TU NON CONOSCI TIZIANO

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Massimo Marcheggiani

TU NON CONOSCI TIZIANO Cantalamessa: la vita e l’alpinismo

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI


“Tiziano è stato il nostro Bonatti. Tutti lo amavano, uomini e donne” scrive Massimo Marcheggiani, suo compagno di cordata. Tiziano Cantalamessa è stato, a detta di tutti, il più forte alpinista del centro Italia, paragonato a Bonatti anche perché, come lui, era “l’uomo che tornava sempre”. Aveva una marcia in più. Come testimonia Alberico Alesi: “Dove gli altri si arrendevano sfiniti, lui cominciava appena a lottare. Uno dei motivi per cui a volte preferivo non uscire con lui, con tutto l’affetto che gli riservavo, era perché la sua presenza annullava i problemi”. Questo libro però non celebra l’ennesimo alpinista fortissimo, ma ci parla di un uomo, del suo rapporto con l’altro e del suo modo di concepire la montagna, del suo stile dissacratorio, scanzonato, allegro nel vivere l’avventura. “Non avrei mai scritto nulla su di lui solo perché era forte. Nel suo essere alpinista dalla testa ai piedi, Tiziano era uno straordinario compagno di scalate per la sua umanità, schiettezza, sincerità, affabilità e sopratutto travolgente allegria, con il quale condividere nel modo più vero una cosa forte e coinvolgente come l’alpinismo”. Sale il Fitz Roy, apre una via sui Bhagirathi, solo le valanghe lo ricacceranno in Italia da un tentativo di nuova apertura sulla Rupal del Nanga Parbat. Ma da buon Ascolano, il suo terreno d’elezione era il Paretone del Corno Grande: è lì che dai primi anni ’80 apre diverse vie nuove e compie concatenamenti incredibili, concettualmente avanti di vent’anni. Non lo fermerà la montagna ma un banale incidente di lavoro nel 1999. Massimo Marcheggiani è nato a Frascati (Roma) nel settembre del 1952. Cresciuto in una famiglia poco abbiente, dopo un tormentato percorso scolastico decise che l’unica strada possibile era il lavoro. Ha zappato la terra, vendemmiato, ha fatto il manovale edile, lo spazzacamino, ha lavato piatti, pulito bagni, tagliato boschi e verniciato tralicci, rinunciando al posto fisso nell’ospedale di Frascati: cartellini, turni, colleghi, ferie lo terrorizzavano. In tutto questo però è riuscito a realizzare il suo sogno: essere un alpinista (e da oltre 25 anni vive di alpinismo e tutti i suoi derivati). Ha pubblicato tre libri dei quali l’ultimo è la sua biografia Porto i capelli come Walter B., edita da Versane Sud e da 20 anni è responsabile per le coreografie aeree a grandi altezze per la compagnia di teatro danza Kitonb.

Copertina: Tiziano in vetta al Bhagirathi Karak, 6702m. 1988. Retro: Tiziano sul diedro di sesto grado al Bhagirathi Karak. 1988. Foto: M. Marcheggiani


TU NON CONOSCI TIZIANO


2021 © VERSANTE SUD S.r.l. via Rosso di San Secondo, 1 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati L’editore ringrazia Ivo Ferrari, Linda Cottino e Francesca Tresoldi per la preziosa collaborazione. 1a edizione ottobre 2021 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55470 353


MASSIMO MARCHEGGIANI

TU NON CONOSCI TIZIANO La vita e l’alpinismo di Tiziano Cantalamessa

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Presentazione di Alberico Alesi 5 Introduzione di Massimo Marcheggiani 9

PRIMA PARTE (I COMPAGNI DI CORDATA) 17 L’ho conosciuto così di Stefano Pagnini 19 Una notte insonne di Tito Ciarma 25 Io, Tiziano e Walter Bonatti di Alberico Alesi 33 D’inverno è meglio di Franchino Franceschi 45 La valanga di Silvia Marone 61 Desculpe señor… ¿Se puede comer? di Marco Vallesi 67 La grande cascata di Franco Farina 83 Seconda parte di Massimo Marcheggiani 87 Ringraziamenti 188 Postfazione di Massimo Marcheggiani 190


PRESENTAZIONE “Un libro su Tiziano”: questo il titolo provvisorio che Massimo aveva dato a quest’opera. Voleva scrivere un libro su di lui e lo ha fatto nel modo migliore. Poteva decidere di scriverlo da solo, avendone tutta la capacità, ricostruendo ciò che non sapeva attraverso i racconti degli altri, compresa la famiglia: è così che normalmente fanno i biografi. Ha invece scelto di raccontare direttamente il suo pezzo di vita, alpinistica e non, vissuta con Tiziano e poi di lasciare narrare a pochi altri il loro vissuto con lui. Sia chiaro: di ben altro spessore sarebbe stato il volume se si fosse voluto rendere un quadro completo di quella che è stata la sua attività, svoltasi con ritmo serrato ai massimi livelli per ben 25 anni. Fatemi sapere se conoscete qualcosa di simile… Esperienze diverse, persone diverse, stile e sensibilità diversi ma, i lettori lo noteranno, un Tiziano comune a tutti: allegro e scherzoso, generoso, leale, determinato, sensibile e sempre pronto ad incoraggiare i compagni. Niente di più sbagliato sarebbe pensare che questo sia una sorta di retorico e banale omaggio alla memoria: lui era così ed io lo so bene. Siamo cresciuti insieme, da quel fatidico incontro nella vecchia sede del CAI di Ascoli appena iscritti al corso di roccia, lui sedicenne, io diciannovenne. È lui presentazione 5


che mi ha insegnato cos’è l’amicizia. Percorsi diversi: io matricola alla facoltà di architettura, lui studente ma di lì a poco studente-operaio, poi agricoltore-allevatore, poi Guida Alpina. Uniti dalla montagna e poi dalla stessa montagna divisi, quando lui l’ha scelta come mestiere. Erano straordinarie la naturalezza e l’allegria con le quali affrontava la sua difficile vita: capito presto che continuare a fare lo studente in una famiglia di sei persone con un solo stipendio era un lusso che non si poteva permettere, iniziò a lavorare oltre che studiare. Poi scelse di vivere in campagna con la sua nuova famiglia, ben sapendo che sarebbe stata una vita dura, e così la affrontò: mai sentito lamentarsi o rimpiangere di non aver scelto una vita più “normale”. Governava il bestiame e lo mungeva, arava e seminava e mieteva il terreno, trasportava, aggiustava ogni cosa. Si prendeva cura delle sue mucche, che volevano e dovevano essere munte due volte al giorno. Niente feste, niente domeniche. Renata e qualche volta gli amici lo sostituivano quando potevano, ma non voleva abusarne: per questo preferiva scappare in montagna dopo la mungitura mattutina, spesso da solo. Poi tornava per la seconda, accolto dai muggiti delle mucche, dopo aver scritto un’ennesima pagina di storia alpinistica anche con memorabili solitarie invernali. Mi sono spesso chiesto: che ne sarebbe stato dell’alpinismo, non solo centro-italiano, se Tiziano Cantalamessa avesse potuto disporre di più tempo? Se la sorte fosse stata con lui più benevola? Se in una vita così breve è riuscito a compiere le più difficili imprese che l’Appennino avesse mai visto, cosa avrebbe potuto dare ancora all’alpinismo? Il Paretone del Gran Sasso (parete Nord-Est della vetta Orientale) è la regina delle pareti appenniniche, la più alta, complessa, difficile da raggiungere, specialmente d’inverno. È la parete che incombe per oltre 1500 metri sugli automobilisti che percorrono il tratto autostradale precedente l’ingresso della lunga galleria che attraversa il massiccio. Sono pochi gli alpinisti che si avventurano da quelle parti, dove semplicemente raggiungere l’attacco delle vie è già un’avventura. Scordatevi le processioni di climbers che traversano il sentiero Ventricini per raggiungere la nord del Corno Piccolo o l’allegro tramestìo delle Spalle, scordatevi l’accessibilissima parete Est davanti al Franchetti ed anche la vicina Est dell’Intermesoli: se volete sapere cos’è il vero alpinismo è lì che dovete andare, nella solitudine del Paretone. Difficilmente troverete compagnia. E badate che questo è già realistico in estate, d’inverno poi quella parete, spesso per anni, non conosce piedi e mani di essere umano. Bene: qual è l’ambiente che Tiziano prediligeva? E in quale stagione? Bravi, la risposta è esatta! Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 6


