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N° 6 - Marzo 2021 - Supplemento del periodico Valsugana News
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Periodico GRATUITO di Informazione, Cultura, Turismo, Spettacolo, Cronaca, Attualità, Tradizioni, Storia, Arte.
A PAG. 22 LA NUOVA RUBRICA “LA PAGINA VERDE” A CURA DEL VIVAIO SCARIOT A PAG. 51 SPECIALE PATTINAGGIO ARTISTICO FELTRE
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Punto & a capo di Waimer Perinelli
Mario Draghi il PREDESTINATO BUROCRAZIA PERMETTENDO È arrivato Draghi! Un coro lo accoglie, un saluto tanto partecipato ed elevato da cancellare all’istante ogni perplessità. In Parlamento una maggioranza schiacciante e in grado di relegare al ruolo di briciole, stelle cadenti, schegge inconsistenti le defezioni del partito che fino a ieri era il più numeroso. L’ Italia è in festa. L’Europa festeggia il neo presidente del Consiglio, il primo Ministro.
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arrivato Draghi e come la Primavera descritta in poesia da Cesare Pavese “Sarà un volto chiaro. S’apriranno le strade sui colli di pini e di pietra...”. Il cielo, se parlasse, potrebbe dire quanto l’ Italia ne abbia bisogno nella scuola, lavoro, giustizia, componenti sociali sopra cui regna purtroppo la Burocrazia. Già nell’Ottocento Carlo Marx accusava la burocrazia di essere il male della Società. Per burocrazia s’intende normalmente il groviglio di leggi, spesso in attesa delle norme di attuazione, in cui si confondono e schiantano le buone intenzioni di chi vuole lavorare, produrre, investire, viaggiare. Massimo Gramellini, editorialista del Corriere della Sera, ha recentemente ricostruito il viaggio di una pratica scoprendo come nel caso descritto, ma ciascuno di noi ne conosce almeno altri due, il percorso fosse circolare . Un serpente che si morde la coda. Accade cioè che si possano passare alcune ore in un ufficio pubblico per individuare la persona competente e scoprire, dopo una lunga fila, di essere allo sportello sbagliato e che quello giusto è lo sportello accanto, dove c’è un’altra lunga fila di cui si è l’ultimo arrivato. “ Colpirò la burocrazia lumaca “ ha detto Draghi nel discorso sulla fiducia pronunciato al Senato e poi ha sottolineato come:«Sono proprio la farraginosità degli iter e la moltiplicazione dei passaggi burocratici la causa di inaccettabili ritardi, ma anche il terreno fertile in cui si annidano e prosperano i fenomeni illeciti». Nella lotta contro
gli illeciti nella Pubblica Amministrazione c’è in prima fila la Corte dei Conti. Draghi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte , di cui ha sottolineato il ruolo di custode della legalità, ha ribadito che i controlli devono essere “ efficienti, rapidi e intransigenti”. Tre qualità strettamente connesse non sempre presenti. “ Un Paese capace di attrarre investitori anche internazionali, deve difendersi dai fenomeni corruttivi che rappresentano un veicolo di ingerenza criminale anche da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza», ha scandito il premier tra gli applausi. E ha aggiunto: «Ieri a proposito dello sviluppo del Mezzogiorno ho detto che sì, c’è il credito d’imposta, ma la prima cosa è assicurare legalità e sicurezza». Per Draghi la “ semplificazione della burocrazia e la trasparenza sono le basi di una efficace politica di prevenzione, nella lotta alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose. Sono temi che il Presidente del Consiglio, massimo esperto di finanza, ben conosce. Mario Draghi, colui che alcuni giornali si sono affrettati a definire, senza ironia, “il Predestinato”, per la fulgida carriera scolastica e lavorativa, ha vissuto nel mondo delle banche e sa benissimo che non sono istituti di beneficenza. Conosce l’attrazione che esse esercitano per gli investitori e fra di loro gli speculatori contro i quali, nella lotta, sono indispensabili trasparenza e semplificazione burocratica perché pro-
prio nella lentezza e complessità decisionale si annidano gli illeciti . Ma la burocrazia non è fatta solo di leggi, anzi è fatta soprattutto di uomini ed essi sono sensibili al potere e quello, specie se malavitoso, nasce e si sviluppa nella disinformazione, nella trasformazione dei dettati della legge in oscuri codicilli da azzeccagarbugli. Burocrazia, leggi, norme di attuazione e uomini sono spesso una cosa sola, non si cambia la prima senza incentivare o colpire i secondi. Come si dice nel girare una scena cinematografica: buona la prima, ma siamo ai ciak iniziali. Il copione già vede alcuni fuoriusciti dal coro e altri che s’interrogano sulla validità dello spartito. Auguri a Mario Draghi, il predestinato.
