Marcin “Yeti” Tomaszewski
TATO
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: Tato 2021 © Marcin “Yeti” Tomaszewski Helion SA, Gliwice https://bezdroza.pl 2021 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Fotografie: archivio Tomaszewski Disegni: Maja Tomaszewska Traduzione: Luca Calvi 1a edizione ottobre 2021 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55470 698
Marcin “Yeti” Tomaszewski
TATO Traduzione di Luca Calvi
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Prologo 7
LA CASA 11 Gennaio 2019. Un mese prima della spedizione in Nepal
12
LA SPEDIZIONE 19 26 febbraio 2019. Berlino-Tegel, Germania
19
23 novembre 2018. Mosca
21
27 febbraio 2019. Katmandu
23
28 febbraio 2019. Katmandu
27
1 marzo 2019. Katmandu – Ghunsa
30
2 marzo 2019. Ghunsa
33
3 marzo 2019. Ghunsa
35
4 marzo 2019. Primo giorno di carovana da Ghunsa a Gyabla
37
5 marzo 2019. Gyabla – Hellok
40
6 marzo 2019. Hellok – Tortong
43
7 marzo 2019. Tortong – Cheram, 3870m
47
8 marzo 2019. Cheram – Ramche, 4300m
49
9 marzo 2019. Ramche – Campo Base, 4700m
51
10 marzo 2019. Campo base, ricognizione + campo base temporaneo
53
11 marzo 2019. L’allestimento del campo base vero e proprio
54
12 marzo 2019. Primo giorno di scalata sull’avancorpo roccioso sotto l’Icefall 56
13 marzo 2019. Campo Base
58
14 marzo 2019. Campo base, rest day
61
15 marzo 2019. Campo Base – salita all’icefall con i russi e con Eliza, li aiutiamo nel trasporto
62
17 marzo 2019. Campo Base
65
18 marzo 2019. Campo Base
71
19 marzo 2019. Campo Base
76
20 marzo 2019. Campo Base
83
21 marzo 2019. Campo Base
86
22 marzo 2019. Campo Base
91
22 marzo 2019. Campo Base
23 marzo 2019. Campo Base – Katmandu
101
99
24 marzo 2019. Ospedale Norvic, Katmandu
103
25 marzo 2019. Ospedale Norvic, Katmandu
107
27 marzo 2019. Katmandu
109
2 aprile 2019. Katmandu
112
5 aprile 2019. Katmandu
113
DOPO LA MORTE 117 Epilogo 141 Ringraziamenti 143
Marcin Tomaszewski TATO 6
PROLOGO Quando sono in spedizione mi capita di sognare intensamente. Possono i sogni mostrare il futuro o contenere elementi di eventi che potrebbero avverarsi? Oppure sono un messaggio che a tutt’oggi nessuno è riuscito a decifrare? Sono ormai trent’anni che scalo le pareti più dure e più pericolose del mondo. Mi è capitato di farlo anche in solitaria e senza assicurarmi. Ho rischiato molto. Mi è capitato di cadere assieme ai seracchi, di volare in parete spaccandomi le ossa, ho evitato di rimanere sepolto sotto una valanga per puro miracolo. Ho giocato con la morte, ma sono sempre riuscito a sfuggirle. Pensavo che non mi potesse toccare, sentivo di essere indistruttibile. Ho giocato per anni a stare sul bordo del precipizio. Poi invece un bel giorno una folata di vento freddo mi fece finire dentro ad un crepaccio di un ghiacciaio patagonico. Incastrato all’interno di una spaccatura di ghiaccio che va restringendosi in una posizione grottesca per la prima volta mi sentii completamente impotente e terrorizzato. Col passare dei minuti fui avvolto da un freddo penetrante che iniziò ad impedirmi di usare correttamente prima le dita, quindi le mani e infine le braccia intere. Il