Lui il Paretone, tra estate e inverno l’ha salito almeno 150 (centocinquanta) volte. Non meraviglia che vi abbia aperto le vie più lunghe dell’Appennino (la Cantalamessa-Tosti e la Martina) o che vi abbia compiuto il più memorabile dei concatenamenti invernali (i quattro pilastri) e salito in prima invernale la via più difficile (Diedro di Mefisto): per questo Tiziano è stato, va detto senza alcuna esitazione, il più forte alpinista che l’Italia appenninica abbia mai avuto. Non c’è alcuna volontà di sottovalutare il valore dei compagni che, di volta in volta, lo accompagnavano nelle sue imprese: tra numerosi altri Stefano Pagnini nella fase di esordio, poi Bruno Tosti, il forte Franchino Franceschi, con cui ha raggiunto i più alti risultati. Cambiare compagni era una necessità per lui, perché gli altri non potevano tenere il suo ritmo. Con Massimo Marcheggiani Tiziano ha forse incontrato il suo “alter ego”: uno per cui la montagna è stata ed è scelta totalizzante e definitiva. Per questo il loro sodalizio è stato il più duraturo: di fatto, è durato dal 1984 (a fasi alterne anche a causa del suo lavoro di guida) fino al 1999, anno in cui Tiziano è caduto da una parete che non stava scalando, ma su cui stava lavorando. Con Massimo Tiziano ha iniziato la fase delle spedizioni extraeuropee che, anche in veste di guida, lo hanno portato in Patagonia, Himalaya, Pakistan, Perù, Africa. Era bello Tiziano, piaceva molto alle donne ed affascinava gli uomini: la sua allegria e la sua vitalità prorompevano anche quando avrebbe dovuto essere sofferente, magari in un letto di ospedale dove la sorte lo ha più volte costretto. E fu proprio lì che Renata, una ragazza ribelle decisa a non sacrificare la sua indipendenza per “mettere su famiglia”, incontrandolo casualmente vide crollare tutte le sue certezze: “Ho capito che di quell’uomo non mi sarei mai stancata”. Fu sempre Renata, mentre il chirurgo che aveva operato Tiziano nel 1996 (dopo un terribile incidente accaduto durante una esercitazione di soccorso alpino) le stava spiegando che non si poteva sperare in un ritorno alla normalità, a pensare: “Tu non conosci Tiziano!”. Alberico Alesi

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Proseguo per la cresta, la vetta non è lontana. Sale la nebbia, pettina la parete ed esce come un’onda dalla punta per fare un looping nel cielo. È come quei giorni di primavera mentre si cammina per le prime volte dopo la neve, con i prati e le foglie di quel verde tenero, con gli animali che non sono ancora spaventati; si cammina nel delicato equilibrio dei nostri pensieri e poche volte succede che un uomo sia così garbato con la propria anima. Tike Saab (Guido Machetto, Tike Saab, Arti Grafiche Persico Dante, Cremona, 1972)

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INTRODUZIONE Tiziano è morto il 12 maggio del 1999: se la memoria non mi inganna, l’avevo conosciuto 22 anni prima, nell’estate del 1977. Ricordo molto bene quel giorno, anzi quell’alba, perché stavo dormendo al rifugio Carlo Franchetti al Gran Sasso: quella solida costruzione in pietra situata su di un dosso molto pronunciato nel Vallone delle Cornacchie dal quale, nelle belle mattine soleggiate, è possibile vedere in lontananza il Mare Adriatico. Ha di fronte a sé la bella parete est del Corno Piccolo che quel giorno era già inondata di sole, alle spalle la ovest della Vetta Orientale che invece come sempre al mattino è fredda e buia. Poi, più giù, tutti I boschi, I prati, le colline e pianure del teramano incorniciati tra il vertiginoso abisso della cresta nord dell’Orientale e la cresta nord-est del Corno Piccolo. A completare il quadro decine di taccole, svolazzanti con poca grazia e gracchianti il buon giorno ad ogni nuovo giorno. È il rifugio per eccellenza per chi pratica alpinismo al Gran Sasso ed io mi stavo lentamente avvicinando a quella che sarebbe stata in seguito l’attività più importante della mia vita: scalare montagne. Come tutti gli occupanti del rifugio stavo dormendo, perché era davvero presto; inoltre il giorno prima avevo scalato aprendo una via nuova, che in seguito sarebbe diventata una delle scalate più frequentate dell’intero massiccio roccioso. Dormivo quindi perché ero anche molto stanco. All’epoca ero Introduzione 9


uno che si arrangiava alla meno peggio, un autodidatta che lentamente e spesso rischiando grosso, si approcciava all’arte della scalata. Avevo avuto però la sfacciata fortuna di incontrare un grande scalatore di 17 anni di nome Pierluigi Bini: di nove anni più giovane di me, senza nessun problema accettava che io mi legassi alla sua corda nonostante i miei rigidi e pesanti scarponi in cuoio, mentre lui stava già rivoluzionando tutte le canoniche certezze dell’alpinismo con un paio di Superga ai piedi, tutt’altro che profumate. Ero molto stanco perché mantenere la velocità di Pierluigi non era semplice e io non ero ancora pronto a scalare, anche se da secondo di cordata, le lisce e stupefacenti placche della seconda spalla al Corno Piccolo, così come non ero pronto ad accettare un fantastico (nel senso del non reale) altro compagno di cordata di nome “Vito Plumari” e che il giorno prima era diventato per sempre “Il Vecchiaccio”. Stavano scomparendo, grazie a loro, i punti fermi dell’alpinismo: il senso della conquista, i pesanti scarponi di cuoio, i pantaloni alla zuava, i calzettoni di lana rossi e le camicie di flanella a quadri. I miei due compagni scorrazzavano sulle pareti in scarpe da tennis, tute ginniche, velocità e sano divertimento - mentre io, vestito da “alpinista”, cercavo ancora di capire da che parte cominciare. Dormivo un sonno inquieto e agitato, dal momento che sapevo che al risveglio mi aspettava una povera colazione (eravamo in giro con pochi sol di) e un’altra giornata con la lingua di fuori, appiccicato su qualche parete per me troppo dura appresso ai miei due compagni di cordata, quando il mio sonno e quello di tutti gli altri fu bruscamente interrotto da un violento bussare alla porta. Oltre al frenetico bussare si udiva una voce forte e inquieta che chiedeva aiuto. Prima si svegliò uno, poi un altro e un altro ancora: in montagna, nella silenziosa pace dell’alba, basta un nonnulla per alterare quel perfetto equilibrio silenzioso. Il primo a scendere le scale e ad aprire la porta ad un giovanissimo Tito Ciarma (stravolto dalla corsa in salita) fu il gestore del rifugio, la guida alpina Pasquale Iannetti. Uno di seguito all’altro scendemmo di corsa la ripida scala di legno dai gradini consunti dal saliscendi, perché Pasquale ci chiamava a gran voce: il compagno di cordata di Tito era caduto da un’altezza di oltre dieci metri ed ora è steso in terra gravemente ferito. Eravamo almeno sette-otto persone, ancora con i pantaloni da chiudere o le scarpe da allacciare; dopo aver preso in spalla una barella, ci affrettammo a seguire con passo molto veloce Tito e Pasquale verso la base della parete est Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 10


del Corno Piccolo. Il vantaggio che offre il rifugio Franchetti è proprio questo, che molto rapidamente e quasi in discesa si raggiunge la bella e assolata parete di ottima roccia sulla quale negli anni sono stati tracciati molti itinerari di scalata. Ero molto intimorito nell’avvicinarmi alle tre persone immobili alla base delle rocce, di cui una in ginocchio, un’altra seduta (Alberico, che conoscerete più avanti) che teneva tra le gambe la testa del loro compagno steso a terra, quasi a proteggerlo. Entrambi erano visibilmente scossi. In quel momento della mia vita non ero ancora abbastanza esperto di alpinismo e quel primo, violento incontro con il potenziale rischio che comporta scalare le montagne mi creò un forte disagio: preferii stare un po’ in disparte, vedere e non vedere, pur obbedendo alle disposizioni che Pasquale stava già impartendo. Nella sua immobilità e tradendo smorfie di dolore, il ragazzo ferito seguiva tutto attentamente, con due occhi sorprendentemente azzurri, belli e spaventati da tutto il nostro movimento per metterlo nella barella nella maniera più delicata possibile. Cadendo dalla parete per la fuoriuscita di un chiodo era piombato pesantemente a terra e lamentava forti dolori alla schiena. Pasquale si era reso conto della gravità della situazione: un movimento di troppo o fatto male avrebbe potuto causare danni gravissimi e irreversibili al giovane alpinista. La tensione per l’operazione era altissima, nessuno di noi era preparato a situazioni così delicate ma, non esistendo ancora il soccorso alpino organizzato come è oggi con elicotteri, personale medico a bordo e immediatezza nelle comunicazioni, non potevamo fare altro che questo. Senza neanche respirare e coordinati da Pasquale, tutti insieme e nello stesso momento sollevammo il ferito e delicatamente lo adagiammo nella barella, lo coprimmo con una coperta portata dal rifugio e discutemmo sul da farsi. Eravamo soltanto all’inizio dell’operazione, a questo punto la cosa più difficile sarebbe stata farlo arrivare il più presto possibile fino a Prati di Tivo portando la barella a spalla lungo il sentiero scosceso, cercando di non creare scossoni, sperando che qualcuno degli improvvisati barellieri non cadesse mettendo in pericolo il ferito. Al via di Pasquale sollevammo in sincrono la pesante barella e i primi quattro volontari se la misero in spalla e così iniziò la lunga e faticosissima discesa. Dal momento che eravamo dispari, Pasquale spedì di corsa uno di noi a valle ad avvisare l’ospedale di Teramo di inviare urgentemente un’ambulanza. L’aria fresca e frizzante del mattino ormai non c’era più e grondavamo sudore mentre le spalle compresse dal peso della barella erano sempre più Introduzione 11