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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 Email: direttore@valsugananews.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Corni (Turismo, storia e tradizioni). dott. Maurizio Cristini (Enologo ed esperto in giochi ed enigmistica) Laura Paleari (moda e costume) - dott.ssa Laura Fratini (Psicologa) Veronica Gianello (Storia, arte,cultura e tradizioni) dott.ssa Alice Vettorata - dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri- USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Paolo Rossetti (Attualità, inchieste) - Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott.ssa Alice Rovati (Responsabile Altroconsumo) dott. ssa Chiara Paoli (storica dell’arte - ed. museale -cultura e tradizioni) Francesco Zadra (Attualità) - dott. Zeno Perinelli (Avvocato) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, attualità) Ing. Grazioso Piazza - dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Monica Argenta - dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) dott. Casna Andrea (Storia, cultura, tradizioni) Caterina Michieletto CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA dott. Francesco D’Onghia - dott. Alfonso Piazza dott. Marco Rigo . dott. Giovanni D’Onghia RESPONSABILE PUBBLICITÀ: Gianni Bertelle Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it
EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di marzo di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 4 del 16/04/2015. COPYRIGHT -Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro pubblicato su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Marzo 2021
Punto & a capo: Mario Draghi
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Tra passato e presente: Paolo Mantegazza
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Sommario
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La solidarietà del calcio amatoriale
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Sua Eminenza don Renato Marangoni
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I rischi online per i più piccoli
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Federico D’Incà, Ministro
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Pandemia, la riscoperta della montagna di mezzo
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Nel Governo Draghi due Ministri bellunesi
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Violenza nei festini di Alberto Genovese
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Belluno e Trento, amiche e rivali
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Il personaggio: Erri De Luca
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La burocrazia viaggia a due velocità
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Medicina & Salute: gli attacchi di panico
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La nuova rubrica: la PAGINA VERDE
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Medicina & Salute: quando l’emozione diventa cibo 76
Le Foibe, per non dimenticare
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Le parrocchie da incubo
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Il giorno del ricordo
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Vado a vivere in montagna
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Foibe, la mia testimonianza di vita
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Innovazione tecnologica: due o quattro ruote?
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Paolo Doglioni, presidente di Confcommercio
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Storie di casa nostra: l’ultimo anno di guerra
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E se vincessereo le donne?
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Non solo animali: il coniglio
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Covid 19, un anno di pandemia
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Giovani e Societa’: Amanda Gorman
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Quando Goldoni fu a Feltre
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Decluttering: la magia del cambiamento
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La missione educativa dei genitori
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Che tempo che fa : 2020 un anno caldo
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Cesare Maldini, l’inizio di una dinastia
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Girovagando in USA: il sito di Chillicothe
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Le illusioni nella pittura
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La licantropia e il lupo mannaro
Sonja Henie, la regina del ghiaccio
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Alimentazione oggi: aumentano i celiaci
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SPECIALE PATTINAGGIO ARTISTICO FELTRE
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Il DUC: Documento Unico di Circolazione
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Mobilità, lavoro e pandemia
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Altroconsumo risponde: il diritto di recesso
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Sua Eminenza don Renato Marangoni Pagina 7
Le Foibe Per non dimenticare Pagina 23
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Don Renato e la sua Chiesa in cammino di Franco Zadra
Una “fontana vivace” di speranza La diocesi Belluno-Feltre ha appena 35 anni, ma viene da una storia diocesana lunga quindici secoli durante i quali altri territori provenienti da altre comunità diocesane sono confluiti a costituire l’attuale assetto che dal VI al XIII secolo vedeva due distinte diocesi, di Belluno e di Feltre; dal 1200 al 1462, pur rimanendo due strutture giuridiche distinte le due diocesi sono sotto la guida di un unico vescovo, con un intervallo, dal 1462 al 1818, quando tornano ad avere ognuna un proprio pastore, per poi ritornare sotto un’unica guida dal 1818 al 1986, anno nel quale vengono fuse insieme e nasce la diocesi di Belluno-Feltre. 158 sono le parrocchie, raggruppate in sei “convergenze foraniali” e solo venticinque di queste hanno il loro parroco, mentre le altre sono raggruppate in gruppi da due e fino a otto, con un parroco in comune.