calore corporeo lentamente mi faceva penetrare nelle pareti ghiacciate del crepaccio, facendomi scendere ancora più all’interno. Raggomitolato all’interno di quella coltre di ghiaccio mi sentivo come un bambino ribelle che non vuole andare a dormire. Ecco come si stava presentando la mia morte, un incontro con me stesso. Stavo spietatamente sprofondando nel buio. Poi arrivò il momento di ribellarsi, di opporsi a una fine così sciocca. In quel momento mi comparvero davanti agli occhi i miei figli, mia moglie e mia madre. Compresi che tutto ciò che avevo cercato sulle montagne fino ad allora aveva sempre meno senso rispetto alle cose della vita e ai valori per cui si lotta nell’intimità della casa, della famiglia. Sentii il rimpianto di non poter più tornare indietro nel tempo e fare più attenzione, legandomi con il mio compagno. Sopraggiunsero alla fine il torpore, la grande paura e la tristezza di un uomo intrappolato e indebolito. Non mi sentivo più indistruttibile. Mi sentivo impotente e spaventato. Le visioni di ciò che avrebbero provato i miei figli una volti venuti a sapere della mia scomparsa e di ciò che non avrebbero più potuto vivere con me mi facevano male fino al midollo. I miei pensieri volteggiavano come corvi neri Prologo 7
sul mondo che mi ero lasciato alle spalle. In quel momento non aprire un’altra via nuova, non andare ad esplorare altre montagne o non scrivere un altro libro non avevano alcun significato. Su quel ghiacciaio non si lega mai nessuno, ha un aspetto assolutamente innocuo. Tuttavia, con raffiche di vento che soffia ad una velocità di 150 km/h, diventa una trappola. Avevo commesso un errore, non mi ero legato e avevano vinto la fretta e l’atteggiamento superficiale per i quali stavo per pagare il più alto dei prezzi. Improvvisamente sentii una voce che arrivava da lontano. Tom, il mio compagno, che nel momento in cui ero finito a capofitto dentro al crepaccio si stava guardando intorno, era riuscito a trovarmi nel labirinto del ghiacciaio, mi era andata bene. Quell’evento mi aprì gli occhi. Mi era stata data una possibilità. Da quel momento la mia spedizione più grande, quella destinata a non avere mai fine, divenne il viaggio nel profondo di me stesso. Dovendo decidere tra famiglia e montagne, cerco di trovare l’aurea via di mezzo tra quei due mondi paralleli, senza i quali non sono in grado di esistere. Io sarò sempre un padre e le scalate sono un complemento del mio ego. È difficile comprendere la natura umana, ma vale la pena provare a capire sé stessi. Vi invito a venire in spedizione nel mio mondo. Magari non vi troverete d’accordo con le mie riflessioni. Del resto ognuno di noi indossa le sue scarpe e vive nella propria pelle. Credo tuttavia che ciò che troverete nelle pagine che seguono vi consentirà di guardare in profondità dentro di voi. Magari osservando la vita da una prospettiva differente potrete scoprire una parte di voi finora rimasta celata nel profondo. Abbiate pazienza, siate aperti fino all’ultima pagina. Chi sono io per davvero? Anni fa avrei detto di essere un alpinista. Adesso dico di essere un papà che va a scalare.