doloranti. Di tanto in tanto ci davamo il cambio, e chi non portava il ferito stava vicino ad un barelliere, attento ad aiutarlo nei tratti più esposti o sconnessi del sentiero. Una volta superato il tratto impervio del sentiero e giunti sull’enorme spallone erboso dell’Arapietra, ci concedemmo una pausa per riprendere un po’ di forze; adagiammo in terra il ferito e chiacchierando tra di noi si allentò anche l’enorme tensione creatasi per la difficile e lunga discesa. Da qui alla strada sarebbe stata solo fatica, senza difficoltà. Stavamo tutti intorno a questo ragazzo che spostava i suoi occhi su di noi, ci guardava e rispondeva con fatica alla nostra sciocca domanda su come si sentisse. Pasquale, per sdrammatizzare, gli chiese se si rendesse conto di che onore avesse avuto ad essere stato portato a spalla, tra gli altri, da un alpinista fuoriclasse come Pierluigi Bini, che era già una leggenda nel mondo degli scalatori (particolare che a me era sfuggito e che stavo lentamente realizzando). Il ferito, in un dialetto a me ancora sconosciuto e con molta ironia, rispose che l’aveva fatto apposta a farsi male per avere appunto quell’onore. Seguì una risata che fece bene a tutti quanti e quando Pasquale gli chiese chi fosse tutti sentimmo il suo ancora sconosciuto nome: “Mi chiamo Tiziano Cantalamessa e sono di Ascoli Piceno”. Notai che aveva gli scarponi di cuoio ai piedi. Venne l’estate del 1983. Non avevo più né visto né sentito parlare di lui, solo fugaci informazioni sulle conseguenze dovute alla caduta: aveva riportato seri danni alla colonna vertebrale e per questo era stato costretto ad indossare per un lungo periodo un busto ortopedico e una ingessatura al braccio sinistro per la frattura del polso. Nel frattempo mi stavo impadronendo dell’alpinismo, o lui di me, in modo più o meno inconsapevole. Quell’estate andai per la seconda volta al Monte Bianco e riuscii a portare a termine delle importanti salite insieme a Simone Gozzano e Fabio Delisi. Per questioni economiche non stavamo nei rifugi, notoriamente molto cari, ma in tenda al campeggio Tronchey, sotto il versante italiano delle Grandes Jorasses. Fu proprio alle tende, di ritorno da una di queste salite, che incontrai di nuovo Tiziano: era da poco sceso da un’altrettanto importante grande scalata, la temuta e credo mai ripetuta (almeno da alpinisti del centro Italia) via Major, sul versante sud del Monte Bianco, sopra il caotico e pericoloso ghiacciaio della Brenva. Stava con Alberico Alesi, un altro di quella generazione variegata di ascolani che si stavano affermando come alpinisti molto forti e determinati. Venti giorni dopo ci incontrammo casualmente a Prati di Tivo. Tiziano stava con Tito Ciarma e lo zio di questi Giuseppe “Peppe” Fanesi, colui che li Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 12


aveva iniziati all’alpinismo. Avevano intenzione di andare a ripetere una difficile via di Giampiero Di Federico ed Enrico De Luca. Io ero da solo e dopo due chiacchiere e un caffè fu proprio Tiziano a chiedermi di unirmi a loro per affrontare quella superba via sull’impressionante scudo roccioso del Monolito, il cuore della parete est del Corno Piccolo. Io ormai mi ero convertito alla novità delle scarpe leggere da arrampicata (effettivamente molto più efficaci sulla ruvida roccia) , così come senza rimpianti mi ero disfatto dei pantaloni, maglioni e calzettoni che tanto mi avevano fatto sentire un alpinista. Mi legai con Tiziano in quella bella giornata di sole, per la prima di tantissime altre volte, ed ebbi in quel momento la netta percezione di cosa fosse un “compagno di cordata”: un piacere che scorreva nitido attraverso la corda che ci univa e lungo le pieghe della roccia che stringevano le nostre mani, riempiendomi di una nuova e gradevole sensazione. Era il piacere palpabile di condividere l’avventura della scalata con una persona che stavo scoprendo bella, piacevole, intensa, complice, modesta, forte. Una persona dalla quale trapelava senza filtri la classe del grande alpinista, che già era e che ancora di più sarebbe diventato. A tiri alterni e baciati dal sole, superammo senza grandi difficoltà l’intera parete: io con le mie leggere e moderne scarpette e lui, così come Tito e “Peppe”, con i pesanti scarponi in cuoio. Conservo come un tesoro il ricordo di un complimento che mi fece durante la salita. Lui aveva fatto da primo il tiro del traverso, e dalla sosta poco sotto lo strapiombo mi guardava salire lungo la successione di piccoli buchi della monolitica placca. Ad un certo punto mi disse in un finto dialetto romanesco: “Ahò, pare che stai a sona’ ’n pianoforte co’ quee’ mani!”. Mi faceva spesso complimenti, e io li accettavo con sciocco narcisismo, mentre non ero capace di avere questo genere di attenzione nei suoi confronti. Sono passati dodici anni dalla sua morte; il suo ricordo, la sua figura, la sua risata contagiosa, la sua schiettezza e sincerità, i suoi begli occhi azzurri, le sue mani forti, il suo farsi sentire amico e ancora di più le sue belle ed importanti imprese sono ancora oggi un frequente argomento tra la ormai vasta comunità alpinistica. Molto spesso si parla ancora di lui e la sua figura diventa sempre più “mitica”. Ho scalato molto con Tiziano, dalle classiche arrampicate senza storia fino alle spedizioni in Patagonia, in Perù e in Himalaya: sono state esperienze che mi hanno dato la grande opportunità di condividere con lui lunghi periodi a stretto contatto. Ci sono stati gli abbracci e i vaffanculo, ovviamente. La memoria però non mi fa dimenticare quanto io sia stato privilegiato nell’essere stato legato alla sua stessa corda e per questo ho la presunzione di Introduzione 13


poter raccontare qualcosa. Anche molti altri scalatori prima, durante e dopo di me hanno condiviso con lui la bellezza delle scalate: per questo ho pensato che sarebbe stato bello che anche altri raccontassero la loro storia con Tiziano. Così ho chiesto prima di chiunque a Renata, sua moglie, se era d’accordo che si scrivesse un libro su di lui, che lo scrivessi io, e se fosse disposta ad aiutarmi. Ottenuto il suo consenso ho messo a fuoco quelle che secondo me sono state alcune delle sue scalate più significative, successivamente ho rintracciato i compagni di quelle salite ai quali ho chiesto la disponibilità a collaborare. A Stefano Pagnini ho chiesto di raccontare, a distanza di un’eternità, la loro stupefacente salita della parete nord del monte Camicia, nel massiccio del Gran Sasso. Stupefacente perché, sottolinea Stefano, loro due al momento della scalata erano poco più che ragazzini, appena affacciatisi al mondo delle scalate. La nord del Camicia è una parete non bella, cupa e di roccia friabile. Non dà quasi mai la possibilità di mettere dei buoni chiodi, ammesso che i due ragazzini fossero in grado di farlo. La salita di questa parete non è un’impresa tecnica, è piuttosto un’impresa mentale. Tito Ciarma, che era uno dei tre amici di Tiziano presenti il giorno della sua caduta, ricorderà invece l’apertura di una grande via quasi mai ripetuta per la sua lunghezza e difficoltà complessiva: la via Martina sulla parete est della vetta orientale del Gran Sasso. I pochissimi ripetitori parlano di un viaggio infinito in uno degli angoli più remoti e selvaggi dell’intera montagna. Dopo 35 anni di attività ho ancora una visione piuttosto romantica dell’alpinismo: per questo non ho potuto evitare di chiedere ad Alberico Alesi di raccontare della loro salita alla via Major al Monte Bianco. Una parete selvaggia, isolata, inquietante nonostante la sua bellezza. La grande storia dell’alpinismo al monte Bianco passa su questa e altre poche pareti. A me Tiziano non ha raccontato quasi mai nulla, lui era uno che ascoltava; sono stato quindi contento di sentire da Alberico la storia della loro scalata sulle tracce dei grandi alpinisti, primo fra tutti Walter Bonatti che di questa parete era profondo estimatore e conoscitore. Cercando di dare anche una continuità cronologica alle scalate scelte, racconterò invece io, ma nella seconda parte del libro, di quando nella seconda metà degli anni ’80 con Tiziano andammo in Patagonia per due lunghissimi mesi, da soli, con l’intenzione di scalare il formidabile Pilastro Goretta alla parete nord del Fitz Roy sulle tracce del grande Renato Casarotto. Tutta la storia fu una bella impresa che mi fa sempre piacere ricordare, così come quando a solo un anno di distanza ci proiettammo verso un bell’obiettivo Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 14