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on è impresa facile dare conto di una vita, tanto più se così particolare - vorremmo dire “speciale” - come quella della Chiesa di Belluno-Feltre – ma la lunga telefonata che il Vescovo, don Renato Marangoni, ci ha concesso all’inizio di questa Quaresima, ci ha lasciato la bella impressione che l’accosta nei nostri ricordi scolastici all’immagine che fu attribuita da Dante Alighieri alla Madonna, «se’ di speranza fontana vivace». Una “fontana vivace” di speranza è la diocesi tra le Dolomiti guidata da don Renato, alla quale tutti sono nella possibilità
di abbeverarsi, anche in questo tempo così complicato e difficile che chiamiamo pandemia, caratterizzato da un senso diffuso di incertezza e disorientamento, e che in molti siamo tentati di giudicare sull’orlo di una crisi disperante. È certo nostro lavoro andare a caccia di notizie, incontrare persone, dissotterrare fatti, imbastire storie, per mettere in contatto il lettore con il mondo là fuori ed essere un veicolo della realtà. Ma l’incontro con don Renato è stato molto di più di questo. Nella sua omelia nell’Eucaristia con i giornalisti il 24 gennaio scorso, giorno di San Francesco di Sales, al Centro diocesano “Giovanni XXIII”, don Renato, riprendendo il messaggio di papa Francesco per la 55ma Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, richiamava l’esperienza dei due discepoli di Giovanni Battista che guardano a Gesù, lo seguono e lo incontrano, accogliendo l’invito a “venire e vedere” (Gv 1,39), per mostrare il metodo, la “regola generale”, di ogni autentica comunicazione umana. Don Renato stesso lo sentiamo un esperto del «comunicare incontrando le persone dove e come sono», dedicandoci molto più tempo di quanto avevamo richiesto e
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Don Renato e la sua Chiesa in cammino
avremmo mai sperato di avere, in ragione dei suoi numerosi impegni. «C’è un modo di essere giornalisti – diceva ancora don Renato in quella sua omelia – che si forma alla scuola del primo eccezionale “giornalista evangelico” che fu Marco, il quale porta a fare esperienza di ciò che è avvenuto e conduce alle soglie di una verità di vita che non è chiusa, definita, ti porta dinnanzi ai fatti e ti lascia lì ad incontrare le persone dove e come sono». Nell’incontro con don Renato tutto questo è diventato semplice esperienza, corrispondendo del tutto allo stile giornalistico al quale come testata aspiriamo e che trova corrispondenza e prezioso orientamento nel messaggio di Papa Francesco, citato da don Renato, che elenca i caposaldi della comunicazione ispirata ai vangeli. «Voci attente– scrive il Papa – lamentano da tempo il rischio di un appiattimento in “giornali fotocopia” o in notiziari tv e radio
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e siti web sostanzialmente uguali, dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, “di palazzo”, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società. Il “vieni e vedi” è il metodo più semplice per conoscere una realtà. È la verifica più onesta di ogni annuncio, perché per conoscere bisogna incontrare, permettere che colui che ho di fronte mi parli, lasciare che la sua testimonianza mi raggiunga». E conclude «tutti siamo chiamati a essere testimoni della verità: ad andare, vedere, e condividere». La realtà della Chiesa di Belluno-Feltre, che voi lettori - certamente più di chi scrive -
vivete ogni giorno da protagonisti, o da semplici osservatori, potrà forse sollecitarvi ad accorgervi con meraviglia di quello che qualcuno ha definito come «il miracolo che travolge il mondo», cioè, «che della gente estranea si tratti come fratelli e sorelle». A proposito di fratelli, le parole scelte dal Vescovo Renato per il proprio motto episcopale, così come si ritrova anche nel sito della Diocesi (www.chiesabellunofeltre. it), si rifanno al quarto Vangelo laddove l’evangelista Giovanni narra dell’incontro del Risorto con Maria di Màgdala e, in particolare, dell’esortazione di Gesù affinché la donna si rechi subito dai discepoli per annunciare che egli – “primogenito di una moltitudine di fratelli” (cfr. Rm 8,29) – ha compiuto la missione affidatagli dal Padre. Per questo egli dice a Maria: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17b). Con la Pasqua di Gesù si attua la salvezza: che tutti siano “innalzati” a Dio. L’attenzione è sul Risorto: egli si fa incontro a Maria che sta cercando il corpo di Gesù, la chiama per nome e si fa da lei riconoscere. Questa stessa esperienza di incontro con lui è all’origine dell’invio che Maria di Màgdala accoglie nel portare la buona notizia al gruppo dei discepoli ancora bloccati ed esitanti a motivo del loro non comprendere. I discepoli accolgono infatti
Don Renato e la sua Chiesa in cammino
da lei l’annuncio che Gesù è risuscitato ed è salito al Padre. Nelle parole dette dal Maestro a Maria Maddalena e nella sua esperienza di incontro con lui vi è l’oggi della Chiesa, il suo essere inviata a portare il vangelo della Risurrezione. Gesù risorto chiama “suoi fratelli” i discepoli: è il nuovo legame pasquale a cui siamo invitati perennemente, aperto a tutti; è l’impegno quotidiano di ogni comunità di discepoli di Gesù. Nella Prima Lettera di Giovanni è attestato: “La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo” (1Gv 1,3). L’annuncio del fatto decisivo del Cristianesimo - Cristo è risorto - è stato affidato a una donna che proprio per questo viene ricordata come “Apostola degli Apostoli”, «un dato – dice don Renato – che abbiamo forse un po’ tradito con l’insistenza retorica sui dodici Apostoli». Questi, per altro, non hanno creduto subito alla testimonianza delle donne e Gesù l’ha vista in faccia la loro incredulità (cfr. Mc 16,14). «L’espressione “va dai miei fratelli” - dice ancora don Renato - è per me una chiave