Yeti
Marcin Tomaszewski TATO 8
Prologo 9
Marcin Tomaszewski TATO 10
LA CASA “Papà… Papààà…”. Avvolto nella trapunta sento vicino all’orecchio un dolce sussurro. Sento il tepore del fiato di mio figlio. L’odore forte del suo alito al mattino non ha eguali, lo adoro. Adam si rotola sulla mia schiena, ci si butta sopra con le ginocchia, ci salta sopra vicino alla colonna vertebrale. Quello per lui è un gran divertimento e per me… Un sollievo dal dolore. “Qui?” – chiede a bassa voce. Sa che ultimamente soffro di mal di schiena. È un attento osservatore della vita, che assorbe con avidità. “Magnifico Adam. Proprio lì…” – rispondo anch’io a bassa voce nella speranza che non smetta. “Papààà” – sento una vocina rauca. “Vero che se andrai a scalare sulle montagne vere non cadrai? Vero?”. “Farò tantissima attenzione, figlio mio, e tornerò a casa” – gli dico, sentendomi salire un groppo in gola. Adam ha quattro anni e mezzo. Comincio adesso a capire cosa provano i miei cari quando parto per una spedizione. Prima mi interessava solo ciò che avevo davanti. Tendendo verso l’alto non guardavo dietro di me. Pensavo che quel tempo appartenesse solo a me. La prima volta in cui fuggii per andare in montagna avevo sedici anni. Fu come cadere in trance, passavo il tempo ad arrampicare in solitaria, spesso La casa 11
senza proteggermi. Ero alla ricerca di sfide, spingevo sempre più in là i miei limiti. Con carte deboli in mano mi giocavo l’anima con la morte. In quel gioco vale la pena bluffare? Di quel gioco non sappiamo mai come vada a finire e proprio questo è ciò che più mi attrae. Una decina di anni prima avevo sentito che stavo per cadere. Non da una parete di una qualche montagna, ma lungo un comunissimo sentiero della vita. La mia vita personale stava per cadere in basso per molti, molti metri. Così in effetti accadde. Il divorzio e con quello il senso di colpa e la tristezza che mi accompagnavano ogni giorno. Qualche tempo fa dunque mi sono reso conto di quanto significhino le decisioni che mi trovo di fronte. Dove sarei andato stavolta?
Gennaio 2019
UN MESE PRIMA DELLA SPEDIZIONE IN NEPAL
Il giorno della partenza si sta avvicinando con una rapidità vertiginosa, sento crescere la tensione. La quantità delle pratiche da sbrigare prima della partenza sta per travolgermi. Preparare l’azienda al periodo di inattività e altre questioni legate alla casa fanno sì che inizino a mancarmi il tempo da passare con la famiglia, la pazienza e il semplice godersi la vita, cioè le cose più importanti. So comunque che a breve riceverò in cambio di quelle fatiche un premio meraviglioso in forma di una spedizione. E i miei cari? Cosa riceveranno? Inizio a sentire il peso sempre maggiore dei pensieri. Ognuno di noi ha diritto al compimento dei sogni, a realizzarsi, anche in un ambito così pericoloso come l’alpinismo. Infatti, non fosse per quello… Non fosse per loro… Io non ci sarei! Bla, bla, bla. Silenzio, dico!!! A volte mi sembra di entrare all’interno di un vortice, alterno momenti in cui mi lamento ad altri in cui mi metto a sbraitare. È ora di fermarsi un attimo prima di ripartire per andare avanti. Dopo essermi risistemato. Ho la testa simile ad una stanza dei bambini, colorata, stupenda, però a volte impossibile da sopportare. Ogni tanto ha bisogno di una ripulita di fondo, altrimenti va a finire che rimarrò impantanato nel caos una volta per tutte. Nel corso della giornata, poi, mi leggo il messaggio mandatomi via Messenger da Maja, mia figlia. Ha sedici anni ed è già una signorina bella e in gamba. Alta, magra, evidentemente ha preso tutto il bello da sua madre, Agnieszka, la mia ex moglie. Maja per ora osserva la mia passione un po’ distaccata. Marcin Tomaszewski TATO 12
