili endecasillabi: «Copiose messi e buoni vini, o Dei / a noi donate! Adesso finalmente / contento del mio poco, in questa calma / vivere sempre io possa…». Non è vero (per fortuna!) che la scuola rende sempre sgradevole tutto ciò che insegna. Negli anni adolescenti del ginnasio eccomi già conquistato dall’incanto aurorale dello Stil Novo, quale appariva nelle pagine dell’antologia scolastica. La nostra insegnante di lettere ci fece poi leggere in classe Alexandros di Pascoli. Di un poeta, cioè, che avrei frequentato a lungo in età matura, studiando con emozione i suoi manoscritti conservati a Castelvecchio, dedicandogli corsi universitari, un libro intitolato Trittico pascoliano, e persino - infaticabile promeneur solitaire qual

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ero in quegli anni - visitando a piedi tutte, o quasi tutte, le contrade della terra barghigiana evocate nei poemetti e divenute poi, anche per me, luoghi dell’anima. Scolaretto quattordicenne già aperto alla poesia, rimasi affascinato dai temi di destino, di musicale mistero, del Pascoli di Alexandros, così diverso dal poeta “ciaramelloso” («Udii tra il sonno le ciaramelle») o “equino” («O cavallina, cavallina storna») incontrato alle scuole elementari; e provai anch’io a scrivere un poemetto intitolato Hannibal, memore delle vite di Cornelio Nepote incontrate in quello che si chiamava ancora ginnasio inferiore. Riuscii ad abbozzarne soltanto due episodi. Nel primo, dall’alto dei Campi d’Annibale, il condottiero contempla estatico, in fondo alla pianura, Roma che sogna di conquistare: «Come splendeva Roma in quell’aurora / fulgida di speranze…». Nell’altro episodio, il vecchio Annibale, deluso e stanco, si offre, docile, alla morte. A vent’anni chi non ha scritto qualche verso? Può essere capitato anche a me qualche rara volta, senza intenzione di pubblicarli: versi stampati ce ne sono troppi e poi troppi dappertutto. Sull’opportunità di pubblicare versi concordo con John Steinbeck quando dice che le poesie sono come le ostriche: se non sono di qualità eccellente, meglio farne a meno. In una pagina di diario ricordo tuttavia, dono di una notte d’Epifania dei miei trasognati vent’anni, l’inaspettata grazia di sentir nascere versi. Vegliavo ascoltando ritmi interiori che prendevano forma per evocare – emersa chissà da quale recondito vivaio d’archetipi – un’immaginaria fanciulla scomparsa allo sbocciare della prima giovinezza. Attorno, un’atmosfera assorta e remota, quasi omerica, tra ancelle e compagne che, ricordandola, filavano. Commento musicale adatto, anche se proveniente da un mondo ben lontano da quello omerico, sarebbe stato quello che introduce e accompagna l’episodio di Senta, tra fanciulle che filano, nell’Olandese volante, o Vascello fantasma che dir si voglia. «Oltre quei monti azzurri»: era uno di quei mesti versi d’addio (alla mia stessa giovinezza?). “Azzurri” non solo per eco leopardiana, ma per sintonia sia con


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quel mio verseggiare in “azzurro diesis minore”, sia col colore in cui meglio mi riconosco. Se tuttavia dovessi scegliere, tra i pochissimi scritti nel corso dell’esistenza, un versoemblema del mio tendere all’Ulteriore e al Divino, opterei per questo verso finale di un breve Notturno dei lontani vent’anni: «Là dove il peso si fa lieve luce». Amor di poesia, nel senso più ampio e ricco del termine, ha accompagnato, nel vario svolgersi di una lunga vita, il mio tentativo di “abitare poeticamente la Terra”. Secondo un autentico umanista dei nostri tempi, James Hillman, «i fondamenti della nostra mente non sono né ideologici, né biologici, né linguistici, ma poetici. Ed è la materia poetica – metafore, simboli, parole – il mistero fondamentale della mente umana». Affermazione stimolante, ma che andrebbe chiarita e motivata. Ogni lettore può provare a farlo secondo la propria esperienza, il proprio discernimento. Per il docente di letteratura, per la sua attività così gratificante (come ha bene mostrato anche il capolavoro di Peter Weir L’attimo fuggente con il compianto Robin Williams protagonista), l’amor di poesia è, naturalmente, vitale alimento quotidiano. La ricerca critica meditata e complessa, della vigilia studiosa s’invera nel rito gioioso della comunicazione condivisa. Gioioso, il rito, perché celebra una vittoria della parola poetica sul silenzio e sul nulla, facendo rivivere col testo e nel testo un significativo grumo di vita e di storia in esso coagulato e in attesa di tornare ad esistere con pienezza nell’atto interpretativo. Emerico Giachery

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un respiro. I miei alberi soffrono in catene. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La nuova Mezzina, 2017

NEMESI D’AMORE Se io sono il più ricco e il più importante del mondo, è solo perché ho il tuo cuore, ma prima di conoscere il tuo amore non ero che un negletto mendicante. S’io son l’anello, tu ne sei il brillante, io l’artistico vaso e tu il suo fiore, io sono il focolare e tu l’ardore della fiamma che sale sfolgorante. Nelle ore più liete e in quelle meste io son sempre la nave e tu sei il porto che mi proteggerà dalle tempeste. E quando uno dei due sarà già morto l’altro sarà la terra che lo veste perché nei fiori suoi torni risorto. Nino Ferrù Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985

AFA Pianura immobile nell’afa, feroce controra. La vita si nasconde nel folto dei rami, nelle tane. L’ora è sospesa. Solo gli alberi non hanno un riparo,

Un momento della cerimonia della presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesca Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore. (La foto, e le altre a seguire, ci sono state fornite da Alfredo Ferraù, nipote del Poeta)


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Luglio 2021

Conferenza online di

MASSIMILIANO SACCHI UN INNO ALLA SCIENZA AL LAVORO E ALLA GIUSTIZIA di Giuseppe Leone ERATA quant’altre mai votata all’ottimismo, quella di Massimiliano Sacchi, docente di latino e greco nel liceo classico Manzoni di Lecco, proposta, ancora una volta in collegamento telematico, con pubblico a distanza, dall’associazione italiana di cultura classica della delegazione lecchese, venerdì 14 maggio alle 21, con titolo Lo sviluppo della civiltà tra mito e scienza. Una conversazione sul graduale passaggio dell’umanità dallo stato ferino allo stato civile, attraverso una lettura storicistica di opere di poesia, teatro, diritto, filosofia, antropologia, che hanno, di volta in volta, contribuito a migliorare le conoscenze degli uomini scollandole dalle credenze mitologiche. A presentare il professore, membro egli stesso della delegazione lecchese dell’Aicc, la presidente Marca Mutti Garimberti che ne ha ricordato, oltre che l’apprezzato consigliere,

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anche il ricercatore e autore di libri, come L’energia segreta dei simboli e Mores per linguam, un eserciziario latino per studenti del liceo, scritto in collaborazione con Elisabetta Ghislanzoni. Un viaggio all’insegna della positività, si diceva, che lo studioso inizia con un video sulle Baccanti euripidee, espressione del punto più basso dell’inciviltà, per la feroce esplosione di violenza, sangue, orrore e senso del macabro, e conclude citando l’Ulisse dantesco che arringa i compagni nell’ultima impresa della loro vita, esortandoli a considerare la loro semenza e a non dimenticare che sono nati per seguir virtute e canoscenza. Eccolo, allora, anteponendo a tutti Omero, per il potentissimo effetto d’incivilimento dei suoi versi, insistere sul valore della scienza e commentare, alla luce della sua positività, Esiodo, che concepì per primo il lavoro umano sulla terra come strumento di civiltà e progresso; Solone, che esortò i cittadini a non ricercare le ricchezze, ma le buone leggi; Sofocle, che pose il libero arbitrio alla base delle azioni umane; Catone, trade-union tra la Grecia e Roma, che tramanderà a Lucrezio e Virgilio il concetto di labor che lui aveva ereditato a sua volta dall’opera di Esiodo; Plinio il Vecchio, che riconobbe a Roma il merito di aver abolito i sacrifici umani, Seneca che conquistò l’uomo con la filosofia; e Giustiniano, infine, che, fiutando l’importanza del diritto, raccolse tutte le leggi in un solo libro. Ne è venuta fuori una lezione di etica e di politica a un tempo, frutto di rigore filologico e appassionata perorazione letteraria, attraverso un linguaggio solo apparentemente letterale, ma che non disdegna il ricorso alla metafora, individuando nei poli di una pluralità di opposizioni, per lo più tra mito e scienza, inoperosità e lavoro, tracotanza e leggi scritte, fatalità e libero arbitrio, il filo rosso che lega il cammino della civiltà, da Omero fino al medioevo dantesco. Il tutto grazie a una visione della letteratura come sequenza ininterrotta di lasciti, prestiti, anticipi, restituzioni, mediazioni, contaminazioni; e sullo sfondo, una storia che non è mai


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“morta gora”, ma luogo mobile, sempre aperto, della coscienza. Non si è detto che la serata si è svolta anche nel segno di una certa aria di famiglia, e non solo per la presenza dell’ospite, pure stimato consigliere dell’Aicc, ma soprattutto per l’omaggio che la presidente e il professore, sul finire, hanno riservato a Elisabetta Ghislanzoni, indimenticata segretaria dell’associazione e coltissima insegnante di latino e greco, scomparsa nell’agosto scorso. Ma non solo, anche per l’intervento del fratello di Elisabetta, Silvio, presente nel pubblico, che ha aggiunto emozione a emozione. Alla fine, le domande al relatore e gli applausi del pubblico a testimoniare l’apprezzamento verso un tema così interessante e bello, con cui si chiude, non solo questa conferenza, ma una stagione (2020-21!) che difficilmente

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To leave or not to live? Così vicina e non ci son tornato. Corrado Calabrò Da La scala di Jacob, Primo Premio Città di Pomezia 2017, Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie.

SPECCHIO D’ACQUA Pensa a uno specchio d’acqua cristallina che rifletta il tuo viso: la riflessa tua immagine sorride e tu, divina, l’ammiri, innamorata di te stessa. Ma pensa all’acqua mentre vi declina vento o sasso e… ahimè! L’incanto cessa: l’immagine or s’ingrossa ed or s’affina e s’increspa in mostruosi atti d’ossessa. Ed è bastato un alito di vento o un sassolin per conturbar la pura bellezza d’una forma, in un momento… Così, donna del cuore, idol che agogno, tutto tramonta e muor nella natura, così la realtà distrugge il sogno. Nino Ferrù

sarà dimenticata.

Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985

Giuseppe Leone Nelle foto: Massimiliano Sacchi (p. 10) e Il viaggio di Ulisse da Omero a Dante, al Purgatorio (qui sopra)

ENTANGLEMENT Fredda la tua guancia e struccata sul traghetto, di prima mattina. Un gabbiano ci segue come un drone senza un battito d’ali. Si poserà su Reggio o su Messina? Quanto sono vicine le due sponde! Si può scorgere forse la casa con tante stanze in cui mia madre è morta. Quello ad angolo sembra un suo balcone.

Presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesco Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore.


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Luglio 2021

IL PRIGIONIERO DI USHUAIA UN POEMETTO DALL’INCEDERE MAESTOSO di Gianni Antonio Palumbo

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A un incedere maestoso e reca in sé una sorta di senso di necessità questo bellissimo poemetto di Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia, pubblicato da Genesi in seconda edizione e in versione italiana e spagnola (la traduzione è di Angela Pansardi), con una lucida ed elegante prefazione di Sandro Gros-Pietro. L’autrice, nata a San Mauro Pascoli, vanta una solida produzione di poetessa e saggista e, tra gli altri riconoscimenti conseguiti, ha all’attivo anche il “Premio Penisola Sorrentina”, edizione 2008, vinto proprio con il poemetto di cui ci stiamo occupando. Suddiviso in venti sequenze, Il prigioniero trae ispirazione da un testo poetico che la fictio poematica dichiara prodotto da un ignoto prigioniero della colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco. “Altra fine non merito, crudele pellegrino / attraversai la notte della mia

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storia / versando sangue umano sul mio cammino”, recitano i bellissimi versi in merito ai quali Gros-Pietro avanza anche l’ipotesi di una riedizione dell’espediente del manoscritto cervantesco e manzoniano. Da questa fonte di ispirazione scaturisce l’architettura dell’opera della Tognacci, che si apre su un presente di cui l’io lirico attesta l’asfitticità. Esso appare caratterizzato dalla sperimentazione di una prigionia nei limiti dell’esistente, “tra mura di carne” e un “trascinarsi di gesti / entro l’orlatura del domestico campo”, nell’iterarsi di una ritualità logorante scandita da elementi che ammiccano al plazer (“il profumo di caffè”) come all’ennui (il “sottofondo vociante / del piccolo schermo”). A spezzare questi vincoli interviene la parenesi di una voce interiore (“Sii scudo di te stessa / di meta in meta / più vicina sarai al vero”), con l’invito ad auscultare in profondità la propria anima, in ideale congiunzione con l’anima mundi. È da precisare come il senso di prigionia che attanaglia l’autrice sia presentato quale vulnus tipico del genere umano e causa di un costante movimento di rintanamento che “solo la nera Parca” può tranciare. A tale tentazione, Tognacci contrappone l’innescarsi dell’itinerario psichico che la conduce nella colonia penale di Ushuaia, nella Terra del Fuoco. La forza dirompente del vento “fuggito dal sacco di Eolo” allude al viaggio di Odisseo e determina per l’autrice un volo “senza bussola, impazzito”, che ci pare memore di quello splendido limes tra Vita e Morte ch’era la montaliana “casa dei doganieri”. Del resto, a nostro avviso, un canto limitaneo è anche quello della Tognacci, librato al confine dell’esistere, proteso a sfiorare quel velo che separa il Sacro dal tempo ordinario del vivere. Per effetto di questa impetuosa rêverie, finisce con lo stagliarsi con contorni estremamente nitidi l’icona di una Natura possente, maestosa come quella della foscoliana Ventimiglia, dominata da presenze che appaiono lari della storia, con l’anima che “corre là dove si orienta il puma / sulla preda balzando, / e il condor si alza nell’azzurro / verso torrioni di monti”. Tognacci riesce mirabilmente nella


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declinazione di questa bellezza selvaggia e maestosa al contempo, in un immaginario che reca in sé e fa coesistere le antitesi del fuoco e del ghiaccio, suscitando nel lettore “brividi di luce / per rianimate ombre” e rendendo pienamente l’idea di quella catena di predazioni e rapimenti d’Assoluto che perpetra la parabola dell’universo. In questo quadro assistiamo alla graduale epifania della figura chiave del poemetto, a cui l’autrice si è ricongiunta per effetto dell’ideale sensazione di prigionia. L’uomo della colonia penale di Ushuaia è creatura viva e poeticissima, che s’imprime nella memoria. Il suo essere “viandante che si arrende / al dolore del suo insuccesso” ne fa un vinto della Storia. V’è in lui qualcosa del Wanderer esistenziale, smarrito nell’errore: “Attraversai la notte del mio tempo, / il pugnale alzai e sangue umano / senza più dimora si disperse”. Emblematico l’interrogativo che l’io poetante gli rivolge: “Da quale inverno sei uscito”? Per il personaggio, infatti, l’inverno sembra assurgere a condizione ontologica; egli appare un “gigante impietrito”, “si sbizzarrisce il gelo a ricamare / trame gelate sulla sua chioma”. È come se questa stagione impietosa fosse il correlativo oggettivo della cristallizzazione della sua anima in un rimorso che l’induce a sentirsi spirito traviato. L’autrice, invece, coglie in lui il germe del bene, ne fa un ‘veglio’ dalla dignità quasi catoniana. “Non è tatuata nell’anima / la perdizione. S’intrecciano / i fili del male ai fili del bene”, scrive e sono versi che restituiscono l’essenza del genere umano, nel suo complesso garbuglio di luce e oscurità. Se forte è l’impronta di una Natura selvaggia e glaciale, e chiara appare l’espressione della caducità dell’uomo (“Neve siamo che un raggio di sole / ricama come fragile merletto / prima di scioglierla nel fango”), profondo è anche lo slancio fideistico in Dio. Nitida è la percezione di una presenza metafisica, la quale trova la sua ipostasi nella costellazione della Croce del Sud, che spicca nelle sequenze conclusive, testimone silenziosa dello straordinario potere della Poesia, altro tra i motivi fonda-

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mentali del canto. È infatti proprio quest’ultima a fungere da mediatrice tra i due prigionieri, rendendo possibile l’incontro d’anime al di fuori dei confini del tempo e dello spazio; come ha evidenziato Marina Caracciolo, essa è “quel soffio di origine divina che ha risvegliato e riscattato il prigioniero”. Di fronte a questi grandi misteri, la ragione rivela tutta la sua insufficienza e subisce un inevitabile scacco: tale facoltà non può “intrappolare l’oceano dell’anima”, le cui “onde misteriose” ci pongono in connessione con “il tempio dell’infinito”. Su quest’immagine, che, lontana da qualunque tentazione nichilistica, coglie la sacralità degli immensi spazi che si schiudono al volo dell’anima, si conclude, con un bellissimo suggello, il poemetto. Un solenne e intenso cantico d’amore cosmico, pregno di pietas e di sacra apertura al movimento della Vita. Gianni Antonio Palumbo Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia. El prisioniero de Ushuaia, Genesi, Torino 2021, Euro 15

SOLSTIZIO D'INVERNO Dura a notte la pioggia sul tuo volto, mentre rincasi e sogni il caldo bene dell'amica dimora che ti attende, dov'è dolce ripetere i pensieri e le parole d'ogni giorno. È tardi ormai in questo solstizio dell'inverno che gelido s'approssima e cancella gli ultimi avanzi dell'autunno. - Solo quell'attesa ti resta e la speranza del nuovo anno che s'appressa. Forse sarà a te più propizio e dal suo avvento te ne verrà più luce. Quella luce di già s'accende sopra la tua via, mentre dura la pioggia sul tuo volto gelida scende e tutto il mondo opprime. Tu l'accogli, rapito nell'ascolto. Elio Andriuoli Napoli


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ANNA GERTRUDE PESSINA: LA DONNA DEL VENTESIMO SECOLO Secondo Volume di Liliana Porro Andriuoli

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ON un ampio apparato di note12 che accompagnano il testo, è da poco apparso il secondo volume de La donna del Ventesimo secolo, di Anna Gertrude Pessina, per i tipi dell’Editore Manni di Lecce. L’arco di tempo che viene qui preso in esame è quello che va Dal charleston a Bella ciao e considera pertanto donne quali Sarah Bernardt, che fu un’attrice di grande talento13, tanto da sottrarre a Eleonora Duse la parte della protagonista ne La città morta di Gabriele D’Annunzio. Il vero grande amore di D’Annunzio fu però quello per Eleonora Duse (Vigevano, 1858 – Pittsburg, 1924), sbocciato a Venezia il 25 settembre 1895, all’hotel Danieli, sul Canal Grande; amore che li legò come una travolgente passione, sinché non subentrò nell’animo di D’Annunzio un nuovo amore, quello per Alessandra di Rudinì (1876-1931), una donna di classe molto più giovane della Duse. Il rapporto tra D’Annunzio e la Duse si logorò tuttavia anche sul piano professionale, a 12 È interessante notare come attraverso le numerosissime Annotazioni la Pessina riesca a fornire una larghissima serie di particolari che illuminano e rendono appieno la psicologia del soggetto, inquadrandolo perfettamente nel momento storico in cui vive.

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causa della scelta, fatta dal poeta, di un’altra attrice, Irma Grammatica (1869-1962), per la parte di Mila di Codra ne La figlia di Iorio, il testo più alto del teatro dannunziano. La Duse lottò tuttavia a lungo per conservare il suo posto nel cuore del Vate. Un’altra donna che emerse e fece molto parlare di sé agli inizi del Novecento fu Joséphine Baker (Saint Louis, Missouri, 1906 – Parigi, 1975), detta la Venere Nera, che divenne in pochi anni una vetta del Music Hall. La sua vicenda è narrata dalla Pessina per mezzo di un dialogo intitolato Joséphine Baker: la donna e la star, dal quale emerge viva la sua figura, nelle sue diverse sfaccettature. Il fascino e la suggestione del tango, nato come il jazz e il charleston, agli inizi del Novecento e caduto in declino durante la Prima Guerra Mondiale, tornò nuovamente «in auge nel 1921, anno in cui Rex Ingram girò I quattro cavalieri dell’Apocalisse, con Rodolfo Valentino e Alice Terry». È questo un ballo il cui successo perdura sino ai giorni nostri e che ha avuto un non piccolo influsso sulla liberazione della donna del Novecento. Altre importanti figure di donne nacquero poi in Europa in quegli anni, come Coco Chanel, stilista che contribuì con le sue creazioni «alla nascita di un tipo di donna moderna, pratica e disinibita». Di lei la Pessina ci offre un convincente ritratto in un’intervista intitolata Coco Chanel: l’amante e la creatrice di moda,

13 Famosa rimase la sua interpretazione della parte di Salomé, nell’omonima tragedia di Oscar Wilde, rappresentata a Parigi nel febbraio 1896, mentre Wilde era già in prigione.


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in cui si parla della sua ascesa e della sua affermazione come imprenditrice, non trascurando nemmeno di far cenno al suo presunto collaborazionismo con i Nazisti, durante la Seconda Guerra Mondiale. Un’altra stilista famosa per il suo «taglio in sbieco14» è poi Madelaine Vionnet, che si affermò comprando nel 1912 la Maison in Rue Rivoli, con la quale lanciò un nuovo tipo di moda per una donna trasgressiva e anticonformista. Con l’acuirsi dell’«inquietudine economica ed esistenziale», a causa della crisi degli anni venti, nasce un nuovo interesse per scrittori quali Marcel Proust, James Joice, Virginia Woolf. Ed è proprio sulla Woolf che la Pessina si sofferma nella sua ricerca riguardante La donna del Ventesimo secolo. La Woolf fu infatti una donna che riuscì ad affermarsi come scrittrice dotata di una sua spiccata personalità, con romanzi quali Gita al faro, Orlando, La crociera, Le onde, nei quali notevole è l’approfondimento psicologico e la ricerca espressiva; scrittrice che viene qui presentata per mezzo di un’intervista intitolata Virginia Woolf: una stella all’interno dell’universo Bloomsbury, dalla quale la sua immagine emerge netta e compiuta. Tra le donne di cultura del Novecento s’incontra poi in questo libro Selma Lagerlöf, che fu insignita del Premio Nobel nel 1909 e fu membro dell’Accademia di Svezia nel 1914. «Voce aurorale del Romanticismo Nordico» la definisce Anna Pessina, la quale evidenzia come le sia congeniale il mondo delle Saghe, tra le quali eccelle quella di Gösta Berling, che ha le caratteristiche di un «poema popolare». Si affermano intanto le nuove invenzioni della radio e del cinematografo e nascono divi e dive, come Rodolfo Valentino, dalla vita breve ma intensa e Marlene Dietrich, famosa specialmente per la grande diffusione a cui portò la canzone Lili Marleen e per il vasto successo che ebbero alcuni film che la videro

come protagonista, quali L’angelo azzurro (1930), Marocco (1930), L’imperatrice Caterina (1934), Capriccio spagnolo (1935), Vincitori e vinti (1961). Una notevole «presenza scenica» dal «fascino magnetico» fu nel Novecento quella di Greta Garbo, che ebbe grande successo come attrice in film nel quali (si veda per tutti Gösta Berling, tratto dal romanzo della Lagerlöf) incarna una femminilità ambigua, «commistione di ardore e di calcolo», come acutamente osserva la Pessina. Con l’avvento del Fascismo la donna assunse un ruolo subordinato alle direttive del Partito, che la volle disponibile ad indossare l’uniforme bianca per le parate paramilitari, ma soprattutto moglie e madre di autentici fascisti. Tra le donne che assursero a grande notorietà in questo periodo sono da ricordare Eva Braun (amante di Hitler) e Claretta Petacci (amante di Mussolini). È da notare poi che in un clima di autarchia, nel quale la massima aspirazione era quella di poter guadagnare «mille lire al mese», alla donna si raccomandava l’austerità e la buona amministrazione del bilancio familiare. Fu quella degli anni venti e trenta un’epoca nella quale ebbe molto successo il «romanzo rosa»; un genere in cui primeggiò Liala (pseudonimo di Amalia Liana Cambiasi) con libri di larga diffusione. A lei la Pessina dedica una lunga intervista, intitolata Liala: donna e Signora del rosa, nella quale ne approfondisce la personalità artistica e umana. Nella sua intervista la Pessina comincia col ricordare che il nome di Liala le fu dato da D’Annunzio, durante una visita che lei gli fece al Vittoriale. Evoca poi quello che fu il grande amore della sua vita, Vittorio Centurione Scotto, un ufficiale delle Regia Aeronautica, perito in un incidente aereo nel 1926, morte che generò un trauma profondo in lei. Si sofferma inoltre sulle ragioni del suo successo,

14 Il «taglio in sbieco» fu il contributo più importante che Madeleine Vionnet diede alla moda. Consiste nel tagliare la stoffa in diagonale,

cioè a 45° rispetto al verso della trama e dell’ordito.