interpretativa per leggere tutto il resto, il senso dell’essere Chiesa oggi, un andare non per conquistare ma per condividere, per portare i pesi gli uni con gli altri. Purtroppo lungo la storia cristiana, nel tentativo di spiegarci tutto del vangelo, è stata fatta un po’ di confusione riguardo alla figura di Maria di Magdala che abbiamo identificato con la sorella di Marta e di Lazzaro e anche con l’adultera della quale nel vangelo si racconta che unse Gesù. Maria di Magdala è tuttavia una figura che permette alla Chiesa di “dislocarsi”, “scendere dal monte” e cogliere di più le dinamiche umane, esistenziali, della vita. Di lei mi ha sempre colpito quell’incontro con il Risorto, quel suo piangere davanti alla tomba vuota, quel suo cercare Gesù nel quale ha trovato una persona che l’ha capita nel profondo, anche liberata da tante situazioni che sono tipiche della nostra condizione umana. Maria di Magdala aveva un grande
amore per Gesù e lo dimostra in quel primo incontro dopo la Resurrezione nel quale Gesù la chiama per nome. Il Cristianesimo ha senso se è fatto di questo calore, di questa profondità di conoscenza dell’altro. Gesù non è un’idea, non è una filosofia, né una morale o una regola di vita, ma è una persona che si incontra. Questo ci dice anche che più entriamo nel rapporto vivo e vero con le persone e più scopriamo la novità del Vangelo che non tramonta». Una Chiesa in cammino dunque, quella di Belluno-Feltre, che sta ripensando su come lasciarsi ispirare dal vangelo e rapportarsi con le complicazioni e le situazioni nuove di oggi, anche in rapporto alle nuove generazioni dove c’è una certa fatica. Il Vescovo non la nasconde, ma dove dei giovani sono coinvolti in questo ripensamento, essi divengono motivo di fiducia e di speranza, nonostante la situazione diffusa nel territorio sia di deriva su tanti aspetti. «Quattro seminaristi – conclude don Renato – si stanno preparando al ministero nel Seminario interdiocesano di Trento». Numeri piccoli, ma comunque realtà presente che dà forza a una grande speranza.
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La politica di casa nostra di Nicola Maccagnan
Federico D’Incà, Ministro
nuovi Rapporti con il Parlamento.
Quarantacinque anni compiuti da poco, Federico D’Incà è uno dei pochi ministri riconfermati da Mario Draghi nel governo subentrato al Conte-bis. Sulle sue origini trichianesi e sulla straordinaria compresenza di due ministri provenienti dalla stessa piccola località bellunese (l’altro è il nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco), in questi giorni si è detto e scritto molto (ce ne occupiamo anche in altro articolo di questo numero di Feltrino News). Laureato in economia e commercio all’Università degli Studi di Trento, attivista del Movimento 5 Stelle già dalla prima ora, D’Incà è stato eletto alla Camera dei Deputati nel 2013 e quindi riconfermato alle elezioni del 2018, assumendo poi l’incarico di Ministro per i Rapporti con il Parlamento
nel secondo governo Conte nel settembre del 2019 e, quindi, anche nel nuovo esecutivo Draghi. Un incarico che rappresenta, di fatto, l’anello di congiunzione tra l’attività del governo e quella delle Camere, con un ruolo strategico ancor più in una fase delicata come quella attuale - certamente non banale. Tanto più rispetto alle attese di un territorio, quello della Provincia di Belluno, dove da anni, o meglio da decenni, si intrecciano attese di sviluppo e rilancio, non soltanto economico. Con quali aspettative di concreto realizzo sul piano dell’azione di governo? Lo abbiamo chiesto allo stesso ministro D’Incà. Ministro, confermarsi, come sappiamo, è spesso più difficile che affermarsi. Quale pensa sia la chiave che l’ha portata ad entrare anche nel governo del presidente Draghi? Personalmente ho sempre dialogato con tutte le forze politiche cercando di portare a termine ogni provvedimento lavorando con una costante azione di raccordo tra Parlamento e Governo. Il confronto continuo rimarrà alla base del mio nuovo mandato. Credo, inoltre, che il precedente Governo abbia dato risposte importanti al Paese in
un periodo di estrema difficoltà provocato dalla pandemia: penso a tutte le risorse messe in campo a sostegno del lavoro, delle imprese, delle attività che sono rimaste chiuse a causa delle restrizioni. Le attività produttive del Veneto, per esempio, hanno ricevuto oltre 900 milioni di euro a fondo perduto, quelle del bellunese 35 milioni. Sul tema dei ristori, chiaramente, continueremo a lavorare con il massimo impegno. La presenza di due ministri bellunesi (e trichianesi) nell’esecutivo sta generando nel nostro territorio molte aspettative. C’è una “promessa” che si sente di fare (ovvero lungo quali direttrici immagina il futuro della nostra provincia)? Io credo sia necessario proseguire il percorso avviato nel territorio: mettere in sicurezza le infrastrutture, migliorare i collegamenti, proteggere il nostro tessuto manifatturiero e lavorare con decisione per la digitalizzazione che è una leva fondamentale per le nostre imprese e per le nostre comunità. L’attenzione si deve concentrare anche sulla sanità territoriale in modo che possa garantire i migliori servizi al cittadino e su un’offerta turistica ancora più vincente, in grado di abbracciare i grandi eventi, come quelli sportivi che stanno dando lustro alla nostra provincia. Nel Bellunese e in Veneto, come ben sa, il focus è puntato da tempo sul tema dell’autonomia. E’ un argomento nell’agenda di questo governo e se sì con quali tempi e modi? L’argomento sarà ripreso con attenzione una volta finita la fase emergenziale. Il percorso era già stato avviato dal governo Conte e c’è la piena volontà di dare la giusta risposta ai cittadini del Veneto che si sono chiaramente espressi su questo tema. Lei è Ministro dei Rapporti con il Parlamen-