Ehi, papà, tra non molto parti, eh? Riusciamo a vederci prima della tua partenza? Bada a te stesso… Voglio dire, sono certa che baderai a te stesso. Torni sempre, quindi tornerai anche stavolta, hahaha. A parte questo, come state? È da tanto che non ci vediamo… Qui da me tutto bene, direi, anche a scuola va un po’ meglio di prima. Mi sono messa a dipingere di più. Ti ho fatto un ritratto, appena ci vediamo te lo do. Spero tanto che ti piaccia. Dobbiamo però incontrarci, perché tra non molto devi partire e poi non ci vedremo di sicuro per un bel po’ di tempo… Le scrivo qualche parola sulla spedizione, sui russi, compagni che non conosco, e sul fatto che ormai non sto più nella pelle per la nuova avventura. Non so come sarà, ma sottolineo quanto sentirò la sua mancanza. Ma certo che vi troverete. So che è facile a dirsi, ma prova a metterti nei loro panni. E se non funziona non forzarti. A volte capita. Segui la tua strada e fai semplicemente il tuo su quelle montagne. Cavoli, vi invidio questo vostro viaggio. Mia figlia. Così saggia e così sensibile! Ho sempre avuto l’impressione che i miei figli non seguissero la mia passione, non si interessassero di ciò che succede sulle montagne ma a quanto pare non è stato esattamente così. Non dicono nulla se non glielo chiediamo direttamente e anche se lo facciamo le loro risposte sono molto concise. Lasciano molte delle loro emozioni a sé stesse, nascoste, in attesa di altri eventi. È come una bomba a scoppio ritardato. Si arma lentamente nei loro cuori e un giorno potrebbe esplodere. È facilissimo ferire chi non urla, non grida e non reclama diritti, come i bambini. Sono io, il cosiddetto adulto, a dovermi occupare di loro. Riuscirò ad essere ancora un buon padre pur rimanendo fedele alle mie esigenze? Prima di ogni spedizione provo incertezza e paura. Quell’ansia rivela forse la mia debolezza? Prima di sentire la risposta a quella domanda… Sento un urlo dentro di me. Eddai, vecchio! Più forte di quell’ansia è però il desiderio di vivere qualcosa di insolito. Bisogna affrontarlo e invece di schivare il colpo, guardare dritto negli occhi i propri fantasmi. Non solo per evitare il loro attacco, che magari può essere inevitabile, ma proprio per vivere! Bisogna sforzarsi consapevolmente di vedere la vita da una prospettiva più ampia, in una qualità fino ad allora sconosciuta. La casa 13
Abitazioni nepalesi sulla strada per Gyabla.
Marcin Tomaszewski TATO VIII
In alto, lavorando sul libro a Hellok. Sotto, Dmitrij e Sergej durante una sosta per il caffè lungo il cammino verso Hellok.
IX
Nada è molto serio, vedo in lui il rispetto per quel luogo e per le divinità. Stiamo entrando nel loro territorio e siamo tenuti a mostrare rispetto verso le leggi del posto. Tocco la pietra, mi guardo intorno e provo a sentire ciò che sentono loro. All’interno del tempietto nascosto nella roccia noto due vene di quarzite chiara che sembrano serpenti intrecciati. Ascoltando le leggende locali tocco la pietra con la punta delle dita alla ricerca di appigli per l’arrampicata. Ad ognuno il suo santuario. Dopo altre due ore arriviamo a Cheram, dove si trovano alcune casupole che fungono da tappa per tutte le carovane che percorrono quella strada. Durante la cena incontriamo alcuni sherpa della casta Rei, quelli che portano i bagagli sul ghiacciaio del Khumbu sotto l’Everest. A causa della mancanza di portatori locali, in quel periodo dell’anno l’agenzia li ha fatti arrivare in quella parte del Nepal con degli autobus. Non sembrano forti, sono piccoli di statura e all’apparenza poco robusti. In realtà trasportano bagagli che pesano quasi cento chili. Usano una tecnica speciale: niente spallacci per le braccia, tutto il peso poggia sulla loro testa. Con la giusta tecnica, la fasciatura sulla fronte permette loro di gestire carichi enormi. Io comunque non ci proverei. Mi sembra che i loro corpi si siano adattati a questo lavoro fin da giovani. Nada si esprime nei loro confronti con grande rispetto, sottolineando in continuazione quanto siano forti. Detto da lui è un vero complimento. Guardo quei ragazzi che costantemente sorridono e controllano i loro smartphone e vedo la schiettezza e la modestia nei loro occhi. Oggi abbiamo attraversato un’altra zona climatica e di vegetazione. A questa altitudine possiamo già sentire il freddo, gli alberi alti stanno lentamente cedendo il passo ad arbusti nani e all’orizzonte fanno capolino le cime coperte di neve. Il tramonto illumina di arancione il massiccio di fronte a noi. Grazie, Montagna Sacra, ho capito cosa intendevi. Mi hai mostrato una bella strada, peccato non ci siano scorciatoie. Attendo con ansia il nostro incontro. Domani ripartiremo per venire verso di Te. Mi chiudo nel sacco a pelo e spero di sognarti, ma non come un incubo.
