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Intervista a Domenico Defelice, a cura di Isabella Michela Affinito, pag

Intervista al Direttore Saggista, Scrittore, Poeta, Critico d’arte e letterario, Giornalista

Domenico Defelice

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a cura di Isabella Michela Affinito

Domenico Defelice è nato il 3 ottobre 1936 (sotto il Segno della Bilancia) – il nome è lo stesso del fratellino che lo ha preceduto e morto dopo pochi giorni di vita, cosa avvenuta anche per i due artisti internazionali, Salvador Dalí e Vincent Van Gogh, d’assumere i nomi dei fratelli deceduti prima della loro venuta al mondo –ad Anoia, provincia di Reggio Calabria, da genitori contadini. S’è fatto largo nel mondo intellettuale con le sole sue forze, ‘combattendo’ ogni giorno da vero uomo del Sud, di quella “Aspra terra” che gli ha conferito sicuramente un’indole inflessibile e sopportatrice d’ogni genere d’intemperia esistenziale. Mentre svolgeva altri lavori perlopiù manuali (per mantenersi economicamente) partecipava ai Concorsi statali o comunque per trovare un lavoro stabile e al contempo scriveva poesie, recensioni letterarie, dipingeva, collaborava con redazioni di testate, per tre lustri è stato giornalista del quotidiano “Avvenire”. A Roma, sua città d’adozione, si è stabilito nel 1964, poi, definitivamente nel 1970 a Pomezia, e qualche anno dopo è nato il suo mensile letterario “Pomezia-Notizie”, «[…] “creatura di carta” (ne è fondatore e Direttore dal Luglio 1973) come egli stesso ama definirla, un’opera promozionale d’arte e cultura che non ha colore, né bandiera, né padroni, e che si dispiega unicamente nel coraggio dell’obiettività e nel rispetto della sacralità dell’informazione. (Dal libro-tesi di laurea di Claudia Trimarchi, “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, Il Convivio Editore di Catania, Anno 2016, pagg. 94-95). Ha pubblicato moltissimo tra sillogi di poesia, saggi monografici, in prosa, articoli vari, testi teatrali e innumerevoli critici si sono occupati della sua produzione letteraria per editare altrettanti saggi a lui dedicati, tra cui Orazio Tanelli, Sandro Allegrini, Leonardo Selvaggi, Tito Cauchi, Anna Aita, Aurora De

Luca, Claudia Trimarchi, Eva Barzaghi, Manuela Mazzola ed altri ancora. Nel 2006 la rivista IPTRC (The International Poetry Translation and Research Centre / The Journal of World Poets Quarterly - Multilingual – della Cina), ha avanzato la sua candidatura al Premio Nobel. Le sue opere letterarie sono state tradotte in inglese, francese, russo, spagnolo, portoghese, cinese e coreano.

1) Durante la Sua infanzia ad Anoia, in provincia di Reggio Calabria, c’è stato un avvenimento drammatico in particolare, che ha suscitato in Lei qualcosa che poi, successivamente, l’ha spinta ad intraprendere la strada del giornalista, anche se prima di diventare tale Lei ha svolto mille altri lavori? Le ho posto questa domanda perché a volte un fatto accaduto quando si è ancora ragazzini può fortemente influenzare il nostro avvenire. Ecco, ad esempio, è accaduto al medico di Napoli del Primo Novecento, divenuto anche santo, Giuseppe Moscati (1880-1927), che ha scelto la strada della medicina poiché aveva assistito alla morte di un fratello, lo aveva visto troppo soffrire.

Non so, forse la violenza e la miseria intorno a me, nella mia infanzia, la prima – non sempre, però – conseguenza della seconda. Mi sembrava assurdo, inaudito, che pure per ottenere un certificato anagrafico, abbisognasse rivolgersi al capobastone, al delinquente del paese. Mio padre, di ritorno da Roma, dove aveva vangato gratis, per amicizia, l’orto di un dottore che, quando io avevo appena quattro mesi, aveva operato mia madre, ha portato una vecchia radio, regalatagli, attraverso la quale, finalmente, potevo ascoltare, incantato, le notizie; narravano per lo più di violenza. Mi attraevano, in particolare, le inchieste giornalistiche, che permettevano di scoprire e punire delitti d’ogni genere e pensavo che solo scrivendo e denunciando si potesse porre almeno un freno – non già la fine – ai tanti soprusi, alle tante angherie. Sogno esaltante, ma sogno; non capivo ancora che il delinquente vero, intelligente, in giacca e cravatta - non la povera e ignorante pedina -, andava acquistando sempre più una faccia di gomma, contro la quale tutto rimbalza senza scalfirlo, specie quando si parla e si scrive in generale, con la nota, il saggio sociale, come spesso accade. Ho incominciato, allora, a scrivere “articoli”, inviandoli qua e là, ma le Testate non erano disposte ad accettare gli sfoghi di uno sconosciuto e men che mai se in essi c’erano nomi e cognomi, per paura di venire denunciate o di subire vere e proprie violenze. Impresso ho avuto sempre nella mente il fotogramma di un pomeriggio quando, con un gruppo di ragazzi, a largo San Giacomo del mio paese, stavo dando calci a un pallone di stracci. Sentimmo improvvisamente urli e pianti disperati di donna in una casa vicina e qualcuno gridare che il padre di uno dei ragazzi era stato trovato assassinato a lupara davanti al cancello del suo orto. Dopo anni, finalmente, collaborando a una Testata, da Roma, a me e ad altri tre giovani praticanti è stata affidata una inchiesta sulla violenza ed