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La politica di casa nostra
to. Viviamo anni di grande disaffezione dalla partecipazione attiva dei cittadini rispetto alla politica, ma anche all’amministrazione locale. Che cosa si sentirebbe di dire a questo riguardo soprattutto ai più giovani? Ai giovani dico di appassionarsi il più possi-
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bile alla vita pubblica delle nostre comunità, dialogando e confrontandosi sempre in maniera costruttiva. È questa la chiave per riuscire a risolvere i problemi ed è questa la base per guardare al futuro. Come ho più volte sottolineato, i nostri ragazzi vanno sem-
pre valorizzati: rappresentano una risorsa straordinaria su cui dobbiamo continuare a investire. In conclusione, realisticamente, che augurio si sentirebbe di fare al nostro Paese e al Bellunese a breve e medio/lungo termine? L’augurio immediato è quello di rimanere uniti per potere vincere assieme la difficile sfida del Covid, in modo da potere ritornare definitivamente alla vera normalità. Il nostro è un Paese capace di affrontare i sacrifici e di reagire di fronte alle situazioni avverse, quindi mi auguro che l’Italia e la nostra provincia sappiano ancora una volta rimboccarsi le maniche per ripartire con forza e per mettere in luce le nostre straordinarie qualità. Lo abbiamo dimostrato in occasione degli ultimi Mondiali di Sci, un evento che si è svolto nel corso della pandemia e che ha restituito grande visibilità al territorio e lo faremo per le prossime Olimpiadi invernali del 2026.
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FELTRINO NEWS è un periodico mensile distribuito gratuitamente in tutti i comuni della Vallata Feltrina È stampato in 5mila copie con una foliazione di 96/104 pagine tutto a colori e su carta patinata con formato 23cm x 31cm. FELTRINO NEWS è un free-press non schierato politicamente e quindi suo precipuo compito è quello di dare una corretta informazione e giusta narrazione dei fatti, degli eventi e degli avvenimenti, siano essi politici, sociali, culturali o economici. La redazione di FELTRINO NEWS è formata da 18 collaboratori di cui 1 avvocato, 2 psicologhe e una corrispondente dagli USA. La consulenza medico-scientifica è garantita da 4 medici. FELTRINO NEWS viene posizionato in oltre 240 punti quali edicole,
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Politicando di Alex De Boni
Nel Governo Draghi due ministri bellunesi
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l 17 e 18 febbraio il governo Draghi, che ha ottenuto la fiducia al Senato e alla Camera dei Deputati, ha concretizzato una grande indubbia sorpresa positiva, ma allo stesso tempo sorprendente, per il territorio bellunese. Infatti nel nuovo Consiglio sono stati nominati due ministri originari di Trichiana di Borgo Valbelluna. Un evento più unico che raro che vedrà protagonisti il politico grillino Federico D’Incà ed il tecnico Daniele Franco. Per D’Incà, deputato eletto nelle fila del movimento 5 stelle, si tratta di una riconferma nel medesimo ruolo di ministro dei rapporti con il parlamento che gli era stato affidato durante il governo giallorosso del Conte Bis. Franco è invece una new entry scelta in prima persona da Mario Draghi che avrà il delicato ruolo di guidare il ministero dell’economia. Conosciamoli meglio.
FEDERICO D’INCÀ
Residente a Trichiana, è laureato in economia all’Università di Trento, ha lavorato
in qualità di analista di sistemi di gestione informatica, mentre in precedenza era
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capo settore in un’azienda di grande distribuzione organizzata e responsabile del sistema qualità in una realtà di robotica e automazione. Nel 2013 inizia la sua carriera politica con la candidatura per il Movimento 5 Stelle alle elezioni nazionali, in cui è stato eletto deputato nella circoscrizione VIII Veneto 2. Prima capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera dei deputati, poi presidente del gruppo parlamentare, nel 2016 ha ricoperto il ruolo di vice presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. E nel 2018 è stato rieletto nuovamente sempre con il gruppo fondato da Beppe Grillo e Casaleggio. In un intervista rilasciatami recentemente spiegava così il suo compito ministeriale: “Mia figlia mi ha detto che lei voleva io fossi il ministro dei bambini piccoli. Questo è un po’ il modello che seguo in questa avventura. Il mio ruolo è quello di operare nella calendarizzazione, ossia portare i provvedimenti del Governo alle due Camere, quella del Senato e quella dei De-
putati. Questo permette un procedimento migliorativo, un forte coordinamento con i gruppi parlamentari, in modo tale che vi sia una buona integrazione tra il potere legislativo e quello esecutivo. Io coordino e medio il lavoro delle camere, decido i tempi e mi rapporto con tutti i gruppi
parlamentari, affrontando problematiche e discussioni”.