Marcin Tomaszewski TATO 48
8 marzo 2019
CHERAM – RAMCHE, 4300m
Subito dopo la partenza della carovana ho notato sulla gamba una zecca che, attaccatasi in profondità nella mia pelle, probabilmente era lì da molto. Verosimilmente mi si era attaccata durante il cammino di ieri. Era enorme e probabilmente si era già fatta una bella scorpacciata col mio sangue. Ho chiesto aiuto a Pasang per farmela togliere. Un movimento rapido col coltellino e in un attimo tutto era a posto, anche che mi rimasta la ferita. Dopo due ore di salita da Cheram siamo arrivati al confine delle nevi e ho avuto l’impressione di entrare in un altro mondo. Il sentiero verde e terroso ha lasciato spazio alla neve alta fino alle ginocchia, al vento e alla nebbia. La visibilità si è ridotta improvvisamente a poche decine di metri. Abbiamo indossato gli abiti caldi e le giacche antivento. Di tanto in tanto passiamo vicino a gruppi di portatori che con i loro scarponi sottili e lunghi fino alle caviglie affondano nella neve. Le loro impronte sono più profonde delle nostre a causa del peso dei bagagli che stanno portando e mi fanno tornare col pensiero a quando io stesso, scendendo dalle montagne, avevo settanta chili sulla schiena. Li sento tutti. Oggi è stata una giornata molto dura per i portatori e molti di loro non hanno fatto altro che scuotere la testa dicendo che proseguire era impossibile. Uno di loro che aveva iniziato a perdere sangue dal naso è stato licenziato e rispedito a casa. Da un lato mi dispiace ma dall’altro è anche vero che ognuno di loro potrebbe almeno procurarsi strumenti fondamentali come gli scarponi alti. Non tutti si devono mettere sulle spalle carichi così pesanti. Non tutti sono costretti a scalare le grandi montagne. Non tutti devono, nessuno è costretto a fare alcunché, ma tutti possono. Attendiamo a lungo che venga montata la tenda della mensa e l’arrivo dei bagagli indispensabili. Sono un po’ preoccupato perché la salita al campo base vero e proprio deve ancora iniziare, i nostri bagagli sono indietro di qualche giorno rispetto a noi e suppongo che dovremo aspettarli al campo base. Il ritardo della nostra spedizione si sta facendo sempre più evidente. Prima che si faccia buio parto assieme a Dmitrij e Sergej per andare a battere per i portatori la traccia che porta a Oktang, la grande radura dove si fermano i trekking e le spedizioni dirette al Kangchenjunga. Un’oretta per l’andata e altrettanto per il ritorno. Quando rientriamo le tende sono già state La spedizione 49
montate e ad aspettarci c’è una zuppa calda. Gli sherpa fanno un lavoro pesante e quando serve non si risparmiano, ma ho avuto modo di convincermi che non appena smettiamo di pungolarli e di essere esigenti i loro ritmi calano drasticamente. Fare allo stesso tempo la parte del poliziotto buono e quella del poliziotto cattivo è difficile e ci chiediamo come dividerci i ruoli. Alla fine la situazione si è risolta da sola e io ho iniziato a fare lo sbirro cattivo che fa la faccia cattiva lasciando invece alle ragazze la parte delle negoziatrici pacifiche.