io mi son limitato alla Calabria. Ho potuto contare, in un anno, più di ottocento morti ammazzati. Alla base del mio lavoro giornalistico ci sono stati sempre temi sociali. Hanno origine da quel lavoro d’inchiesta –elaborato, poi, in forma anonima dalla Testata - le liriche de La morte e il Sud (Defelice Editore, Roma, 1971), silloge che ha ottenuto un bel successo, una traduzione in spagnolo dal poeta Nicolás del Hierro (revisione della traduzione di Roberto Carmona) e per la quale si è scomodata persino La Fiera Letteraria (23 luglio 1972), allora la Testata più di prestigio: “Un titolo come La morte e il Sud – scrive Jolanda Insana – è facile che respinga per l’ancestrale carica aggrediente e perché suggerisce una frusta geografia di luoghi comuni. Ma se un tale libro si apre e si legge, non è escluso che si possano scoprire una forza autentica, un sapore fresco, l’antico ritmo cantante e accattivante da cantastorie. È, appunto, quello che ci è accaduto con una decina di poesie di Domenico Defelice (lui stesso editore), un giovane calabrese di Anoia che da anni vive a Roma, ma sempre più legato al fascino dei profumi, dei colori e delle stagioni della sua terra, con la quale il rapporto appare maggiormente potenziato dalla lontananza.//Il mondo di Defelice non è fatto di imprevisti; è un mondo violento e primitivo, dove la vendetta vuole altra vendetta e l’odio nutre odio con la stesa intensità dell’amore. I dati realistici e figurativi, per buona parte di repertorio, non certo di oggi, sono svolti sulla traccia delle cadenze dei canti popolari, con una felicità espressiva che saremmo tentati di ritradurre in dialetto”…

2) Lei al sopraggiungere di notizie scioccanti, dolorose, ha subito reagito con pubblicazioni al riguardo, così come fece la celebre giornalista fiorentina Oriana Fallaci – deceduta nel settembre 2006 –all’indomani della caduta delle Torri Gemelle con la sua opera La Rabbia e l’Orgoglio, a cui seguì La Forza della Ragione. Oppure, come fa il giornalista televisivo Bruno Vespa che la sera stessa di eventi altisonanti, come quella del voto politico nazionale, apre il sipario della sua oramai storicatrasmissione "Porta a porta “con la sigla musicale tratta dal film colossal “Via col vento “, su Rai 1 in prima o in seconda serata con il suo moderato talk-show. Nel 2009, un mese dopo la morte della sfortunata ragazza Eluana Englaro, che fino a quel momento era stata tenuta in vita artificialmente a seguito di un incidente sulla strada in cui entrò in coma, Lei ha scritto e poi divulgato il dramma in tre atti dal titolo “Silvina Olnaro“, pseudonimo potremmo dire del nome e cognome della ragazza realmente deceduta, perché subentrò la legge sul fine vita, ovvero cosa era lecito o non lecito fare con i pazienti in coma da anni. Lei con questa opera teatrale di genere drammatico ha riaperto, o meglio ravvivato il dibattito sulla vita umana fino a quando è possibile considerarla ancora degna di essere vissuta. La sua notevole formazione di 15 anni in un giornale cattolico quale ‘Avvenire’, Le ha dato di scrivere, da persona che difende la vita, su questo argomento così scottante. C’è qualcosa però che avrebbe voluto dire, aggiungere e non ha ancora detto su questo?