DANIELE FRANCO
Originario di Trichiana, Franco riveste dal 2019 il ruolo di direttore generale della Banca d’Italia. Dopo la laurea in Scienze politiche a Padova, ha ottenuto diversi master (in organizzazione aziendale sempre a Padova, in economia all’Università di York, in Gran Bretagna). Il suo prestigioso curriculum vede l’ingresso in Bankitalia nel 1979, dove venne assegnato al Servizio Studi fino al 1994. Successivamente, dal 1994 al 1997 è stato consigliere economico alla Direzione generale degli Affari Economici e Finanziari della Commissione Europea. Nel frattempo, ha presieduto il gruppo di
Politicando lavoro di finanza pubblica del Sistema Europeo di Banche Centrali. Ha pubblicato libri in materia di spesa pubblica, sistemi di protezione sociale e regole fiscali europee; ha scritto poi saggi in materia di politica di bilancio, federalismo fiscale, contabilità generazionale, tassazione delle attività finanziarie e distribuzione dei redditi. Subito arrivate le prime reazioni ufficiali dagli enti locali, in primis il presidente della Provincia Roberto Padrin che sottolinea l’eccezionalità dell’evento: “Si aprono prospettive quanto mai allettanti per il nostro territorio. È la prima volta nella storia della Repubblica che la provincia di Belluno può esprimere due ministri. È un’occasione unica per agganciare il rilancio post
Covid e anche per programmare il futuro della montagna a lungo raggio”. Soddisfazione espressa anche dal comune di Borgo Valbelluna attraverso i propri canali social: “Buon lavoro a Federico D’Incà e Daniele Franco, entrambi di Trichiana e Ministri nel nuovo governo di Mario Draghi. Un grande orgoglio per la nostra Comunità di Borgo Valbelluna”. Infine l’intervento di Oscar De Bona, presidente dell’Associazione Bellunesi nel Mondo: “ Daniele Franco ci riempie di orgoglio perché fa parte del mondo dell’Abm e della Famiglia Bellunese di Roma presieduta da Vittoriano Speranza. Inoltre nel 2017, a Ponte nelle Alpi, abbiamo avuto il piacere e l’onore di conferirgli il premio internazionale “Bellunesi che onorano la provincia di Belluno in Italia e all’estero”. Per i tanti amici che ha ancora ha a Trichiana e a Mussoi, sono certo che ci sarà l’occasione di averlo in visita nella nostra sede”.
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Alti e bassi nella politica di Walter Laurana
BELLUNO e TRENTO AMICHE e RIVALI Le province di Trento e Belluno sono come mani intrecciate fra le Vette Feltrine e la catena del Brenta. Ad unirle la storia con le Diocesi di Feltre e Trento, le tradizioni alpine. A dividerle le rivalità economiche e sportive, ed ora anche la politica con due ministri bellunesi e nessun trentino nella stanza dei bottoni.
B
elluno mai così in Alto
C’è qualcosa di magico a Trichiana, frazione del comune di Borgo Valbelluna, nella provincia di Belluno. Una magia politica che nel 1999, alla soglia del Duemila, ha portato Aldo Brancher, classe 1943, ad entrare nei governi Berlusconi con l’incarico di Sottosegretario nel Dipartimento per le Riforme Istituzionali e, sia pure per 17 giorni, Ministro alla Sussidiarietà. Oggi questa frazione di quasi cinquemila abitanti è nuovamente al centro della politica veneta che vede quattro ministri nel governo di Mario Draghi e, due di questi, sono originari di questa piccola località. Di loro parliamo ampiamente nelle pagine dedicate a Daniele Franco neo ministro all’economia e Federico D’Incà, già ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Conte dal 5 settembre 2019 al 2021. D’Incà era subentrato in questo importante ministero
a Roberto Fraccaro, veneto di Montebelluna in provincia di Treviso, ma eletto nel collegio proporzionale del Trentino Alto Adige. Fraccaro, già ministro nel governo Conte uno dal 1º giugno 2018 al settembre 2019, dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021 ha ricoperto la carica di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E con questo incarico è stato l’ultimo dei trentini, si fa per dire, nelle compagini governative.
Trentino mai così in basso.