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dovuto alla sua capacità di assecondare le segrete aspirazioni del suo pubblico. Sono poi da ricordare tra le donne del Novecento quelle della Resistenza antifascista, tra le quali spiccano la nipote di Giacomo Matteotti, Francesca Leonora Fabbri, Iris Versari, Irma Bandiera, Carla Capponi. Alle donne della Resistenza appartiene anche Nilde Iotti, che esercitò le funzioni di «portaordini» a favore dei partigiani, attività che consentiva loro di intrecciare «reti di collegamento strategiche e militari». Terminata la guerra, la Iotti partecipò attivamente alla Commissione dei settantacinque, incaricata di redigere il testo della nuova Carta Costituzionale. Eletta successivamente al Parlamento, operò per l’emancipazione della donna attraverso opportune proposte di legge dirette a raggiungere la parità dei sessi. Nota è la sua relazione con Palmiro Togliatti, il Segretario del Partito Comunista Italiano, che durò sino alla morte di lui, avvenuta il 21 agosto del 1964. Fu successivamente eletta Presidente della Camera dei Deputati (20 giugno 1979), carica che esercitò con fermezza e imparzialità e con quella saggezza che le fu riconosciuta anche da Giorgio Napolitano in occasione della sua morte (6 dicembre 1999). Il libro della Pessina si chiude con un richiamo al noto romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò, nel quale viene evocata la figura e la tragica fine di una donna avente le funzioni di staffetta partigiana. Numerose furono infatti le donne che trovarono la morte combattendo nell’Esercito per la Liberazione, come attestano le statistiche compilate dall’AMPI, secondo le quali ben trentacinquemila furono le donne partigiane combattenti, parecchie delle quali vennero arrestate e sottoposte a tortura (4.633) o deportate in Germania (1.890). Termina così quest’ampia e coinvolgente carrellata contenuta nel secondo volume15

15 L’analisi del primo volume è stata fatta a suo tempo su questa stessa rivista (“Pomezia Notizie”, Anno 27 (N.S.), Maggio 2019).

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avente per oggetto La donna del Ventesimo secolo di Anna Gertrude Pessina che, partendo dal Cancan e dal Charleston, giunge sino a noi. La sua è stata un’analisi compiuta ed esauriente, che ci offre la possibilità di valutare con esattezza l’evoluzione della presenza femminile nella nostra società. Ed è stata la sua certamente una ricerca di vasto respiro, compiuta con quella scrupolosa bravura e con quella serietà che da sempre la contraddistinguono e che danno valore e sostanza ad ogni suo lavoro. Liliana Porro Andriuoli

UN GIORNO Un giorno come tanti sulla terra, nello scorrere lento dei millenni, nel fresco susseguirsi delle aurore. E noi, presi nel giro della vita, che lottiamo ed amiamo, rinascendo ogni volta nel volgere degli anni sempre uguali e diversi; noi che tutto abbiamo conosciuto e vinto e perso e sognato e sperato e disperato, come agli uomini accade, ora qui soli ci siamo ritrovati, in questo volo sempiterno dei cieli, sulla strada delle costellazioni; ed alle labbra spontanee son salite le parole che ci hanno salvati. Fu ventura incontrarsi, portento fu il cammino. Un fulgore più vivo oggi nell'alto s'accende, dentro l'attimo che dura. Si fa lieve il destino, si fa pura l'anima ed un più grande Evento attende, oltre il breve trascorrere dell'ora che la conduce e legata la tiene. In quello trova il sole del suo bene. Elio Andriuoli Napoli


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TUTTI A SCUOLA A DISTANZA E IN PRESENZA, NELLA SAVANA CON GLI HIMBA E LE MISSIONI BENEDETTINE di Leonardo Bordin Arti della Rappresentazione A molti anni io e la mia famiglia frequentiamo la Namibia e altre regioni dell'Africa meridionale: Zimbawe, Botswana, Sud Africa, Tanzania, un territorio compreso tra due oceani, abitato da differenti etnie, da popolazioni ancestrali che convivono nelle loro terre d'origine con la varietà d'usi e costumi e in particolare attraverso un rispetto reciproco che ha alimentato le costituzioni degli Stati Arcobaleno caratteristici di queste terre, consegnandole, dopo l'apartheid, ad una politica di conciliazione e in alcuni Stati ad una politica normativa ecologica atta a salvaguardare l'immenso patrimonio naturale di questi territori, com'è il caso dei Grandi Parchi Transfrontalieri tra i due mari. Questo habitat oggi, però, è scosso dalla crisi pandemica che non ha lasciato traccia di troppi decessi, come avvenuto nel resto del mondo, ma che ha azzerato il turismo ambientale, una risorsa fondamentale per gli Stati che devolvono, o meglio devolvevano, parte consistente della ricchezza per la sopravvivenza dei Parchi, per la formazione delle nuove generazioni e per l'uso

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eco-compatibile delle risorse idriche, alterate dall'avanzare della desertificazione. Lungo l'arco temporale segnato dalla pandemia ho qui raccolto alcuni momenti di comunicazione a distanza intercorsa durante il 2020-'21 tra la nostra associazione Arti della rappresentazione e la Missione Benedettina di Windhoek e il Living Museum nella scuola di Otjkandero. Alle comunicazioni hanno fatto seguito alcuni momenti concreti di aiuto finanziario cadenzati mensilmente: veicolati in senso didattico ed in aiuto alimentare nella Scuola di Otjkandero e di distribuzione di piante da frutto alle famiglie cadute nell'indigenza attraverso l'azione caritatevole benedettina. Con le suore stesse, dedite alla medicina, all'agricoltura e all'orto botanico, sono in studio e all'opera modalità ulteriori di sussistenza alimentare, di prevenzione delle malattie attraverso una corretta alimentazione. Abbiamo incontrato, io e la mia famiglia, la missione benedettina la prima volta nel 2018, durante i nostri numerosi viaggi in diverse regioni dell'Africa Australe. Regioni immense, ancora incontaminate, dove sono presenti comunità ancestrali attorno al grande deserto verdeggiante del Kalahari e dell'ecosistema dell'Okavango, dove il fiume si interra ed affiora, senza sfociare nel mare: un dedalo unico al mondo di biodiversità, santuario naturale dei grandi elefanti. L'incontro con la Missione Benedettina è avvenuto due anni prima dello scoppio della crisi pandemica ed arriviamo a questo momento dopo aver visitato e in parte aiutato le tribù Himba verso il Kunene, conoscendo e solidarizzando con alcune famiglie, vivendo nei pressi dei loro Kral, conoscendo riti e parole della lingua Otjiherero: il fuoco sacro che alimenta la vita del villaggio, la cultura animistica che lega l'uomo alla Terra, la centralità della donna, una reminiscenza per noi delle culture madrifocali, in questi luoghi mai estinte, come è forse il caso della missione benedettina di un ordine tedesco, altresì femminile. Le lettere che seguono, che ho tradotto


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dall'inglese, parleranno brevemente a ridosso della crisi pandemica diffusa anche nella Savana con un minore impatto sanitario ma con gravi conseguenze nella autosussistenza delle popolazioni. 5 gennaio 2020 'Ciao Giorgio e famiglia. Siamo tutti sani e anche i Mukajo sono sani. Finora nessun covid in questa zona o in paese o in fattoria. Questa è una buona notizia che la missione Ruacana in aiuto con te sta facendo qualcosa per la gente di quella zona. È così tanto necessario. Ho sentito che il Regno Unito sarà bloccato da stasera alle 12. Terribile! Manteniamo la nostra fede nel nostro Signore. Di Debbie Burger - Dal Villaggio di Otjkandero' Noi le rispondiamo: 'Una lezione a distanza tra gli alberi, contemporaneamente a specchio. Proviamo a giocare con gli alberi, a rotolare sulla sabbia senza spine, proviamo a vedere il mondo da una verticale, quindi una capriola... coinvolgiamo tutti, contando il tempo e il ritmo dei passi e salti (matematica in musica), proviamo a leggere e tradurre e scrivere queste parole nelle nostre lingue e una lingua veicolare comune...' (da Arti della Rappresentazione). Ecco un altro messaggio: 'Grazie mille!!! Stiamo soffrendo per pagare il nostro insegnante (lo Stato non paga gli insegnati - ndr) e comprare da mangiare!!! Debbie Burger Dalla missione benedettina di Windhoek, dapprima una speranza, presto decaduta in illusione, rivisitata poi come atteggiamento attivo attraverso una corretta e varia alimentazione. 10 aprile 2021 Buonasera dr. Giorgio e famiglia. Grazie per il messaggio con Whatsapp: dobbiamo veramente pregare per le anime di molta gente che muore e per proteggere quelli che ancora sono in vita e credo che dobbiamo chiedere a nostro Signore aiuto e misericordia... A causa del covid-19 abbiamo dovuto fermare alcuni dei programmi iniziati, ma sempre diamo una mano a chi bussa alla nostra porta e a coloro che sappiamo in sofferenza, utilizzando quel poco che

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abbiamo... Sr Theresia L'attenzione è quindi rivolta verso questi Popoli indigeni e questi paesaggi unici al mondo: all'universo femminile che caratterizza la cultura madrifocale di molte delle etnie della savana e che ritroviamo nell'universo delle missioni, anch'esse femminili, nella cura del villaggio, dell'agricoltura con un invito all'Europa, oltre che all'Italia stessa, a rafforzare questi ed altri progetti legati all'autosufficienza alimentare delle realtà locali e a una didattica cooperativa, in armonia con i reciproci spazi e ambienti, in modalità fisica sportiva e salutistica Interlinguistica. Ringrazio quindi gli amici, l'Università e il Consiglio d'Europa che stanno seguendo questi passi nella Savana, mia madre Jolanda e mio padre Giorgio, esploratori ed artisti, e mio fratello Gregorio Kotombura, che ha preso il suo secondo nome uomo nato con la pioggia- dalle madri Himba, nel giorno in cui fioriva tutta la Savana. Leonardo Bordin Arti della rappresentazione, Monteviale (Vicenza)

AGGUANTO I DISPIACERI Passo il tempo a scartabellare le pagine dei miei pensieri e scopro una valanga di dispiaceri. Agguanto i dispiaceri e li affogo nel cratere della mia mente, che come sempre risorge e mi allieta le giornate, facendomi dimenticare la noia che mi affligge. Scopro un turbine di pensieri che rallegrano il mio cuore, li deposito su di un foglio e diventano versi, che sono la gioia per me e per chi li legge! 28 – 4 – 2021 Giovanna Li Volti Guzzardi Australi


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I PORTICI DI MONTE BERICO E QUALCHE ALTRA NOTA di Italo Francesco Balbo

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Portici che conducono i pellegrini alla salita di Monte Berico per venerare la Madonna del XIV secolo è punto di riferimento particolarmente per la città di Vicenza di cui dal 1978 è Patrona, sono stati progettati dall’ architetto Francesco Muttoni, dopo una ponderata riflessione durata molti anni - dal 1717 al 1741; progetto che non era particolarmente gradito a diversi esponenti vicentini capeggiati dall’umanista Enea Arnaldi. Si considera spesso e quasi solamente che i Portici siano stati costruiti soprattutto a beneficio dei Pellegrini che in essi trovavano riparo in attesa dell’apertura del Santuario soprattutto quando il tempo era inclemente o erano giunti, dopo lungo cammino ancora in piena notte. L’importante funzione di riparo non fu però concepita solo a questo scopo; un tempo l’architettura era pensata non a sola “gloria” dell’architetto come accade talora oggi, ma con una precisa funzione e significato. La funzione abbiamo riferito, il significato era ed è oltremodo importante, seppur un po’ dimenticato anche dalle guide. I Portici si sviluppano per 700 metri e hanno 150 arcate, ripartite a gruppi di 10, e dopo queste si incontrano delle piccole cappelle. Gli archi simboleggiano le 150 Ave Maria del Rosario e le cappelle i 5 Pater Noster sempre recitati nel Rosario all’inizio di ogni Mistero. Un itinerario di fede che accompagna

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la salita e che a dire il vero oggi dovrebbe essere aggiornato, ossia andrebbe allungato il percorso dei portici, perché San Giovanni Paolo II ai tradizionali misteri della gioia, del Dolore e della Gloria ha aggiunto quelli della Luce con la Lettera apostolica: Rosarium Virgini Mariae in occasione del Venticinquesimo del suo pontificato nel 16 ottobre dell'anno 2002. La pratica del Rosario è molto antica ed ha una interessante storia, che si preciserà quasi definitivamente solo nel XVIII secolo, ma il culto mariano è sempre stato vivo fin dai primi secoli del cristianesimo e particolarmente nei Santuari dedicati alla Madre di Dio. Ricordiamo che Alberto da Castello (ca. 1460-1522), Domenicano nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, nato a Venezia nel Sestiere di Castello, da cui prese il nome, intorno al 1460, morto nel 1522 scrisse un’opera: Rosario della gloriosa Vergine Maria, Venetia, Marchio Sessa & Piero di Ravani compagni, 1522 iniziando un genere di pubblicazioni ancor oggi vivo. Accanto numerose preghiere e poesie che si rivolgono alla Madonna. Per la Signora di Monte Berico ricordiamo quella di Lucrezio Beccanuvoli al termine del suo: Tutte le donne vicentine, maritate, vedo e dongelle (Riedizione Editrice Veneta, 2008) e quella di Giacomo Zanella: Alla Madonna di Monte Berico presso Vicenza, ma alla Madonna si rivolse anche, pure Giacomo Leopardi, un po’ frettolosamente sempre catalogato come “non credente”, ma invece così si esprimeva: Invocazione a Maria È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici, È vero che questa vita e questi mali son brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tante miserie Italo Francesco Baldo


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MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI di Fabio Dainotti ’ultima fatica letteraria di Marina Caracciolo, Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci. Bastogi, Roma, 2020, pagg. 80, euro 10 è in libreria. L’autrice non è nuova a questo genere di lavori. Ha infatti licenziato alle stampe nel corso del tempo numerosi e importanti studi su vari autori. Citiamo soltanto Gianni Rescigno. Dall’essere all’infinito, uscito nel 2001 per i tipi di Genesi Editrice. Bastogi ha poi pubblicato una monografia critica su Ines Betta Montanelli. Gli interessi della Caracciolo sono ampi e spaziano dalla letteratura alla musica. Ha collaborato tra l’altro con la UTET per la realizzazione di Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei musicisti e di altre vaste pubblicazioni storico-musicali. Per le altre opere dello sterminato catalogo rimandiamo alle biografie e ai siti a ciò deputati. Il titolo Verso lontani orizzonti è già ricco di informazioni, perché spesso in queste illuminanti pagine si parla di viaggio. Nell’Introduzione Marina Caracciolo ci fornisce la chiave per entrare nella sua officina

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metodologica, parlando tra l’altro di parolechiave. Sottolinea poi nel percorso di Imperia Tognacci la volontà di accedere ai segreti dell’Essere. “Passa così - scrive la Caracciolo - sopra gran parte di questi versi, un senso di avventura inquieta e misteriosa, che li sfiora come un volo radente”. L’autrice cita poi Francesco D’Episcopo, che nella sua monografia dedicata alla poetessa parla di una “cifra dominante e inconfondibile”. Sulla Tognacci hanno scritto molti critici. Ne citiamo alcuni, tra gli studiosi non altrove citati: Barberi Squarotti, Domenico Cara, Marco Delpino, Italo e Lorenza Rocco, Tito Cauchi, Domenico Defelice, Gabriella Frenna, Antonia Izzi Rufo, Giuliano Ladolfi, Giuseppe Laterza, Giuseppina Luongo Bartolini, Carmine Manzi, Nicla Morletti, Nazario Pardini, Roberto Pazzi, Luigi Pumpo, Orazio Tanelli, Anna Ventura. Nel primo capitolo l’autrice dà conto del poemetto di Tognacci, attiva anche nel campo narrativo e saggistico, intitolato Traiettoria di uno stelo, che tiene dietro a una silloge giovanile “destinata più che altro a una circolazione privata”. I temi sono già tutti presenti in nuce: paesaggi, memorie, la fede. E “prende avvio il senso itinerante, una sorta di Sehnsucht”. Un viaggio nella memoria alla ricerca di cose perdute, come “le spensierate estati di fanciulla”. “E attraverso questo sguardo amoroso, scrive Marina Caracciolo, si rimette in moto la giostra del tempo; un mondo agreste risorgente nel riverbero del sole, che sotto un cappellino di paglia filtra tra le ciglia”. Un canto dell’esule che “prende figura nella corriera che avanza nello scenario che muta”. Marina Caracciolo nota a tal proposito la dolcezza elegiaca dei versi e cita Francesco Fiumara che nella prefazione parla di “scie luminose nello specchio dell’anima”. Ne La notte di Getsemani, si descrive l’attesa della morte del Cristo, che chiede che l’amaro calice gli sia allontanato, dilazionato, che gli si conceda ancora un po’ di tempo. Al silenzio del Padre celeste fa da contrappunto la partecipe sofferenza di una natura romanticamente animata: gli ulivi, il prato, l’alba, il vento, gli


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uccelli che mormorano nella loro lingua incomprensibile - ma che Pascoli, conterraneo della poetessa, cercò di rendere in modo mirabile - verità che agli umani non è dato afferrare. In esergo Imperia Tognacci ha citato dei versi di David Maria Turoldo, quasi a voler indicare, nel catalogo delle sue ascendenze letterarie, un poeta religioso, un “faro luminoso”. La Caracciolo diventa, con il suo modo di esporre accattivante e poetico, una poetessa al quadrato, qualcuno che parte dal testo per darne non solo una sua lettura mirabilmente centrata sul testo medesimo, ma una sua rifazione originale, se ci si passa l’espressione; gareggia, in certo qual modo, col testo stesso, ma senza mai rischiare il misreading. L’autrice si sofferma poi sul volume di versi Natale a Zollara. Zollara è il paese dove la poetessa, nativa di San Mauro Pascoli, trascorreva le estati e che qui non è più lo sfondo delle liriche ma la fa da “protagonista”. Imperia al minuscolo borgo dedica versi toccanti, trascelti sapientemente dalla critica e riportati a guisa di epigrafe sotto il titolo del terzo capitolo. E ritorna sul “vagare perenne che sembra creato da un vento misterioso”; sui riti e le consuetudini indimenticabili della giovinezza. Più vicini e in primo piano (quindi un procedimento per sineddoche, si direbbe), i volti delle persone care, i loro gesti che “stagliati sulla grande tela del tempo, acquistano sapore di leggenda”. L’autrice del volume riporta poi la posizione critica di Pasquale Matrone che, scrivendo la prefazione di Natale a Zollara, parla di “diario d’anima”. Un libro, scrive la Caracciolo, “con uno sguardo intento a sostare nelle vallate del cuore”. Una poesia che, come già aveva notato Bárberi, diventa sempre più “suasiva”. Il capitolo si chiude con un’osservazione interessante: la nebbia che nelle liriche avvolge il paesaggio fa pensare alla siepe leopardiana. Del resto anche l’amato Pascoli, se la memoria non mi inganna, aveva scritto una composizione dedicata alla nebbia. Nel capitolo IV si rende conto dell’attività saggistica di Imperia, che aveva scritto un saggio sul grande poeta romagnolo, a cui poi ella

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dedica addirittura una raccolta, Odissea pascoliana, con prefazione di Giuseppe Anziano. (Lo stesso Pascoli, del resto, aveva scritto un poemetto dedicato ad Odisseo). “È come se fosse visto dall’alto di un monte o di fronte a una distesa marina, e là, in uno sguardo che tenta di scrutare nei segreti dell’Essere, il tono diviene grave come nel coro di un’antica tragedia”, scrive l’autrice della monografia. Particolarmente bella la sezione Zvanì. Canti per la tessitrice, a parere di Marina, che osserva come la sezione arricchisca il brano originale pascoliano (La tessitrice), “allargandolo in ampi cerchi che si dipartono dal nucleo”. Il poeta, “con uno sguardo profondo che contiene in sé i colori delle pianure, rivive l’amore… alla luce degli occhi di cielo della fanciulla”. Poi la studiosa riporta la chiusa finale evidentemente considerandola uno dei vertici della produzione della poetessa di San Mauro: “Per te, tessitrice, scrive /con nuovi alfabeti, parole la mia/ libera mano. Nell’ansa del fiume/ che odora di viola, inascoltato/ resta il mio canto nuziale”. Il capitolo si chiude con un riferimento a uno dei testi cui eminentemente è consegnata la poetica di Pascoli, con citazione dell’incipit: “Io sono la lampada ch’arde soave”, cui fa da “controcanto” la poetessa: “Infonda la poesia amore/ e fede, sia una lampada nell’oscurità”. Anche La porta socchiusa, libro che viene analizzato nel capitolo V, è di argomento religioso, ma con un ritorno alle sorgenti pure ed evangeliche della grotta di Betlemme. Anche questa è un’opera in cammino, “reale e fantastico ad un tempo”, osserva la studiosa torinese, che parla anche di espressione poetica immaginosa. Si riporta poi il pensiero critico di Antonio Crecchia, che accosta questa opera della Tognacci all’innologia cristiana. Questo capitolo si chiude con una intrigante lirica, che vien riportata per intero, La profezia. Anche ne Il prigioniero di Ushuaia (prefazione i Mario Esposito) c’è un viaggio, “all’origine di un’opera di poesia”, in Patagonia. L’autrice individua un duplice fascino


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nel poemetto articolato in 20 sequenze. Uno è la bellezza di un paesaggio estremo illuminato da “una luce radiante”; l’altro è l’incanto generato dalla voce di un prigioniero della colonia penale, che ad Ushuaia è esistita veramente in passato. Un messaggio struggente, quello del prigioniero, che sembra lasciato in una bottiglia. Ma in seguito il poemetto assume una struttura dialogante; dialogo tra la poetessa e il carcerato; e i due gradatamente assumono le sembianze di elementi maturali, si sciolgono quasi in una fusione panica nel paesaggio, diventano pure voci. La strada si muta in pellegrinaggio dello spirito. L’opera successiva è Il lago e il tempo. Anche questa merita la gloria di dare il titolo a un intero capitolo, il VII. Un’opera che si snoda senza soluzione di continuità nei due immensi calici metaforici del titolo, che si rivelano specchi, “ora luminosi ora opachi” da cui affiora il passato. Sandro Gros-Pietro e Vittoriano Esposito parlano di punto più alto quanto alla resa nella produzione letteraria di Imperia. Nei bei versi dedicati alla madre, al suo ricordo, si nota una ricerca di senso per dare esistenzialisticamente “un motivo al niente”; ricerca che trova la sua pacificazione in un approdo all’assoluto, all’infinito. Si preannunciano i lavori successivi, contraddistinti dall’ampio “respiro poematico”. La Caracciolo ci presenta poi Il richiamo di Orfeo, un poemetto in 45 strofe, in cui si pone l’eterna domanda: qual è il ruolo della poesia? La parola richiamo infatti può avere due accezioni: il fascino e il monito ad astrarsi dalla Alltäglichkeit, dalla grigia quotidianità, simbolizzata dal giro della ruota. E la risposta non è univoca: la poesia è ponte “tra contingente e infinito, è appiglio e conforto, rinascita e trasfigurazione del vissuto”. Orfeo non si gira, la Poesia non può morire. È il bosco a essere al centro del successivo poemetto di Imperia, Nel bosco sulle orme del pastore. Scrive Marina: “La poetessa, dopo aver percorso a ritroso il sentiero del tempo, si perde in una selva che si tramuta in una conca di memorie ‘alla presenza del

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cuore’. Poi appare il pastore Aristeo, che non è qui semplice trasposizione del mito, perché è tante altre cose; può addirittura apparire come il pastore errante di leopardiana memoria e porsi le stesse domande, con parole diverse: quale lo scopo/di questa moltitudine di stelle? Figura multiforme, precisa la Caracciolo, che si “pone come alter ego, come controfigura” della poetessa. In questa volontà dialogante con i personaggi del mito Imperia Tognacci sembra ripercorrere, non so se volutamente, la strada intrapresa anni addietro da Roberto Mussapi, che ridiede voce e vita ai personaggi della letteratura e, appunto, del mito. In conclusione vengon riportate le parole di Bernardo di Clairvaux, che figurano nell’ esergo iniziale del libro: «Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà». Nel poemetto, con prefazione del dantista Andrea Battistini e postfazione del direttore Angelo Manitta, si assiste a un altro viaggio, fino al porto di Aqaba, durante il quale “filtra un’esperienza che collega il Sé all’Uomo e alla Storia.” Ma soprattutto colpisce il fascino delle impronte della storia, sempre “vive allo sguardo degli uomini”. C’è anche una sosta a Petra, capitale del Regno dei Nabatei. Ed ecco, scrive Marina, che nella “volontà di uscire dal labirinto delle consuetudini” si insinua la nostalgia. Come la regina di Saba ritorna da Gerusalemme alla sua patria, carica di saggezza e di doni, così l’autrice di Là dove pioveva la manna ritorna alla vita di sempre e alle abitudini di ogni giorno. Il viaggio rivissuto nella “rifrazione cristallina della parola poetica” ha arricchito però la viaggiatrice di una nuova visione del mondo. Ma ormai batte alla porta del cielo una nuova alba, un nuovo cammino. E puntualmente una nuova avventura succede: è costituita da La meta è partire, in via di pubblicazione all’epoca di composizione dell’opera della Caracciolo. Per concludere, Marina Caracciolo dà prova, nella sua produzione saggistica, di una grande capacità di analisi dei testi e di chiara


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esposizione delle tematiche che da questi emergono. Sono libri, i suoi, e questo ne è l’esempio, che si leggono sempre volentieri, perché uniscono alla dottrina una non comune affabilità dell’eloquio. Fabio Dainotti Marina Caracciolo, Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, Bastogi, Roma, 2020, pagg. 80, euro 10.