Marcin Tomaszewski TATO 50
9 marzo 2019
RAMCHE – CAMPO BASE, 4700m
Al mattino io e i ragazzi partiamo per andare a trovare un punto adeguato sul quale poter montare il campo base. L’area dev’essere ragionevolmente in piano, riparata dal vento o dalla caduta di valanghe e di pietre. Il percorso che ci attende è lungo. Eliza e Keith sono partiti mezz’ora prima di noi per riprendere il nostro avvicinamento. Dmitrij impone un ritmo intenso e senza pause e incalza Sergej, che accetta in silenzio ogni sua idea. Sembra che Sergej abbia arrampicato anni addietro con il padre di Dmitrij. Quando c’è da partire sospira, si alza più tardi, ma va. Se c’è da portare carichi si mette lo zaino sulle spalle e parte. C’è però di che pensare che durante la scalata sia un primo violino, lo si vede dalle mani. Ha le dita lunghe, piene di cicatrici, articolazioni innaturalmente grandi, che raccontano di un duro lavoro a Mosca e di una grande esperienza di arrampicata su roccia. Non bisogna confonderla con le scalate su terreno innevato, nemmeno se su pareti grandi e difficili. Le mani delle persone che non fanno arrampicata sportiva su roccia hanno un aspetto assolutamente normale, come per Dmitrij, che di formazione è un matematico. Lavora per un’azienda moscovita come analista finanziario. Dopo un’ora e mezza arriviamo a Oktang, dove oltre alle montagne e al vento non c’è praticamente nulla. Gli sherpa hanno scelto quel posto come campo intermedio lungo la strada verso il Kangchenjunga. Da lì si sale direttamente sulla morena del ghiacciaio, dove trovare un posto per la tenda richiederebbe sforzi ben superiori. Nada e Pasang ci spiegano l’itinerario da seguire attraverso la morena, dopodiché scendiamo verso le gibbose elevazioni rocciose ai fianchi del ghiacciaio. In quel posto mi sento un po’ come sulla superficie della luna, siamo circondati da pietre e sabbia da ogni lato e solo di tanto in tanto emerge da sotto un po’ di ghiaccio bluastro. Guardo verso l’alto e osservo le vette coperte di neve che sembrano invitarci a salirle. Dopo quattro ore troviamo un buon posto per il campo e piantiamo la tenda. Abbiamo provviste e gas per soli due giorni, ma confidiamo nel fatto che in quel lasso di tempo ci avrebbe raggiunto anche il resto della carovana. Oggi non andiamo da nessuna parte: tè, pipì e sonno. Siamo a un’altitudine di quasi quattromilasettecento metri, il che mi provoca una serie di sogni stranissimi. Mi trovo a combattere contro draghi La spedizione 51
In alto, ci raggiungono gli altri portatori con il materiale. Sotto, Eliza e Dmitrij.
Marcin Tomaszewski TATO XXVI
In alto, prime tende al campo base. Attesa dei portatori. Sotto, la migliore cucina del mondo. Da sinistra Eliza, Dima, Marcin e Keith.
XXVII
2 aprile 2019
KATMANDU
I ragazzi sono riusciti a raggiungere il ghiacciaio, dove si sono incontrati con Eliza e con Zosia. Sono esausti. Vorrei essere con loro adesso. Tutto è finito bene, le ragazze hanno fatto un ottimo lavoro e se non fosse stato per il loro aiuto l’intera storia sarebbe potuta andare ben diversamente. Senza le loro indicazioni per la discesa forse non sarebbero riusciti ad arrivare al ghiacciaio, da dove poi ad aspettarli ci sarebbe stata ancora una lunga discesa fino a Ghunsa. Oggi possiamo tutti finalmente tirare un sospiro di sollievo. Hanno certamente dimostrato di essere dei grandi alpinisti e di avere enormi capacità di adattarsi all’altitudine, resistenza e motivazione.
Marcin Tomaszewski TATO 112
Siergiej arriva alla prima sosta sull’avancorpo.