Eppure il Trentino è stato un faro nella politica italiana. Una provincia di nemmeno 500 mila abitanti, un sesto del Comune di Milano, ha espresso il primo Presidente del Governo della Repubblica italiana, Alcide Degasperi che è stato anche l’ultimo del Regno. Degasperi, Pieve Tesino 1881, è stato Presidente del Consiglio di otto governi. Il primo nel dicembre 1945 fu anche l’ultimo del Regno d’Italia, si dimise dopo il referendum del 2 giugno 1946 con la vittoria della Repubblica ed Enrico De Nicola, Capo provvisorio della Stato, lo incaricò di formare il primo governo repubblicano. Fu presidente di altri sei governi fino all’agosto del 1953. E’ il periodo fonda-
mentale per la ricostruzione del Paese. Con la prudenza e concretezza della gente di montagna, comune anche ai bellunesi, Degasperi guidò l’Italia verso l’alleanza Atlantica e la Comunità europea. Dopo di lui, ma non in una classifica bensì nella memoria, Flaminio Piccoli il quale fu ministro delle Partecipazioni Statali dal 1970 al 1972 e fece da apripista al torrentello di politici trentini entrati nei governi successivi. Beniamino Andreatta, economista, nato a Trento nel 1928; Giorgio Postal, Trento 1939,sei legislature e sottosegretario; Luciano Azzolini, Ala 1949, è stato sottosegretario in due governi. Mario Raffaelli, primo non democristiano ad entrare in una compagine governativa. Non è democristiano e nemmeno trentino, ma qui eletto, Giancarlo Innocenzi, sottosegretario con Berluscni. Così come non è democristiano, ma la Dc è morta e sepolta, Maurizio Fugatti, originario di Avio, eletto con la lega, sottosegretario alla salute, dimessosi per assumere la presidenza della Giunta della Provincia autonoma. Se autonomia significa lontananza da Roma allora l’obiettivo è raggiunto.
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Italia oggi di Caterina Michieletto
La BUROCRAZIA VIAGGIA a DUE VELOCITÀ
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avigare nel “mare” della burocrazia comporta cavalcare onde e affrontare tempeste che possono rallentare se non impedire il raggiungimento di obiettivi strategici per la collettività. Una metafora che vuole descrivere la gestione burocratica del territorio italiano e un tentativo di rispondere a quella domanda che è da tutti posta: se la burocrazia è nata come modello che avrebbe dovuto rendere più razionale l’attività amministrativa, perché essa ha prodotto più difficoltà e posto maggiori limiti di quelli che ha risolto? C’è da chiarire una verità che è sotto gli occhi di tutti e cioè che la burocrazia in Italia viaggia a due velocità… Da un lato c’è un binario ad alta velocità che dimostra come la macchina burocratica sia un ingranaggio che può funzionare ed è su questa traiettoria che vediamo opere pubbliche realizzate in tempi ragionevoli, manutenzione adeguata delle infrastrutture e
degli edifici, investimenti pubblici per rispondere prontamente alle esigenze della collettività radicata sul territorio. Ne è un esempio la ricostruzione del ponte di Genova. Dall’altro lato c’è un binario che prima di giungere a destinazione deve fare molte fermate e con fatica raggiunge ogni stazione. Su questa direzione si incrociano opere pubbliche programmate e progettate ma poi non portate ad esecuzione, gli “edifici incompiuti”, i disastri idro-geologici causati non solo da eventi atmosferici imprevedibili, ma anche dalla scarsa prevenzione e da controlli tecnici sporadici. Indagare le cause dell’inefficienza nella gestione burocratica del territorio significa in primo luogo focalizzare la disciplina normativa dei lavori pubblici. Il riferimento è al Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n.50/2016 che ha dato attuazione alle direttive europee del 2014 relative all’aggiudicazione dei
contratti pubblici di concessione e di appalto. Da questo primo dato si ricava l’importanza che la normativa dell’Unione Europea ha assunto in questa materia sotto due profili: innanzitutto trasparenza e pubblicità del procedimento di affidamento dei lavori pubblici, per garantire che le imprese intenzionate ad aderire al bando possano partecipare in un regime di tutela della concorrenza e di parità di trattamento; in secondo luogo l’attenzione alle esigenze di contabilità pubblica, dal momento che si tratta di risorse provenienti dal gettito fiscale e quindi dai contribuenti. Posta questa panoramica sui contratti pubblici è giunto il momento di mettere a fuoco le situazioni in cui queste procedure esplicite sulla carta si scontrano con la realtà della burocrazia che rallenta ed in certi casi distrugge. In Italia molti opere pubbliche strategiche sono finanziate dai fondi strutturali dell’UE, ossia investimenti che l’UE indirizza ai Paesi membri per sostenere lo sviluppo economico mirando in ogni intervento alla sostenibilità ambientale. L’Italia ha ricevuto 44 miliardi di euro come fondi strutturali prima della pandemia covid-19 e paradossalmente si è riusciti a mettere a frutto solo il 30,4 % di questa pacchetto di finanziamenti. Sulla base dei piani di sviluppo finanziati dall’UE le pubbliche amministrazioni interessate avviano la procedura per individuare le imprese offerenti, valutarne le offerte, verificarne i requisiti di partecipazione e concludere
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con l’aggiudicazione all’impresa che ha presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa, non solo in base a valutazioni dei costi, ma considerando la qualità complessiva della prestazione che viene offerta. Perché nonostante i fondi pubblici, sia nazionali che europei, nonostante questa procedura articolata, le imprese offerenti restano per anni in attesa