himalayano, non più da soli ma con altri quattro amici ascolani: Alberico, Tonino Palermi, Marcello Ceci e Pierpaolo Mazzanti. Poi seguì il Perù ed un tentativo per un 8000. Quelli furono gli anni in cui Tiziano diede veramente il meglio di sé. Non c’è nulla di più selvaggio di una scalata invernale su pareti coperte di ghiaccio, roccia gelida, con poche ore di luce e senza un’anima in giro, e la montagna completamente deserta. Se questo avviene poi su quelle grandi pareti isolate e difficili da raggiungere, il valore dell’impresa cresce in maniera esponenziale. Tiziano riusciva a dare il massimo di sè nell’alpinismo invernale. Franchino Franceschi è stato suo compagno in quelle che sono state, a mio avviso, alcune tra le più belle imprese della storia del Gran Sasso e tornare con la memoria a quelle fredde giornate porta anche noi in quell’universo sconosciuto ai più. A un certo punto, in un mondo prevalentemente maschile, compare una donna: Silvia Marone. Nel 1990, per la quarta volta in quattro anni ci stavamo preparando per un’altra spedizione. Eravamo molto gasati, facevamo un sacco di belle scalate e volevamo qualche cosa di più “forte”. Scegliemmo insieme l’ambizioso obiettivo della parete Rupal del Nanga Parbat in Pakistan ed è a Silvia, che era parte integrante della nostra leggera spedizione e cara amica di Tiziano, che ho chiesto di ricordare quella infelice-felice avventura asiatica. Quella fu, per motivi diversi, l’ultima spedizione fatta insieme: il lavoro di guida alpina che Tiziano aveva intrapreso lo assorbiva sempre più frequentemente. Marco Vallesi, dopo aver frequentato un corso di alpinismo tenuto da Tiziano, si imbarcò in una spedizione-lavoro con lui ed un altro suo amico alla volta della Patagonia Cilena, con l’obiettivo di salire una delle magnifiche Torri del Paine. Dal racconto emergono la violenza del vento, la precarietà degli alpinisti in quella terra flagellata da tempeste e la figura di Tiziano: disincantato, istrionico e forte alpinista a tutto tondo, diventa protagonista, dopo la salita, della triste fase del recupero di uno scalatore sudafricano caduto in un crepaccio. Infine ho chiesto un contributo a Franco Farina, il quale ha scalato molto con Tiziano in un rapporto inizialmente da cliente-guida che negli anni si era trasformato in una sana amicizia. Prendendo come spunto la prima salita di una grande cascata di ghiaccio compiuta al Fondo della Salsa, sotto la parete nord del monte Camicia, Farina ci presenta un altro Tiziano, andando oltre gli abiti e i gesti dell’alpinista: un uomo avido di vita e che non smetteva mai di stupirsi. Introduzione 15


Queste sono solo alcune delle tantissime persone che si sono legate in cordata con Tiziano. Tante altre avrebbero da raccontare di quanto sia stato bello stare in parete con lui, vederlo salire con sicurezza, sentirlo scherzare anche nei momenti difficili, sdrammatizzandoli con una battuta e una bella risata, sentirsi guardati e guardare quei suoi occhi che erano l’equivalente di un abbraccio capace di avvolgerti, scaldarti e tranquillizzarti. Dell’alpinismo Tiziano è stato un interprete completo, autentico e generoso, che ha lasciato tracce profonde nella storia di questa disciplina e che per questo non verrà dimenticato. Il mio intento, e spero di esserci riuscito, è di consegnare alla memoria di chi rimane quel delicato e sensibile artista della montagna che egli è stato. Rubo, con il suo permesso, la dedica che Giuseppe Antonini ha scritto sul suo libro “Figlie dell’acqua e del tempo”: “Certi uomini a forza di vivere le dimensioni verticali di questo mondo, sono cresciuti così tanto da assumere la statura stessa delle montagne. Uomini che hanno insegnato a esplorarle e che hanno guidato altri su una via dagli orizzonti sconfinati. È ad uno di essi che sono dedicate queste pagine: a Tiziano Cantalamessa, maestro e guida, nella montagna e nella vita”. Massimo Marcheggiani

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PRIMA PARTE

I COMPAGNI DI CORDATA

PRIMA PARTE (I compagni di cordata) 17


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L’HO CONOSCIUTO COSÌ

di Stefano Pagnini

Quando entro nell’aula la classe è già quasi completamente composta. Il rapporto maschi/femmine è di uno a quattro (imbarazzante), mi guardo un po’ intorno: le ragazze hanno già occupato tutte le prime file, nell’angolo in fondo all’aula a sinistra, quella senza finestre, scorgo un posto vuoto, lo raggiungo e mi siedo. Accanto a me un ragazzino alto coi capelli scuri mi guarda, mi saluta, timidamente ci presentiamo: – Ciao, io sono Stefano. – Ciao, io mi chiamo Tiziano. È così che ci siamo incontrati, in prima media, entrambi un po’ sorpresi da quella schiacciante maggioranza femminile alla quale non eravamo abituati. Io alle elementari ero in compagnia di una trentina di maschietti, quindi dovevo lottare per conquistarmi qualcosa: dal banco, alla sedia, o per evitare che mi rubassero la merenda… Ora, pensai, il mio compagno di banco non potrà che essere un alleato, dovremo sostenerci l’un l’altro per fronteggiare adeguatamente le nostre nuove compagne di classe: sconosciute perché mai viste in precedenza e misteriose in quanto femmine! L’HO CONOSCIUTO COSì 19


I tre anni delle medie stavano passando in fretta, io e Tiziano avevamo un buon rapporto: non ci si frequentava molto al di fuori della scuola ma quando c’era qualcosa da fare insieme riuscivamo sempre a farlo divertendoci. Avevamo capito che le nostre compagne di classe non rappresentavano un problema, al contrario: con molte di loro e col passare del tempo i rapporti miglioravano costantemente. Un piovoso pomeriggio primaverile, non potendo uscire, decisi di andare in soffitta e mentre curiosavo tra le cose di mio fratello mi ritrovai in mano un martello legato ad un cordino sottile, tre o quattro chiodi da roccia ed altrettanti moschettoni. Immediatamente capii che avrei dovuto passare all’azione: essere in possesso di attrezzi così interessanti e lasciarli inutilizzati era proprio un peccato. Il giorno seguente, a scuola, ne parlai con Tiziano: dovevamo sperimentare tutto quel ben di Dio! Così decidemmo che la domenica seguente saremmo andati all’eremo di San Marco, però era necessario procurarci una corda per poterci arrampicare su quelle pareti e nessuno dei due ne disponeva. Tiziano ebbe un’idea: vediamoci sabato pomeriggio, so come fare, disse. Così quel sabato entrammo in un cantiere edile: non c’erano operai e tutte le attrezzature erano riposte ben in ordine all’interno di una stanza, così notammo che tra mazze, picconi e cazzuole in bellavista spiccava una splendida corda di canapa, una corda da 18/20 mm lunga una ventina di metri. Era perfetta, faceva esattamente al caso nostro. In men che non si dica ce ne appropriammo e poi via di corsa verso il fiume, nascondemmo la corda e tornammo a casa. Il giorno seguente, recuperata la nostra corda, ci avviammo su per il setiero di San Marco felici come non mai. Giunti all’eremo decidemmo di salire lungo la parete di roccia alla sua sinistra. Cominciarono così i primi problem: non avevamo alcuna idea di come fare per legarci, figurarsi se poi potevamo pensare ad un modo sicuro per assicurare il compagno. Dopo qualche tentativo riuscii a farmi un nodo dall’aspetto decente ed inizia la scalata. Salii alla bell’e meglio per due o tre metri e poi, finalmente, il primo chiodo: non fu cosa semplice comunque riuscii a metterlo, ci passai dentro moschettone e corda e scesi, stanchissimo. Ora toccava a Tiziano: anche lui ebbe dei seri problemi nel legarsi ma poi andò su, raggiunse il chiodo, salì ancora un paio di metri e mise il secondo chiodo per poi scendere di nuovo e darmi il cambio. Andammo avanti così per tutta la giornata: salivamo per otto dieci metri alternandoci ad ogni chiodo e poi giù con la stessa tecnica per recuperarli. Tornammo a casa convinti di essere diventati alpinisti di tutto rispetto Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 20