Certi avvenimenti e certe notizie sono state sempre per me scioccanti, come lo è stata la triste vicenda di Eluana. Comprendo benissimo i drammi del soggetto e dei parenti, in particolare dei genitori, ma non sono mai riuscito ad accettare che una madre o un padre possa decidere di staccare la spina alla quale è legata l’esistenza, su questa terra, anche se in forma quasi larvale, di una propria creatura. Io non condanno, né giudico, perché li comprendo, ripeto, e perché non è dato

all’uomo giudicare e condannare. Con la misura che misurerete - afferma Cristo nei Vangeli - sarete misurati. Per me è quasi un contro natura collaborare alla sparizione di qualcuno dalla faccia della terra, qualunque sia il suo stato vitale. Capisco, ma non condivido. Perché ricordo anche, Carissima, che più di una volta, dopo anni e anni, quando nessuno ormai avrebbe più sperato, si sono verificati autentici miracoli: il risveglio, cioè, di ammalati e incidentati che si ritenevano irreversibili. C’è di più; c’è che altri si erano offerti a prendersi cura dell’assistenza a Eluana, non ascoltati dal padre della povera ragazza, ormai intestardito a staccarle la spina. Ripeto ancora: comprendo, ma non condivido. Di situazioni Eluana ce ne sono milioni nel mondo; ne accenno due, anche se non uguali, similari: quelle dei campioni Mike Schumacher e Alex Zanardi; non mi sembra che i loro parenti abbiano mai deciso, o siano sul punto di decidere, lo stacco delle spine.

3) Se Lei non fosse nato nella regione Calabria, bensì nell’Italia industriale del Nord, Le sarebbe mancato qualcosa in senso caratteriale e che cosa? Il tenace temperamento, la volontà di chiarezza, la mentalità di superare gli ostacoli d’ogni tipo – basti leggere il Suo libro Diario di anni torbidi per sapere quanti mestieri, anche di fatica fisica, ha svolto prima di diventare ciò che è diventato – il senso alto della giustizia che ha dimostrato come scrittore, come direttore giornalista del mensile letterario “Pomezia-Notizia” dal 1973, come poeta, come saggista e quant’altro; ebbene, la dimensione del Sud, in Lei così radicata e discussa, venendo a mancare Lei sarebbe stato un altro Domenico Defelice più avvantaggiato che avrebbe magari voluto essere, oppure l’indole non cambia ovunque si nasca nel bene o nel male di un territorio?

In generale, sono anch’io del parere, così come tu dici, che “l’indole non cambia ovunque si nasca”. Comunque, è indiscutibile che chi nasce al Sud è svantaggiato rispetto a chi nasce al Nord. Lo svantaggio, paradossalmente, sta già nel termine: Sud, sottomesso. “…termine che significa sotto – scrivevo nel 1986 (L’orto del poeta, Edizioni Le Petit Moineau, Roma 1991) -, non solo geograficamente. Sud è arretratezza, miseria, sfruttamento, persecuzione, mistificazione, abbandono… Quando tizio decide di stabilirsi in un posto, farebbe meglio di dare prima uno sguardo alla carta geografica e allontanarsi, poi, il più possibile, dalle zone denominate sud – proseguivo sarcastico -. Di più. I genitori, prima di procreare, farebbero bene a seguire a puntino il suddetto consiglio. Una nascita a “Sud” per un bambino potrebbe essere già ipoteca d’infelicità e di miseria. Italia del sud, povera e infelice rispetto a quella del nord. Europa del sud, più problematica e misera di quella del nord. America settentrionale ricca e prosperosa rispetto a quella meridionale… In genere persino nelle città la parte del nord è più lussuosa, agiata e bella di quella denominata sud. Guardate Pomezia: a nord industrie, strade alberate, abitazioni discrete o di lusso, negozi ricchi, vetrine luminose; a sud campagne bruciate, case abusive e modeste, strade sconquassate, industrie assenti o insignificanti, ma, in compenso, due cimiteri, in uno dei quali – quello tedesco – dorme più gente di quella che racchiude l’intera città… Un destino cinico e misterioso pesa su tutto ciò che rientra nel termine Sud e anche il fisico umano sembra soggetto alla stessa legge: in alto, il cervello, il comando, l’intelligenza; in basso, a sud, mani per lavorare, piedi per camminare in questa

