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“Volli e volli sempre” di Imperia Tognacci, di Gianni Antonio Palumbo, pag
by Domenico
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di Gianni Antonio Palumbo
Èuna monografia agile e pregevole quella che la scrittrice e saggista Imperia Tognacci ha dedicato a Vincenzo Rossi, scrittore nato a Cerro al Volturno, dapprima pastore e poi, dopo il conseguimento della laurea in Lettere, docente e dirigente scolastico, scomparso nel 2013.
Il volume Volli, e volli sempre… La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi è stato edito da Genesi dopo aver ottenuto la “Dignità di Stampa saggistica” nel corso dell’edizione del 2020 del prestigioso premio I Murazzi, indetto dall’Associazione culturale Elogio della Poesia. L’autrice, Imperia Tognacci, originaria di San Mauro Pascoli, poetessa e narratrice di lungo corso sulla cui opera numerosi critici hanno espresso il loro apprezzamento, non è nuova al genere saggistico. Ha infatti più volte rivolto la propria attenzione all’opera di Giovanni Pascoli, pubblicando, tra l’altro, nel 2002 una monografia con le Edizioni del Centro studi letterari “Eugenio Frate”. Il volume su Vincenzo Rossi è seguito da una lucida postfazione di Francesco D’Episcopo, che si apre con la constatazione, confermata dal bel libro della Tognacci, dell’efficacia della cosiddetta “critica degli scrittori”.
Lo scritto di Imperia Tognacci si segnala infatti per la finezza della lettura e per il pregio di uno stile elegante e limpido al contempo, che non perde mai di vista il fine della chiarezza comunicativa. L’opera è suddivisa in sette capitoli, consacrati ad aspetti differenti della riflessione esegetica. Il primo traccia un profilo di Vincenzo Rossi, mirato a cogliere l’essenza dell’uomo e del poeta, precisando l’intento di non procedere in ordine cronologico nella rassegna delle opere dell’autore, ma semmai di voler fornire una descrizione caratterizzante della sua produzione lirica.
Emerge subito il profondo senso della natura di Rossi (condiviso peraltro dalla stessa Tognacci poetessa; basti citare, in tal direzione, lo splendido Prigioniero di Ushuaia), alimentato da “gli eterei orizzonti delle diverse visuali del suo Citerone”, dai primi anni della sua esistenza trascorsi en plein air, dalla capacità innata di “far germinare nei suoi scritti le voci di tutte le creature che popolano il silenzio e la pace dei monti e delle valli della sua terra, il Molise”. Fondamentale appare per Rossi la dimensione della solitudo, quella medesima solitudine che per Petrarca era vivificante se animata dai libri e che, anche per Rossi, diventa – a contatto con la Natura – occasione di autoauscultazione per sondare le profondità dell’uomo interiore. Nel secondo capitolo, emerge l’attitudine all’impressionismo del Nostro, in uno stimolante confronto con le caratteristiche del fanciullino pascoliano. Il terzo focalizza il tema dell’antropomorfismo, evidente perfino nei
titoli delle principali raccolte; ne costituisce un esempio – su tutti – Respiro dell’Erba/Voce delle Rocce. In una ripresa della tensione al sublime inferiore, tutte le creature, vegetali e animali, per il poeta assurgono a dignità altissima; egli si china a cogliere il respiro sommesso riveniente da un filo d’erba, così come a cantare il toro nel momento in cui si sottrae al ruolo di vittima sacrificale nell’insano divertimento popolare della corrida.
Il quarto capitolo innesta lo scrittore nel quadro del pensiero esistenzialista, in virtù della fitta meditazione sul vivere dell’uomo, sul suo percorrere una terra a tratti non priva di eliotiana desolazione e sulle sue aperture alla dimensione metafisica, nel confronto con l’eterno mistero del morire e del destino ultimo di ciascuno. In tal direzione procede anche la riflessione del quinto capitolo, “Dalla visione cosmologica alla ricerca escatologica”, che cede poi il posto alla trattazione, nel sesto (“In Veneris umbra”), della tematica amorosa, la quale fornisce l’occasione a Tognacci per poter accennare alla rilevante attività di traduttore condotta con passione dal Rossi, seppure in seconda battuta rispetto alla scrittura poetica e saggistica. Anche qui emerge il legame di Rossi con la componente archetipica, per cui l’autrice non manca di evidenziare che talora il poeta rappresenta “La donna come terra fertile, piena di radici e di piante”.
Nel capitolo conclusivo, emerge con forza il profetismo di questo scrittore. Egli si adopera perché, a dispetto dell’apoteosi di un progresso brandito come vessillo dall’homo technologicus, l’umanità sappia resistere alla tentazione disumanizzante e cessi di ferire la terra. Peraltro, la Tognacci non aveva mancato di considerare, già nel corso della trattazione, la presenza, in Rossi, della frequente apertura a un panismo di segno ben differente da quello estetizzante e musicale di D’Annunzio. Un panismo cosmico, vertigine dell’infinito.
Insomma, ci troviamo di fronte a un lavoro che si segnala per i molteplici pregi. La monografia inserisce un significativo tassello ai fini della conoscenza di uno scrittore che merita maggiore attenzione da parte del panorama critico nazionale. La poesia di Rossi, infatti, ha il pregio di un nitore formale e di un’intensità espressiva che conferiscono grande vigore alla vibrazione di sdegno di una voce innamorata del creato e delle sue creature, al cospetto della hybris dell’Uomo autoelettosi a Dio. Una voce che si leva con energia in versi come “Nel respiro della notte / ho sentito il grido della terra / lanciarti contro i suoi sassi / l’inafferrabile potenza del suo fango” o ancora “O montagna dalle dita abbrunate / accogli nei tuoi orecchi di pietra / questo canto purificato dal tuo spirito / io raccolsi la tua voce che gridava”. Se il silenzio è dimensione necessaria perché s’innesti nel cuore l’ascolto delle voci cosmiche, Tognacci raccoglie il canto di Rossi e lo offre con cura al lettore, rivelandone le matrici interiori, le intertestualità, le occasioni di incontro con la Poesia. Tutto questo con la spiccata sensibilità che la comune dedizione all’Arte dischiude.
Gianni Antonio Palumbo
I FIORI DEGLI ULIVI
Non vedevo i fiori degli ulivi distanti, forse distratti, i miei occhi. Guardavo nodosità e grigiore di rami schivi: “Nel tormento dei tronchi piangono plebi contadine” e parlavo di arsure, di umiliati sudori. Si alzava la luce dei susini, sui mandorli posava la gloria. Io scoprivo metafore all’angoscia e non vedevo nel cuore degli ulivi mondi segreti di minuscoli fiori.