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Il pensiero d’eternità Una pietra gettata in mare Il dente di leone che si perde In un solo soffio D’aria. E già non son più io. Carolina Ceccarelli Quercia Ciampino, RM

NOSTALGIA DELLE ORIGINI SENTIRTI AL TELEFONO Sentirti al telefono è come se la tua voce non fosse passata nel tempo: specchio d’illusione in cui t’incontro. Hai vent’anni né affanni né fitte alle ossa. Sono onde i tuoi capelli e le labbra hanno sorrisi trascinati alla mia bocca dai flussi della brezza. All’ombra d’un carrubo ti denudi e di petali occulti il tuo pudore t’arrossa il viso la fiamma che ti arroventa gli occhi. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.

Amo il bacio dell’alba ai miei balconi forse per quel bisogno che m’induce a ritornare a limpide visioni, a purità di origine e di luce. So che l’alba è inadatta alle passioni violente, al furto, all’omicidio truce, so che ci fa più semplici e più buoni, quasi più nuovi e indietro ci conduce nel tempo… O dolce infanzia delle cose, quanta poesia si perde sui cammini che percorriamo poi tra lotte odiose! Qui, tra bagni di luce mattinale m’aspetto ancor qualcosa dai bambini ma dagli uomini nulla o solo il male. Nino Ferrù Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985

SCAVO Scavo Eterne buche E colmo il vuoto Della mia assenza. Io, Soggiogata dal tempo Espatriata in questa vita Che mi coltiva e mi lascia essiccare Io, Un pomodoro secco Un bosco estivo La distanza di un no La paura di un sì

Presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesco Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore.


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Io, la Luna e la Poesia

ITINERARI E DELICATI COLLOQUI IN VERSI DI ISABELLA MICHELA AFFINITO di Antonio Crecchia

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A luna, con i suoi passaggi notturni nei cieli non sempre luminosi della nostra esistenza, è stata fin dall’antichità variamente rappresentata in virtù della sua mutevolezza (fasi lunari). Nella mitologia greca, “Selene” è figlia di Ipperione e di Teia, e perciò “sorella” del Sole (Elios) e dell’Aurora (Eos); è la personificazione della Luna piena (da qui Σελήνη, La Splendente). A rappresentare la sua fase crescente è Arte-

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mide, dea della caccia e delle iniziazioni femminili, protettrice della verginità e della castità. A personificare la fase di luna calante è la dea Ècate, “colei che tiene le chiavi del cosmo”, ispiratrice delle arti magiche, dominatrice della notte, detentrice dei poteri sui demoni maligni, sui fantasmi e sui morti. A dare apparenza alla luna nuova era Perseide, ninfa oceanina. La luna è da sempre la dea consolatrice delle anime afflitte e solitarie, la Musa ispiratrice dei poeti, la tenera confidente dei romantici… Per Isabella Affinito è l’amica privilegiata con cui “dialogare” a cuore aperto; è la Musa consigliera / che trabocca di potenza creatrice”. La triade Io (Isabella), Luna e Poesia acquistano pagina dopo pagina configurazioni e personalità chiare e distinte, associate nella “possanza” rappresentatrice della propria identità. Nella sua confidenza alla Luna, compagna notturna, Isabella si dichiara un “Artista”... “che vive / dentro e fuori di sé / che disegna le donne / di un’altra realtà // È una donna che sogna / inondata dal vento. // Ama e canta note scritte…”. Dinamica e inquieta, “Non si ferma / perché non ha radici, / non guarda al mondo / ma verso la luna // È come la brezza del mare / e timida come la primavera. / È una donna che si nasconde / dietro la trasparenza / di una splendida / vetrata Liberty. / Non ha età: / viaggia senza tempo / e senza frontiere”. Un’auto-caratterizzazione a tutto tondo, sintetica ma straordinariamente veritiera. Un Artista al maschile ma, indubbiamente, anche e soprattutto un’Artista al femminile, con tutte le sue elevate doti e qualità muliebri, professionali e creative. Un’artista fortemente motivata e intenzionata a lasciare un “segno”, un’impronta duratura, incancellabile, del suo passaggio terreno. “Di me… / Vorrei poter lasciare / le impronte sulla sabbia / senza che il mare le cancelli”. Artista poliedrica che si diletta a disegnare scene e costumi per il teatro; ad apportare varianti ad opere di artisti famosi, ad illustrare libri suoi e altrui o prodotti pubblicitari.


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Isabella, però, si qualifica maggiormente come poetessa dalla voce e echi che viaggiano sull’onda di una sapienza non comune, acquisita nel tempo con l’esperienza e gli studi ad ampio raggio, che si addentrano in discipline diverse, tra cui, in primis, la storia dell’arte. Della sua attività poetica, dice: Scrivo poesie / per tenere desto / lo spirito, / per parlare alle nuvole… // Perché scrivo poesie / dovrei chiederlo alle stelle // o alla Natura, / invece lo chiedo / a me stessa / che attende ancora / una risposta / alla domanda inconsueta: «Perché scrivo poesie?» Una risposta plausibile potrebbe essere: per lasciare libero corso alla propria vena poetica e acquistare vanto tra le presenti e future generazioni, dal momento che ha scelto di farsi “cantore per argomento” e incamminarsi lungo i sentieri del Parnaso, fiduciosa e speranzosa di poter conquistare la cima. Ma lì corre il rischio di incontrare degli occupanti abusivi, non disposti a concedere spazio a chicchessia. Intanto, può gustare la gioia di constatare che “Scorre come acqua silenziosa / e non diventa fangosa / la poesia del silenzio”, quella che nasce nel cuore e si dispone a nutrire la sensibilità di altri cuori. L’incontro con la poesia “È stata come una magia: / mi ha preso le mani, / ha baciato il mio viso, / mi ha dato dei fogli, / c’era scritto di lei. / Mi ha detto che io / potevo fare di tutto, / persino far muovere / un albero morto. / Tutto è poesia, / mi diceva, / ma io non capivo / fino a quando lei stessa / si è impadronita di me!” Non credo che questi versi abbiano bisogno di commento. Potrebbe rompere l’incanto che avvince la poetessa alla poesia e raffreddare il calore con cui i versi sono germinati nella purezza della sua anima di fanciulla in fiore. Spirito contemplativo delle bellezze del cielo e della terra, con la casta abitudine di “guardare in alto”, l’incontro con la “luna, specchio dell’universo”, per Isabella è un fatto pressoché abituale, da quando ha stabilito con essa “un rapporto, seppur astratto e personale” che le ha dato (leggo dalla ‘Nota dell’autrice’) “la possibilità di costruire tanti versi grazie alla sua ‘luce’, che prende in prestito

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dal sole”. Leggo Lontana e discreta, attenta e comprensiva, la luna ha il potere di “rigenerare il mondo con la sua chiarìa”; e ancora, dice la poetessa in “La mia compagna, la Luna (pag. 38): “…con il volto bianco-latte / mi racconti storie fatte / di cavalli e tanti eroi, / io non sono principessa / ed il drago / ha già cessato / di oltraggiare / i miei amici, / solo tu mi puoi capire / senza mai intervenire… // pur col vento / o con la neve / la mia Luna / ho da vedere”. Amore, quindi, durevole e invariato nel tempo, come quella di Leopardi (1798-1837), a cui Isabella ha dedicato in omaggio una lirica con lo stesso titolo con cui il poeta recanatese ha composto i noti versi “Alla Luna”. Versi “immortali”, rivolti alla Luna, “giunti fin lassù / e raccolti come fiori di campo / appena nati”. Fervido, gridato desiderio della poetessa: “Vorrei solo / tendere le mani / alla Luna / ed essa chiamarmi / Poeta!” Desiderio sicuramente soddisfatto. Antonio Crecchia

APRILE 2020 Anche aprile se n’è andato, col suo sole, le sue nubi e poca pioggia, e ci ha lasciato vecchi sogni e nuovi timori e una speranza sempre più viva e sempre più lontana che finalmente il virus sia sconfitto dal lavoro della scienza e dall’impegno quotidiano di rispettosi cittadini e che abbandonandoci ci lasci più poveri, sì, ma con più amore e con maggiore umanità e rispetto per la natura. 1 maggio 2020 Mariagina Bonciani Milano


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Imperia Tognacci IL PRIGIONIERO DI USHUAIA di Anna Aita

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I giunge da Imperia Tognacci, una nuova edizione della raccolta poetica “Il prigioniero di Ushuaia”, una scrittura in versi, a me già nota, della quale non ho mai perso memoria. Una poesia emotivamente forte, che ci racconta la località, Ushuaia, per me, a quel tempo assolutamente sconosciuta. In questa seconda versione, edita dalla “Genesi Editrice”, il prefatore, Sandro GrosPietro, ci fa un racconto ben preciso su questa “terra posta alla fine del mondo, spettacolare trionfo della natura selvaggia, che riunisce in un solo scenario i suoi elementi più ricchi di fascino, cioè il mare, le montagne, i ghiacciai e i boschi fitti e verdeggianti”. E ci aiuta nella comprensione dei versi, facendoci riflettere

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sul termine “prigioniero” che, spiega, è una meravigliosa metafora poetica, una persona imprigionata “sia dagli uomini sia dalla natura, in una sorta di algido paradiso terrestre/…/una croce e una delizia finché morte non giunga, con nessuna possibilità di fuga o di affrancamento dal destino di prigioniero”…”. Una sorte dunque, terribile, che la nostra Autrice, presa da un invincibile tormento, ha riversato in composizioni poetiche. Apre questa pubblicazione, definita dall’editore “poemetto in venti sequenze”, la poesia di un prigioniero che piange la sua amara sorte. All’autrice è bastata la lettura di questo canto (veicolato e tradotto, in lingua italiana, da Marcelo J. Salazar), per scatenare in lei un fiume di emozioni che, condensate nell’anima e veicolate in parole, continuano a raccontare e a divulgare l’esistenza di questa terra, estrema propaggine dell’America del Sud, e dei suoi infelici abitatori, peccatori e vittime delle loro stesse colpe. Sono pagine stupende sulle quali riporto in parte quanto scritto a suo tempo, nulla essendo cambiato nelle mie emozioni e nei miei sentimenti, con il rinnovarsi della lettura. Su questa lunga notte desolata, in cui si alternano sogni e angosce, Imperia Tognacci scrive e, con grande partecipazione emotiva, ci investe dei sentimenti che tormentano i tanti carcerati. Al tempo stesso, ci coinvolge nella realtà di una natura dal fascino misterioso: una magia fatta di neve, di ghiaccio, di sole “stremato”. Nella mente dell’Autrice, si raffigura questo mondo immerso nel gelo. Ed è sufficiente la fantastica visione del ghiaccio che si scioglie, per ispirare momenti lirici tanto delicati, quanto profondi: “E tu, ragione, non puoi nel tuo/ solco condurre la forza dei ghiacciai, / né il ritmo cambiare dell’aurora australe /né intrappolare l’oceano dell’anima./ Oltre il buio del pensiero/ onde misteriose ci sospingono, / mentre da lontano ci chiama il tempio dell’infinito”. La nostra autrice non si smentisce. Continua il suo convincente flusso poetico, che, passi


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pure il tempo, non soffre pause né incertezze: “Tu sola Croce del Sud,/ tu sola hai visto, tra l’essere/ e il non essere, la poesia/ mutare la sua rotta / e nelle mie mani depositare/ un desolato canto…” Anna Aita

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il paese dei morti? Tale appare. Eppure è giugno, già estate, già stagione balneare. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturono, IS

ZUCCHERO FILATO Querula cantilena: vuole il triciclo riposto, gareggiare sull’asfalto al vento. Ma altri pensieri travagliano la madre e l’imbronciato placa con lucenti monetine, lo accomiata. Brevi i fanciulli affanni: dal girovago omino fugge, presto rincasa: in mano splende bioccolo di zucchero filato. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983

PAESE Silenzioso il paese, già dal mattino. Deserta la piazza, la strada, ogni via. Chiuse le case. E i pochi abitanti scomparsi, fuggiti, o dormono ancora? Il cielo è limpido, il sole scotta, il vento dorme. Tacciono gli uccelli e non si esibiscono in voli sfrenati: si adeguano? Non ronzano gl'insetti. E' questo, per i forestieri che dovessero venire,

IL POETA, I FRUTTI E LE FOGLIE Come una margherita è tutto il mondo: rappresenta ogni petalo un settore e ognuno pensa a sé, ma solo il cuore del poeta è nel calice profondo. Non visto, vede tutto il girotondo dei petali e li sente in tutte l’ore, confitti come frecce di dolore: li nutre e li subisce nel suo fondo. E mentre ognuno porta il proprio peso, egli riunisce in sé quello di tutti: comprende tutti e non è mai compreso. Poi che alla terra lascerà le spoglie, i ladri e i furbi ne godranno i frutti e lui, sia pur d’alloro, avrà le foglie… Nino Ferrù Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985

Nella foto, cerimonia della presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesco Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore.


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MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO CANTON GLARUS di Manuela Mazzola dall’inizio dei tempi che grandi masse di uomini emigrano, anche la Bibbia lo testimonia, per trovare nuovi posti dove stabilirsi, crescere i propri figli; luoghi che offrano migliori condizioni climatiche ed economiche. Viaggi illuminati da fiduciose aspettative, in cui hanno avuto un ruolo fondamentale i sacerdoti e le religiose e l’intera organizzazione missionaria, composta da uomini e donne semplici, ma colmi di fede e speranza. Nel saggio Canton Glarus del Conte Marcello Falletti di Villafalletto si parla proprio di questo argomento: la missione cattolica italiana di Canton Glarus, del suo ruolo fondamentale e dell’emigrazione, con le sue cause e conseguenze. Per l’attività missionaria della Chiesa, tutti i missionari, sacerdoti, religiosi, suore e laici, furono formati per non perdere di vista l’universalità della Chiesa e la diversità dei popoli, poiché conoscere il paese in cui si va, dunque, la storia, la lingua e la cultura è sia necessario sia doveroso. La prima missione, nel 1912, fu guidata da Don Gabriele Della Bella, poi Don Giuseppe Rampo, Don Savino Conte, Don Felice Bonaccina, Don Ernesto Grignani, Don Alberto Ferrara, Don Paolo Gallo, P. Jiovani Barreto, Don Roberto Maciejewski, Don Valerio Ca-

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sula, Don Giancarlo Rossi e per ultimo il Reverendo Padre Pierpaolo Lamera. Quest’ultimo nella prefazione mette in risalto l’importanza della memoria: “Tanto meno dimenticare l’Autore che ha saputo cogliere, indipendentemente dagli aspetti storico-sociali a lui congeniali, quel desiderio di fare memoria, che deve essere testimonianza ed esortazione per tutti coloro che avranno desiderio di sapere e conoscere, in modo radicale, le tappe salienti di questo faticoso cammino”. E in questo cammino, faticoso e allo stesso tempo edificante, un posto d’onore l’ebbero le suore che nei loro convitti si occuparono delle giovani ragazze impiegate negli opifici tessili. Le religiose avevano il compito, oltre che ospitarle, anche di assisterle e sostenerle nei momenti difficili dovuti alla lontananza da casa. Sorsero anche molte associazioni e comitati che furono di grande aiuto alle religiose e ai sacerdoti che si alternarono in quel territorio. Anche perché, tra fine Ottocento e inizio Novecento, nel territorio elvetico, alcune volte, furono violati i diritti umani fondamentali e gli esuli italiani divennero vittime di vere e proprie manifestazioni razziste. Purtroppo, episodi di questo genere accaddero e continuano ad accadere in tutto il mondo. Le numerose attività sociali e culturali, però, furono in grado di aiutare e sostenere gli immigrati e fu anche per questo che la missione divenne un grande esempio di comunità cristiana, giacché seppe essere un valido aiuto. Infatti, riporta l’autore: “Per avere il permesso di espatrio necessitava conoscere un mestiere, saper leggere e scrivere, magari conoscere alcune nozioni sulla lingua, su gli usi e costumi del paese di immigrazione. Anche agli inizi della nostra vicenda migratoria, così come si verifica ancora ai nostri giorni per gli emigranti extracomunitari, si dovette assistere a vere compra-vendite di bambini da impiegare in lavori pesanti e squallidi, alla tratta di ragazze, attirate con l’inganno e la finta promessa di un onesto lavoro per essere avviate alla prostituzione. Intermediari senza scrupoli che lucravano sulle miserie e le necessità altrui”.


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Luglio 2021

Il 26 gennaio 2003 si organizzò una grande festa per celebrare i 90 anni della Missione Cattolica Italiana di Glarus, ad opera del missionario P. Jiovani Barreto. Fu un evento importante per commemorare le attività quotidiane svolte dalla comunità, la quale ha saputo lasciare un ricordo positivo nel Canton Glarus. Il prof. Falletti, chiudendo il volume, ribadisce: “Ecco perché abbiamo voluto scrivere, ricordando il contributo eccezionale della Missione Cattolica, nello specifico quella del Canton Glarus, fra le montagne svizzere, dove la generosità e disponibilità di uomini, con la loro essenza, hanno portato, assistito e costruito una reale comunità; non solamente a livello spirituale, tanto necessaria, ma anche umanitaria e sociale, per la quale essere ancora orgogliosi e degni di menzione”. Manuela Mazzola MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO Canton Glaurs Cento anni della missione cattolica italiana (1912-2012) - Anscarichae Domus, 2013, Pagg 151

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LA MIA CHIESA Datemi cieli aperti, e la mia accesa anima imparerà come pregare, datemi un monte e ne farò un altare al di sopra dell’odio e dell’offesa. Forse la voce mia, nella sua ascesa, quando si fa preghiera può arrivare più facilmente a Dio, senza incontrare il soffitto affrescato d’una chiesa. Chiesa è pure la casa ove si nasce e si ama e si muore, e il campo dove d’amaro pane il povero si pasce. Per me, se da una chiesa appena uscito, guardo le stelle sempre antiche e nuove, più chiesa d’ogni chiesa è l’Infinito. Nino Ferrù Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M, 1985

IL VOLTO DI LEI DURANTE Il volto di lei durante l’amore, un amore grande, unico, irripetibile, indispensabile, lontano dalla volgarità imperante, estatico, meraviglioso, in un abbandono totale, assoluto, cosa dell’altro mondo, che può accadere a qualsiasi età, sogno, utopia, miraggio, appartenente a privilegi di altre vite ed altre epoche… L’orologio, impassibile, segna il tempo della passione, della felicità, senza obiettivo e senza orizzonte, con lo stesso distacco del ritorno alla solitudine, allo scoramento, alla nostalgia. Luigi De Rosa Da Viaggio esistenziale, Gammarò Edizioni, 2919

Nella foto, cerimonia della presentazione, il 9 maggio 2021 a Galati Mamertino, del libro su Nino Ferraù di Francesco Spadaro: Il Poeta e la bambina, Armando Siciliano Editore.


