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ECONOMIA | Scenari
from retail&food 09 2022
by Edifis
LA SPIRALE NEGATIVA DI DENATALITÀ E BASSA OCCUPAZIONE FEMMINILE
di Alessandra Casarico, Daniela Del Boca e Federica Testi
tratto da lavoce.info
Bassa natalità e scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro caratterizzano da anni il nostro paese, mentre in altre nazioni europee a un’alta fecondità corrisponde un’alta occupazione delle donne. Per l’Italia il problema è anche culturale. L’Italia è un paese caratterizzato da bassa natalità e scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Mentre in altri paesi europei, come per esempio la vicina Francia, ad alta fecondità corrisponde alta occupazione per le donne, l’Italia rimane ancorata nell’equilibrio non virtuoso di bassa natalità e poche donne occupate. Il fenomeno della denatalità in Italia è tutt’altro che nuovo. Secondo i dati del XXI Rapporto annuale dell’Inps, il calo delle nascite registrato nel nostro paese dal 1964 a oggi somiglia molto, per intensità, a quello osservato nel periodo della prima e della seconda guerra mondiale, con una diminuzione del 64 per cento, da 1.035.207 nati nel 1964 a 399.431 nel 2021. Guardando ai dati Inps e Istat, l’unica fase di crescita si è registrata tra il 2000 e il 2008, quando le nascite sono aumentate del 13 per cento rispetto al periodo precedente. Dal 2008, però, il loro numero ha ripreso a calare costantemente. senti sul territorio italiano oltre 13 mila servizi per la prima infanzia, per un totale di oltre 361 mila posti disponibili. Di questi, il 50 per cento si trova in strutture pubbliche. Questi dati si traducono in una percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti sotto i 3 anni del 26,9 per cento, inferiore al target del 33 per cento stabilito dall’Unione europea. La percentuale media di copertura dei posti è in aumento rispetto all’anno precedente, ma va tenuto conto che sono diminuiti i bambini sotto i 3 anni a causa della denatalità. A livello territoriale, la distribuzione dei servizi è disomogenea e il divario Nord-Sud è molto ampio. Nelle regioni del Mezzogiorno anche il tasso di occupazione femminile è molto più basso: nel 2021 tra i 15 e i 64 anni era del 49,4 per cento a livello nazionale, oscillava tra il 55,1 del Centro e il 59,3 del Nord e calava al 33 per cento nelle regioni del Sud.
Difficoltà sul lavoro solo una delle motivazioni
La sempre maggiore incertezza delle nuove generazioni sul mercato del lavoro e la difficoltà di raggiungere buone retribuzioni se non in una fase più tardiva della vita lavorativa sono solo alcune delle ragioni alla base del fenomeno. Ci sono altri due elementi che è imprescindibile analizzare: l’offerta di servizi educativi per l’infanzia e l’utilizzo dei congedi. Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2019-2020 erano pre-
Un recente articolo dell’Economist evidenzia l’effetto dell’elevato costo dei servizi per la cura dell’infanzia sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro. In Italia questi costi rappresentano il 28 per cento del reddito netto di una famiglia con due percettori che complessivamente guadagnano un reddito pari a quello medio. La media nei paesi Ocse è il 16 per cento. Potenziare l’offerta di servizi per la cura dell’infanzia, in termini sia di diffusione che di costo, è condizione necessaria per avere più bambini e più lavoro femminile. L’altro elemento da considerare sono i congedi. Congedi parentali e congedi per il padre permettono una maggiore condivisione della cura dei figli, con effetti positivi sull’occupazione femminile. Il legislatore italiano ha introdotto dieci anni fa il congedo obbligatorio per il padre, inizialmente in via sperimentale per un solo giorno. Il congedo obbligatorio, aumentato a dieci giorni nel 2021 (dopo essere stato fissato a due nel 2017, quattro nel 2018, cinque nel 2019 e sette nel 2020) è affiancato da uno facoltativo, in base al quale il padre ha diritto a richiedere un congedo di massimo un giorno in sostituzione della madre.
Congedi, c’è la legge ma non decollano
Se guardiamo ai congedi di maternità e di paternità, l’analisi dei dati dell’Inps contenuti nel Rapporto 2022 restituisce un andamento negativo per i primi, proprio a causa della denatalità, e – al contrario – un andamento positivo per i congedi di paternità obbligatori. Nel 2019 i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno beneficiato del congedo di paternità obbligatorio erano 135.693. Nel 2020 il dato è rimasto più o meno costante (135.215), per poi aumentare, nel 2021, a 155.713. Nonostante ciò, occorre sottolineare come la richiesta resti molto bassa (poco più della metà dei beneficiari potenziali lo ha utilizzato), concentrata tra i lavoratori dipendenti di aziende di grandi dimensioni e al Nord. Inoltre, solo il 37 per cento dei genitori è a conoscenza dell’obbligatorietà del congedo di paternità, a riprova che su questo fronte è necessaria anche una maggiore informazione. Un esempio viene dalla riforma attuata in Spagna nel 2021, in base alla quale i congedi di paternità sono diventati equivalenti a quelli di maternità: donne e uomini hanno lo stesso permesso per la nascita di un bambino (16 settimane, pagate al 100 per cento), con effetti significativi sulla cura dei figli e la divisione dei carichi familiari. Per quanto riguarda i congedi parentali, fruibili da entrambi i genitori, tra i lavoratori dipendenti del settore privato il numero di quelli richiesti dagli uomini è aumentato durante la crisi pandemica, passando da 68.048 su 327.068 totali (20,8 per cento) nel 2019 a 97.949 su 439.506 totali (22,3 per cento) nel 2020, per poi tornare, nel 2021, al livello pre-pandemico (61.162 su 292.219, ossia il 20,9 per cento). Sebbene i dati siano da rapportare anche alla crisi Covid-19, sembra che qualcosa si stia muovendo, seppur molto lentamente. Ma è sufficiente? Nelle parole di Camille Landais al Festival Internazionale dell’Economia di Torino, servizi per l’infanzia e congedi parentali riducono marginalmente il costo che la maternità ha sul lavoro femminile. Ma non sfidano la norma radicata secondo cui il lavoro di cura spetta quasi esclusivamente alle mamme. Abbiamo bisogno di politiche che smontino questa norma. Il congedo di paternità –se di maggiore durata- è una carta da giocare. Se il Piano nazionale di ripresa e resilienza contiene proposte interessanti sull’ampliamento del numero dei nidi (almeno fino a coprire al 33 per cento dei bambini che ne avrebbero diritto), niente dice sui congedi di paternità, che avrebbero la potenzialità di favorire un cambiamento culturale.