XXXIII
Dmitrij in sosta durante le calate dopo la salita sull’avancorpo.
Marcin Tomaszewski TATO XXXIV
In questa pagina, calate dalla parete rocciosa dell’avancorpo.
XXXV
Sopra, l’icefall e lo Jannu sopra l’avancorpo roccioso. Commiato dalla parete e dai ragazzi. Sotto, pasto in comune al campo avanzato al di sopra dell’avancorpo roccioso.
Marcin Tomaszewski TATO XLVIII
5 aprile 2019
KATMANDU
Metto un post sul mio profilo Facebook. Questo viaggio mi ha dato molto da pensare. Ho osservato a lungo il pedaggio che esige dai nostri cari questo nostro pericoloso “ lasciarsi andare alla deriva tra le montagne”. Anche se sono a casa ad aspettarci ce li portiamo emotivamente con noi, ogni volta. Questa volta, ed è la prima, mi trovo dall’altra parte della frontiera ed ho avuto l’opportunità di vivere l’attesa e osservare l’apprensione che mi gravita tutt’attorno. Sono convinto che è molto più facile starsene in parete che aspettare con un senso d’impotenza e sempre in allarme una notizia dopo l’altra su come vanno le cose. Si pone una domanda sull’alpinismo e sui limiti della volitività oltre i quali non si parla più di scalate ma di ruota della fortuna e di lotta per la sopravvivenza. Cosa diventa allora lo sport? Cosa ci spinge a pericoli così evidenti? Le voci delle sirene? A quanto pare il loro canto può essere sentito non solo sulle creste delle onde, nel mare. Cosa ci danno le montagne, ci illuminano o ci accecano? L’alpinismo, secondo me, è una forma di equilibrio tra tutti i mondi in cui viviamo. È allora che diventa un’arte. Dobbiamo trovarci dentro, dopo tutto non possiamo rinunciare del tutto al rischio e alle scalate, altrimenti andremmo a perderci in cento altri modi. Ho fatto molte domande. Penso che ognuno troverà la propria risposta personale. Ho passato gli ultimi giorni in ospedale a curarmi un’infezione alla gamba per una puntura di zecca. Quale ironia del destino! Questa spedizione si è risolta per me in una bella lezione di umiltà. Non è stato comunque quell’evento a determinare la mia rinuncia alla scalata, in quel momento ancora non c’erano grandi ragioni per stare a preoccuparsi. Qualche giorno fa ho incontrato il resto della troupe a Katmandu. Sono tutti stanchi, ma felici. Eliza e Zosia hanno fatto una gran cosa e sono certo che abbiano contribuito molto al lieto fine di questa missione. Sento dentro di me un senso di confusione e faccio davvero fatica ad organizzarmi. Continuo a tornare col pensiero agli ultimi mesi, al compagno morto tragicamente, alla rinuncia al sogno della salita sullo Jannu, al ritiro dalla squadra e a quel cavolo di zecca! La spedizione 113
Che per te lui era più importante di tutto. Lui va dicendo: “Papà mi ha abbandonato e tu lo hai permesso”. Non mi sento colpevole. La tua passione in qualche modo mi aveva colpita. Arrivavi sempre con racconti fantastici. Ti ricordi con che occhi ardenti guardavamo i templi indù e le donne che indossavano il sari? Le montagne e la gente che le abita, un qualcosa di fantastico. Quando mi viene posta la domanda “Ma perché ci vanno?” rispondo “Andateci anche solo una volta… Bisogna toccare con mano ciò che si cerca di capire”.
