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Dentro la chiarezza della lingua, di Domenico Defelice, pag

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Ma Dier, pag

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DENTRO LA CHIAREZZA E OLTRE L’OSCURITÀ DELLA LINGUA

di Domenico Defelice

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GIUSTO un anno fa, nel numero di gennaio 2021 di Pomezia-Notizie, usciva il nostro articolo “Aiuto! Anneghiamo nel porridge!”, che ha scandalizzato qualche lettore. Noi siamo stati sempre per la difesa della lingua italiana e contro il suo imbarbarimento attraverso l’uso massiccio di espressioni e termini stranieri.

Ci capita di sfogliare, ora, un volumetto antologico, assai pretenzioso: perché in carta patinata (ottima per la resa delle immagini qui del tutto assenti -, meno per poesie e prose, anche perché riflette la luce e affatica parecchio la vista dei poveri vecchi) e perché, di poco più di un centinaio di pagine, gli antologizzati - tutti bravi - ne occupano, si e no, una cinquantina; le altre, perciò, son passerella per gli autori di una premessa (sobria e necessaria), una prefazione, una lunga introduzione e le note curative dovute allo stesso introduttore. Un’esagerazione. Veramente rara un’antologia in cui gli apparati esorbitano i materiali per accogliere i quali è stata organizzata.

Tutto perdonabile, comunque. Lo scandalo che ci riporta al citato nostro articolo è altro: è che, dopo aver letto attentamente, del dottissimo critico, prima la lunga introduzione e poi i cappelli alle opere antologizzate, ci siamo resi conto di averci capito ben poco, e non solo a causa della nostra abissale ignoranza.

Si sente che l’esposizione è sforzata, arzigogolata per menarla alle lunghe e nel tentativo di renderla la più dotta possibile, con l’uso di termini ricercati o stranieri; sembra che il coltissimo critico, stiracchiando le labbra sottili, voglia dirci: guardate quanto son bravo e preparato! Col risultato, però, di lasciarci solo un gran senso di vuoto.

Una caterva di citazioni e riporti. Troppi e sempre con l’intento di svelarci il suo smisurato sapere. Tra i tanti maestri che ci hanno insegnato la semplicità e la chiarezza ci sono Francesco Pedrina e Indro Montanelli; Pedrina amava i riporti, perché, diceva, se uno ha già scritto o detto bene quello che noi vogliamo esprimere, è giusto dargli la parola. Ma se i riporti son solo riempitivo e sfoggio, si finisce con l’esagerare e, come minimo, dare l’impressione che, in realtà, si abbia poco o niente da dire.

Una caterva di termini stranieri – in inglese, in particolare, e poi in greco, latino, tedesco e senza mai il riporto del relativo significato italiano. Non tutti i lettori conoscono diverse lingue; i più, il solo l’italiano; addirittura poi, ci son la pecora, la capra, l’asino - quali noi siamo! -, che non conoscono bene neppure la nostra lingua, ma che più degli altri han bisogno e diritto di acculturarsi e chi scrive, ed è bravo e colto, ha quasi l’obbligo di pensare anche a costoro, non tagliarli fuori, scoraggiarli, così come fa il nostro coltissimo critico. Egli potrebbe rispondere che non scrive per gli ignoranti, ma per coloro che sono in grado di comprenderlo. Va bene. Però, così, non divulga cultura e i poveracci come noi saranno sempre giustificati e destinati a miseramente affogare nel porridge del nostro ricordato articolo.

Ancora: una selva di termini italiani ricercatissimi, alcuni astrusi, desueti, da costringere il povero lettore come noi a stare sempre col vocabolario in mano, anzi, con l’enciclopedia, il vocabolario a volte non bastando, perché certe voci non sempre vengo riportate. E c’è da aggiungere, infine, che, così facendo, il dottissimo ed enciclopedico critico si trova a smentire se stesso, o almeno quel che egli riporta da un nostro bravo scrittore italiano, e che, cioè, non si debba mai abusare con gli aggettivi, gli avverbi, l’enfasi. La nostra è sempre una bellissima lingua. Usiamola, allora, nella sua semplicità e nella sua chiarezza; non intorbidiamola con espressioni e termini di altri idiomi (c’è sem-

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