e certi di dover ripetere la nostra impresa la domenica successiva. Continuammo ad andare a San Marco per qualche domenica, ma l’avvicinarsi degli esami ci costrinse a mollare; poi con l’arrivo dell’estate ci allontanammo ancora da quella esperienza, dimenticando quasi di essere diventati degli alpinisti. L’autunno successivo, era il 1972, seppi da mio padre che il C.A.I. organizzava un corso di roccia così non mi lasciai sfuggire l’occasione: chiamai Tiziano e ad ottobre eravamo tra gli allievi di quel tragico corso insieme, tra gli altri, ad Alberico Alesi e Mimmo Nardini. Durante un’ uscita sul Gran Sasso, mentre salivamo verso il ghiacciaio del Calderone, Fernando (un allievo) perse l’equilibrio sulla neve durissima, strattonando l’istruttore al quale era legato: fecero una lunga scivolata sul pendio con rocce affioranti ed infine un volo di una ventina di metri. L’allievo, seppure molto malconcio, riuscì a salvarsi mentre Peppe Raggi, istruttore della scuola di alpinismo del C.A.I. Ascoli non ci riuscì. Io comunque non terminai il corso a causa di una frattura ad un braccio procuratami cadendo da un muretto, ma già in inverno riprendemmo le nostre escursioni domenicali verso le palestre ascolane che, all’epoca, si limitavano al Dito del Diavolo, alle Cave di travertino sotto San Marco ed alle Vene Rosse. A casa leggevo esclusivamente racconti di avventure alpinistiche: grandi pareti, bivacchi, lotte inumane per la sopravvivenza tra tempeste di ghiaccio…roba dell’altro mondo. Sentivo che dovevamo andare ancora avanti, bisognava provare qualcosa di più di quello che ci capitava di fare ogni Domenica: così proposi a Tiziano di andare a bivaccare su una parete alta una trentina di metri. Lui accolse l’idea con grande entusiasmo e così il successivo sabato pomeriggio partimmo, equipaggiati con sacchi a pelo da mare (tanto inutili quanto ingombranti), un telo di nylon e qualcosa da mangiare. La notte passò tra nevischio, vento, freddo e dolori procurati dal contatto con la dura roccia sulla quale eravamo appollaiati; fu una notte difficile ma finalmente anche noi avevamo vissuto l’esperienza del bivacco su una parete gelida ed innevata. Capimmo anche, però, che per quella stagione poteva bastare. All’inizio dell’estate decidemmo di passare una settimana sul Monte Vettore dormendo al rifugio Zilioli e furono giorni bellissimi: non c’era nessuno, di tanto in tanto sotto di noi si intravedeva qualche pastore che vagava con le sue greggi lungo i pendii erbosi sul versante sud. Ci sembrava di essere completamente isolati dal mondo, non avevo compiuto ancora 15 anni e ricordo quella esperienza come un qualcosa di molto forte, un avvenimento di quelli L’HO CONOSCIUTO COSì 21


Tiziano “scherza” al Pizzo del Diavolo. Foto: F. Franceschini

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Sopra, Tiziano sulla via Zarathustra al Gran Sasso. 1986. Foto: M. Marcheggiani Sotto, Tiziano sul seracco terminale della via Major al Monte Bianco. 1981. Foto: A. Alesi

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Tiziano sui nevai della parete nord del monte Camicia. 2° salita invernale . Foto: F. Franceschini

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Tiziano inizia le corde doppie, rinuncia per nevicata al 3° tentativo sulla via Martina. 1988. Foto: M. Marcheggiani

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Campo base; la montagna è tutta sopra di noi. Una giornata stupenda come d’altronde la maggior parte di quelle trascorse da quando siamo arrivati. Abbiamo già fatto qualche viaggio tra il campo base e il campo 1. A salire si fatica un po’, ma la discesa per il piccolo nevaio prima della morena la possiamo fare come ci pare: per quelli come me, con i piedi piccoli, magari semplicemente saltellando con il “passo dell’orso”, mentre Tiziano improvvisa uno slalom senza sci tra porte invisibili fino alla morena. Che eleganza! “Quanti campi dobbiamo montare prima della salita alla vetta? “Forse è meglio dividersi in due gruppi, così abbiamo il tempo necessario per recuperare”. Con i nostri carichi pesanti, Tiziano, Enrico ed io saliamo lentamente perché oggi tocca a noi e sarà l’ultimo viaggio al campo 1. Domani saliranno Massimo e Franchino e monteranno il campo 2, e così ci alterneremo nei prossimi giorni. La parete Rupal è un cinema naturale grandioso. Ogni giorno si staccano valanghe che scendono indisturbate lungo i canaloni naturali della parete. Il nostro itinerario di salita è ben protetto, c’è una enorme costola di roccia che lo ripara dalle slavine fin dalla parte alta. Massimo e Franchino sono saliti al campo 1. La notte seguente hanno superato un altro bel pezzo di parete oltrepassando ripidi couloir e brevi risalti rocciosi ed hanno allestito, scavando un ripiano nel ghiaccio, il campo 2 con una tenda e un po’ di materiale. Ora stanno scendendo, puntini infinitesimali sullo sperone di fronte a noi, mentre Tiziano, Enrico ed io ci prepariamo per dargli il cambio. Lo spettacolo è già cominciato da un pezzo, ogni giorno diverso e ogni giorno affascinante. Chissà quante valanghe abbiamo visto venire giù, è impossibile contarle: grandi, piccole, lontane, lontanissime… ormai tra di noi è diventata una gara a chi le vede prima. Dopo aver sentito il classico boato, i nostri occhi in automatico si girano verso l’alto: c’è chi ha la fortuna di seguirla dall’inizio, dal distacco iniziale della massa di neve farsi sempre più grande man mano che precipita, inghiottita dal vuoto sottostante mentre si trasforma in una nuvola dalle forme più strane. Ognuno crede di aver visto la più bella. La valanga… Qualcosa di simile a un’onda gigantesca nell’oceano impazzito. Quanta potenza esprime la natura! Un boato. Sembra più forte del solito, e in un attimo siamo tutti con il naso all’insù, chi con la macchina fotografica, chi al binocolo che abbiamo montato fisso su un cavalletto. Uno schianto pauroso, qualcosa di enorme che comincia a scendere nel canalone accanto alla nostra linea di salita. Lo sperone, grande come una parete dolomitica, mette al sicuro i nostri due amici dalla furia che sta venendo giù sempre più grande, gigantesca… Invece: “O cazzo… scavalca! Cristo, no, non ce la può fare…”. All’improvviso, in un attimo Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 64


Nanga Parbat: la immensa valanga. Foto: E. Bernieri

la massa di neve ha invaso tutta la parete, il naturale cammino di discesa, la nostra linea di salita, tutto quanto! È tutto bianco ora: fumo, polvere, neve ed un violento vento gelido che arriva fino a noi. Enrico continua a scattare foto come impazzito, il mio dito sul pulsante di scatto si è immobilizzato mentre un brivido freddo mi scorre lungo tutta la schiena. Tiziano, che è diventato di pietra, mi dice con una calma impressionante: “Silvia, stai calma”. Calma? Perché? Non può succedere nulla, non deve succedere nulla! Tu solo, Tiziano, hai capito quello che è successo; tu solo ti sei reso conto in quegli attimi che non sarebbe stato possibile sopravvivere a quella furia La valanga 65


fatta di ghiaccio, neve e aria trasformate in una violenza spaventosa e devastante. Sempre tu ti siedi, cercando di non farmi preoccupare, davanti al binocolo per cercare di vedere e capire; non fai trapelare emozioni come volessi difendermi e difenderti da quello che sicuramente è successo lassù. Ma il tuo sguardo ti tradisce, l’angoscia per la sorte del mio Massimo e Franchino si è impadronita di te come di me. Farfugli, con le parole biascicate e spezzate in gola dici che il campo due non c’è più, è sparito. Continui a prendere tempo scrutando la montagna ma secondo me non guardi. Accendi la radio, passano minuti che sembrano una vita intera, poi un rumore metallico, la radio gracchia, infine una voce… il miracolo a cui nessuno ha creduto si è avverato. Le tue braccia mi stringono forte! Camminiamo fianco a fianco, come quando mi stavi portando a vedere la stalla, ricordi? Ora invece ce ne stiamo andando da questa grande montagna, che ci ha voluto bene e ci fa tornare tutti a casa salvi. All’improvviso ti fermi, mi guardi e mi dici: “Silvia ma tu che ci fai qui, non staresti meglio su una bella spiaggia al mare?”.