valle di lacrime e due buchi per scaricare rifiuti puzzolenti. Ma, mi direte, e il piacere? Il piacere è legato al cervello. “Sud”, parola maledetta, fonte d’infelicità”. Il fatto è, Carissima Isabella, che il Sud continua ad essere considerato, dal Nord, una sua colonia, da sfruttare e da invadere con i suoi prodotti e i suoi manufatti: un qualunque mercato, e tale deve rimanere, non luogo facente parte dello stesso corpo e degno di possedere gli stessi privilegi, di riscattarsi. L’annessione Sud da parte del Piemonte è stata sempre in questi disastrati e indegni termini, sebbene il Sud fosse, allora, ricco e prosperoso e pieno di grandi ingegni. Il declino del Sud ha inizio con l’annessione ed è andato sempre peggiorando, perché politica ed economia hanno sempre voluto e vogliono ancora così. Già, perché anche oggi le cose vanno e debbono continuare ad andare nel verso sbagliato. Al Sud, per esempio, non ci sono grandi case editrici, perché quelle del Nord non lo permettono; il Sud fa parte del loro mercato. Pensa, Isabella, alle antologie che da sempre si pubblicano: son quasi totale appannaggio di scrittori e poeti del Nord. Lo hanno sempre dimostrato scrittori e poeti come, per esempio, Francesco Fiumara, Fortunato Seminara. L’argomento, il tema, non è per niente vecchio e superato e basta prenderne una qualunque, tra quelle pubblicate a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso fino ai nostri giorni, per rendersi conto quanti poeti e narratori meridionali siano del tutto ignorati. La questione – quando ero giovane già ampiamente dibattuta su La Procellaria - c’era, c’è e resterà ancora a lungo e sarebbe semplicemente cieco e sordo colui che caparbiamente continuasse a ignorarla. Da tutto ciò, Carissima, è assodato che il nascere a Nord o a Sud ha un differente peso.

4) All’epoca, sono trascorsi diciotto anni, del crollo delle Torri Gemelle di New York, si accese una polemica a livello mondiale sull’evento che vide in prima linea la compianta straordinaria giornalista fiorentina Oriana Fallaci con l’uscita del suo libro-sfogo La Rabbia e l’Orgoglio. Accanto a Lei un altro giornalista corrispondente per trent’anni in Asia del settimanale tedesco Der Spiegel, Tiziano Terzani, morto nel 2004 nella sua Orsigna in Toscana, lanciò il suo grido di scrittore verace con il libro Lettere contro la guerra, un modo per farci capire che «Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco. (Dal libro Lettere contro la guerra di T. Terzani, Longanesi di Milano, Anno 2002, a pag. 23). Tra i due portenti italiani del giornalismo internazionale, Fallaci e Terzani, all’epoca dei fatti newyorchesi, chi avrebbe preferito per lo stile letterario con cui spiegarono gli scenari mondiali modificati dal drammatico episodio?

È sempre crudele e indelicato fare scelte, indicare preferenze; entrambi i giornalisti, poi, son veramente da ammirare per stile, impegno, capacità organizzative e chiarezza del racconto e della cronaca; sì, la linearità del discorso, la semplicità della narrazione senza retorica, senza enfasi e senza artifici. La spontaneità, l’attaccamento al “mestiere” per certi aspetti impareggiabile. Pure, il mio cuore è per la Fallaci (di Terzani, confesso, ho letto poco). La leggo ancora oggi con immenso trasporto (le ultime sue cose, da me riprese e lette e che tengo in evidenza sulla scaffalatura dietro la mia scrivania, sono Un uomo e Quel giorno sulla luna, entrambi edite dalla Rizzoli) e se non la colloco al pari del vero maestro per me: Indro Montanelli, è perché

il dettato dei due è assai diverso e per certi aspetti non accostabile. Anche di Montanelli ho letto parecchio e conservo, in particolare, la sua monumentale Storia d’Italia (più di cinquanta volumi editi dalla Fabbri). Sia alla Fallaci che a Montanelli, Pomezia-Notizie ha doverosamente dedicato copertine, a Lei, per esempio, quella del febbraio 2015 e quella dell’agosto 2009 a Lui. La Fallaci mi coinvolge in specie per il piglio, la passione, il coraggio, qualità che non sono mancate neppure a Montanelli, che ho conosciuto di persona a Roma a un convegno per il Quotidiano in Classe; ricordo che a Lui è piaciuto l’esile mio volumetto dei Dialoghi all’esca: “…ho sfogliato con curiosità ed interesse l’<opuscoletto> che – soprattutto per la forma – ho trovato originale. I dialoghi dei personaggi mettono in risalto una ricerca di linguaggio molto accurata, che esce particolarmente in “Calabria sotto processo”. Il tutto esalta storie che rispecchiano la società odierna; storie tristi e purtroppo ricorrentissime, come può verificare ogni giorno anche sulle pagine del nostro “Giornale”. La sua preziosa lettera in proposito, oggi dovrebbe trovarsi nella biblioteca di Anoia (RC), facente parte della donazione di libri e materiale documentario da me effettuata nel marzo del 2009 su richiesta di quella Amministrazione.

5) Come si è sentito quando su di Lei sono nate le tesi di laurea prima ad opera della dottoressa Eva Barzaghi, della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma e resa edita dall’Editrice Totem nel 2009 dal titolo Domenico Defelice: introspettivo coinvolgimento poetico-letterario dell’animo umano e, più tardi nel 2016, la pubblicazione dell’altra tesi di laurea, Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice dell’Edizioni Eva, a cura della dottoressa in Filologia Aurora De Luca?