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LAURA PIERDICCHI IL PORTALE di Domenico Defelice

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OESIE senza titolo, brevi, a volte lapidarie; linguaggio chiaro, anche se non privo di sfumature ermetiche, d’altronde sempre presenti nella poesia di Laura Pierdicchi. Il titolo è evocativo, pertinente al contenuto, che coinvolge il lettore richiamandogli il mistero e invogliandolo a varcare la soglia; sfidandolo nel contempo, giacché l’oltrepassare contiene sempre in sé brividi d’ansia e sottile paura; realtà sconosciute, impalpabili, particolarmente precarie, come lo sono ai nostri giorni, in cui la pandemia inorridisce con le migliaia e migliaia di morti, che tiene in scacco ormai da troppo tempo, che gioca come il gatto col topo, che sembra regredire e spinge alla speranza, per poi, improvvisa, repentina, tornare aggressiva attraverso mutamenti sempre nuovi e impensati. Va subito precisato che la pandemia con la poesia di Laura Pierdicchi non c’entra, che non è il tema della raccolta, non è mai neppure menzionata. O meglio: c’è a nostro avviso, e si tratta di un’altra e più sottile e perniciosa: quella dello spirito, dell’esistenza, del dolore, della precarietà, della vacuità del nostro affannarci, sicché, spesso, il presente sembra elastico, continuamente teso e rilassato, rilassato e teso, e con l’Aldilà, che, forse, è la sola “oasi/che rimpiazza l’arsura”, cioè, la sola capace di estinguere la nostra sete di assoluto,

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sempre vigile e fibrillante alle continue e impietose sollecitazioni del tempo. Non pandemia da Covid, allora, ma anche, giacché i versi risentono del dramma che l’umanità sta vivendo, se non altro perché scaturiti proprio in questi giorni incerti e dolorosi, sicché, “dopo 5 anni – ci scrive l’Autrice in una lettera - ho sentito nuovamente il desiderio della poesia”. Varcare “Il Portale” significa iniziare un cammino che, breve o lungo, è sempre un’incognita, materializzato com’è da pochi rettilinei e tante svolte (“il sentiero è tortuoso -/ad ogni curva/tutto può cambiare”), sempre e comunque, imprevisti; luoghi, immagini, persone e cose con cui prender confidenza, che ci tocca esplorare e sondare, conoscere a fondo nell’indole e nell’intimo, nelle molecole della materia come nel soffio dello spirito. Le presenze son sempre reali ed evanescenti nel contempo; nella stanza c’è lei, in carne e ossa, ma ci sono anche “figure” eteree che interagiscono con i suoi “pensieri/e smuovono esperienze vissute”, separate da labilità: “Il velo che ci divide/ti ha lasciato passare/e mi chiami/con segnali concreti”. Sembra un paradosso, ma a noi paiono più reali e palpabili le figure e non lei, giacché non è tanto concreto danzare “tra realtà e illusione”; la stessa poetessa, d’altronde, aggiunge che “Un essere è un insieme/di percezioni accostate/per successione logica” e la stessa cosa non sono – almeno non sempre - “realtà e illusione”. Accennavamo al Covid-19, non presente realmente nella silloge ma latente, sotterraneo, nel dolore che ha fatto fiorire questi versi e che ha liberato la poetessa dal blocco, dal trauma causatole da un recente passato. È stato come se una sorgente, a causa di una frattura del terreno, si fosse improvvisamente prosciugata e poi, per altro trauma (la pandemia), improvvisamente sbloccata, ed il canto è così tornato a scorrere, limpido, ma misto a invisibili pagliuzze di minerali disciolti: i dolori, le pene, che non permettono il torpore e spingono a riassaporare la vita. E la “luce intravista lontano” non è altro che la speranza ansiosa che il tunnel finalmente finisca e torni a investirci la luce nella sua totalità. Covid è nell’atmosfera


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di questa poesia, nel “futuro incerto”, ma “prezioso”, perché ci rende consapevoli della possibilità che sia prossimo il “riunirci al Tutto”. I temi de Il Portale non sono solo quelli da noi appena accennati e neppure solo quelli splendidamente evidenziati da Pino Bonanno nel suo ampio saggio introduttivo (unica nostra non condivisione: quel “la poeta”, vezzo che abbiamo sempre esecrato. Poetessa non è discriminante, per noi non ghettizza. La donna dovrebbe essere orgogliosa della sua natura). Esteriore e interiore, realtà e immaginato si contrastano e ciò - i “Fulmini (che) squarciano il cielo” nella notte tempestosa – potrebbe essere figura di quel che potrebbe toccarci “nell’ombra del dopo respiro/quando attoniti vagheremo/tra l’abbaglio e l’oscuro”. Siamo esseri che rappresentiamo il Tutto e il Sempre. Il “nostro trascorrere” non ha soste e viene da lontano, perché “Nessuno/è stato creato/in un certo momento” e siamo “destinati/a riunirci al Tutto” già da noi menzionato. Il tema passaggio - transito da questa nostra attuale realtà ad altra - è costante, come dominante sono materia e spirito, reale e ipotetico (o immaginario), tutti stati nei quali il dubbio, trovando un liquido amniotico, logora ed estenua. Figura costante è l’uomo dalla Pierdicchi amato e che ha varcato anzitempo il Portale. Con lui, la poetessa continua “a parlare/a pronunciare il (suo) nome/nella presenza/assenza/necessità/per dare voce al silenzio” e a lui son rivolti pure i versi di chiusura. In questo Tutto - che “si disperde nel nulla/da dove è iniziato/a dove andrà a finire” -, formalmente non si trovano virgole, né punto e virgola, né due punti, né l’esclamativo, né l’interrogativo: abbiamo solo il punto fermo. E anche questo, a nostro avviso, ha significato: il dubbio, cioè, non vincerà mai sulle certezze. Domenico Defelice LAURA PIERDICCHI - IL PORTALE Prefazione di Pino Bonanno, illustrazioni di copertina e all’interno di K. B. Rossetto – Edizione Biblioteca dei Leoni, 2021, pagg. 80, € 10,00

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ETIAM SENI ESSE DISCENDUM (Seneca, Epistole, 76,3) Abitiamo soprattutto noi stessi Da giovani ci basta ma più tardi Diventati grandi Più non potremo Affatto riempire lo spazio Ch’è in noi. Dilatiamo dappertutto E ci troviamo nel vuoto. Bisognerà Creare l’anima per occupare Gli infiniti spazi dello Spirito, Per trasformare il truce paradosso In sempre effervescente Paradiso, Prima che s’imbatta nel muto muro. PETER RUSSELL Pratomagno 11 febbraio 2000

A destra, il poeta Irvin Peter Russell, con, a sinistra, il figlio George Peter Parviz Russell (la foto ci è stata fornita dalla poetessa Wilma Minotti Cerini, mentre la poesia è tra le lettere dal poeta inviate a P. N.)


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ALFREDO NOBEL SCIENZIATO E UMANISTA DI FAMA MONDIALE di Leonardo Selvaggi

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ARLARE di Alfredo Nobel vuol dire seguire il progresso che nel campo della scienza e dell’industria hanno fatto i prodotti esplodenti. L’attività di Alfredo Nobel è stata per tutta la sua vita incessante: uomo eminente e di grande simpatia per il nostro paese, di fervore idealistico, di nordica origine e nel contempo dotato di spirito latino. Fin dalla fanciullezza prodigiosa la sua passione per la meccanica e le ricerche tecnico-scientifiche. L’intraprendenza in lui connaturata, ereditata dalla famiglia. Suo nonno, intelligente e pieno di energia, suo padre nato a Gefle, presso Upsala il 24 maggio 1801, mente geniale, si dedica allo studio delle costruzioni navali, a Stoccolma è allievo dell’accademia di belle arti, in seguito nominato professore di geometria descrittiva all’istituto tecnologico, si è occupato fra i primi della lavorazione del caucciù in Svezia. Alfredo, terzo dei quattro figli, nato a Stoccolma il 21 ottobre 1833. Nei primi anni è vicino a suo padre, il quale è im-

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pegnato nelle sperimentazioni degli esplodenti. A Pietroburgo riesce a fare adottare dal Governo russo il suo sistema di mine di terra e subacquee per la difesa delle coste. Alfredo comincia a frequentare le scuole di Pietroburgo, a sedici anni come apprendista sempre con suo padre. Nel 1850 viene mandato in America presso lo svedese John Ericsson, il grande inventore della prima nave corazzata a Torre, per essere istruito nell’ingegneria meccanica. Ericsson rivoluziona i sistemi di guerra per mare con i suoi arditi congegni. Diviene un pacifista, convinto che le sue invenzioni avrebbero reso impossibili le guerre marittime. Tutte le nazioni obbligate a riconoscere la neutralità dei mari, che devono essere una vita comune al genere umano. Nel 1854 Alfredo Nobel torna a Pietroburgo, riprende la collaborazione con suo padre, si distingue per il suo vivissimo spirito di iniziativa. Dopo pochi anni prende un brevetto per la costruzione di un gazometro speciale ed altri due per un misuratore d’acqua e per migliorare i barometri. Inizia da ora il lungo cammino di indagini che lo porterà a grandi realizzazioni. Dopo la guerra di Crimea la fornitura delle mine ha un forte crollo. La famiglia Nobel ritorna a Stoccolma. Alfredo lo vediamo vicino al fratello Luigi, che è tutto preso dallo sviluppo dell’industria dei petroli e degli oli minerali russi, a Baku, e a Stoccolma per continuare lo studio delle materie esplodenti, con attenzione alla nitroglicerina scoperta nel 1847 dall’italiano Ascanio Sobrero. Con i necessari capitali trovati a Parigi sorge nei pressi della capitale svedese la prima febbrica di nitroglicerina. La difficoltà incontrata riguarda l’esplosione, con le micce usate per la polvere nera si riesce appena ad accenderla. Si preparano delle cartucce particolari nelle quali la polvere nera si tiene separata dalla nitroglicerina, in questo modo esplodono l’una e l’altra successivamente. Il nuovo esplosivo viene applicato nei lavori di mina, gli effetti sono straordinari, rispetto al semplice impiego della polvere nera. Per una più potente esplosione della nitroglicerina si adopera il fulminato di mercurio, un ritrovato che costituisce una tappa importante


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nelle ricerche di Nobel. Il tutto contenuto in capsule di rame, già usate per le armi da fuoco con effetti minori. La famiglia vive un terribile turbamento in seguito alla distruzione della fabbrica di Heleneborg per una potente esplosione, durante la quale muore il fratello Oscar Emilio, subito dopo viene a mancare suo padre, colpito da un attacco apoplettico. Proibita di conseguenza la fabbricazione della nitroglicerina nelle vicinanze dei centri abitati. Alfredo Nobel non si scoraggia, è convinto più che mai che è possibile dominare le meravigliose forze racchiuse nello straordinario prodotto. Lo scoppio avvenuto nella fabbrica secondo lui dovuto più che altro ad inavvertenze delle persone. Continue e sempre tenaci le sue prove in mezzo al lago Maelar presso Stoccolma. Una grande soddisfazione la istallazione a Krummel sull’Elba, presso Amburgo nel 1865 di una fabbrica di nitroglicerina, divenuta la più importante dell’Europa continentale. Per mezzo della Società Nobel e C. di Amburgo riesce ad impiantare di nuovo in Svezia presso Stoccolma una fabbrica e fornire l’olio esplosivo anche per l’esportazione. Quest’olio viene impiegato direttamente nei fori di mina e serve per rimuovere grosse masse di terreno nei lavori delle Ferrovie, delle miniere di carbone. Viene trasportato in casse riempite negli interspazi con terra d’infusori molto soffice. Con l’assorbimento si forma una pasta consistente, plastica alla quale si può dare facilmente la forma di cartucce di pronto impiego. Questo nuovo prodotto viene chiamato Dinamite. La nitroglicerina viene usata più comodamente, per farla esplodere si richiedono delle capsule più forti. Ciò significa sicurezza e stabilità del prodotto. L’attività di Alfredo Nobel non conosce mai stanchezza. Studioso tenace, spinto dall’intensa passione di ricerca, continua nei suoi lavori di applicazione e perfezionamento che dopo pochi anni lo segnalano fra gli uomini più celebri d’Europa. Nel 1875 sperimenta la possibilità della soluzione di collodio, questa trasforma la nitroglicerina in massa vischiosa, omogenea, ottenendo migliori risultati di assorbimento.

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Abbiamo così la gelatina esplosiva con cui si preparano le varie gelatine-dinamite e le gomme militari. Anche se l’industria degli esplosivi lo impegna quasi totalmente, si occupa nel contempo di altri problemi tecnologici. Si perfeziona nella fabbricazione dell’acido solforico, nella raffinazione dei petroli. Pensa ai sistemi di trasporto costituiti per terra da vagoni-cisterna e da vapori-cisterna per mare. Di questa ultima attività si interessa nel 1877 dopo aver ottenuto con il fratello Luigi grandi concessioni dal Governo russo per l’estrazione della nafta a Baku. Versatile, segue veri rami della tecnica e dell’industria, il campo degli esplodenti, la sua passione che lo domina di continuo, ora è preso da quelli per sparo e per scoppio. Nel 1883 dal Governo francese ottiene di piazzare un cannone per sue esperienze in un forte abbandonato, la sua attenzione rivolta alla preparazione di prodotti propulsivi moderni da guerra. Il suo sistema di lavoro consiste nell’alternare gli argomenti di studio, quando di una data ricerca non ottiene risultati sperati, l’abbandona per un po’ per ritornarvi più tardi, prova e riprova con ostinazione fino al raggiungimento dello scopo. Uomo straordinario, dotato di facoltà eccezionali che hanno efficacemente coadiuvato il suo grande spirito di iniziativa. Nelle sue intraprese non vede ostacolo che non sia possibile superare. Nobel promuove la tubazione che mette in comunicazione il Mar Caspio col Mar Nero. Si realizza un sistema di distillazione continua del petrolio, facendo prosperare al massimo l’industria di Baku. La nitroglicerina in questo periodo ha un’altra sperimentazione, viene unita con la nitrocellulosa, rendendosi riducibile in grani, inoffensiva, con molta stabilità e una velocità di combustione moderata da sostituire nei cannoni la polvere nera. Abbiamo la Balistite che Nobel brevetta il 31 gennaio 1888. Siamo al culmine delle sue scoperte. La Balistite rifiutata dal Governo francese viene accettata dall’Italia nel 1889, si intraprende la fabbricazione da parte della Società Nobel di Avigliana, cittadina del Piemonte, ove già esiste uno stabilimento dal 1872 per la produzione della dinamite. Rifiuta


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le ingiunzioni del Governo francese, restrittive della sua libertà e lesive della sua dignità di scienziato. Nel 1891 si stabilisce a San Remo, ove riprende i suoi studi e le sue esperienze, continuate fino alla sua morte, avvenuta il 10 dicembre 1896. Uomo austero e solitario che pochi avvicinano. Nella città ligure conduce una vita tranquilla e appartata, ha una ristretta cerchia di conoscenze, ma circondato nel contempo da ammirazione e simpatia da parte di tutti. Un grande svedese che ama l’Italia, degno di onore, grande filantropo, uno scienziato dalle grandi mire, ha integrato l’opera di Ascanio Sobrero. A San Remo come collaboratore ha il chimico inglese B. H. Beckett. In appositi locali di fianco alla sua vila ha impiantato un laboratorio. Costruisce una piccola torre e un pontile di ferro sul mare per le sue prove di tiro che fa contro grosse piastre che servono a trattenere i proiettili. A San Remo la sua attività non ha interruzioni, lavora instancabilmente, studia la questione del raffreddamento dei cannoni e delle mitragliatrici che si rende necessaria quando devono servire per spari rapidi e molteplici. Si dedica tanto al perfezionamento dei proiettili e dei cannoni, convinto che la massima utilizzazione degli effetti degli esplodenti moderni si può ottenere con le migliori strutturazioni delle armi da fuoco. Alfredo Nobel acquista la grande fonderia di cannoni di Bofors e l’acciaieria di Bjornéborg in Svezia. La villa di San Remo chiamata “Mio Nido” è stata abitata per un anno nel 1886 dal celebre poeta polacco Giuseppe Ignazio Kraszewskj, che muore nell’anno successivo a Ginevra all’età di 75 anni, dopo una vita di lotte per la liberazione della sua Patria dal giogo russo e dopo aver scritto numerosi volumi di critica, di storia, di poesia, di romanzi e di drammi, che gli hanno creato fama mondiale. Alfredo Nobel, amatore di pittura, non vuole vedere spesso la stessa tela, cambia di tratto in tratto le opere che possiede con altre. Parecchie le sale in stile e parecchi anche i salottini intimi e civettuoli, che indicano

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come l’uomo di scienza sia anche uomo di mondo, amante del bello e non insensibile alle delicate seduzioni della vita. Il suo lavoro si svolge fra Bofors e San Remo, si occupa di saldature autogene dei metalli, del miglioramento dei metodi di produzione dell’idrogeno e dell’ossigeno in relazione alle applicazioni in aeronautica. Intanto studia un congegno per prendere automaticamente delle fotografie topografiche da grandi altezze. Pensa anche di lanciare verticalmente una spoletta con regolazione dell’arresto all’altezza voluta, nella discesa si apre un paracadute che fa scattare l’otturatore di una piccola macchina fotografica. Sa tra l’altro prevedere la grande importanza che avrebbe avuto l’alluminio nell’industria. Incessante la febbre della ricerca nella sua molteplice e inesauribile attività, riferendosi a tutti i campi ove intravede un’applicazione pratica. Nel 1889 a Parigi fa la sua prima apparizione la seta artificiale, Alfredo Nobel su questo prodotto intraprende le sue esperienze. A San Remo pare che intendesse far sorgere la prima fabbrica di seta artificiale italiana. Sempre preso dai problemi degli esplodenti, di questi affronta l’interesse di far aumentare la proprietà propulsiva. Il 7 dicembre 1896 improvvisamente colpito da apoplessia mentre torna in vettura da una passeggiata. Dopo tre giorni dall’attacco cessa di vivere. Celibe di anni 63. La sua salma non viene sepolta a San Remo, ma trasportata a Stoccolma, ove viene cremata. Alfredo Nobel era ancora nel pieno possesso della sua forza fisica e della vigoria intellettuale. Ancora tanto bene avrebbe potuto arrecare al progresso della tecnica e dell’industria. Il giorno della morte tanto lutto per la scienza e per i centri di produzione delle materie esplodenti, che perdevano in Alfredo Nobel un geniale interprete ed esperimentatore. Alfredo Nobel più volte rimproverato di aver fornito all’uomo i più terribili mezzi di distruzione e di guerra. Lo scienziato sosteneva che la micidialità estrema creata con i prodotti esplodenti costituiva un supremo correttivo all’orribile flagello della guerra. Più i mezzi di distruzione sono terribili, più si eviteranno le dichiarazioni


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di guerra. Si pensava all’uso razionale, alle opere di pubblica utilità. L’invenzione della dinamite segna un’epoca nella storia della civiltà. Nei tempi dei Romani certe opere, oltre che impossibili, comportavano enormi sacrifici. L’uso della dinamite ha reso possibile l’esecuzione di lavori giganteschi, nelle miniere, nelle imprese ferroviarie e nella perforazione delle montagne. Sappiamo che per la galleria del San Gottardo, lunga 15 km [1872 – 1880] e per quella del Sempione, lunga 20 km [1898 – 1905] fu usata quasi esclusivamente dinamite-gomma. Non strumenti di strage dovevano essere gli esplodenti, ma formidabili e benefici alleati del lavoro a vantaggio del progresso e della civiltà. Idee umanitarie e pacifiste sono presenti nelle disposizioni testamentarie di Alfredo Nobel. Dopo morte le sue grandi ricchezze avrebbero giovate a quelle opere di grande idealità a cui aveva sempre aspirato. Il suo patrimonio ammontante ad oltre 50 milioni di lire, eccettuati alcuni lasciti a parenti ed amici, doveva costituire un fondo, i cui interessi sarebbero andati distribuiti tutti gli anni per premiare coloro che nell’anno precedente si fossero resi utili all’umanità. Cinque premi, assegnati senza distinzione di nazionalità: I per la più importante scoperta nel campo della fisica, II nel campo della chimica, III della medicina e fisiologia, IV per quell’opera letteraria, in qualsiasi lingua, che si distinguesse per tendenze ideali, V per chi avesse lavorato per l’affratellamento dei popoli, per la soppressione o diminuzione degli eserciti permanenti e per la creazione di tribunali arbitrali per la pace fra i diversi Stati. Per quanto riguarda il V premio si dice che Nobel l’abbia concepito dopo che ebbe fatto la conoscenza della baronessa Berta von Suttner, insigne scrittrice e propugnatrice della pace universale. Quest’amicizia doveva esercitare un forte ascendente sullo spirito di Nobel per natura portato alle concezioni idealiste di filosofia sociale. Dopo un giovanile e breve sogno d’amore, subito finito, Alfredo Nobel non pensò mai di prendere moglie, i suoi intensi affari sarebbero stati di contrasto con i doveri familiari. Quando si trovò a Parigi nel fulgore

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dei suoi successi sentì il bisogno di avere accanto una donna sensibile e colta che fosse di sostegno nei suoi impegni e di sollievo spirituale. Nel 1876 fece un annuncio pubblicato nei giornali di diverse nazioni in cui si esprimeva il desiderio di cercare una signora come segretaria, istruita in varie lingue. Fra le tante risposte Alfredo Nobel fu attirato da quella di una contessa, Bertha Kinsky, austriaca, che desiderava recarsi all’estero per allontanarsi da una passione contrastata per un barone, Arturo Suttner. Pareva che si fosse avverato l’incontro di due anime elette fatte per intendersi. Bertha Kinskj arriva a Parigi. Questa mirabile conoscenza dura otto giorni. Alfredo Nobel dovette recarsi subito in Svezia, chiamato dal Re che voleva parlare di alcuni problemi riguardante gli esplosivi. La contessa nel contempo parte, lascia una lettera di commiato in cui si parla del suo prossimo matrimonio, avvenuto nel giugno dello stesso anno. Fra i due rimane l’amicizia affettuosa, con scambi di lettere che durano fino agli ultimi giorni di vita a San Remo. In questa corrispondenza risalta la nobiltà sentimentale di Alfredo Nobel, che forte aveva pure il senso dell’arte. Conosceva la letteratura di diversi paesi. Si ispirava a Byron, aveva composto un poema in inglese su Beatrice Cenci. Alfredo Nobel nemico delle distinzioni esteriori, generoso in soccorsi. A San Remo ha sussidiato più volte qualche istituto di beneficenza. Il comitato della Fondazione Nobel ha raccolto tutti i documenti che potevano far conoscere il pensiero del grande scienziato. Alfredo Nobel era contrario alle eredità, le fortune ottenute senza averle guadagnate rendono infelici e intorpidiscono le facoltà, favoriscono l’indolenza e impediscono lo sviluppo dello spirito di iniziativa. I premi guadagnati per i propri lavori avrebbero dato possibilità di continuare le ricerche, di sviluppare il proprio ingegno. I premi erano diretti agli studiosi di scienze pure perché questi difficilmente traggono profitto dalle loro scoperte. Nobel pensava di aiutare non le persone di azione, ma gli idealisti e i sognatori che in genere hanno difficoltà a farsi strada nella vita. La Fondazione


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Nobel cominciò a funzionare nel 1901 per l’assegnazione dei cinque premi annuali di 208000 lire ciascuno e d’una grande medaglia d’oro. Alfredo Nobel aveva avuto da lungo tempo l’intenzione di creare con le sue ricchezze un solo grandioso premio per la diffusione delle idee di pace fra tutti i popoli. L’aggiunta degli altri premi gli fu suggerita da un detto di Luigi Pasteur, secondo cui si afferma che l’ignoranza separa gli uomini, la scienza li unisce. La medaglia d’oro porta da una parte la riproduzione dell’effige di Alfredo Nobel e dall’altra l’allegoria della Natura nelle sembianze di Dea velata che si eleva sulle nubi e porta in braccio la cornucopia dell’abbondanza mentre a suo fianco una giovane donna rappresentante il Genio della scienza le solleva lentamente il velo. I premi destinati ad incoraggiare opere di scienza e di civiltà costituiscono un monumento che Alfredo Nobel ha retto a se stesso, un omaggio tributato alla Società intera. Alcuni anni fa si è protestato contro i criteri che ispiravano le assegnazioni, i premi erano andati a scienziati e letterati illustri, ma di fama già formata e sul tramonto della loro carriera. Nobel aveva indicato che i premi dovevano essere destinati ogni anno a quegli scienziati che nell’anno precedente si erano resi meritevoli con grandi opere. Nella fabbrica di Krummel eretto alla memoria di Alfredo Nobel un grandioso monumento che rappresenta una figura trionfale di donna che innalza la fiaccola della Scienza mentre cala il piede sopra un uomo prostrato a terra, simboleggiante la forza bruta della Natura, sottomessa così alla Tecnica. Leonardo Selvaggi

NON HO PIÙ ESPRESSIONI Non ho più espressioni Calde ore del cuore Che premono solitudini Acclamate Il cielo è sereno Ma la mano no Ho bisogno di nuvole

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Che non sai darmi Che non mi può donare il vento Restituiscimi brividi che mi levi Porta male che mi trascini Non sono nulla senza l’ombra Che però è frutto del sole Dammi la febbre Dammi il sale Ecco mi hai portato in confusione Mi manchi già Sei cielo e non sei bosco E la pace che mi avvolge come una coperta Sei il respiro Sei un abbraccio Sei riposo Sei l’amore La sicurezza di casa In un posto lontano Carolina Ceccarelli Quercia Ciampino, RM

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/6/2921 Clamore eccessivo, a mio parere, per il bagno della giovane, nuda, nella bella vasca di piazza Colonna, davanti a palazzo Chigi, sede del Governo. D’accordo: preoccupa l’intervento in ritardo delle forze dell’ordine, che ha permesso alla donna di spogliarsi, tuffarsi e sguazzare all’interno della vasca per una manciata di minuti; d’accordo: un luogo, così importante e vitale, dev’essere più rigorosamente sorvegliato e controllato. Ma non esageriamo sulla cattiva cartolina di Roma che viene trasmessa all’Estero. Una giovane nuda, che tresca nelle acque limpide di una fontana, reca scandalo e allontana il turismo? Via! La cartolina, della quale tutti dobbiamo veramente vergognarci, è la quantità di sporcizia per le strade; i cassonetti che tracimano; i topi più grossi dei gatti; i gabbiani, i cinghiali: è questa la cartolina che, per giunta, non è da noi spedita a tutto il mondo solo in un caldo sabato d’incipiente estate, ma ogni giorno e da anni. E ciò, veramente, indigna e spaventa. Domenico Defelice


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Il Racconto

IMPRINTING NECESSARIO di Wilma Minotti Cerini

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NA nube bassa sopra Stresa ha oscurato un tratto del lago accessibile al mio occhio, ma nel suo lato destro uno squarcio fa intravedere un cielo cilestrino chiaro e queste differenza di luce e ombre crea sul lago una strana fantasmagoria di colori: torvi e leggiadri nel contempo. E’ presto, solo qualche rara voce umana tra gli ultimi turisti che s’incamminano veloci nei loro impermeabili trasparenti sulla mia riva, per sparire oltre la casa vicina che chiude il mio orizzonte. Poi un battere d’ali di anatre selvatiche sciama verso l’onda nel rituale lavaggio delle piume. Ma più alto si palesa una freccia perfetta che buca l’aria, allineati a distanza matematica le anatre selvatiche vanno altrove, e allora penso a quel piccolo paleo encefalo che sa orientarsi con le stelle e con le distanze come solo un matematico sa fare e mi torna la malinconia per la presuntuosità umana del credersi chissà che cosa. Chi avrebbe mai detto che avrei lasciato la città di Milano per vivere quel che resta del mio futuro a Pallanza, città nella quale sono nata e cresciuta, per una scelta di vita che avrei una volta accettato solo per una vacanza e non per sempre! Bastava andare all’indietro di tre anni per ritrovare tutta la mia angoscia per non riuscire a trovare un appartamento un po’ decente e adeguato alla cifra possibile. Ogni anno dovevo decentrare un po’, e poi sempre più lontano verso quelle periferie anonime, senza alcun riferimento alla tua storia, per trovare un’abitazione che avesse la cucina abitabile a parte e non a vista all’americana come ormai si usa e che ti propongono come una ricercatezza moderna. Voglio vedere se il soffritto di cipolla non si deposita su un divano! e hai un bel spruzzare deodorante.