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DESCULPE SEÑOR… ¿SE PUEDE COMER?

Patagonia - Salita alla Torre Centrale del Paine di Marco Vallesi

Il fuoco ci scaldava meno delle risate e le infinite stelle riparavano più della tenda, ci addormentammo sazi finalmente. Quando si racconta del passato i ricordi mischiano verità e vergogne, bellezza e povertà fino a confondere quello che è stato con quello che avremmo voluto che fosse. Ognuno, come sempre, è libero di pensare ciò che vuole e di immaginare tutto ed il suo contrario, magari sognando per un momento. Fui un allievo di Tito e Tiziano, forse il più giovane, ad uno dei loro primi corsi di arrampicata tenuti come Guide Alpine. Avevo sedici anni e babbo mi accompagnava con la 127 a metano fino ad Ascoli, per affidarmi ai due giganti, ribattezzati “Gli Antenati”: Tiziano era “Fred”. Ignoravo che quelle avventure avrebbero segnato per sempre il mio cammino di ragazzo, poi di uomo. Oggi che mio padre non c’è più, ma ho un figlio, ho capito che un genitore non ignora: osserva. DESCULPE SEñOR… ¿SE PUEDE COMER? 67


A PRANZO CON I CANTALAMESSA

Si è fatta ora di pranzo, e attraversando vicoli tra case di nuda pietra bianca e fiancheggiando una bella chiesa pre-romanica torniamo all’automobile e quindi a casa. Nel frattempo Renata ha invitato a pranzo con noi Roberto, il fratello che Tiziano ha visto nascere e che a sua volta ha visto il fratello morire. Erano insieme, stavano lavorando su di una parete rocciosa posizionando reti di consolidamento quando “tutto è improvvisamente successo”. Roberto è abbronzatissimo, un fisico invidiabile, gli occhi saettanti del classico colore “Cantalamessa”. Ha delle mani che ricordano in modo impressionante quelle del fratello, mani che sanno quello che fanno, mani che lavorano; gliele guardo mentre mangiamo quella parmigiana che era solo bella e mentre racconta del suo recente viaggio in Brasile. È andato a trovare Riccardo Bessio, un amico con il quale Tiziano e Roberto avevano scalato più volte in passato e che ora vive in America del sud; insieme hanno arrampicato sulle strane pareti di questo rigoglioso paese. A tavola si aggiunge Valentina, la bellissima seconda figlia di Renata e Tiziano appena tornata da scuola. Riccardo, il loro primogenito alto e bello quanto suo padre e che ormai ha 26 anni, è al lavoro. Poi non si scappa: prima in sordina e poi sempre più prepotentemente esce fuori Tiziano. Roberto ha un linguaggio forte, chiaro, travolgente e, come un fiume inizialmente calmo, si trasforma in brevissimo in una vorticosa rapida, cominciando a raccontare non tanto i fatti dell’incidente quanto le sue sensazioni sul fratello, il suo non essere il Tiziano di sempre. Il Tiziano che qualsiasi cosa facesse la faceva perfettamente, con attenzione e scrupolo, padrone delle sue conoscenze, e che mai e poi mai sarebbe caduto da una parete come invece è stato. Mi afferra l’anima, il cuore, la testa e mi trascina sempre più in un vortice di parole che più ascolto e più mi fanno male, mi confida cose intime e terribili. Roberto parla con la voce, con gli occhi, con le mani, in ascolano, senza più freni inibitori. Si muove avanti e indietro, nervosamente e con gli occhi dilatati, vede le mie lacrime e lascia uscire le sue. Mi prende per una spalla stringendo forte, mi scuote, mi dice guardandomi fisso negli occhi, con quegli occhi, che secondo lui solo due persone sono in grado di scrivere “’sto libro” sul fratello: io, oppure Alberico. Mi vengono più dubbi di quelli che già ho, ma non glielo Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 92


dico mentre penso che forse è proprio lui quello veramente indicato a raccontare, se solo potesse trasformare tutta la sua carica e la sua dirompente anima in parole scritte. Sono ancora più in crisi: è probabile che io non riesca a fare un lavoro dignitoso, Tiziano non va raccontato solo come alpinista. Era bravo, si sa, aveva compiuto belle imprese, è vero. Un mucchio di libri di alpinisti che raccontano le proprie gesta sulle ardite pareti sono illeggibili. Un mucchio di libri scritti su alpinisti scomparsi sono altrettanto illeggibili quando è tutto un raccontare di imprese che non vanno minimamente al di là della nuda e cruda cronaca di una scalata, importante o meno che sia. Ma la persona che scala, chi è? Basta essere bravi? E se poi oltre che bravo a scalare un alpinista è anche stronzo, falso, opportunista e fondamentalmente “non amico”? La figura del compagno di cordata rimane, non solo per me, un elemento chiave affinché l’alpinismo sia qualche cosa di veramente pieno, vero, forte, e quello che vorrei è proprio questo: fare in modo che esca da queste pagine lo straordinario compagno che Tiziano era e quanto una scalata con lui si trasformava in una fetta di vita veramente vissuta! “Tike Saab” è un libro del 1972 scritto da un alpinista che a me piaceva molto, Guido Machetto. L’idea di far scrivere e raccontare anche da altri chi fosse Tiziano non è mia, l’ho rubata a Machetto ed al suo libro. Mi sono innamorato della sua figura e del suo unico splendido libro, che non sta quasi più in piedi per le troppe volte che l’ho aperto, non fosse altro che per rileggere qualche breve brano. Ad un certo punto dice: “Quattro giorni, sono solo quattro giorni in mezzo a moltissimi altri passati in parete ma quella compagnia sorridente, quel capirsi profondamente al di là della “prima invernale”e quel luogo solitario, mi permettono di dire: se uno scala vuol dire che è un tipo, e un giorno il suo occhio si sofferma su un posto che non può essere che suo e dice che la vita che ha vissuto intimamente fino adesso è lì riflessa…”. Ecco cos’era Tiziano per tutti noi che siamo stati legati alla sua stessa corda: quel compagno sorridente e amato con il quale si aveva la certezza di stare nel posto giusto al momento giusto. E chiunque abbia scalato con lui sa che c’è un solo posto che non può essere che suo: la più grande, bella e selvaggia parete del Gran Sasso, di cui rimane ancora oggi l’indubbio grande protagonista. Il Paretone. Ci prendiamo il caffè. Chiedo loro se hanno ancora voglia di leggere le poche pagine che ho scritto, e lo dò per scontato quando Renata senza dire una parola prende i fogli e va a sedersi sul divano. Valentina si siede sul bracciolo dello stesso ma appiccicata alla madre. Roberto sta in mezzo, tra me e loro. La voce leggermente graffiata di Renata traduce in suoni le poche pagine seconda parte 93


Il rifugio nel ghiaccio. Foto: M. Marcheggiani

Tiziano venne investito in pieno da una profonda crisi. Lo vidi inizialmente incupirsi, poi sedersi sullo sgangherato letto, prendersi la testa tra le mani e dopo poco iniziare a piangere. Un marasma di pensieri negativi e di ripensamenti si impadronirono di lui, cominciava a pensare di aver fatto una grande cazzata ad imbarcarsi in questa avventura, non avrebbe dovuto lasciare Renata sola con il piccolo Riccardo che ora, si accorgeva, gli mancava più di qualsiasi altra cosa. Non avrebbe dovuto lasciare l’intera fattoria sulle spalle di sua moglie, se pur con qualche aiuto da parte di amici; non si sentiva per niente bene, non voleva stare lì, avrebbe preso il primo aereo possibile e sarebbe tornato di corsa a casa dai suoi cari. Non sapevo che fare e che dire di fronte ai singhiozzi e le lacrime del mio amico; come un cretino me ne stetti Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 126