Alle due tesi, da te ricordate, è da aggiungere quella, dello stesso anno della De Luca, di Claudia Trimarchi: La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, edita da Il Convivio Editore nel marzo del 2016. Come vuoi che mi sia sentito: contento, certo, ma dubitoso che io passa meritare tanti elogi, perché non mi sembra di aver fatto cose eccezionali se non quella di amare la cultura e sforzarmi di divulgarla, aiutando pure, attraverso le pagine di Pomezia-Notizie, molti a fare altrettanto e a non sentirsi scoraggiati, viste le difficoltà ad accedere alla collaborazione su molte testate che, spesso, chiedono anche forti somme di denaro. Pomezia-Notizie ha sempre lasciato che ci si abbonasse spontaneamente e spontaneamente la si aiutasse avendone possibilità e voglia. Maria Grazia Lenisa soleva dire che io ero uno scopritore di talenti, in quanto ho dato fiducia e possibilità di proseguire a tanti giovani. Le

tesi, dunque, mi hanno reso contento, ma non inorgoglito, dall’orgoglio essendomi tenuto sempre lontano (“Prima che mi aggredisca,/decapito l’orgoglio appena nato”, scrivo in Le parole a comprendere, Genesi Editrice, 2019). Contento e grato sia alle giovani e belle autrici e ai relatori, il Prof. Carmine Chiodo, il prof. Rino Caputo.

6) Lei in più di un’occasione è stato anche un attento e moderno drammaturgo, dove la trama delle varie rappresentazioni sceniche non è stata come nel teatro dell’Assurdo come lo intendeva il Premio Nobel Samuel Beckett (1906-1989), e cioè che non c’erano conclusioni e nemmeno un filo conduttore; bensì la Sua modernità sta nel fatto che le Sue storie ricalcano la nostra quotidiana società, certi accadimenti che hanno lasciato e lasciano il segno nelle nostre coscienze e infatti al termine dei testi, che vanno oltre la semplice rappresentazione teatrale, si rimane a riflettere non poco. Così è stato in Dialoghi all’esca del 1989 e soprattutto nel più recente dramma in tre atti Silvina Olnaro del 2009. Lei pensa che per fare giornalismo più ampio sia necessario anche essere un po’ registi di un determinato avvenimento eclatante, a tal punto da ‘ricostruirlo’ punto per punto per farlo scorrere non attraverso le righe di un giornale o di una rivista, ma sul palcoscenico di un teatro, vero o immaginario, dove i testi lasciano trasparire i pensieri e i commenti di chi ha ideato l’opera?

A uno come me, che si è sempre prodigato per la chiarezza del dettato e l’onestà della narrazione, non può piacere il teatro dell’Assurdo. Le trame dei miei lavori teatrali sono semplici e dirette, a volte anche ingenue, ma perché tendono ad essere comprese da tutti, tutti essendo protagonisti e responsabili di bene e di male, non soltanto gli intellettuali impegnati, i professionisti della informazione e della comunicazione, l’orto privilegiato, il recinto ristretto che si arroga ogni capacità di penetrare l’arcano e di dare la vera interpretazione del messaggio. Sono stato sempre del parere che, se vogliamo educare, il nostro dire non deve dare adito a equivoci, avere ombre, ma essere il più lapalissiano possibile; senza dimenticare, poi, che difficile non è esprimersi ingarbugliati e oscuri, ma chiari e semplici. Tutti i fatti di cronaca possono suggerire opere teatrali; l’autore, naturalmente, sceglie quelli che in quel momento lo colpiscono e che crede possano essere più vicini al sentire comune. Non occorre, però, portare tutto sul tavolaccio per essere efficaci, per fare, come tu dici, “giornalismo più ampio”. Ne sono dimostrazione tanti e tanti articoli, saggi e dossier che sul tavolaccio non ci sono mai finiti e che pure hanno segnato momenti di alto giornalismo italiano e mondiale. Il teatro, però, è sempre più diretto e coinvolgente, per il semplice motivo che chi vi assiste non può che immedesimarsi nel personaggio recitante, nella figura di carne e ossa come lui che recita sul palco; se la vicenda interessa, ognuno di noi si sente rappresentato, a volte ci si sente coinvolti quasi fossimo noi stessi a partecipare al dramma, alla farsa, alla commedia. Per tutto questo, il teatro è spesso più efficace del cinema, dove si fa più fatica a identificarsi con la realtà, a estraniarsi dalla finzione.