© Sai che quando te ne andasti terminammo anche la costruzione della casa. Prima assieme avevamo preparato gli schizzi con la disposizione delle stanze dei bambini e avevamo scelto i colori. Andavamo ogni giorno a vedere la costruzione e ogni singolo mattone equivaleva ad una festa per tutti noi. Un giorno scrivemmo una poesia sul nostro amore, che poi firmammo tutti, bambini compresi, e che nascondemmo poi dentro alla colata di cemento. Non ci fu data la possibilità di godere a lungo insieme di quella casa. Dopo la tua morte non riuscivo a sopportare quelle pareti, il giardino e quei posti che avevi costruito con le tue mani. Fuggii dunque con i bambini dai miei genitori e non fui mai più in grado di tornare in quel luogo così permeato dalla tua presenza. Vendetti la casa e acquistai un appartamento nel quale di notte non potessi essere svegliata dal tuo profumo, nel quale il pavimento non scricchiolasse, quel rumore preannunciava sempre che stavi per tornare in camera da letto. La prima lacrima traccia il solco per quella successiva. Amore, sai come hanno vissuto la tua scomparsa tuo padre e tua madre? Mamma, papà… Il buio si fa più chiaro e lascia il posto a dei tulipani rossi che sembrano sussurrare qualcosa… Subentra poi un silenzio sempre maggiore… Dopo la tua morte tua madre si è chiusa in sé stessa. Forse quella sofferenza che in questi casi viene senza dubbio vissuta da parte di una madre ha contribuito ad accelerare lo sviluppo della malattia. Lentamente dopo di te hanno iniziato a scomparire la memoria e la coscienza, con la sua mente che richiamava sempre più immagini scollegate dalla realtà. Marcin Tomaszewski TATO 124
Dopo la morte 125
Era a casa sua, nel suo letto, quando se ne è andata. Subito dopo la sua morte abbiamo scoperto una lettera che per tutto quel tempo aveva tenuto nascosta sotto il cuscino e che iniziava con queste parole: “Figlio mio, sono…”. Salutandoti non pensava a quanto pericolosa potesse essere quella spedizione. Prima della tua scomparsa raccontava spesso la storia delle tracce. Ci piaceva ascoltarla, piaceva anche a te, perché durante quel racconto la vedevamo piena di orgoglio e di gioia per la tua vita. Quando dopo una scalata difficile nella nebbia fitta e nella neve ormai marcia non eri riuscito a trovare la strada per tornare al rifugio, inaspettatamente avevi notato alcune impronte di scarponi che ti avevano riaccompagnato sul sentiero sicuro. Sembrava impossibile che quelle orme fossero profonde al massimo qualche centimetro quando tu per imprimerle nella neve fresca e soffice eri sprofondato fino alle cosce, sopra alle ginocchia. Sembrava quasi che fossero state lasciate da scarponi indossati da una qualche anima o da un angelo custode. Terminando quel racconto, ti rivolgeva sempre un sorriso dicendoti: “Figlio mio, ero io il tuo angelo custode”. Credeva davvero che non ti sarebbe mai successo nulla.
© Uno squillo di telefono arriva ad interrompere quel silenzio … – Pronto. – È la signora…? – Sì… – La preghiamo di presentarsi immediatamente al commissariato di polizia, è stato ripescato dal mare suo figlio. Abbiamo una fotografia, signora, dovrebbe passare a identificare il defunto. – È mio figlio maggiore! Sentii il corpo afflosciarsi, mi sentii pervasa dal vuoto, come se la vita avesse abbandonato il mio corpo. Poi, improvvisamente, un pensiero! Ma come dal mare, quello non puoi essere tu, figlio mio!!! A meno che, tornando dalle montagne, tu non sia andato a farti una nuotata… Non mi ricordo come fossi arrivata in commissariato. Tutte le forze mi avevano abbandonato e mi ero messa seduta sul pavimento ad attendere che mi portassero quella foto. Marcin Tomaszewski TATO 126
Dopo la morte 127
[…] Mi era stata data una possibilità. Da quel momento la mia spedizione più grande, quella destinata a non avere mai fine, divenne il viaggio nel profondo di me stesso. Dovendo decidere tra famiglia e montagne, cerco di trovare l’aurea via di mezzo tra quei due mondi paralleli, senza i quali non sono in grado di esistere.
€ 20,00
ISBN 978 88 55470 698