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La casa nella quale ancora vivremo per gli ultimi due anni, e saranno quarantasette dall’inizio, la vivo come se un ladro fosse già penetrato per rubare. Non un furto qualsiasi, un furto della memoria, dei momenti di gioia e di dolore, di lacrime e risate, momenti di innamoramento e amore, il tempo degli amici, delle persone care. Non potrò più dire: casa mia. Eppure era lei la mia casa, quella nella quale avrei voluto vivere e morire. E poi la via, un po’ proletaria una volta ed ora un corso con negozi di moda e di gioielli. Ieri l’ortolano, la pescheria, il macellaio, il panettiere, il droghiere. Oggi devi andare sempre più lontano a meno che tu non voglia mangiare un gioiello. E’ come se mi preparassi a un funerale, essendo il malato assai grave, e dovrò dire addio ai muri, a quel corridoio così strano che noi abbiamo trasformato in una galleria arredata. Ho già dato un addio ai merli e al pettirosso che ogni anno veniva nel terrazzo pensile sotto la siepe di lauro cerasus. Forse è da quel giorno che ho deciso che piuttosto che in periferia me ne sarei andata altrove. Quel giorno sono venuti in forza del diritto di fare ciò che vogliono coloro che sono padroni di tutto lo stabile, e senza alcun preavviso hanno strappato ogni cosa. Mi si è stretto il cuore quando hanno strappato le tue povere radici, ancora avevi i tuoi racemi fioriti mio povero lauro cerasus! Mi sono ritrovata all’improvviso un terrazzo che tanto somigliava ad un retro di una casa del Bronxs, una distesa di cemento con un comignolo grigio per lo sfiatatoio dell’aria condizionata della banca sottostante, una desolazione assoluta, salvo vedere ancor meglio le finestre ormai logore dal tempo della casa antistante. Perché il luccichio delle vetrine è sotto, all’altezza dell’occhio ma basta alzare gli occhi per vedere scemare questo prodigio, quando la casa diventata vetusta tanto assomiglia ad una persona curva sugli anni. Eppure quella era la casa che avevo pensato di vivere, invecchiando insieme, forse morendo insieme. Milano, mia affascinante Milano di un tempo, così viva di idee realizzate, così cantata


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Luglio 2021

da D’Anzi,, da Gaber, da Jannacci, da Celentano, città dal cuore grande che tutti accoglieva e dava lavoro e speranza! Città d’artisti e di scrittori, di commediografi e da quella Nouvelle Vague che si formava nei dintorni di Brera, che prendeva l’aperitivo al Giamaica e si fermava a discutere di letteratura, di quell’arte capace di sconvolgere le forme note, la pennellata entro i limiti, arte rivoluzionaria e anarchica insieme che si volgeva al surreale e al nucleare, che derideva il susseguo dei generali, che parlava di Patafisica e di Ubu Re. Era il tempo dei più noti galleristi: La Galleria del Naviglio di Cardazzo con i suoi Campigli, Morandi, Crippa, Fontana; la galleria di Arturo Shwartz nella quale prendevano forma le mostre più discutibilmente avveniristiche e dove il meccano di Enrico Baj si rifaceva al volto di un Generale, oppure di una rubinetteria composta a forma d’arte e D’Angelo diveniva noto per le sue macchie nucleari, mentre Fontana faceva i famosi buchi e tagli; la Galleria Blu con il Dova, la Galleria delle Ore, la galleria di Toninelli di via S. Andrea per le mostre più importanti con il suo Azuma dai gioielli di metallo nobile e non nobile con le sue forme che rammentavano l’estremo oriente e con la sua firma del sole irraggiato, oppure la Minima di via Bagutta per le mostre estemporanee e meno impegnative dove ritrovavi i dipinti e i disegni di Riccardo Manzi, la Galleria di via Montenapoleone 6,( dove potevi trovare tra tanti i disegni del padre di Lauretta Masiero.) Milano del Premio Bagutta, alla Trattoria dei Pepori. Tu ci andavi e ti mettevi seduta al tavolo a forma di cenacolo, stando ben attenta a non occupare dei posti sacri, quello del Decano : un vecchio scultore di quasi novant’anni e al suo arrivo era d’uso alzarsi in segno di grande deferenza; quello di Mario Vellani Marchi e di sua moglie Isotta, lasciando anche un posto per Giuseppe Novello che poteva sopraggiungere in qualsiasi momento a mangiarsi una vaga insalata con la sua amata cartella di carta di Fabriano per un disegno estemporaneo dei presenti. Ma era in gran segreto che Vellani Marchi

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preparava la lista dedicatoria per il festeggiamento di qualche personaggio famoso, ed io ero presente per quella di Indro Montanelli, e tra tante firme c’è pure la mia. Poi fu la volta di Luciano Lanfranconi che faceva i suoi schizzi satirici sul Corriere della Sera venire al Bagutta ed essere riconosciuto tra gli artisti. Come per l’oro che non può mai essere purissimo ed ha bisogno di una percentuale di argento, così pure al Bagutta vi era l’oro degli artisti, scrittori, commediografi veri e l’argento di quelli in erba dal valore ancora da verificare. Ma passata l’euforia del momento ci si ritrovava a parlare più seriamente di letteratura e d’arte con Giansiro Ferrata e il suo inseparabile amico Tono Dini e la mia amica eruditissima Michela Rosada a ristorante chiuso, con Enzo Pepori e la moglie in forma più familiare, mentre si sbucciava tutti insieme una cassetta di piselli. Fu in quell’occasione che i Pepori ci invitarono a mangiare i gioielli del Toro in lieve salsa di pomodoro con l’entusiasmo dei presenti e con un senso di repulsione da parte mia. Mi piaceva Milano di allora, meno sfolgorante, con i muri un po’ scrostati, ma più umana, colta, proiettata al futuro. In via Montenapoleone, vi era Moretti che vendeva i suoi frutti a peso d’oro, e più avanti il Salumaio altrettanto caro, ma bastava superare la via S. Andrea, per portarsi in via Spiga o in via Bagutta per avere tutti i negozi alimentari e i bar a prezzi normali a disposizione. E debbo rammentare la latteria della Betty, dove ci si ritrovava al mezzogiorno per mangiare al primo piano, e dove lei teneva conto di figlio chiunque andasse da lei con i suoi problemi digestivi, ed eravamo sempre i soliti ad andarci, tutti amici di pranzo, più raramente ci si trovava oltre il caffè preso al bar Mario se non per amicizia vera e affinità d’intenti: ed erano commessi o gerenti dei negozi in via Montenapoleone, segretarie, giornalisti, modelle delle varie sartorie di allora: La Biki, Fercioni, Mila Schon e poche altre, ed erano di passaggio personaggi che avrebbero fatto grande la moda in Italia e che arrivavano da


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Roma o da Parigi come Valentino ( si diceva su sollecitazione di Jaqueline Kennedy) che stava per aprire in via Montenapoleone il suo primo atelier e che avrebbe attirato nella zona le altre grandi firme francesi, facendo traslocare da via S. Andrea i negozi d’antiquariato. Si respirava un’aria sospesa tra vecchio e nuovo e la luce di ieri si proiettava nel futuro come un valore da conservare, almeno ancora per qualche anno. Poi c’era la vasca. L’andirivieni del su e giù di via Montenapoleone. L’esibizione dello stupefacente, che si fermava come punto d’arrivo al Cova, sia dentro che fuori. L’importante era farsi notare a tutti i costi. Anche l’automobile faceva parte del gioco, e non era raro vedere una MG rivestita di pelle di leopardo verniciata di un rosa pallido, con dentro una pantera dai capelli arzigogolati a tempio cambogiano. Spesso si incontrava Lucia Rizzoli che come trasognata camminava cantando. Oppure la dea del teatro con la sua magica voce che ti incantava come Valentina Cortese con il suo foulard che copriva metà fronte e che ti prendeva sottobraccio per portarti a bere un caffè al Sant’Ambroeus. Ma pure vi era il passaggio di persone dell’alta borghesia e della nobiltà con gli abiti sobri ed eleganti tailleurs, dei più noti giornalisti ed era facile ritrovare i personaggi che incominciavano ad essere conosciuti ed amati: come la Vanoni che cantava la Mala, o il Gino Bramieri che ti faceva sorridere anche lungo la strada, e Giorgio Gaber che ti faceva sognare con la sua voce calda e ironica. Ma poco più in là vi erano i nascenti che facevano colazione con il Rock and Roll come Celentano, oppure Milva la rossa con la sua voce appassionata, e Mina con le sue corde canore che prendevano due ottave. Milano era il luogo di passaggio se non la meta ambita di allora. Ma bastava portarti verso la periferia per vedere ampie distese di granoturco, di patate di biete, e ancora le rogge erano la casa delle rane e di qualche gambero d’acqua dolce, e sopra svolazzano le farfalle e le libellule e di sera un luccichio di lucciole. Certo la periferia era triste alla sera, non luci

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sfolgoranti, ma piccole luci con lampadine di basso voltaggio che rimanevano accese fino a tardi per consentire alla padrona di casa di fare quel lavoro supplementare per tutta la famiglia dormiente. Bisogna riconoscere a queste donne milanesi o immigrate un esemplare eroismo. Tutte queste emozioni debbo necessariamente accantonare nella memoria e d’altronde il vissuto non torna, ed è anche vero che la città che ti è appartenuta vivendola pienamente, alla fine si trasforma talmente che non ti riconosci. Devi lasciare il guiderdone ai più giovani perché ora è loro la città cresciuta di pari passi con il traffico caotico. Ma c’è comunque un velo di tristezza per la loro giovinezza che deve affrontare un futuro pieno di incertezze, il lavoro precario, l’impossibilità di avere una casa a prezzi calmierati e comunque in armonia con il loro stipendio, che diviene ogni giorno insufficiente. Ai miei tempi le case erano accessibili pur con un sacrificio equilibrato e gli affitti bassi ti permettevano lo spazio per una cena al ristorante. Poi dopo gli anni ’80 sono rapidamente saliti di giorno in giorno a vantaggio di costruttori senza scrupoli, e così pure gli affitti e per chi, come me, ha perso l’occasione di un tempo non è stato più possibile raggiungere una meta via via sempre più irraggiungibile. Ma loro no, per i giovani il problema è serio se non si è figli di papà, e non c’è lo spostarsi sempre più in periferia, i prezzi salgono man mano che le persone si spostano. E si debbono godere pure il deterioramento della qualità di vita, una città sempre più inquinata dalle polveri sottili che non trovano barriere al respiro. Me ne vado, sono tra quelle persone anziane che cercano una località umana, dove il ritmo della vita va di pari passo con i tuoi acciacchi, dove ritrovi lo spazio del pensiero, della lettura, della bellezza, della contemplazione Sono assetata di natura, di quel mondo vegetale che porge ad ogni stagione i suoi meravigliosi fiori. Un modo per rendere giustizia al mio lauro cerasus con il quale ero in simbiosi. Ma occorre un Imprinting necessario per lasciare tutto il tuo passato alle spalle. Anche Isabella ha lasciato da tempo Milano,


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insegna scienza dell’alimentazione a Stresa ed è ancora giovane: “Quando si è a Milano pare che non ci sia altra città al mondo in cui vivere, poi ci si accorge che si può vivere benissimo anche altrove” La nube si è alzata. Rapidamente il cielo si modifica in continuazione. Ora una barca porge la vela al vento, i canottieri si cimentano nella lunga ritmica vogata in questo inizio d’ottobre calmo: C’è una serenità che ti avvolge e che commuove: “il mio imprinting si è realizzato”. I passeri svolazzano da un terrazzo al tetto della casa accanto. Rimarranno per tutto l’inverno con le anatre, i gabbiani e i cigni. Il fogliame degli alberi stanno arrossendo sul loro autunno. Questa sera attenderò quel momento magico nel quale la luna lascerà strie d’argento nel lago e tra gli alberi a ridosso della riva brilleranno tante piccole luci. Wilma MInotti Cerini

BEATO DON CARLO GNOCCHI Come luce che penetra L’ombra che la foresta Fa sulla clematide alpina E la rischiara

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Non fu invano quel dolore Di chi compatisce il dolore raccogliendolo in sé per divenire una sola anima E’ ben difficile Il cammino che ci porta Sul Golgota! Ma lì risorge a nuova vita L’anima di tutte le anime Perché il Cristo le rinnova mirabilmente integre Il cielo sopra di noi Ha spalancato da tempo le porte al tuo spirito. E tu da lassù puoi guardare la moltitudine che ti ama E ti proclama: “BEATO” Noi tratteniamo solo due occhi Che guardano con i tuoi occhi Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB

Un libro da leggere e da regalare:

Come acqua sorgiva da polla Che disseta Gole inaridite Come neve che scende pura E che ti camminò accanto Col vento sibilante Nell’immensa steppa Russa Basterebbero i tuoi occhi Di una dolcezza materna Basterebbe quel tuo sorriso Che penetra l’anima Tu che partisti puro E tornasti col cuore Di tutti i cuori che rimasero

Nel libro Non circo l’aria oltre a intensi momenti di vita paesana, ho trovato una Roma del primo dopoguerra che era anche la mia, con conoscenze comuni. Emerico Giachery Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino – genesi@genesi.org; http://www.genesi.org – Pagine 210, € 12,00


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Recensioni FABIO DAINOTTI POESIE CONTROCORRENTE e racconti in versi Biblioteca dei Leoni, Anno 2020, Euro 10,00, pagg. 65 La sfida d’un annunciato anticonformismo letterario lanciata a mo’ di guanto dal poeta di Pavia, Fabio Dainotti, attraverso la pubblicazione dell’ulteriore sua silloge Poesie controcorrente e racconti in versi, si basa su una scelta di versi le cui ispirazioni verosimilmente hanno a che fare con un antico-non troppo antico, di quando si stava oltrepassando la soglia della modernità e si appendevano negli armadi le vecchie tradizioni, ripiegando nei cassetti le mentalità obsolete per lasciare il posto, ad esempio, alle concezioni dei Futuristi, a quella che è stata la sempre più emancipata figura femminile, all’uomo senza più gli orpelli delle buone maniere e del suo borghesismo. A conferma di ciò vi è anche l’immagine della copertina dello stesso volumetto, riproducente una Signora con cappello del pittore veneziano, morto a Parigi nel 1917, Federico Zandomeneghi, prima macchiaiolo, poi, una volta in Francia col favoreggiamento di Edgar Degas, influenzato alquanto dallo stile impressionista non dimenticò mai il verismo pittorico da cui era partito per realizzare ritratti femminili di donne perbene. Questo per dire che si avverte nelle poesie di Fabio Dainotti un’aria di relativo Ottocento con tutti i possibili nessi e connessi fin dalla prima lirica, allorquando si rinnovava quotidianamente una gradita visita, forse di un innamorato che veniva a cavallo e di una lei in compagnia

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della madre, nella casa considerata dalla madre non adatta nemmeno come stalla/ per il cavallo del tuo amico Fabio. L’originalità dainottiana si riveste del passato per essere apprezzata nel nostro presente privo di quelle premure che hanno reso privilegiato il secolo del Romanticismo, dell’Impressionismo francese, del Congresso di Vienna, del Risorgimento italiano con la spedizione dei Mille di Garibaldi, a cui fece parte anche lo stesso giovane patriota Zandomeneghi, prima di entrare a far parte della cerchia degli artisti del Caffè di Michelangelo a Firenze, i cosiddetti Macchiaioli capeggiati da Giovanni Fattori. Così, senza accorgersene, s’intercetta uno spaziotempo completamente diverso dal nostro attuale, che invita al sogno e al distacco poesia dopo poesia, come in una passeggiata fuori del razionale. «La littorina fermava/ in un viale alberato di Milano;/ era giugno, la luce dilagava.// Vimercate: fermata in pieno centro,/ tra un’edicola in fiore di giornali/ e il chiosco per la musica d’estate.// Le signore sfilavano eleganti/ con ombrellini al braccio. » (Pag. 29). L’eleganza, innanzitutto, è stata una delle massime prerogative di quel secolo ancora con le crinoline, ma già Zandomeneghi, come anche l’altro importante pittore italiano trasferitosi a Parigi, Giovanni Boldini, hanno ritratto bellissime donne con gli abiti più lineari non più ingombranti pronte per entrare, ad esempio, nell’automobile – il cui primo motore a scoppio risalirebbe al 1854 – proprio per una vita più dinamica. Di sicuro ci sono evidenti orme autobiografiche tra questi versi, perché non mancano descrizioni di circostanze fin troppo particolareggiate come quella volta di un lungo viaggio in treno, Da un umile paesello del Bresciano, fino al paese di Padre Pio, «[…] su quella linea ferroviaria scomoda,/ lei donna, sola, negli anni Quaranta,/ con quello strazio in cuore che durava.// Però la ricompensa, infine, l’ebbe,/ quando il santo, guardandola negli occhi:/ ‟Non preoccuparti”, le rispose, ‟è salvo”. (Pag. 48). Il poeta Dainotti si diverte a mistificare i fatti inserendoli ogni tanto in qualche contesto di vita diverso, come se Egli incorporasse due epoche lontane tra loro alfine di suscitare positiva nostalgia, «[…] levità fluttuante di un tempo ritrovato, alla maniera proustiana. La memoria involontaria del poeta interagisce con le immagini limpide ed icastiche, correlate al vulnus esistenziale e a dilaceranti brandelli di ricordi. Il sortilegio dell’immaginazione, nelle liriche di Fabio Dainotti, è determinato dal sentimento dell’assenza e dal vuoto della mancanza, che va ‟oltre la coltre del silenzio”.» (Dalla Postfazione di Carlo Di Lieto, pag. 61).


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Nell’ultima parte del libro ci sono i Racconti in versi, vetrina di testi poetici abbastanza elaborati dove la verità dei fatti è stata messa a nudo, troppo denudata da stridere con l’ambientazione ricercata di prima. L’autore sembra sia tornato nel tragico presente, o meglio nel passato della nostra contemporaneità per raccontarci stralci di vita intrecciata ad esistenze meno fortunate. L’ultima poesia del florilegio è dedicata a Renato e il contenuto della narrazione poetica non è dei più felici: storia squallida di un piccolo appartamento concesso ad una ex-professoressa diventata clochard e che, per via legale o non, doveva tornare al legittimo proprietario, anche grazie all’aiuto dell’amico che ha usato maniere non proprio gentili. I protagonisti non assaporeranno il lieto fine e questo lascerà il lettore come estraniato e confuso, forse per indurlo a risalire davvero il fiume, suo malgrado, controcorrente… «[…] Sfondasti con un pugno la porta,/ cambiasti la serratura,/ dopo avere buttato i ‟quattro stracci”/ della donna nell’atrio.// Perciò quel giorno sotto casa/ quando eri già un malato terminale,/ ma io non lo sapevo, m’imploravi/ di non litigare:/ ‟Fabio, non te ne andare, forse è l’ultima/ volta che ci vediamo”.» (Pag. 59). Isabella Michela Affinito

GIANNICOLA CECCAROSSI VOCI (tre poemetti) Ibiskos Ulivieri di Empoli (FI), Anno 2018, Euro 12,00, pagg. 55. La necessità di proseguire oltre il perimetro, che può essere più o meno ampio, di una poesia per sconfinare nell’ambiente poematico può accadere quando si hanno più cose da dire in versi – esiste anche il poema sinfonico quale composizione orchestrale ispirata a qualcosa di artistico o letterario. Nel poema, essendo una distesa indefinita, c’è l’occasione di esporre una parte dell’esistenza trascorsa intessuta di riflessioni, altri accadimenti con la consapevolezza di poter andare avanti, appunto, quasi all’infinito e, perciò, il senso di libertà versificatoria è più assaporabile, più godibile. Il poeta torinese, Giannicola Ceccarossi, residente nella capitale, dopo diverse sue esperienze editoriali tra poesia e diaristica, ha voluto regalarci tre suoi poemetti sotto l’unica titolazione di Voci, per raccontarci del suo tempo quale patchwork di pensieri eterogenei, tra il reale e il come sarebbe stato o il come dovrebbe essere, spostandosi dall’io al noi alla terza persona plurale sempre col suo stile letterario che sa di finestre spalancate, senza la punteggiatura, che in fondo lo rimarca.

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Il prefatore dell’opera poematica in questione, Emerico Giachery, è come se avesse fatto tre/quattro premesse insieme per aver separato con lo spazio bianco il suo testo di presentazione, quasi un proporzionato rispetto d’esamina verso i tre ‘lungometraggi’ in versi, i quali posseggono un’autonomia grazie al proprio sottotitolo: Barche nel cielo, Noi siamo i giovani di questo tempo distorto e Pace. Ancora, ciascun poemetto ha un’immagine “sua” di copertina che sono delle riproduzioni a colori di dipinti d’artisti del passato, come Vasilij Kandinskij, Natalia Goncharova ed Edvard Munch. «[…] Il ribollire delle inquietudini del nostro Novecento postbellico si manifesta e trasfigura in un germinare ininterrotto di immagini. Il continuum che fonda e caratterizza il discorso poetico parrebbe offrirsi, anzitutto, come suggestiva icona del fluire degli anni e della storia. Al lettore spetterà l’impegno di affidarsi ad esso, entrare in sintonia con esso, assaporando come musica le singole immagini e sinestesie, e la misura, sempre giusta, della scansione e del ritmo. » (Dalla Prefazione di Emerico Giachery, pag. 5). Il primo poemetto ‘scaturisce’ dalla libertà compositiva di un quadro astratto di Kandinskij, il padre diremmo dell’astrattismo lirico, autore d’importanti opere letterarie anche a sfondo pedagogico: Lo spirituale nell’arte del 1912 e Punto, linea, superficie del 1926. Non fu solo puro astrattismo quello di Kandinskij, bensì tutto uno studio sui simboli e i colori ognuno interpretato con una specifica personalità, finanche col suono in abbinamento. Il poeta Ceccarossi si pone tante domande col chiaro punto interrogativo durante il suo primo monologo-poema e va avanti spedito, prendendo in considerazione il modo di vivere che s’è espletato finora, il suo e quello degli altri, per poi aggiungere dei consigli che sanno d’evangelizzazione – negli ultimi versi c’è un bellissimo effluvio proveniente dai meravigliosi messaggi della Madonna di Medjugorje – comunque di bene per migliorare sé stesso e gli altri. «[…] Porgete le vostre mani al fratello più debole/ non aspettate che il tempo sani le ferite/ ma risvegliate i sensi/ e facendo sentire acuta la voce/ sarete dannati per le idee/ per l’amore che porterete agli invisibili/ Non rinunciate alla libertà!/ Difendetela come ultimo baluardo/ e non cedete alle lusinghe degli stregoni! […] Non lasciate che il vostro amore/ vi distolga dagli abbracci del sole/ e dallo sconvolgersi degli uragani/ Non aspettate che si separino gli umori/ ma lottate per le vostre intuizioni/ Sarete così liberi di piangere dormire/ entusiasmarvi esprimervi vivere!» (Pagg. 18-21).