7) Lei nell’anno 2000 ha dedicato un corposo saggio, de La Procellaria Editrice, al compianto direttore Francesco Fiumara, anche lui d’origine calabrese. Nella vostra lunga, solida amicizia d’ambedue direttori di riviste letterarie, cosa vi accumunava e cosa vedevate, invece, in maniera differente?

Del caro Francesco Fiumara ho ricordi indelebili e un affetto quasi filiale. L’ho conosciuto da studente del “Piria” di Reggio Calabria, allorché ho avuto il coraggio di andare a trovarlo nella sua casa, allora, del Rione Schiavoni. Ricordo l’incontro memorabile nel saggio Eleuterio Gazzetti (Editrice Pomezia-Notizie, 1984): “Un pomeriggio del novembre del 1957 – abitavamo, allora, a Reggio Calabria – siamo andati a trovare Francesco Fiumara, il direttore de La Procellaria, una delle più belle riviste (…), di ispirazione socialista, ma imparziale nel tenere “accesa la fiaccola della ribellione contro la disparità, l’ingiustizia, l’asservimento (…) anche nel campo letterario e artistico”. Eravamo emozionati. Da poco avevamo ricevuto il numero dieci dell’antologia Nuove voci compilata a cura di Maria Busillo e stampata dalla suddetta rivista, nella quale era inserita la nostra prima raccolta di versi [Piange la luna] – appena dieci liriche! -, ricca solo d’ingenuità, come l’autore. Fiumara abitava nel Rione Schiavoni, sopra una collina degradante su piazza De Nava e il Museo della Magna Grecia, di fronte allo stretto di Messina, incendiato – a quell’ora – dal tramonto, simile a colata lavica di quell’Etna alto e canuto che sull’altra riva troneggiava come mitico dio. Fiumara era seduto dietro una piccola scrivania, in una stanza poco illuminata. Erano con lui Ernesto Puzzanghera, Gerolamo D’Addio e Franco Saccà. Quest’ultimo abitava pure in quel rione, a due passi dal Fiumara, in una casa “impossibile” – come l’ha definita Solange De Bressieux in una lettera rievocando un suo incontro col poeta reggino. Dopo le presentazioni, Fiumara e gli altri ripresero a parlare di poesia e di poeti. D’Addio fece il nome di Geppo Tedeschi – l’ultimo dei futuristi, amico intimo di Marinetti – e ricordò che era stato un critico straniero a definirlo l’usignolo dell’Aspromonte. Fu a questo punto che Fiumara, sempre pronto alla battuta, disse: - L’Italia è piena di usignoli! Di recente, per esempio, ho letto i versi dell’Usignolo della Val Padana – alludeva a don Eleuterio Gazzetti. – È un peccato – soggiunse – che ci sia inflazione di usignoli perché chi lo è veramente rischia di essere soffocato dal mucchio. Per evidenziare che Gazzetti fosse veramente poeta, girandosi di scatto, seduto com’era, prese, dalla pila di libri che quasi gli venne addosso, un volumetto dalla copertina rosa e lesse “E il sogno si avverò”. La lettura fece dirottare il discorso sull’emigrazione, sugli eterni mali del Sud, sulla questione meridionale”. Dopo questo primo e mitico incontro ce ne sono stati altri, a non finire; andavo a trovarlo più di una volta al mese; non solo, ma la domenica mattina egli soleva incontrarsi, come in un rito, sul marciapiede di corso Garibaldi sotto il teatro Cilea, con Saccà, Puzzanghera, Giuseppe Tympani (direttore di Italia Intellettuale) e tanti altri scrittori e poeti, a chiacchierare fino a mezzogiorno, quando il gruppo si scioglieva e ognuno andava a pranzare a casa propria. Mi intrufolavo sempre in mezzo a loro, spesso tra gli sfottò di qualcuno di loro, ma tutti a volermi sinceramente bene, a regalarmi i loro libri da leggere o recensire; in quegli anni, la mia collaborazione a La

Procellaria era quasi su ogni numero. Non tutto accomunava me e Fiumara, c’erano contrasti, non eravamo fotocopie; entrambi, però, avevamo il coraggio di esprimere liberamente e sinceramente il pensiero, di tenere fermo il principio finché l’altro non riusciva a convincere del contrario. Un esempio, il mio inserimento, in 12 mesi con la ragazza, del brano che attaccava Pasolini; Fiumara minacciava di non pubblicare la silloge se non lo toglievo e io a tener duro; la raccolta è poi uscita integralmente, con soddisfazione di entrambi. Egli era pure contrario che pubblicassi, quasi in contemporanea, Un paese e una ragazza, raccolta di poesie giovanili. Non lo devi fare, ti danneggia, sono versi assai inferiori rispetto a 12 mesi. Stavolta, a tener duro è stato lui e sono stato costretto a rivolgermi altrove, a pubblicare la silloge con le Edizioni L’Annunzio di Avellino. Essere diversi è sempre un arricchimento reciproco, se si stima e si vuol bene veramente, non porta divisioni e rende più salda l’amicizia.