di fronte a lui farfugliando qualche scemenza e l’unica cosa forse buona fu un abbraccio, che stava a significare che ero disposto a tornare indietro anche io, senza problemi. Significava che gli volevo bene, che mi dispiaceva per il suo dolore, che poteva contare su di me e decidere come riteneva più opportuno. Non durò poco quella crisi, poi esausti dal lungo viaggio, dal fuso orario e dalla tensione del disagio ci addormentammo fino al giorno dopo. In seguito Tiziano scrisse: “Mio figlio Riccardo aveva due anni, ero distrutto dal pensiero che stavo rischiando di non poterlo riabbracciare; ero paralizzato. Il dolore mi aveva fatto toccare un limite a me sconosciuto, piangevo e pensavo che non ero tagliato per quella vita…”. Quanto influisce su di noi la condizione meteo? Chissà! Il mattino successivo a Rio Callegos il vento era scomparso, c’era una luce solare radente, brillante, l’aria era pulita e fresca. Andammo a prendere un caffè “cortado” e mi viene da pensare, ora che sto scrivendo, che qualcosa o qualcuno ci avesse messo lo zampino affinché le cose si aggiustassero, e Tiziano ritrovasse la sua serenità e vivesse due mesi, mi permetto di pensare, tra i più belli della sua vita. Tiziano ora guardava avanti, ed io ero entusiasta della piega che stavano prendendo gli eventi. Risoluto e deciso mi spronò a cercare la stazione degli autobus diretti a El Calafate e a prenotare il viaggio (tra i due solo io masticavo lo spagnolo), poi andammo a comperare tutto il cibo che ci sarebbe stato necessario per una lunga permanenza in montagna. Ritornò la sua contagiosa risata e ogni tanto affettuosamente mi sollevava da terra in una sorta di scherzoso abbraccio. Mi faceva sentire bene, ero felice! Diverse ore di autobus ci portarono in quello sperduto e mitico paese che prende il nome da una caratteristica bacca locale commestibile, il Calafate: una leggenda locale racconta che chi la mangia sia destinato a tornare. Il piccolo centro era composto da piccole e dignitose case, qualche baracca di lamiera e tutto era circondato da milioni di ettari di “pampa”. Tiziano davanti a questa infinita distesa rimase incantato, e mentre stavamo appoggiati ad uno steccato, come parlando a se stesso disse: “Quanta bella e buona terra!”. Due fratelli si avvicinarono e ci offrirono gentilmente il loro cortile dove poter montare la tenda e contemporaneamente un caffè, insieme ad una “dritta” per raggiungere le montagne. Sembrava che in cambio non volessero nulla e mi pare di ricordare che così fu. Al mattino infatti gratuitamente salimmo sul cassone di un camion con tutto il nostro bagaglio e dopo ore di polvere e vento giungemmo al termine della strada con gli occhi, oltre che pieni di polvere, saturi della visione stratosferica della nostra montagna che da svariati chilometri vedevamo svettare su tutta l’infinita “pampa”. seconda parte 127


Il Fitz Roy. Foto: M. Marcheggiani

Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO XVIII


Sopra, Tiziano sotto la crepaccia terminale del Fitz Roy. 1986. Sotto, Tiziano alla “fontana” del campo base del Fitz Roy. 1986. Foto: M. Marcheggiani

XIX


Marcheggiani e lo stupendo granito del pilastro Goretta. 2° giorno di scalata. 1986. Foto: Arch. Cantalamessa

Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO XX


Tiziano in sosta sulla via Franco-Argentina al Fitz Roy. 1986. Foto: M. Marcheggiani

XXI


tornò su e, anche se stravolto, chiamò i suoi colleghi del soccorso alpino comunicando dettagliatamente le coordinate per il soccorso. Con grande determinazione riuscì a portarci, in maniera non facile (eravamo tutti traumatizzati) al sicuro per i restanti 300 metri di canale fino in vetta. Eravamo al di sopra del ghiacciaio del Calderone quando dall’elicottero del soccorso ci informarono che avevano individuato i nostri compagni alla base della parete: per loro non c’era più niente da fare. Ognuno con il suo silenzio e dopo non so più quanto tempo, distrutti, ci ritrovammo a valle. Non nascondo che nel rievocare questo episodio vengo preso da un pianto incontrollato, per un ricordo che ancora oggi porto vivo dentro di me, di quegli amici e soprattutto di quella guida che ci aveva insegnato il suo grande “dare” e che rimarrà in modo indelebile nella mia mente”. Il racconto di Vincenzo è crudo, sincero: mette paura anche solo immaginare la terribile esperienza che tutti quei ragazzi devono aver vissuto, lo shock e il timore e la grande urgenza di uscire in vetta senza altri imprevisti drammatici; è una parete infinita quella. Si chiuse con quel terribile epilogo quella che doveva essere un gioiosa, seppur faticosa e impegnativa avventura. L’avventura di ragazzi appassionati, belli nel loro essere alpinisti in compagnia di quanto di meglio il mondo delle guide alpine poteva offrire: la conoscenza, la classe, la passione, l’affabilità di Tiziano! Tiziano quel giorno scese dal Paretone, dal Gran Sasso, dalla montagna che era stata la sua seconda casa e che aveva amato senza riserve, per l’ultima volta. Già lo sapeva, ne era cosciente. Scese un passo dopo l’altro: centinaia e centinaia di passi mai stati cosi pesanti, tristi, amari come non mai; ogni passo verso il basso sapeva essere l’ultimo, non ci sarebbero stati più passi in salita, non avrebbe lasciato mai più le sue impronte su quelle nevi immacolate né su quei sentieri scoscesi. Scendeva e sapeva già che le sue mani forti, grandi, belle e capaci non avrebbero più stretto con forza e passione, come fossero carezze, quelle rocce uniche. Scendeva senza mai voltarsi indietro, i suoi splendidi occhi non brillavano più. Scese fino a valle, posò per l’ultima volta il suo zaino, chiuse delicatamente alle sue spalle una porta invisibile. E lasciò la montagna. Poco più di un anno dopo, il 12 maggio del 1999 io ero in casa, stavo stirando. Me lo ricordo come fosse ieri. Squillò il telefono: - “Pronto?” - “Pronto Massimo, sono Angela da Ascoli. C’è stato un incidente… Tiziano”.

Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 186


“E nulla più rimane in questo spazio immenso solo gli aliti di vento a trascinar via lontano parole e sogni”. (da “Sulle sponde del fiume amico” Vincenzo Abbate)

seconda parte 187


RINGRAZIAMENTI

Caro Tiziano, nell’inverno passato sulla nostra montagna ci sono stati dei ragazzi, di cui uno veramente molto giovane, che hanno portato a termine una grande scalata, come quelle che facevi tu e che ci sbalordivano sempre. Quel tipo di alpinismo che dopo la tua salita al “Diedro di Mefhisto” non si era più visto. Questi ragazzi, Andrea Di Donato, Andrea Di Pascasio e il giovanissimo Lorenzo Angelozzi (usciti dopo tre giorni da “Fulmini e saette” sull’anticima del Paretone) ti hanno dedicato la loro ascensione. Sono stati grandi, sia nella loro impresa che nell’affettuosa attenzione nei tuoi confronti, nonostante non ti abbiano mai conosciuto di persona. Voglio iniziare a ringraziare loro, anche se ai fini del libro non c’entravano nulla, perché questa loro dedica è una chiara testimonianza di quanto tu sia ancora fortemente presente nei nostri pensieri e per dirti (e dire ai tuoi figli Riccardo e Valentina e a tua moglie Renata) che al di là di una enorme stima come alpinista, ti volevamo tutti quanti un bene immenso. Il mio ringraziamento principale è però per la tua famiglia, che mi ha permesso di scrivere questo modesto libro aprendomi ripetutamente la porta della vostra casa ad Ascoli, che a differenza della casa in campagna non avevo mai visto, mettendomi a disposizione la tua intimità, i tuoi pensieri e i loro racconti. Poi ci sono tua sorella Daniela, tuo fratello Tonino e soprattutto il tuo fratello “piccolo” Roberto, che con i suoi viscerali racconti mi ha trascinato in un vortice di dolore e di ulteriore conoscenza della tua vita, e dei tragici attimi in cui l’hai persa. Un grande aiuto poi mi è arrivato dai tuoi amici storici di Ascoli Piceno: Stefano Pagnini, Tito Ciarma, Alberico Alesi e Franchino Franceschi, che nonostante i tanti anni passati hanno rivisitato la loro memoria ricostruendo fatti ed emozioni, dando vita e particolarità a una buona parte del libro. Per lo stesso motivo sono grato a Silvia Marone e Marco Vallesi che hanno raccontato altri pezzi di storie vissute con te. Giuseppe Antonini, Guido D’Amico e sopratutto Giampiero Lacchè mi sono stati di grande aiuto nel ricostruire la dinamica del tuo incidente a Genga, del quale Renata sapeva molto poco ed io praticamente nulla. Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 188