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Da un vivace quadro di contadine danzanti della pittrice russa, traferitasi a Parigi, Natalia Gončarova, il cui stile pittorico vide la fusione di cubismo futurismo e orfismo insieme, ebbene, diparte il secondo poemetto del Ceccarossi, Noi siamo i giovani di questo tempo distorto, dove l’autore, in effetti, disvela un po’ della sua giovinezza costellata da false promesse, sbagli, accadimenti rovinosi, l’epoca degli slogan e delle prime folle che manifestarono contro qualcuno o qualcosa, e in alcuni tratti sembra che lo stesso Ceccarossi, sulla scia di un redivivo sessantottino all’epoca anche contro la guerra in Vietnam, stia ancora manifestando a pieni polmoni per diffondere il suo credo poetico. «[…] Anche se incontreremo bui profondi/ noi avremo sempre il sole negli occhi/ E urleremo urleremo le nostre età/ il nostro vivere cercando altri cammini/ Non ci arrenderemo mai!/ Se molti di noi si legheranno alla terra/ altri si avvolgeranno ai sogni/ Non lasciate che il nostro sangue si contamini/ Non lasciate che i frutti marciscano nei campi/ Non lasciate che gli stridi rimangano inascoltati/ Ma di nuovo canteremo/ e canteremo a voce alta la gioia degli uccelli/ ascolteremo in silenzio le preghiere dei morti/ benediremo con la croce la fronte dei fratelli/ e con la leggerezza del cuore/ assaporeremo la brezza del giorno/ Noi siamo i giovani di ieri/ Noi siamo i giovani di oggi/ Noi siamo i giovani di domani/ Che Dio ci benedica!/ Sempre» (Pagg. 41-42). L’ultima narrazione in versi origina, invece, da un quadro del pittore e incisore norvegese Edvard Munch, artista colpito da molti lutti familiari che, purtroppo, gli segnarono il carattere in maniera fortemente negativa e che, ovviamente, trasferì nei suoi lavori artistici anche per il senso drammatico di cui è pervasa la stessa letteratura scandinava, da Henrik Ibsen a August Strindberg. Anche lui, Munch, compose un poema, da lui arricchito coi suoi lavori artistici, Alpha e Omega, ed illustrò anche la raccolta di poesia di Charles Baudelaire, I fiori del male. Nella terza e ultima parte del volume di Ceccarossi, si riscontrano termini che anche Edvard Munch ha fatto suoi artisticamente: morti, malinconia, paura, inquietudine, spettri, dolore, fantasmi, notte, terrore, sdegno, anime, luna, passato…, proprio perché l’artista norvegese sviluppò uno stile prettamente contrassegnato carico di simbolismo, con la radice innestata nella sofferenza personale provata fin dalla perdita della madre per tubercolosi quando lui aveva appena cinque anni e, poi, lui stesso ebbe una salute cagionevole. Addirittura, sul finale dell’ultimo poemetto di Ceccarossi c’è evidente una ‘profezia’ di quello che è

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accaduto a noi in tempi recenti, a seguito della pandemia mondiale di quando, come gli animali che escono dal lungo letargo, siamo potuti riandare per le strade delle nostre città, ripopolandole. «[…] Abbiamo gridato il nostro dolore/ soffocato il nostro sdegno/ sepolto dentro le nostre anime/ quanto avevamo vissuto/ in quegli interminabili istanti/ Non distoglieremo la vista/ da quei luoghi di terrore/ Noi usciremo dalle nostre case/ Ritroveremo il profumo delle notti/ con i suoni a inseguire i sogni/ e nulla ci impedirà di guardare la luna/ No, non avremo paura del buio! […]» (Pag. 54). Isabella Michela Affinito

ANTONIO CRECCHIA ECCIDIO IN CASA DRUSCO Dramma in cinque atti Ed. ac ˂˃ Quarta edizione 2019, Stampato in proprio Fuori commercio, pagg. 122. Ci sono luoghi con edifici ‘fossilizzati’ nella memoria collettiva di una regione o di un’intera nazione perché vi sono accadute delle scomode vicende familiari, quindi, segnati da una colpa e già il drammaturgo attore poeta, William Shakespeare, nel suo tempo inglese del ‘600, raccogliendone testimonianza dalle cronache reali, immortalò nella letteratura teatrale, ad esempio, la storia d’amore non a


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lieto fine di Giulietta e Romeo dell’allora Verona – di cui ancora oggi è meta di visitatori la casa di lei col memorabile balcone – di quando erano in forte contrasto le due rispettive famiglie degli innamorati: i Capuleti e i Montecchi. Ma anche la strage della famiglia reale del Castello d’Elsinore in Danimarca, entrata nella celebrità del suo (di Shakespeare) Amleto e, spostandoci altrove col poemetto popolare d’autore anonimo in dialetto siciliano (tradotto dopo in italiano e in francese), la regione siciliana del XVI secolo, in particolar modo Palermo e Siracusa, piansero per la drammatica sorte capitata a La Baronessa di Carini, uccisa per mano paterna alfine di vendicare l’onore offeso dalla figlia Caterina. Quando un autore di qualsiasi epoca decide di mettere mano ad una storia del genere realmente accaduta per farla ‘viaggiare’ nei secoli in forma teatrale o in poema, in prosa, allora, anche il luogo della vicenda acquista fama se non a livello mondiale almeno in quello regionale. E così, senza andare geograficamente molto lontano, nella regione molisana del professore Antonio Crecchia, dalle innumerevoli pubblicazioni di vario genere, di preciso nel suo piccolo paese natio di Tavenna, all’epoca della vigilia del Congresso di Vienna, quindi nel 1913 – standoci nell’aria la possibile caduta dell’impero napoleonico e come conseguenza del dominio francese in Italia col Vicereame di Gioacchino Murat, che prese il posto dei Borboni cacciati via dal Regno di Napoli – era palpabile il vivo fermento anche della gente di Tavenna, nonostante piccolo comune, scissa nei rispettivi favoreggiamenti: chi stava dalla parte dei francesi, denominati ‟infrancesati” che riscuotevano le tasse del popolo locale per consegnarle ai francesi occupanti e chi caldeggiava il ritorno dei Borboni compiendo veri e propri atti di brigantaggio, a cui parteciparono anche coloro che avevano disertato l’esercito ufficiale di Napoleone. Insomma, erano anni difficili in tutta Europa e i dissidi si avvertivano ovunque, fino a giungere, appunto, nei piccoli borghi con pochi abitanti perlopiù imparentati fra essi, con l’insorgenza di lotte intestine persino nel medesimo casato. Questo è successo alla famiglia Drusco, divisasi in due tronconi: quella di Don Antonio Drusco, il più ricco proprietario del paese, i cui figli, Nicola, Alessandro e Marianna, e la moglie Girolama Borgitti, parteggiavano per i francesi, riscuotendo i tributi per loro; mentre il fratello di Antonio, Diego Drusco, dottore in legge, morì improvvisamente lasciando la famiglia indebitata e fortemente inasprita (invidiosa) di quella del fratello, anche per motivi di diritti di cappellania sulla chiesa Incoronata e sull’altare di S. Giovanni, nella chiesa madre. Potremmo avvalerci benissimo del titolo

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dell’opera letteraria del premio Nobel per la letteratura, Gabriel García Márquez, del 1982, Cronaca di una morte annunciata, per introdurre i colori funesti aleggianti tra le pareti domestiche della famiglia di Antonio Drusco, sensibile ed intelligente tanto da arrivare ad ammettere un giorno dinanzi ai propri congiunti questa sua preoccupazione: « Io temo che i nuovi governanti non staranno ancora a lungo al potere. Dopo la sconfitta di Napoleone in Russia e la distruzione della Grande Armata, non costerà molta fatica agli Inglesi, Prussiani, Austriaci e Russi, occupare la Francia e l’Italia e riportare sui troni i vecchi monarchi. Noi ci siamo compromessi abbastanza e ho paura che ci saranno in futuro spiacevoli ripercussioni.» (Pag. 22). L’abilità drammaturgica di Antonio Crecchia è stata l’aver conferito sonorità ragguardevole a coloro che subirono l’eccidio in casa propria, con un’appropriata sua immedesimazione nei rispettivi personaggi (numerosi) entrati a far parte della vicenda, tra gli uccisi e gli uccisori. In quarta di copertina del presente dramma, c’è un breve giudizio critico del compianto professore Silvano Demarchi, del 25 giugno 2007 a Bolzano, esemplificativo ed esaustivo al tempo stesso, che vale la pena riportare. «… a parte la vena versatile, il dialogo procede concitato e stimolante così che il lettore non si annoia mai; indovinata l’inserzione di poesie dal tono alto e solenne, che richiamano i cori dell’antica tragedia greca. Penso che il libro avrà successo, anche per la vicenda storica rievocata. Mi sembrava eccessivo il numero dei personaggi, ma poi ho visto che nell’azione non complicano l’andamento generale.» Infatti, testi di poesia aulica composti da Antonio Crecchia hanno intramezzato lo scorrere della tragica vicenda, amplificandone l’eventuale fenomeno catartico in mezzo al trambusto della casa ‘ferita’ per l’uccisione di tre componenti nella notte fatidica tra l’11 e il 12 aprile 1813. Con questo lavoro letterario e teatrale si è ridata ‘vita’ ad un palazzo, ad un’abitazione che senz’altro sarà ancora visibile oggigiorno a Tavenna e, a chi sa già la storia o a chi la leggerà da questo libro, sembrerà di ‘udire’ realmente le voci dei familiari sconvolti di Antonio Drusco insieme agli spari di quella malaugurata notte, compartecipando all’eccidio con sofferta emozione e non solo. Coinvolgimento più che umano dovuto, affinché si possa magari fare ulteriore chiarezza su quell’evento tumultuoso anche a distanza di oltre due secoli e perché la mano della giustizia possa donare pace a quei remoti defunti, forse per consegnare l’unica verità ad una cittadina che ancora aspetta il meritato conforto. Isabella Michela Affinito


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MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri/Testimonianze, 2020, pagg. 82 € 10,00 Il volumetto di Marina Caracciolo ripercorre l’itinerario lirico di Imperia Tognacci, poetessa sensibile e delicata, nata a San Mauro Pascoli, che ha iniziato la sua attività letteraria nel 1996. La Caracciolo, segue passo passo l’opera letteraria della Tognacci, soffermandosi a fondo su di essa, cercando di analizzarla al meglio per descrivere la suggestiva bellezza dei suoi lavori. Quelli della Tognacci sono versi ricchi di musica e ritmo, in ottima simbiosi tra contenuto e forma scritta. In “Natale a Zollara” per esempio, la lettura anche se scorrevole, cela un messaggio complesso e sottile; in “Odissea Pascoliana” si vede la passione della poetessa per Giovanni Pascoli, che inserisce questa grande ed importante figura della letteratura italiana nell’ambiente vissuto, nel dolore e nella morte, per portare in rilievo la psicologia e la complessità del poeta – uomo. Invece “La porta socchiusa” è ispirato ad un viaggio in Terra Santa, un pellegrinaggio immerso nel silenzio e nella natura, tra pastori, carovane, polvere, sabbia e cieli stellati. Insomma, un vero e proprio viaggio nella lirica e nella mente della Tognacci, che è sempre stata un’anima in cammino, vogliosa di carpire conoscenze, pensieri e sensazioni per cercare di avvicinarsi il più possibile a capire il mistero dell’Essere, attraverso una scrittura attenta e al ritmo di essa. Uno sguardo diverso, da quello che può sfuggire a noi esseri umani, che corriamo tutto il giorno e, spesso, non ci accorgiamo di particolari che renderebbero la nostra esistenza certamente più serena e in armonioso accordo con ciò che ci circonda. Roberta Colazingari LINA D’INCECCO COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, novembre 2020 La poetessa Lina D’Incecco, con le sue liriche, dà vita ai colori e agli stupori che ci circondano sia durante la nostra vita che nella natura. La sua attenzione si sofferma su colori e stupori che lei vede riflessi nelle persone, nelle cose, nella natura etc. La sua raccolta pubblicata su Il Croco si apre con l’omaggio al genio di Leonardo da Vinci, per poi passare alla Ferrari, entrambi hanno stupito e continuano a stupire il mondo. Poi si sofferma sulla maternità, sulla musica: tutti stupori e colori positivi,

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esempi da tenere ben a mente da parte di tutta l’umanità. Ma i colori possono anche essere cupi, così come anche lo stupore può essere di dolore. Ecco, allora, che si sofferma sulla guerra, sull’odio: “Lì sui monti ibernati nelle trincee stavano i soldati in attesa di combattere…Affondavano i soldati nella neve,… Orme nere che scrivevano la pagina di una guerra brutta”. Torna poi a guardare la bellezza della natura ne I Colori del mio mare: “Lo sguardo immergo nel mio mare verde…In esso traggo vigore, dallo stillicidio dei pensieri trovo rifugio” e nella lirica Oleandri: “…C’è il sapore dell’estate con il filare di oleandri dai colori fuxia e rosa…”. La D’Incecco è anche molto attenta a seguire il sociale, l’attualità e dedica una poesia a questa pandemia che or-

mai ci attanaglia da tempo, ricordando la cronaca dolorosa che ci riporta alla mente i troppi morti caricati sui camion. Le sue liriche sono semplici, senza paroloni o fronzoli inutili…istantanee di colori e stupori nella loro semplicità. Roberta Colazingari

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO IL CORAGGIO DI AMARE Anscarichae Domus/AccademiaCollegio de’ Nobili Editore, 2020, pagg. 74, € 10,00 Amare in un mondo digitalizzato che corre, ci assorbe e ci prosciuga soprattutto nei sentimenti…


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Ogni giorno ci preoccupiamo di sbarcare il lunario e dimentichiamo che solo l’amore può salvare il mondo. Specie in questi tempi di pandemia, dove la costrizione alla solitudine per far si che il morbo non si sparga, ci ha finalmente indotti a riflettere. Sarà servito? Abbiamo riscoperto tutti la capacità e l’importanza di amare il prossimo, l’amico/a, l’amato/a, il fidanzato/a, il marito/moglie etc.? Non so se questa pandemia devastante finalmente ci riporterà sulla retta via, sicuramente leggere il romanzo di Villafalletto servirà a farci riflettere ancora di più. I protagonisti sono due giovani, Margherita ed Andrea, che nonostante le difficoltà della vita, certezze ed incertezze, momenti felici e bui, decidono con tutto il loro coraggio di seguire la via dell’amore. Margherita grazie all’amore matura, cresce, si sente più forte, pronta a non fermarsi mai, insieme ad Andrea, superano ogni ostacolo e affrontano le novità che gli si parano davanti. “L’amore è una cosa semplice” canta Tiziano Ferro e, con questa affermazione, non sta certamente prendendoci in giro. Tiziano, come Villafalletto, ci spiega che dobbiamo scavare in noi stessi perché ogni giorno l’amore possa rifiorire e alimentarsi. Non c’è bisogno di andare lontano, di crearsi alibi…l’amore non è a tempo…è per sempre e non è un gioco. Si conquista ogni giorno, senza mai perdersi d’animo: bisogna essere se stessi, tenere la fiamma accesa. Ci vuole pazienza e buona volontà e questo, i due protagonisti del romanzo ce lo dimostrano pagina dopo pagina. Roberta Colazingari

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trasmetterlo perfettamente a chi si sofferma sulle sue opere. Tra le sue opere ci sono nature morte, cavalli, uccelli, scorci di paesaggi che trasudano umori e storie. Tripodi desidera donare a chi guarda un suo lavoro, la parte più nascosta e intima delle cose, persone o animali. Desidera innescare una reazione, un coinvolgimento in chi guarda. Ama dipingere in particolare gli animali e gli uccelli, perché è dalla loro parte, desidera dar loro voce e pensiero. Questa sua capacità di scavare nell’animo e anche la passione per il sommo poeta Dante Alighieri, gli ha fatto creare numerosi acquerelli dedicati alla Divina Commedia (Ulisse, Beatrice, Manfredi etc.), una sorta di cammino per immagini, alla ricerca an-

DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI PITTORE DELL’ANIMA Gangemi Editore International, 2020, pagg. 96, € 20,00. Un viaggio intenso attraverso il pittore dell’anima Domenico Antonio Tripodi. Il volume scritto e imbastito da Domenico Defelice, ci fa seguire e scoprire la bellezza e la profondità dei lavori di Tripodi. Pittore di fama internazionale, nelle sue opere riproduce soprattutto la natura, in particolare gli uccelli, per mettere in evidenza il disagio ambientale, lo scempio che l’uomo sta compiendo ai danni del mondo. Il volume, oltre a raccontare la vita di Tripodi e a contenere un’intervista, ha una ricca serie di tavole che trasmettono l’impronta del pittore: pennellate decise, con colori vivi che regalano emozioni. Attraverso gli animali, in particolare gli uccelli, coglie le problematiche sociali e civili dell’umanità, con il suo pennello racconta ciò che vede e riesce a

che lui del paradiso. “La mia pittura – dice di sé – si è manifestata in tono dimesso, ma vibrante come lo stato di un animo felice”. Roberta Colazingari

LILIANA PORRO ANDRIUOLI POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN BRUNO ROMBI Geko Edizioni, 2020, pagg. 144, € 12,00 Il volume della Andriuoli è un omaggio al poeta, scrittore, critico letterario, pubblicista e pittore di origine sarda Bruno Rombi. La scrittrice attraversa e analizza la produzione


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poetica di Rombi dagli inizi fino alle ultime cose, cercando di mettere in luce alcuni aspetti di essa. Rombi ha sicuramente con la poesia un rapporto doppio. Il primo è intimistico, in cui ritroviamo il suo io più profondo, il suo dolore e le sue illusioni; il secondo ha a che fare con il suo sguardo che si posa sul mondo che lo circonda: da qui nascono liriche di critica e denuncia alla nostra società. Il lavoro, diviso in due parti, si apre con la prima pubblicazione di Rombi “I poemi del silenzio” (1956), in cui ci racconta in versi la dolorosa vicenda della diaspora sarda. Ci sono descrizioni di stenti e sofferenze, un panorama cupo e tragico circonda il popolo sardo che è costretto ad emigrare. Si passa poi a “Oltre la memoria”, sicuramente più intimista. “Forse qualcosa” (1980) è invece una raccolta di frammenti lirici, in cui si evidenzia l’egoismo umano. Arriviamo poi ad “Un amore” (1992), una sorta di canzoniere dedicato alla donna amata (la moglie purtroppo scomparsa) a cui il poeta si sente ancora molto legato. Una denuncia ai mali che assillano la società la troviamo in “Otto tempi per un presagio” (1998): qui Rombi si sofferma sulla droga, sulla corruzione, sulla violenza e sull’egoismo. La seconda parte inizia con un omaggio allo scultore Costantino Nivola, le cui origini sarde lo avvicinano molto a Rombi. Si continua con “Il battello fantasma” (2001) in cui riflette sul senso della propria vita, guardando alla sua passata infanzia. “Fragments de lumiere” (2010) contiene, invece, versi molto intimistici ed ancora riflessioni sulla vita; “Il viaggio della vita (2011) dove Rombi fa il punto della situazione sulla sua produzione. L’ultimo scritto è datato 2018 “Quando muore un poeta?”. Qui Rombi sente il peso degli anni che avanzano, si pone domande assillanti sull’attesa del “terribile giorno”. Fa un bilancio di quello che è stata la sua vita, di ciò che ha dato e di ciò che ha ricevuto. Delusione e sconforto aleggiano dai versi che continuano a porsi domande a cui, forse, nemmeno la poesia riuscirà a rispondere. Roberta Colazingari

MANUELA MAZZOLA FRAMMENTI DI VITA tra passato, presente e futuro Il Convivio Editore, 2020, pagg. 40, € 8,00 Ripercorrono frammenti di vita passata, presente e futura i versi di Manuela Mazzola in questa nuova pubblicazione. Sono versi semplici e leggeri, in cui si riaffaccia il vissuto: “Giochi di bambina persi negli anfratti della mente….Essenze lontane, quasi ancestrali, che poi chiudo a fatica

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in un carillon, sopraffatta dall’emozione”, ma anche il presente e il futuro: “Un raggio di sole li attraversa e mille colori fuoriescono, illuminando la mia fantasia, che si libera nell’aria e tinge il futuro di speranza”. Anche in queste poesie la poetessa guarda il mondo con un certo distacco, che le fa vedere le cose come sono in realtà: un mondo dove predomina l’egoismo, la cattiveria, l’ipocrisia, in cui difficilmente si tende la mano al prossimo, perché si è molto diffidenti ed ognuno vive al massimo per se stesso. Allora, ecco che la Mazzola preferisce al presente freddo e distaccato, i ricordi di fanciulla, che sono autentici e disincantati. Ritrova i giochi da bambina, i profumi di stagioni vissute con spensieratezza, i primi amori, i primi dubbi sull’esistenza, i sogni: “Sere stellate aspettando un sogno…Un bagno di felicità tra risate e giochi. Spensierati e leggeri ci preparavamo a vivere”. Versi spensierati e leggeri, ma comunque velati di malinconia, che la portano a riflettere su quello che sarà il futuro, che altro non è che “proiezione di desideri e speranze…”. Il segreto del domani non è altro che una scintilla che riaccende la speranza: è la vita, che va costruita mattoncino per mattoncino con i suoi lati di luce e i suoi lati oscuri. Roberta Colazingari

VIRGINIO GRACCI (a cura di) EDWARD LEAR POEMS NONSENSE & SONGS Campanotto Internazionale Editore, 2020, pagg. 158, € 16,00 Ex-docente di Lingua e Civiltà Inglese, Virginio Gracci è autore di articoli e saggi di didattica e letteratura, apparsi in riviste e giornali italiani e stranieri. Ha curato, tra l’altro, per la Loescher di Torino, un testo di Mary Shelley: Maurice, or the Fisher’s Cot, con un saggio in inglese sull’autrice. Poeta in lingua italiana e in dialetto veneto; narratore (alcuni suoi racconti brevi sono contenuti in antologie come “La Pentola dei Nodi”); ha ottenuto diversi riconoscimenti e tra le opere ricordiamo L’Urlo di Munch, e altre Storie (2015; nel 2016 finalista al Premio Acqui Terme). Gracci è un profondo conoscitore di Edward Lear, del quale ha tradotto molto, sul quale ha molto scritto; ricordiamo, per esempio, il suo saggio breve “Edward Lear e il periodo romano”, apparso su Pomezia-Notizie del settembre 2020 e con il quale egli ha conquistato il secondo posto al Premio “Il Croco” dello stesso anno. Questo suo nuovo lavoro, edito da Campanotto di


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Pasian di Prato, si compone di un saggio che occupa le prime 67 pagine e dei Poems/Poesie, con a fianco la traduzione in italiano dello stesso Gracci. Le poesie comprendono: “Rovine del Tempio di Giove, Aegina, Grecia”, <<‘Quando la luce svanisce in una calma sera d’estate’>>, 24 Nonsense, e tre canzoni: “Il gufo e la gattina”, “I Jumblies (I Mischiati)”, “Il Dong dal naso luminoso”; tutti i 24 Nonsense sono illustrati da altrettanti bozzetti dello stesso Lear, divertenti, estrosi, surreali, ed è proprio sui Nonsense e sui bozzetti che Gracci maggiormente si sofferma nel suo gustoso e scorrevole saggio. Edward Lear amò e praticò poesia e grafica fin da piccolo. “Visto l’interesse per il disegno e la pittura – scrive Gracci -, egli ebbe modo di apprezzarne la bellezza e il valore fin da ragazzino quando si recava a visitare l’esposizione con la sorella Ann, dato che anche lei era appassionata d’arte e in possesso di una certa abilità pittorica”. Grafica e poesia in lui, dunque, procedono spesso in parallelo. Edward Lear iniziò, a un certo punto “ad accompagnare ogni suo testo poetico con un’illustrazione, e viceversa ogni bozzetto o disegno con un testo scritto, secondo un metodo di operare che lo accompagnò lungo tutta la vita ed incluse, non solo i suoi nonsense e canzoni, ma anche i suoi libri di viaggio, le cui illustrazioni sono seguite da alcune righe di commento”. Egli è convinto – afferma Gracci - che la comunicazione può “sfociare o nell’indifferenza”, o “nel rifiuto di ascoltare in quanto ciò che si sente dall’interlocutore non corrisponde a quanto ci si aspetta di sentire” e l’unione di parola e immagine può agevolare, ma anche complicare, ingarbugliare, rendere più problematico il comprendere, accrescendone la fascinazione o la ripulsa. In Lear, a nostro avviso, entrambe le intenzioni o le casualità si equivalgono, hanno valore e interesse, perché alla base della sua ironia, dell’inesplicabile, dell’indovinello, ai quali l’artista pervenne - secondo quanto afferma Gracci -, anche perché, fin da bambino, ebbe sempre a scontrarsi “con i pregiudizi” di chi gli stava intorno, “Perché ognuno di noi è quello che è, un essere umano con i suoi tic, le sue manie, le “sue” normalità, le sue stravaganze”. Versi e bozzetti di Lear che, a una prima lettura, disorientano, ma, nel prosieguo, convincono e appagano. Ogni nonsense sembra avere uno sbocco nella fiaba, nello stravagante, nell’onirico, sia nella parola che nel disegno e, volta per volta, il lettore è spinto, costretto a pensare una soluzione. Gracci, nel suo saggio, dà personali aperture e congetture; tuttavia, in noi rimane il dubbio se i bozzetti Lear li abbia composti in supporto ai versi o viceversa. Domenico Defelice