8) Se non avesse fatto l’iter che il Fato gli ha concesso di fare, cosa avrebbe voluto fare in alternativa? C’è una professione, un ruolo sociale che avrebbe preferito di più svolgere magari nascendo di nuovo e perché?

La domanda mi lascia un po’ perplesso; del “se”, si dice, son piene le fosse; a contare è quel che si è e quel che si è fatto. Di certo è che mi sarei iscritto al Liceo classico di Reggio Calabria, ma tutti, parenti e amici a insistere che solo l’Istituto tecnico mi avrebbe dato un sicuro lavoro appena diplomato; la maggioranza, allora, la pensava così. Mi iscrissi controvoglia al “Piria” e quando mi son diplomato Ragioniere e Perito commerciale, i ragionieri erano una pletora e il lavoro mancava. Intanto, in quegli anni, mi sono accorto che all’anagrafe del mio paese e anche al “Piria” ove avevo frequentato, persino sul diploma, avevano commesso molti errori circa il mio cognome (De Felice, Defelice, De Felici, Defelici eccetera); così, mi son dovuto rivolgere al tribunale di Palmi il quale, dopo aver esaminato il guazzabuglio, ha stabilito che mi chiamassi Defelice, la forma che aveva subito meno errori. La mia aspirazione era insegnare e l’insegnante ho fatto a partire dal 4 ottobre 1966. Allora, per fortuna, si poteva insegnare anche con il diploma. Ero impiegato come ragioniere alla Olimpic Fuel Oil di Roma, in via delle Quattro Fontane, quando il Preside Becattini mi offrì delle ore d’insegnamento serali, di ragioneria e computisteria, nel suo Istituto La Nuova Italia, in viale delle Province. Accettai; poi, mi hanno offerto altre ore e per altre materie, come, per esempio, la Stenografia (sistema Cima), l’Italiano a un gruppo di laureati e diplomati per un concorso in un Ministero, fino al Diritto del lavoro e costituzionale, che poi ho insegnato per più di trent’anni anche nei Centri della Regione Lazio. Una mia dispensa di Diritto del lavoro e costituzionale, edita da Pomezia-Notizie, è stata adottata nei vari Centri fino a una sesta edizione e tradotta anche il Braille per l’Istituto Sant’Alessio di Roma, frequentato dai non vedenti.

9) Sulla copertina del Suo libro di poesie del 2010, edito dalla Genesi Editrice, dal titolo Alberi?, mi è sempre rimasto un dubbio su quell’enigmatico punto interrogativo proprio alla maniera dello stile Surrealista del pittore belga René Magritte, autore del quadro che fa da immagine di copertina dello stesso. Poteva andare bene anche soltanto la parola Alberi e, invece, è stato aggiunto il simbolo dell’interrogazione, dell’indefinibile, della realtà che può essere e non essere ciò che sembra, proprio in attinenza alle tematiche e ai simboli, dal duplice significato, della pittura di Magritte avvolta dal mistero, ambivalenze e senso arbitrario. Può spiegarci la scelta dell’aggiunta di quel punto interrogativo dopo Alberi?

Non c’è alcuna ambivalenza in quel punto interrogativo. Ho voluto solo sottolineare quel che da sempre ho pesato e penso: che gli alberi non sono cose statiche, inanimate, insensibili, costrette dalla Natura a rimanere attaccate alle radici sempre allo stesso posto. Gli alberi sono esseri vivi in tutto e per tutto, che gioiscono e soffrono come ciascuno di noi e un tale concetto è chiaramente espresso nel breve poemetto (364 versi se non erro) in apertura della raccolta: “L’orto-giardino”. Alberi? No, son carne ed ossa e cuore! Virtuosi più degli umani, mai un Caino avendo generato! Esultano alla carezza e alla nostra voce, abbandonati intristiscono; anche monchi ci danno fiori e frutti finché non strappiam loro le radici. Assorbono veleni, diffondono profumi. Al conforto delle loro ombre sosta l’uomo affaticato e stanco e nella gioia organizza festini. Sotto i palchi frondosi s’alza il canto di poeti onesti - sconosciuti a molti, a me carissimi , che un giorno scacceranno i sussiegosi, i superbi, gli enfatici, i chiari sol per stranezze e vuoto cosmico: la setta degli eretici, che violenta il Linguaggio, irride la Bellezza, la Lirica assassina.