Anche Vincenzo Torosantucci è stato determinante per ricostruire il drammatico incidente sulla via Jannetta al Paretone, e mi dispiace avergli creato un ulteriore dolore nel ricordare quella tristissima vicenda. Avendo forti dubbi sulle mie capacità letterarie, ho chiesto a Roberto De Luca, Marika Simeoni, Vincenzo Abbate e alla stessa Renata lo sforzo di leggere il libro nella stesura di massima per avere un giudizio critico e sincero, poiché non mi sarei perdonato se avessi messo in circolazione un guazzabuglio di parole. Li ringrazio di tutto cuore, perché non dubitando della loro onestà intellettuale, mi hanno incoraggiato con il loro giudizio positivo. Un grazie speciale ai miei figli Riccardo e Federico che, con infinita pazienza, mi hanno guidato nell’uso di un computer che ho appositamente acquistato per scrivere questo libro. Ancora grazie a Livia Steve, che per la seconda volta si è ritrovata impelagata a correggere le bozze di quest’altro mio libro lottando contro la mia grammatica dimenticata (o forse mai imparata). Un ringraziamento particolare va a Loretta Spaccatrosi: pur non avendoti mai conosciuto, da quando si è affacciata al mondo dell’alpinismo è sempre stata affascinata dalla tua figura, tanto che l’idea di un libro su di te è principalmente sua. Infine non io, ma tutti noi vogliamo ringraziare te Tiziano, per essere stato nostro compagno di cordata e per tutto quello che a tua insaputa ci hai trasmesso, da un semplice sorriso fino all’avventura totalizzante del vivere. Massimo Frascati, 20 novembre 2018

Ringraziamenti 189


POSTFAZIONE Grazie a mia madre per avermi messo al mondo A mio padre semplice e profondo Grazie agli amici per la loro comprensione Ai giorni felici della mia generazione Grazie alle ragazze, a tutte le ragazze Grazie alla neve bianca ed abbondante A quella nebbia densa ed avvolgente Grazie al tuono, piogge e temporali Al sole caldo che guarisce tutti I mali Grazie alle stagioni, a tutte le stagioni Ma che film la vita, tutta una tirata Storia infinita a ritmo serrato Da stare senza fiato Ma che film la vita, tutta una sorpresa Attore spettatore tra gioia e dolore Tra il buio e il colore Grazie alle mani che mi hanno aiutato A queste gambe che mi hanno portato Grazie alla voce che canta i miei pensieri Al cuore capace di nuovi desideri Grazie alle emozioni, a tutte le emozioni Ma che film la vita, tutta una tirata Storia infinita a ritmo serrato Da stare senza fiato Ma che film la vita tutta una sorpresa Attore spettatore tra gioia e dolore Tra il buio e il colore. (da “Ma che film la vita” di Augusto Daolio con I Nomadi)

Massimo Marcheggiani TU NON CONOSCI TIZIANO 190


Ascoltare questa canzone dalla voce di Augusto Daolio mi fa venire i brividi, da sempre. Mi da l’impressione che sia stata scritta ad immagine di Tiziano e di quanti come lui hanno vissuto e vivono nel modo più vivo la vita. Tiziano ha cavalcato la sua vita come un cow boy cavalca un cavallo da domare. Una vita, quella di Tiziano che non è stata affatto una passeggiata, anzi… ma come abbiamo potuto leggere, le stesse difficoltà del quotidiano erano vita, vita pura, vita vissuta. Ad oggi, mentre scrivo, sono 21 anni e 90 giorni che Tiziano non è più con noi. Restano validi tutti i ringraziamenti verso chi mi ha aiutato a scrivere questo libro su di Lui e in particolar modo Renata per la sua sempre presente disponibilità. Voglio aggiungerne però uno in particolare: grazie davvero agli editori di Versante Sud, che hanno voluto credere in questa riedizione dopo 10 anni, il che va ben al di là del ricordare la figura di Tiziano. Trovo che l’aspetto più importante e significativo sia la prosecuzione della storia degli alpinisti e dell’alpinismo nel tempo su carta stampata. A mio modestissimo parere un libro ha un valore immensamente più grande di qualsiasi articolo sulla rete. Un libro è materia: lo si tiene in mano, riempie uno spazio fisico, visibile, acquista un valore nel senso più completo del possesso. Tenere un libro di Storia è avere la stessa in casa, e quella degli alpinisti è storia di uomini particolari. Oggi il libro è nostro, domani sarà dei nostri figli, un domani più lontano sarà dei nostri nipoti e così avanti negli anni: il libro rimane! Massimo Marcheggiani Frascati, 12 Agosto 2020

Postfazione 191


Finito di stampare nel mese di ottobre 2021 da Tipolitografia Pagani (Brescia) per conto di Versante Sud Srl - Milano


COLLANA I RAMPICANTI Fabio Palma, Erik Švab

UOMINI & PARETI 16 incontri ravvicinati con i protagonisti del verticale

J. Baptiste Tribout, David Chambre

OTTAVO GRADO

Johnny Dawes

IO SUPERCLIMBER BEN LARITTI. STORIA DI UNA METEORA Martino Colonna, Francesco Perini Pat Ament UOMINI & NEVE JOHN GILL. IL SIGNORE DEL BOULDER Incontri ravvicinati con i protagonisti del freeride Ruggero Meles

Jerzy Kukuczka

IL MIO MONDO VERTICALE

Marco Kulot, Angela Bertogna

Tom Dauer

RICCARDO BEE Un alpinismo titanico

REINHARD KARL Senza compromessi

Andy Kirkpatrick

Paul Pritchard

Nick Bullock

Alberto Sciamplicotti

Alessandro Gogna

DEEP PLAY

QUELLI DEL PORDOI

Fabio Palma

SOLITARI

SULLA LINEA DEL RISCHIO ARRAMPICARE LIBERA

LA PIETRA DEI SOGNI Viaggio alla scoperta del freeclimbing nel mezzogiorno d’Italia Lia e Marianna Beltrami

David Torres Ruiz

ZANZARA E LABBRADORO Roberto Bassi e la nascita del free climbing in Valle del Sarca

Alain Robert

Ed Douglas

ANGELI DEL NANGA SPIDERMAN

Andy Cave

IMPARARE A RESPIRARE

Stefano Ardito

DOLOMITI GIORNI VERTICALI

Jeff Connor

DOUGLAS HASTON La filosofia del rischio Jim Bridwell

THE BIRD

Andrew Todhunter

DAN OSMAN. INSEGUENDO LA PAURA

Carlo Caccia, Matteo Foglino

UOMINI & PARETI 2 Incontri ravvicinati con i protagonisti del verticale Stefano Ardito

GIORNI DI GRANITO E DI GHIACCIO

Bernadette McDonald

TOMAŽ HUMAR Prigioniero del ghiaccio Carlos Solito

IL CONTRARIO DEL SOLE

Andy Cave

LA SOTTILE LINEA BIANCA

Osamu Haneda

YUJI THE CLIMBER

Stefano Ardito

GIORNI DELLA GRANDE PIETRA

Ron Fawcett

MI CHIAMAVANO BANANA FINGERS

BEN MOON Dal punk al futuro dell’arrampicata Alessandro Jolly Lamberti

RUN OUT Storie vere di paura, amore e scalata Lorenzo Tassi

CAMÓS

Kelly Cordes

CERRO TORRE 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra Alessandro Grillo

UN SOGNO LUNGO 5O ANNI Storie dell’arrampicata finalese 1968-2018 Enrico Rosso

SHIVA’S LINGAM Viaggio attraverso la parete Nord–Est Francesca Berardo

BLOCCAMI! L’arte di disarrampicare Mark Twight

CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER

Steph Davis

TRA VENTO E VERTIGINE Una vita sospesa tra amore e gravità Tilmann Hepp

WOLFGANG GÜLLICH. ACTION DIRECTE

Massimo Marcheggiani

PORTO I CAPELLI COME WALTER B.

Nejc Zaplotnik

LA VIA

Giuseppe “Popi” Miotti

Stéphanie Bodet

SALTO ANGEL

LA VIA DEL TARCI Tarcisio Fazzini, genio del granito

Andy Kirkpatrick

Silvo Karo

PSYCHO VERTICAL

Bernard Vaucher

QUEI PAZZI DEL VERDON

Fulvio Scotto

SCARASON

ROCK’N’ROLL ON THE WALL Autobiografia di una leggenda Chantal Mauduit

ABITO IN PARADISO

Maurizio Giordani

Tony Howard

IL RICHIAMO DELL’IGNOTO Oltre quarant’anni di ricerca e scoperta alpinistica

Bernadette McDonald

Jerry Moffatt

Jochen Hemmleb

Marcin “Yeti” Tomaszewski

LA MONTAGNA DEI FOLLETTI VOLEVAMO SOLO SCALARE IL CIELO NANGA PARBAT 1970

TOPO DI FALESIA TATO


“Certi uomini a forza di vivere le dimensioni verticali di questo mondo, sono cresciuti così tanto da assumere la statura stessa delle montagne. Uomini che hanno insegnato a esplorarle e che hanno guidato altri su una via dagli orizzonti sconfinati. È ad uno di essi che sono dedicate queste pagine: a Tiziano Cantalamessa, maestro e guida, nella montagna e nella vita”. — Giuseppe Antonini, Figlie dell’acqua e del tempo

€ 20,00

ISBN 978 88 55470 353


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