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TITO CAUCHI CARMELO ROSARIO VIOLA Vita, Politica, Sociologia (22 settembre 1928 – 4 gennaio 2012) In prima di copertina, a colori, “Il mondo in culla”, foto dello stesso Cauchi; in quarta, sempre a colori, foto di Cauchi e di Viola - Editrice Totem, 2021, pagg. 214, € 15 Con una Prefazione quasi conversevole, leggera, ma ricca di notizie, spesso appena accennate e per questo più ghiotte, stimolanti la curiosità, Cauchi ci introduce nel mondo e nelle opere di un uomo e di un sociologo che per tutta la vita ha lottato per la difesa della libertà, della verità e di tutti quei diritti umani che la politica, principalmente, in collusione affaristica con l’economia, a livello mondiale ha da sempre calpestato. Carmelo Rosario Viola è stato un vero combattente, consapevole che la Sinistra, nella quale egli ha sempre militato, aveva da tempo smarrito il suo DNA, divenendo, in pratica, cattiva interprete di temi e problemi cari al Capitalismo e meglio portati avanti dalla Destra. Viola “giudica l’impresa nell’ottica capitalistica tra sfruttatori e sfruttandi: ciò che muove la produzione è il profitto nei primi, il bisogno nei secondi”; perfino un politico come Romano Prodi – rammentano prima lo studioso e poi lo stesso Cauchi - <<esortava a “inventarsi qualcosa”, con il rischio che qualcuno ha provato a spacciare droga o a fare militanza nella malavita, per non morire di fame, ovvero “per fare qualcosa”>>. “Carmelo Rosario Viola – scrive Cauchi – non sopportava alcuna sopraffazione”, così battagliando di continuo e con coraggio contro tutto e contro tutti fossero lontani dalle proprie idee libertarie. Ha militato nel PCI e nel Partito Radicale, ma allontanandosi da entrambi e combattendoli appena capiva che si stavano imborghesendosi e inquinandosi di ciò che egli continuava a considerare ingiusto e disonesto. Onesto anche intellettualmente, sapeva rispettare l’avversario, riconoscere le sue ragioni, intavolando, così, preziose amicizie anche con coloro con i quali, prima, si era a lungo e ferocemente scontrato. Cauchi imposta il suo lavoro su Viola dividendolo in tre parti: le “Opere Autobiografiche” (nelle quali, tra l’altro, il sociologo “Propone una città-campagna per un futuro più a misura d’uomo”; “mostra il suo interesse per parole dialettali e costumi”; “Giudica lo sfruttamento del lavoro minorile fino al crimine commesso da un padre-padrone che finisce a suon di botte il proprio figlio”); le “Opere Sociologiche” (nelle quali distingue l’anarchia dall’anarchismo e afferma che la nostra “società è ancora ado-


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lescente e come tutti gli adolescenti vive di conflittualità”. L’opera sua più importante è La Biologia sociale, o Biologia del sociale, nella quale afferma che “Il capitalismo è una forma ereditata dalla giungla, mira all’accumulo della ricchezza e al profitto predatorio, a discapito del lavoro altrui”); e, infine, le “Opere Politiche”, tra le quali, a nostro avviso, le più importanti sono I Barbari di Nagasaki (feroce accusa agli USA per l’uso dell’atomica in Giappone, non sufficientemente criticati neppure dalla nostra Sinistra, se è vero che personaggi come Bertinotti, D’Alema, Cossutta, Orlando, Veltroni “si sono lasciati abbagliare da una sorta di capitalismo, inteso come propulsore di benessere economico”) e Dalla giungla allo Stato (in cui “affronta argomenti di attualità politica, sotto molteplici aspetti”). Chiudiamo con un brano di Cauchi su La Biologia Sociale, opera che ha suscitato tanti consensi e polemiche, anche perché, più di uno, ha scritto che essa deriva, o, almeno, si avvicina, al “Famismo” di Gino Raya: essa, scrive il saggista, “Richiama così le tre fasi (principali) delle età evoluzionistiche: primitiva (o para-animale), adolescenza (o antropozoica), adulta (o umana propriamente detta). Richiama le costanti: il bisogno di nutrirsi (costante strumentale, fame), di rassicuranza affettiva (religione o altro cui profittatori fanno campo), di proiettarsi (per non morire anche il potere), di autoidentificarsi (a completamento della persona). Richiama le pulsioni esistenziali, i processi bio-dinamici, le (quattro) costanti biosociali o imperativi biologici o bisogni essenziali ai quali aggiunge il movente sessuale che, insieme, costituiscono i (cinque) motori della vita”. Un esame a volo d’aquila, il nostro, e perché il lavoro di Cauchi è particolareggiato, e perché il personaggio è tutto ancora da inquadrare, e noi lo sappiamo benissimo, avendo pubblicato, sulle pagine di Pomezia-Notizie, molti interventi di Viola e con lui ferocemente polemizzato, senza però che venisse mai, da entrambi, minimamente intaccata la nostra antica e solida amicizia. Domenico Defelice GIUSEPPE MANITTA GIACOMO LEOPARDI PERCORSI CRITICI E BIBLIOGRAFICI (2004-2008) Il Convivio Editore, 2015, Pagg 294, € 35,00 Il saggio, Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici, è composto da una parte critica e una bibliografica, che va dal 2004 al 2008 con appendice. Giuseppe Manitta ci presenta un volume che nasce da un’attenta analisi su Leopardi, uno dei maggiori

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poeti italiani studiati all’estero. Il volume, dallo stile elegante e dal linguaggio raffinato, propone uno studio completo cominciando dall’analisi strutturale e linguistica delle opere stesse. Comprende, infatti, la biografia, i Canti, le poesie, le Operette morali e l’epistolario. Le epistole hanno un grande valore letterario, poiché da esse si è potuta conoscere la capacità del poeta di utilizzare la lingua moderna a differenza dei suoi contemporanei. Si evince, inoltre, che il Leopardi riesce abilmente a adeguarsi, a seconda del corrispondente, al suo modo di esprimersi, al suo pensiero, al suo stile e anche il lessico, viene da lui usato e modificato a seconda dei carteggi. Trapela anche, secondo Rolando Damiani, che Antonio Ranieri avrebbe avuto un rapporto più intimo con Giacomo e che Pietro Giordani, invece, fosse una sorta di figura paterna e affettuosa. E sempre dalle lettere si capisce il rapporto sincero e meno formale con i fratelli Carlo e Paolina, mentre quello con il padre Monaldo risulta meno autentico. Il carteggio è stato fondamentale per ricostruire le teorie delle illusioni, il concetto di natura, del nulla, del dolore, l’ironia, ma anche la straordinaria capacità di costruire e mantenere rapporti sociali, politici e intellettuali dalla periferica Recanati.


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Il Leopardi viene considerato un filosofo, un poeta moderno, un conoscitore delle scienze astronomiche, ma anche un autore attuale, dato che in lui convogliano molte delle numerose paure, irrequietezze e tutti quei dubbi che fanno parte dell’universo umano di tutte le epoche, compresa la nostra. Le Operette morali, secondo la critica, facilitano l’interpretazione filosofica che unisce anche i temi presenti nei Canti e nello Zibaldone. In queste opere il poeta insorge contro la natura in nome dell’immaginazione, dell’intuizione poetica, della magnanimità, della pietà e della misericordia e della sua partecipazione alle pene umane. “Uno degli aspetti più interessanti, espressi di recente sul dibattito critico, è la prospettiva antropologica, cui il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ha dedicato il convegno del 2008. In esso si segnalano numerosi spunti e rilievi, che concordano nell’individuare nel Recanatese un ruolo centrale per la storia del pensiero umano”. Viene messo in rilievo un ulteriore aspetto nuovo, ossia una sorta di antropologia originaria, anche se ancora non vi era una vera e propria differenziazione tra geografia, filosofia, cultura e corpo. Giuseppe Manitta chiude l’esaustivo studio affermando: “Dopo aver delineato una breve rassegna di studi sul leopardismo, un dato emerge in modo preponderante. A parte pochi validi interventi, si nota una ricerca forzata da parte di alcuni ‘studiosi’ nell’individuazione di connessioni tematiche con il Recanatese, fornendo alle volte semplicemente consonanze tematiche (che potrebbero confluire anche in raffronti con altri autori) piuttosto che prove filologiche e testuali”. Un’analisi interessante, che dà spunti ulteriori di lettura, a chi fosse interessato, grazie alla notevole bibliografia posta nella seconda parte del volume.

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Giuseppe Manitta, partendo da interessi leopardiani, ha esteso le sue ricerche da Boccaccio al Novecento. Si è occupato del petrarchismo cinquecentesco di Antonio Filoteo Omodei, del quale ha individuato il corpus autografo delle «Rime» in un codice vaticano. Ha pubblicato: “A partire da Boccaccio” (Mursia, gruppo Mondadori, nona edizione nel 2020); “Noi e il mondo. La novella italiana da Pirandello a Calvino” (Mursia, gruppo Mondadori, terza edizione nel 2011); “Carducci contemporaneo” (2013); “Boccaccio e la Sicilia” (2015); “Mihai Eminescu e la «letteratura italiana»” (Il Convivio, 2017). Per gli studi inseriti in quest’ultimo volume il Presidente della Repubblica Moldova, gli ha assegnato il Premio Eminescu per meriti culturali nel dialogo intereuropeo. È il direttore della rivista accademica “Letteratura e Pensiero”, è caporedattore della rivista “Il Convivio” (Classe A dell’Anvur); cura, inoltre, la bibliografia leopardiana del “Laboratorio Leopardi” dell’Università La Sapienza di Roma ed è critico letterario del settimanale “Via Po Cultura” del quotidiano “Conquiste del lavoro”. Manuela Mazzola TITO CAUCHI CARMELO ROSARIO VIOLA Vita, Politica, Sociologia Editrice Totem 2021, Pagg. 232, € 15,00 Il saggio, Carmelo Rosario Viola, è diviso in quattro parti: Opere Autobiografiche, Sociologiche, Politiche, In memoria di Carmelo Rosario Viola. Il prof. Tito Cauchi, con la sua nota professionalità e sensibilità d’animo, ha redatto il saggio con lo scopo di far conoscere meglio un altro talento italiano, nato a Milazzo in provincia di Messina, nella nostra Sicilia, fucina di talenti e poi trasferitosi a Tripoli in Libia. Cauchi conosce per caso lo scrittore attraverso gli articoli che pubblica su Pomezia-Notizie e grazie alla frequentazione dello studioso sardo Salvatore Porcu. Dunque, inizia a recensire le sue opere e solo dopo, instaura con il Viola una corrispondenza epistolare che si trova nell’appendice. Carmelo Rosario è stato il fondatore della Biologia Sociale, si è ispirato allo Stato Etico, dichiarandosi anarchico solitario ed è noto nel mondo letterario come un uomo di indubbia onestà intellettuale. Infatti, su Pomezia-Notizie del febbraio 2012, il direttore Domenico Defelice scrive dopo la sua dipartita: “Ora il grande mistero per lui s’è squarciato e siamo certi ch’è stato accolto nella Casa del Padre,


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perché è fede profondissima quella di chi ama la giustizia, la pace, la fratellanza nei popoli e lotta tutta una vita per la rinascita e la sana crescita dell’Umanità. Proprio quello che lui ha sempre fatto”. Quella di Viola è stata una vita particolare, non ha mai manifestato sentimenti contro qualcuno né a favore della guerra; è rimasto per alcuni anni solo con i nonni, poi ha raggiunto i genitori a Tripoli, dove ha concluso il suo percorso scolastico. “Carmelo Rosario Viola – scrive il professore – ribadisce che la Biologia Sociale intende essere interdisciplinare, puntando ad essere realistica, come “arte-scienza della vita”, e a non misurare il progresso con il numero di telefonini, computer, vetture e altri strumenti vari del consumismo”. “L’autoidentificanza (la quarta dimensione bio-sociale) è il momento finale di ogni rapporto (di affetto e di memoria) che consente al soggetto di ‘sentirsi io’. Io mi sento me stesso”, così affermava il Viola. Trovo che il lavoro intellettuale che sta facendo il Cauchi sia lodevole e importantissimo per la cultura dell’Italia. Il nostro paese è pieno di talenti che troppo spesso, per un motivo o per l’altro, non vengono messi nella giusta luce. L’opera del professore è meritevole poiché i testi scritti vanno a comporre quella memoria necessaria per una nazione che si definisce democratica e civile. Manuela Mazzola

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abbiamo raccolto le more del gelso abbiamo sognato lo stesso sogno ti ho accarezzato il viso tu mi hai stretta tra le tue braccia. Sapevamo che il cammino era irto e lungo a volte tu mi precedevi perché io poi potessi seguirti dove tu mi aspettavi: Tu eri il mio traguardo. Ma ora hai preceduto tutto tu sei oltre il traguardo e i miei piedi sono pietre che bloccano. Sento la tua voce che mi chiama al tuo richiamo faccio qualche passo. Chiamami sempre! Il Traguardo saranno le tue braccia dove il mio cammino avrà fine ma prima guarderò quanta strada si è fatta difficile ed agevole a volte, lascio questo bagaglio con ricordi che mi trattengono

IL TRAGUARDO Il traguardo è lì manca poco alla cima cammino con piedi di pietra ogni passo un infinito tempo come ci fosse una ribellione al mio comando mentale. Mi fermo guardo indietro ho attraversato deserti ho riempito un vuoto di speranze ho proiettato un traguardo di amore mi hanno colpita più volte al cuore ho rimarginato le ferite ho mandato un sorriso a chi incontravo. Poi c’eri tu a prendermi per mano per camminare insieme meno difficile superare le difficoltà abbiamo fatto tanta strada

E finalmente corro… corro …. Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB

IL MIO QUARTIERE Il mio quartiere era un tranquillo quartiere di periferia. Nelle sue lunghe, larghe strade giuocavano i bambini a nascondino o al pallone ed i più grandi alla lippa, nel mezzo della via. Le bambine saltavano alla corda o nei riquadri del giuoco del mondo, tracciati con un sasso nella sabbia del marciapiede o, più tardi, col gesso sull’asfalto.


POMEZIA-NOTIZIE Non passavano automobili. Soltanto, lenti passavano i carri che trainati da cavalli portavano il grano al mulino e ritornavano con sacchi di farina o di riso ripulito dalle macine. D’inverno, a volte sul ghiaccio un cavallo scivolava e cadeva, e allora era un affollarsi di persone per strada e alle finestre (rumori e grida arrivavano chiari nelle case, nel silenzio di allora) per osservare i carradori che, aiutati da sacchi vuoti stesi sul ghiaccio, dopo lunga fatica sollevavano da terra il cavallo. D’autunno, arrivavano le greggi coi pastori, ed era tutto un belare di quel mare di bianca lana ondeggiante. La gente accorreva coi recipienti per comprare il caldo latte appena munto. In primavera passavano, tornando dalle manovre, i soldati, a volte bersaglieri. Al fondo della strada si schieravano ai comandi del sergente ed arrivavano marciando in bell’ordine, o di corsa al suono della fanfara, fra la gioia dei bambini e l’orgoglio dei grandi. Passavano l’arrotino, il venditore di rane chiuse in sacchetti neri ove danzavano ancora vive (“Rane, le belle rane! “) e l’acciugaio dai calzoni di velluto col barile di acciughe sul carrettino …

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Poi d’estate passava anche il carro del ghiaccio. Arrivava coi lunghi parallelepipedi gelati e il carradore trasportandoli a spalle su di un sacco li portava ai negozi suoi clienti abituali, o rompendoli a pezzi con un ferro uncinato li consegnava agli abitanti della strada che li compravano per la casalinga ghiacciaia. Venivano all’inizio dell’estate nelle belle serate i grandi carri esposizione degli ambulanti e alla luce di mille lampadine appese ai bordi e accese con una centralina mobile splendevano le sete ed i damaschi dei tappeti esposti per la vendita in uno sfarfallio di falene danzanti tutto intorno. Nel tepore serale profumavano le robinie e il sambuco delle vicine siepi e passeggiavano gli abitanti del quartiere salutandosi e chiacchierando in serena amicizia, perché allora era la strada un piccolo paese dove tutti si conoscevano, dove uscendo di casa si lasciava sotto lo zerbino la chiave dell’uscio, e il garzone del fornaio fischiettava passando in bicicletta. Come era bello il mio quartiere e come bella era la mia via! La mia via Villoresi inizia incrociando la Ripa Ticinese del Naviglio Grande, sulle cui acque silenziosi di giorno scivolavano le file dei barconi, chiatte che dai monti trasportavano sabbia, ghiaia e pietre (un tempo i marmi del Duomo) fino ai depositi della Darsena. Da qui a notte fonda vuoti ripartivano controcorrente, guidati lungo l’Alzaia da coppie di cavalli aggiogati al primo barcone della fila.


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E poi infine al posto dei cavalli giunse un trattore a scoppio, a turbare nel cuore della notte i nostri sonni… Era iniziata l’era dell’automobile. Eppure con tutto ciò era ancora bello il mio quartiere, ed era bella la mia strada, ed era bello e confortante il viverci. Si trasforma rapidamente adesso. Nuovi palazzi al posto delle siepi e un nuovo parco ove sorgevano gli orti. Più i bimbi non giuocano per le strade e più nessuno le percorre cantando. Ma sempre il Naviglio Grande scorre, incrociando la mia via, fino alla Darsena, a ricordo della vecchia Milano coi canali come Venezia, e della sua storia. Mariagina Bonciani Milano

FRAZIONE DI ZERO Ho visto tutto: niente esiste per me se non in me. Ho visto tutto ed il tutto era in me: in me, frazione unitaria di zero. Corrado Calabrò Da La scala di Jacob, Primo Premio Città di Pomezia 2017, Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie.

LA PECCHIA Una pecchia, avida, si intrufola tra i gelsomini gialli della balaustra. E io, avido di sole e di dolcezza, la seguo. Luigi De Rosa Da Viaggio esistenziale, Gammarò Edizioni, 2019.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE UN PARCO INTITOLATO A DON ANGELO ZANARDO – Martedì 22 giugno 2021, alle ore diciassette, il Comune di Aprilia (LT), finalmente, ha intitolato un pezzo di verde a don Angelo Zanardo. Diciamo finalmente, perché l’assegnazione avrebbe dovuto tenersi già il 29 ottobre 2020, poi, però, rimandata a causa delle restrizioni pandemiche (ne avevamo ampiamente trattato alle pagine 49 e 50 del numero di novembre dello stesso anno). Il Parco è l’area verde che si trova nel


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quartiere Toscanini, tra via Brindisi, via Bucarest e via Bulgaria. Don Angelo Zanardo era nato a Soffratta di

Moreno di Piave il 2 1 marzo 1922 ed è morto a Vittorio Veneto il 14 maggio 2011. Ad Aprilia (Latina), don Angelo è vissuto a lungo, prodigandosi sempre per la crescita sociale e spirituale, ben voluto e rispettato da tutti. Parroco nella Chiesa Dei Santi Pietro e

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Paolo, ha diretto per più di trenta anni il Centro di Forma zione Professionale - prima al Centro della città e, poi, in via dell’Industria – che ha preparato migliaia di giovani per le fabbriche del luogo e non solo, nei rami della saldatura, della carpenteria, della chimica. Alla cerimonia dell’intitolazione erano presenti, tra gli altri: il Sindaco di Aprilia, dott. Antonio Terra; la Coordinatrice dell’evento, Eva Torselli; varie autorità locali in rappresentanza di GdF, CC, Polizia Municipale; ha benedetto la targa e i presenti, Don Alessandro Saputo, Vicario per la Città di Aprilia; sono intervenuti: il Sindaco, Eva Torselli, Ermanno Iencinella, Don Franco Marmando, Parroco di Aprilia e Vicario Generale della Diocesi di Albano; tra gli ex docenti e personale del Centro di Formazione Professionale: Ermanno Iencinella, Cinzia Cerulli, Cesare Buscaino, Luigi Spirito, Maria Raso, Angelo Lilli, Claudio Pigliucci, Quaresima Maria (moglie di quest’ultimo), Donato Holweger. *** 2a “Hortātĭo” (la 1a, su Pomezia-Notizie giugno 2021) ONORARE IL POETA DOMENICO CAPPELLI - L’avevano appena pensionato, quando la morte crudele lo ghermì. Domenico Cappelli amava Pomezia, la città di adozione che gli aveva dato lavoro e una famiglia che adorava; l’amava e godeva nel vedere che, finalmente, incominciasse a darsi “un vestito nuovo”, più bello e pulito, con meno smog e meno cemento. Fino allora, infatti, cemento e smog l’avevano frettolosamente gonfiata di brutti palazzi e capannoni; di troppi capannoni, i quali - lo si capiva - non avrebbero retto alla realtà dei fatti e, perciò, inevitabili le successive e repentine chiusure, frutto di una crescita sproporzionata e selvaggia. Cappelli godeva nel riscontrare che Pomezia iniziasse a darsi più razionalità e verde e davanti al parco, “tra le sughere e i meli,/lungo la pista delle biciclette”, nel tripudio della primavera, poteva finalmente gonfiare il petto ed esclamare "Pomezia mia!”. Oggi, quella pista ciclabile originale, la parte più


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bella e suggestiva, che gli apriva il cuore al canto, è quasi abbandonata, in parte franata; il ponticello in legno ha tavole sconnesse che scricchiolano quando vi transitano uomini e donne in corsa per tenersi in forma, mamme con carrozzine, bambini lieti, esuberanti. Prima di costruirne di nuove – oggi, avrebbe detto, con noi, il bravo poeta operaio -, non sarebbe stato saggio, logico e razionale assicurare e curare l’esistente? Domenico Cappelli frequentava spesso quella pista ciclabile e, specialmente, il tratto più in basso nell’autentica selva d’alberi; il rigagnolo tra le spine, le edere e gli altri rampicanti; lo zirlo dei merli; il canto dell’usi-

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Ecco, intanto, un sonetto dedicato a Torvaianica, nel quale il poeta non può fare a meno di accennare alla violenza e allo scempio che, negli anni passati, si sono arrecati al paesaggio, per fortuna sempre e comunque ancora bello, ancora “una visione”: “TORVAJANICA Giovane donna, che non ha pudori, alla solatia estate ti distendi, a tutti t’offri, nulla tu pretendi sian ricchi o poveri i tuoi amatori. Da gente bene, giunta d’ogni dove fosti violentata ancor fanciulla, t’han posseduta senza darti nulla, né un fiore, né un ricovero se piove. Spoglia t’han presa, straccia t’han lasciata ma godi dell’estiva confusione sapendo d’esser presto abbandonata. Eppur venendo a te, da Pappagone, la notte io ti vedo ingioiellata che più che vera sembri una visione.”

gnolo. Luogo veramente suggestivo per l’animo di un poeta, e, Cappelli, poeta lo era e veramente e, perciò, ora, dalla sua e nostra città va degnamente onorato. Invitiamo il nostro Sindaco a provvedere e preghiamo, che glielo ricordino, la Dottoressa Teresa Di Martino - che cura efficacemente il Servizio Stampa del Comune -, i consiglieri e gli assessori, i politici d’ogni colore; invitiamo il Quartiere, dove Cappelli abitava, a istituire un Comitato per la raccolta di firme da presentare all’Amministrazione comunale perché gli si innalzi un vero monumento.