10) E parliamo del Suo nuovissimo libro di poesie dal titolo Parole a comprendere, sempre della Genesi Editrice di Torino. Viene in mente per l’occasione il proverbio A buon intenditore poche parole, come per dire che per chi ha volontà di recepire non servono grandi discorsi e, nel Suo caso, Lei ha scelto le giuste Parole per una vera comunicativa, ben lontana dal caos dei linguaggi differenti sorti in seno alla mitica costruzione della Torre di Babele, struttura emblematica entrata nella Bibbia dal significato pretenzioso della sfida a raggiungere le altezze divine e che per questo non fu mai terminata, colpita dal castigo divino con la confusione dei linguaggi. In contrapposizione a questo simbolo babilonese, la cui immagine a colori tratta da una vetrata del Duomo di Milano fa da immagine di copertina della raccolta, Lei ha deciso di ‘farsi comprendere’ versificando persino sulla politica attuale, come le Sue liriche Dimissioni di Renzi, Elezioni americane, Che potenza, Berlusconi!, Neghittosa vita al castello (cioè, al Palazzo) ed altre. Lei che è giornalista, ha scritto un’infinità di saggi, articoli d’attualità, in versi in prosa, pensa che si è fatto ‘comprendere’ abbastanza da molti, oppure è rimasto qualcosa d’insepolto, di nascosto ancora in qualche cassetto che noi, suoi lettori estimatori, ancora non sappiamo?

No, non mi son “fatto ‘comprendere’ abbastanza”, non perché sia “rimasto qualcosa d’insepolto, di nascosto ancora in qualche [mio] cassetto”, ma perché, chi avrebbe dovuto ascoltarmi, non l’ha fatto, né intende farlo. Sono le facce di gomma, della politica e dell’economia, dove si annidano caimani voraci, delinquenti incalliti, assassini non diretti ma peggiori perché molti dei delitti son conseguenza del loro comportamento, e perché coloro che i delitti compiono direttamente spesso son da loro protetti, dalle leggi da loro ideate, da un mondo, una società violenta fatti a loro uso e consumo. In passato, costoro reagivano agli articoli, alle inchieste giornalistiche fino ad arrossire per lo scorno, arrivando anche al suicidio; oggi non è più cosi (in parte per fortuna, perché non son certo a favore del suicidio!); oggi, anzi, costoro provocano perché di loro si

scriva e si parli sempre, in bene e in male, è indifferente, purché sian sempre sulla punta della nostra penna. Perché la cosa peggiore, per loro, è che vengano ignorati. Dicono quel che diceva – dopo averlo preso da altri – il reuccio della canzone Claudio Villa: parlatene, parlatene, nel bene e nel male, ma parlatene. È scoraggiante. Costoro, i finanzieri e i politici, son riusciti a contorcere pure la parola, a snaturarla, a renderla strumento indispensabile ai loro loschi affari, al loro terribile agire.

Isabella Michela Affinito

HO DIMENTICATO...

a Domenico Defelice per il Suo suggestivo "Le parole a comprendere"

Ho dimenticato a casa nella splendente terra ciociara * dove brillano arance d’oro "Le parole a comprendere". Ed è come se avessi dimenticato l'esistenza o un pezzo dell'esistenza celeste, leggera e fresca come un'anguilla scivolata via o rinsaldato gli affetti a cui Domenico è abbarbicato come all'Albero dell'Anima (dei Lari). Anche l'acqua del mare si schermisce, è restia alla vita alla risacca della sua voce argentina ed è come se niente più si capisse della vita come un mattutino sbadiglio, richiamo al fervere vano dell'alba del sole che indora, vorrebbe indorare il cuore di quest'uomo che cammina con un sogno svanito al rumore del giorno con la Parola sulla bocca che avrebbe voluto urlare al mondo come un tuono d'Amore purtroppo inesploso su un foglio nascosto che grida "La Parola a comprendere" come il verde dell'esistenza, come la verde miccia della Vita.

*Fondi

Rocco Salerno

Roseto Capo Spulico, 16/7/2021

ORA FESTIVA

Così piccina mia figlia stenta un primitivo eloquio, meno recondito di tanti adulti.

Ubriaca di gioco e movenze dorme dentro nicchia, all’erta come canarino agli albori.

Di giorno si trascina mani e piedi e si rotola su scampoli lucenti, sue brade praterie.

A volte sta ritta e nano astronauta avanza, le braccia come ali.

Nella mia la sua mano è piuma che consola, strette di Giuda redime. È lei, mia figlia, l’ora festiva, sole che i giorni innamora.

Rocco Cambareri

Da: Frammenti di cristallo, Carello Editore, 1981

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