Anche in questi versi è da leggere quel che Domenico Cappelli auspicava: che Torvaianica, cioè, non fosse più una “estiva confusione”, con l’autunno “presto abbandonata”; solo una quasi babele nella “solatia estate”, insomma, ma una località viva e fervorosa per tutto l’anno, sia per presenze turistiche che per risorse e attività economiche. Domenico Defelice *** QUARANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA TRAGICA MORTE DI ALFREDINO RAMPI – Il 10 giugno 1981, a Vermicino, vicino Roma, la tragica fine del piccolo Alfredino Rampi, che ha commosso il mondo. Incancellabili, in noi, quelle oltre quaranta ore di autentica agonia, durante le quali la voce della piccola vittima, ampliata da un microfono, ci ha dato ansia e l’illusione che potesse essere salvata; che un miracolo,


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e la tanta generosità della gente, potessero riportarla in superficie e fra noi, restituirla alla madre e alla famiglia. Ogni sforzo, invece, è stato inutile e tanti imbecilli – così come è sempre avvenuto, avviene e avverrà nelle tragedie – si sono comportati come ad una sagra; lo stesso Presidente della Repubblica, senza volerlo, con la sua presenza ha contribuito ad ampliare il palcoscenico della demenza. Ecco quanto allora scrivevamo, frutto del nostro - mai sopito - dolore e della nostra indignazione. Rigopiano, lo sfracellarsi della cabina vicino a Stresa… L’incuria, l’insensatezza, il profitto: la pazzia dei tanti e il dolore che in noi si ripete e che ci strazia. NENIA E BALLATA VELENOSA IN MORTE DI ALFREDINO RAMPI Un salto, come il tuo eroe di cartone, sulla terra smossa e fu subito notte. Alfredino, mille volte mio figlio. Quando s’intesero i tuoi lamenti, Nando improvvisò canzoni e fiabe per sottrarti alla morte. Alfredino, mille volte mio figlio, cuore prosciugato dal pianto e dall’implorazione. Salvarti vollero con mezzi di fortuna, con eroi improvvisati e ti spinsero in fondo. Alfredino, mille volte mio figlio, cuore prosciugato dal pianto e dall’implorazione, fino a ieri sconosciuto figlio, in me nato improvviso come fiore. Furono lunghi giorni di passione e spettacolo lungo come al tempo di Cristo.

Pag. 56 Alfredino, mille volte mio figlio, cuore prosciugato dal pianto e dall’implorazione, fino a ieri sconosciuto figlio, in me nato improvviso come

fiore, mille volte mio figlio, cuore del mio dolore. Fragile libellula, anima di paradiso, fosti solo la morte a contrastare sospeso sull’abisso. Alfredino, figlio mio crocifisso. Salvarti vollero con mezzi di fortuna, ma i tonfi della geosonda - ampliati tonfi - furono echi strazianti al cuore tuo impazzito. Alfredino, figlio mio crocifisso, figlio del mio vicino, figlio del mio nemico. Per l’etere, come bandiera, a lungo sventolò la tua camicia a strisce. Alfredino, figlio mio crocifisso, figlio del mio vicino, figlio del mio nemico, figlio del galeotto, figlio mio spezzato. La tua camicia, sola messaggera al mondo della tua preghiera di vita. Alfredino, figlio mio crocifisso, figlio del mio vicino, figlio del mio nemico, figlio del galeotto, figlio mio spezzato, scorticato, raggomitolato al centro della terra.


POMEZIA-NOTIZIE Sopra di te c’era anche il pianto, ma sovrastavano festa e indifferenza. Alfredino, figlio, figlio mio afflitto. Così l’ombra circondò il tuo cuore e sull’omero il capo reclinasti, smunte le labbra, vitreo. Alfredino, figlio, figlio mio afflitto, figlio del santo, figlio dell’affamato. Così chiudesti gli occhi in un freddo sudario d’azoto, domo non dal calvario agghiacciante, ma dal sospetto nell’uomo. Alfredino, figlio, figlio mio afflitto, figlio del santo, figlio dell’affamato, figlio del nuovo Creso, figlio dell’offeso. Sì, la nostra leggerezza t’uccise, la mia, e vivere più non posso la vita, ché, se al sorriso m’invita, tu dentro me sprofondi macigno. Alfredino, figlio, figlio mio afflitto, figlio del santo, figlio dell’affamato, figlio del nuovo Creso, figlio dell’offeso, figlio mio lacerato, assetato al centro della terra. Il buio è calato in me della tua tomba. Amare come si può dopo il tuo dramma, come si può odiare? Alfredino, figlio mio derelitto, figlio di Cristo, figlio di Budda e Brahma, figlio della Sacra Trimurti.

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Perdona se siamo venuti tutti al tuo altare non per salvarti, ma per immolarti candida ostia al centro della terra. *** Chi lo spinse nella buca? Chi ha voluto la sua morte? Chi giocò alla malasorte? Se ne intesero di cotte, se ne scrissero di crude, raccontando di madonne, ma di iene, anche, e di drudi. Sì, l’ho scritto proprio io, sì, l’hai detto proprio tu, sui giornali e alla TV. Quasi tutti i mass-media un elenco di perfidia. No. Io no, non sono stato. In poltrona rannicchiato, invocavo il Padreterno che allungasse la Sua mano per sottrarlo dall’inferno. Or t’assalgono i rimorsi? Su, che arrivano i soccorsi. Sta dicendo quel droghiere che ci sono già i pompieri. C’è un signore col badile; c’è, con tutto il suo apparato d’uno Stato d’eccezione, la Civile Protezione: corde di gomma e canapa silana, stringhe di seta, ombrelli, palloncini, tavolette, tubicini... Fate largo, vi prego - grida il capo con sussiego. Grosso premio a chi lo salva e la promessa d’impiego. Una folla, lesta lesta, è arrivata per la festa: venditori di noccioline,

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POMEZIA-NOTIZIE il Presidente Pertini, il Ministro dell’Interno e della Protezione Civile. C’ero io, c’eri tu, c’eran tutte le TV. Saltimbanchi ed imbianchini, tappezzieri ed indovini, carognacci e poliziotti, ragazzini un po’ invadenti, venditori di gelati... Voglio quello col pistacchio! No! Alla crema e alla vaniglia. Sì, limone e cioccolato. Pure mamma se lo piglia. Io mi compro un maritozzo. Soffrirà quel ragazzino conficcato dentro il pozzo? Tu? Un panino alla salsiccia. Dammi pure una bottiglia d’aranciata. A me una birra. Queste paste son poltiglia, oggi ognuno ne approfitta. Guarda un po’ quant’è commosso il vegliardo Presidente. Rosa, andiamo al “Girasole” se hai “Control” nella borsetta? Già, la madre si dispera. Poveraccia, che disgrazia! Fin da ieri ho prenotato in Sardegna, ho una villetta. Nooo, la Volvo non mi piace, son fedele alla Ferrari. Hanno detto adesso adesso che più giù è precipitato. Vuoi la pizza con i funghi? Sì, e un quartin di quel rosato. Poveretto, che calvario! Per lui, ormai, non c’è speranza. Ha ragione Forlinori, l’Adriatico è una fogna. Gina è amante del barbiere e lui crede ch’è una santa! Caleranno azoto liquido, sarà un fossile ghiacciato. Io, fra poco, andrò a dormire, questo dramma m’ha stressato e la gente è un po’ infantile.

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Dammi ancora un’altra birra. Forse non ci crederete, ma quel povero bambino dentro il pozzo aveva... sete! (Come dopo il varietà, sopra questi bei signori si son spenti i riflettori). Domenico Defelice *** Padre Maffeo Pretto: è morto il cantore della pietà popolare calabrese - Mercoledì 9 giugno 2021, nella casa dei Padri Scalabriniani ad Arco, in provincia di Trento, ha concluso la sua vita terrena padre Maffeo Pretto, era nato nel 1929 a Cologna Veneta (Verona). Dal 1979 è stato una presenza significativa a Briatico, centro del Tirreno vibonese, dove aveva costituito il Centro studi emigrazione dedicato a mons. Scalabrini. Autore di numerosi libri, tutti pubblicati dalla casa editrice Progetto 2000 di Cosenza, che tra l’altro ha in corso di stampa un suo nuovo saggio: La Calabria e la sua cultura popolare tradizionale. Padre Pretto, con la sua personalità e i suoi studi, lascia un’eredità davvero unica. I suoi amici stanno organizzando una serie di iniziative in agosto per ricordarlo e rilanciarne il suo messaggio. Il ricordo dell’editore Demetrio Guzzardi (Progetto 2000) Ho incontrato per la prima volta padre Maffeo Pretto a Briatico il 21 giugno 1986, poche ore prima che venisse celebrato il mio matrimonio. Rimasi colpito dalla quantità di libri presenti nella sua stanzetta che fungeva da ufficio parrocchiale ma anche sede del Centro studi sulle emigrazioni calabresi. Da quell’incontro è nato un rapporto intenso e fecondo, non solo i libri che la mia casa editrice ha edito, ma soprattutto per l’amore che il sacerdote scalabriniano mi ha fatto scoprire verso il mondo popolare. A lui ho voluto dedicare la mia mostra dei santini calabresi perché quella gente che lui amava è diventata anche per me, parte del mio vissuto. Tantissimi i viaggi in macchina per presentare i suoi studi e, in quelle occasioni, padre Maffeo mi


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parlava in anteprima delle sue scoperte sull’affascinante mondo della fede popolare. L’ultima volta che l’ho incontrato ad Arco gli ho chiesto qual era il ricordo più bello della Calabria, mi ha risposto: «Quando confessavo alcune vecchiette, ascoltando la fatica del loro vivere quotidiano, mi sarei voluto inginocchiare, baciando loro le mani e

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chiedendo per me una benedizione dalla loro vita santa, nel seguire gli insegnamenti del Vangelo». *** SARA E MICHELE SPOSI – Alle ore 13,00 del 10 luglio 2021, nella Basilica Minore dell’Addolorata di Castelpetroso, tra l’esultanza di parenti e amici, Matrimonio dei


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giovani Michele PEDICINO e Sara NERI. Hanno fatto da testimoni: Carlo Tabasso, Luigi Fratianni, Ambra Antonioni e Micaela Albanese; a celebrare sono stati Padre Mario (Antonio Di Nonno) e il Diacono Raffaele. Ai genitori della Sposa: Antonietta e Marcello Neri e dello Sposo: Maria Carmela e Nino Pedicino, nonché ai parenti tutti, gli Auguri più sinceri e affettuosi, di ogni Bene, Salute e Prosperità da parte della Direzione e della Redazione di Pomezia-Notizie. Dopo la cerimonia, gli Sposi sono stati a lungo festeggiati nella suggestiva e fascinosa cornice dell’Hotel Fonte dell’Astore, nei pressi della Basilica, tra il verde e il profumo del bosco e l’indimenticabile paesaggio molisano. *** RICORDO DI GERVASO - Sul Messaggero di domenica 20 giugno ’21 Ario Gervasutti ricorda Gervaso ad un anno dalla sua dipartita, con questo articolo: “Una nicchia ombrosa, con il lago di Garda alle spalle e D'Annunzio di fronte: qui, da ieri, non riposa Roberto Gervaso. Non riposa perché gli uomini come lui non smettono di regalare saggezza e cultura, ironia e umanità, anche se non sono più tra noi: continuerà a farlo con i suoi libri, i suoi articoli, le sue interviste, i suoi aforismi che nessuno potrà cancellare. E con il ricordo di chi lo ha ammirato e gli ha voluto bene. Ora l'urna con le ceneri dello scrittore scomparso poco più di un anno fa sono in un piccolo sacello nero, un cilindro posto su un basamento di marmo nel

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Mausoleo del Vittoriale, la casa-museo voluta da Gabriele D'Annunzio sulle sponde del lago, a Gardone Riviera. AMICI E PARENTI. Una cerimonia intima, privata, per spostarlo da Sacrofano, dove era stato sepolto un anno fa, a un luogo simbolico ed iconico, all'ombra del Vate. Meno di trenta amici e parenti, gli adorati nipoti («i miei teppisti», li chiamava) guidati dalla moglie Vittoria e dalla figlia Veronica. Fuori, i turisti sciolti dal sole; dentro, nella grande cripta circolare sopra la quale D'Annunzio fu sepolto insieme a dieci compagni dell'avventura di Fiume, quindici minuti di commozione, non di più. L'alzabandiera e l'inno di Mameli, le note del Silenzio squillate da una tromba, e tutto è finito. Giordano Bruno Guerri, che presiede la Fondazione del Vittoriale degli Italiani, è certo che a Gervaso sarebbe piaciuta così: «Una cosa semplice, come avrebbe voluto lui».” Questa è una bella notizia, che condivido in pieno in quanto Gervaso è stato un personaggio che non aveva peli sulla lingua, era sempre pronto a denunciare la corruzione in politica con la sua cronica inefficienza. Non scendeva a compromessi. E’ stato uno storico e scrittore infaticabile. Giuseppe Giorgioli Pomezia (Rm) ***

LIBRI RICEVUTI AA. VV. – L’attrazione dell’oltre nella poesia di Corrado Calabrò a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azaretto – In copertina, a colori, “Vibranti armonie”, acrilico di Enzo Tardia - Thule, Spiritualità & Letteratura, 2020, pagg. 404, s. i. p.. L’elenco dei critici antologizzati è stato da noi riportato alle pagine


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47/48 del numero scorso. Corrado CALABRÒ è nato a Reggio Calabria il 13 gennaio 1935. Laureato in Giurisprudenza, ha fatto parte della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato e fino al 2012 è stato Presidente dell’AGICOM, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Ha pubblicato monografie riguardanti il diritto del lavoro e il diritto amministrativo. Innumerevoli i Premi e i riconoscimenti. Proposto per il Premio Nobel. Per la sua opera letteraria l'Università Mechnikov di Odessa, nel 1997, e l'Università Vest Din di Timisoara, nel 2000, hanno conferito a Corrado Calabrò la laurea honoris causa; lo stesso hanno fatto altre università italiane e straniere. Ha pubblicato numerosi volumi di poesia e saggi, tra cui: Prima attesa (1960), Agavi in fiore (1976), Vuoto d’aria (1979, 1980, Premio Rhegium Julii), Presente anteriore (1981), Mittente sconosciuta (1984), Deriva (1989, 1990), Il sale nell’acqua (1991), Vento d’altura (1991), La memoria dell’acqua (1991), Rosso d’Alicudi (1992, Mondadori, tre edizioni, finalista Premio Viareggio), Lo stesso rischio (2003), Ricordati di dimenticarla (romanzo, 1999), Le ancore infeconde (2000), Una vita per il suo verso (2002), Poesie d'amore (2004), La stella promessa (2009), T'amo di due amori - raccolta tematica delle poesie d'amore con CD con poesie lette da Giancarlo Giannini (Vallardi, 2009), Dimmelo per sms (2011), Password (2011), Rispondimi per sms (2013), Mi manca il mare (2013), Stanotte metti gli occhiali di luna (2015), Mare di luna (2016), La scala di Jacob (Premio Città di Pomezia, 2017), Quinta dimensione. Poesie scelte 1958 – 2018 (2018), L’altro (2020). ** TITO CAUCHI – Piaf. Pagine Intime Ansia Femminile – Raccolta di recensioni, prefazione di Isabella Michela Affinito e introduzione dello stesso Cauchi – In copertina, immagine della cantante Edith Piaf. Editrice Totem, 2021, pagg. 250, € 25,00. Sono recensite: Antonina Ales Scurti, Silvana Andrenacci Maldini, Lucianna Argentino, Adriana Assini, Emilia Bisesti, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Anna Bruno, Pasqualina Cavacece

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Conte, Iole Chessa Olivares, Carmen Creaco, Lina D’Incecco, Arianna de Corti, Rosaria Di Donato, Elisabetta Di Iaconi, Filomena Iovinella, Maria Grazia Lenisa, Giovanna Li Volti Guzzardi, Maria Grazia Lo Cicero, Marisa Lodi, Brunella Mallia, Elena Mancusi Anziano, Pina Mandolfo, Maria Messina, Elena Milesi, Adriana Mondo, Ines Betta Montanelli, Adriana Nobile Civirani, Adriana Panza, Laura Pierdicchi, Rosamaria Puzzanghera, Fryda Rota, Lucia Sallustio, Anna Vincitorio, Rosangela Zoppi Tirrò. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016), “Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone” (2018), “Giovanna Maria Muzzu La violetta diventata colomba” (2018), “Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce” (2018), Graziano Giudetti, Il senso della poesia (2019), Profili Critici 2012. Premio Nazionale Poesia Edita Leandro Polverini, Anzio. 163 Recensioni (2020), Pasquale Montalto. Sogni e ideali di vita nella sua poesia (2020), Angelo Manitta e Il Convivio (2020), Lucia Tumino una vita riscattata (2020), Silvano Demarchi Fine letterato e poeta (2020), Carmelo Rosario Viola. Via, Politica, Sociologia (1928 – 2012) (2021). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a


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presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. È incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. È presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giunto alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO – Dalla Sicilia alla Francia nell’Ars poetica di Pietro Nigro – Prefazione di Giuseppe Manitta – Il Convivio Editore, 2021, pagg. 232, € 16,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e volumi di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa.

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Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005), Vittorio Martin: Storia di un pittore del nostro tempo (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII (2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016), Mi interrogarono le muse… (2018), “Luoghi Personali e Impersonali” (2018), “Autori contemporanei nella critica (Percorsi di critica moderna)” (2019), “Una raccolta di stili” (17° volume, 2019), “Una raccolta di stili (18° volume, 2020), “Lettera a…” (2020), Autori contemporanei nella critica di Isabella Michela Affinito (Percorsi di critica moderna, IV volume) 2020), Venezia è un vestito di sale (2020). ** PIETRO NIGRO – Collezione personale Monete imperiali e imperiali di Roma da Giulio Cesare (100 a. C. – 44 a. C.) a Zenone (476 – 491 d. C.). Parte II Da Caracalla (198 – 217 d. C.) a Licinio II (317 – 324 d. C.) con note biografiche redatte da Pietro Nigro – Prefazione di Isabella Michela Affinito; in copertina, riproduzione in bianco e nero delle due facce del denaro di Caracalla (118 – 217 d. C.); all’interno, riproduzione in bianco e nero del fronte/retro di altre 79 monete – Edizioni Polistampa, 2020, pagg. 104, € 13,00. Pietro NIGRO è nato ad Avola (Siracusa) l’undici luglio 1939 e risiede a Noto (SR). Ha insegnato Inglese nei Licei. Presente in Dizionari di Autori Italiani, in Storie della Letteratura Italiana e in molte Antologie. Ha vinto Premi importanti e di lui si sono interessati qualificati critici, come Giorgio Bàrberi Squarotti, Leone Piccioni, Lucio Zinna eccetera.


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Tra le sue opere: Il deserto e il cactus (1982), Versi sparsi (1960 - 1987) (1988), Miraggi (1989), L’attimo e l’infinito (1995), Alfa e Omega (1999), Altri versi sparsi (2001), Riverberi e 9 Canti parigini (2003), Astronavi dell’anima (2003), I Preludi (vol. I, 2005), I preludi (dagli Scritti giovanili) Volume II (Pensieri – Racconti – Poesie) (2005). ** CARLO MOSCA – Nuvole – Prefazione di Sandro Gros-Pietro; all’interno, in bianco e nero, sei opere pittoriche dello stesso Mosca Genesi Editrice, 2020 – pagg. 116, € 15,00. Carlo MOSCA è nato a Terni nel 1933. Ha diretto gallerie d’arte e lavorato nel campo della grafica pubblicitaria e del design. Vive a Poreta di Spoleto. Di lui hanno scritto numerose e prestigiose firme e alcune sue poesie sono state inserite in antologie (come Poesia Umbra Contemporanea; Linea Umbra) e in riviste (Vernice). Tra le opere edite: L’attesa; Domani infinitamente; Bianco ribelle; Barabàttule; S’andira (2011); Frammenti (2013); Giallo cenere (2016); Fino all’ultima favilla (2019). ** FRANCA OLIVO FUSCO – Il saccheggio della commedia (citazione di versi danteschi dal sec. XIV al XXI) – Introduzione dell’Autrice; in copertina, a colori, Ritratto di Dante Alighieri, di Agnolo Bronzino – Genesi Editrice, 2021, pagg. 198, € 14,50. Franca OLIVO FUSCO vive a Trieste. Poetessa e saggista, dal 1995 si dedica allo studio e alla diffusione della poesia. Docente di “Poesia italiana e straniera dal 1800 a oggi” all’Università delle LiberEtà di Trieste; mensilmente tiene conferenze-recital sulla poesia. Presente nel “Dizionario biobibliografico dei poeti e dei narratori dal secondo Novecento ad oggi”. Ha pubblicato: Ascolto interiore (1998), Ho cucito parole (2001), Tre donne (2002), Cinema & Poesia (2004), Di tanto in tanto (2005), Va pensiero (2007), Nessun maggior dolore. Le fonti poetiche nei libretti d’opera (2008), Più fiele che miele (2009), Arie d’opere al cinema (2011), Arie d’opere al cinema 2 (2013), I tre nomi della vita (2014), Affinità poetiche (Questo verso l’ho già letto) (2016), Ketty Daneo.

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Poesie scelte 1950 – 1992 (2017), Beviamone un bicchiere. Il vino nei libretti d’opera (2019), Primo Levi (1919 – 1987) L’uomo, il poeta (2019).

TRA LE RIVISTE VERNICE – Rivista di formazione e cultura, diretta da Claudio Giacchino, Editore responsabile Genesi Editrice s.a.s. di Eleonora GrosPietro, via Nuoro 3 – 10137 Torino – e-mail: genesi@genesi.org – n° 59 al quale hanno collaborato: Rosario Aveni, Laura Berti, Corrado Calabrò, Walter Chiappelli, Bruno Civardi, Antonio D’Elia, Francesco D’Episcopo, Ada De Judicibus, Marco I. de Santis, Carlo Di Lieto, Angela Donna, Franco A. Fava, Sandro Gros-Pietro, Tommaso Kemeny, Barbara Lanati, Duccio Mugnai, Eros Pessina, Nicola Prebenna (sua, tra l’altro, la bella recensione a Le parole a comprendere, del nostro direttore Domenico Defelice), Mario Rondi, Roxi Scursatone, Aldo Sisto (al quale, tra l’altro è dedicata la copertina a colori e le pagine fino alla 51), Gabriele Torchio, Laura Traversi eccetera; citiamo, inoltre, Laura Pierdicchi, Anna Vincitorio, Isabella Michela Affinito, perché anche nostre collaboratrici. * LETTERATURA E PENSIERO – Trimestrale di Scienze Umane, diretta da Giuseppe Manitta – via Pietramarina-Verzella 66 – 95012 Castiglione di Sicilia (CT); e-mail: giuseppemanitta@ilconvivio.org – Riceviamo il n. 7, gennaio-marzo 2021, al quale hanno collaborato: Angelo Manitta, Giuseppe Rando, Angelo Fabrizi, Giorgio Moio, Otilia Doroteea Borcia, Maria Rosaria D’Uggento, Stefano Cazzato, Fabio Russo, Maria Gargotta, Alfio Grasso, Vittorio Capuzza, Vincenzo Guarracino, Carlo Di Lieto, Carmine Chiodo, Claudia Manuela Turco, Anna Geltrude Pessina, Nicola Prebenna. * L’ERACLIANO – organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili – fondata nel 1623


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-, direttore responsabile Marcello Falletti di Villafalletto – Casella Postale 39 – 50018 Scandicci (Firenze) – E-mail: accademia_de_nobili@libero.it – Riceviamo il n. 279/281, dell’aprile-giugno 2021, del quale segnaliamo il pezzo d’apertura: “Sono trascorsi dieci anni!” (sulla Beata Maria Domenica Brun Barbantini), di Marcello Falletti di Villafalletto; l’intervista a Irene Fargo, di Carlo Pellegrini; la rubrica “Apophoreta” di Marcello Falletti di Villafalletto, il quale, tra l’altro, recensisce “Non circola l’aria”, di Domenico Defelice, “Anima” di Francesco D’Episcopo, “Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima” di Domenico Defelice, “Frammenti di vita” della nostra collaboratrice Manuela Mazzola, la quale, a sua volta, recensisce tre volumi di Marcello Falletti di Villafalletto: “San Pancrazio in Val D’Ambra”, “Un uomo che seppe contare i propri giorni” e “Un salotto per gli amici”. ____________________________________ ____________________________________

DOMENICO DEFELICE: Grafiche (penna biro) → ↓ AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione o altro) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute); per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ Per eventuali versamenti, assolutamente volontari: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009


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