di un riscontro? Quello che frequentemente accade sono inceppi burocratici: ci si riferisce a ritardi clamorosi nella pubblicazione delle graduatorie, che per altro in un secondo momento vengono ragionevolmente impugnate dalle imprese partecipanti opponendo che non vi è stata una verifica della bontà dei dati dichiarati dai proponenti all’interno dei singoli progetti. Pertanto, scattano i ricorsi con i rispettivi tempi giudiziari e se viene data ragione alle imprese ricorrenti, che hanno contestato la graduatoria, allora
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sarà necessario realizzare una nuova graduatoria. Nel frattempo gli anni scorrono e calza perfettamente l’espressione “il tempo è denaro”… Trascorre tempo dalla pubblicazione del bando, i soldi dovrebbero arrivare, ma il problema è che i progetti delle imprese partecipanti hanno perso competitività, non sono più in linea con le esigenze del mercato. Non solo, nella pratica si registra spesso che subentrino delle “varianti” in corso di esecuzione dell’opera, cioè delle modifiche che incidono sui costi o sulla modalità con cui l’opera viene realizzata, previste in modo dettagliato nel bando e ammesse per eventi imprevedibili o comunque di assoluta gravità, che determinano aumenti del prezzo finale e come un circolo vizioso ulteriori contestazioni. La conseguenza inevitabile è che i lavori procedono “a
Italia oggi singhiozzo”, talvolta neppure terminano per scarsità di risorse economiche e le opere rimangono incompiute, restano solo “scheletri” di mattoni e di calcestruzzo che tristemente testimoniano abbandono e spreco. Tuttavia, come c’è un rovescio della medaglia c’è anche un dritto, esempi virtuosi di gestione burocratica del territorio che puntano su qualità, flessibilità ed informatizzazione della pubblica amministrazione. Qualità intesa come formazione di personale competente nella compilazione dei formulari, dei bandi, nell’analisi dei progetti presentati dalle imprese, perché spesso è proprio su aspetti formali che possono sembrare banali che si gioca il destino di un’opera pubblica. Proprio perché della quantità non si fa nulla senza la qualità è necessaria una rigenerazione della pubblica amministrazione. Personale qualificato,
obiettivi chiari ma anche capacità di riprogrammare le risorse a disposizione a seconda delle esigenze contingenti. Infine, informatizzazione della procedura burocratica in modo che ci sia un costante monitoraggio dello stato di avanzamento della spesa, verificando non solo i costi, ma anche che quella spesa abbia prodotto un risultato finale. Se queste esperienze di buon funzionamento della macchina amministrativa fossero riprodotte anche in quelle realtà in cui gli incidenti burocratici diventano dissesti idrogeologici, strade collassate,
voragini nel manto stradale, edifici inutilizzabili si potrebbero attrarre investimenti, lavoro e sviluppo in molti settori di pubblica utilità. La risposta, che può sembrare anche scontata nella sua semplicità, è fare le cose bene a monte per raccogliere i frutti a valle.
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Il giorno del ricordo di Armando Munaò
Le FOIBE: per non DIMENTICARE Il Giorno del ricordo è una solennità civile nazionale italiana, istituita nel 2004, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno, per ricordare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata e per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia.
I
massacri delle foibe e l’esodo dalmata-giuliano* sono state, purtroppo, una tristissima pagina di storia che per molti anni l’Italia non solo ha voluto dimenticare, ma non si comprende il perché una simile tragedia abbia vissuto nell’oblio per oltre sessant’anni.
Per fortuna, con il passare del tempo la coltre di silenzio che l’ha circondata, piano piano si è diradata grazie anche al Parlamento Italiano che nel 2004 approvò la legge Menia (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) che di fatto istituiva
il Giorno del Ricordo “in memoria degli italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della seconda guerra mondiale”. Grazie a quella scelta, tutti noi, da quel giorno, abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subire gli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria di Fiume e della Dalmazia. Da ricordare che già gli allora Presidenti della Repubblica, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, il primo il 3 novembre 1991 e il secondo 11 febbraio 1993, si recarono alla foiba di Basovizza per rendere reverente omaggio alle vittime del massacro che i comunisti di Tito perpetrarono, riconoscendo il grave errore che la storia aveva commesso nell’oscurare questa tragedia umana. E sulla tragedia delle foibe sono state significative le parole che Sergio Mattarella, 23
Il giorno del ricordo
Presidente della Repubblica Italiana, ha pronunciato lo scorso anno e quest’anno in occasione del “Giorno del Ricordo”. “Le foibe, sono state una sciagura nazionale, una vera pulizia etnica che ha causato, alla fine della seconda guerra mondiale, terribili sofferenze agli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia. Queste nostre terre, con i loro abitanti conobbero la triste e dura sorte di passare, senza interruzioni, dalla dittatura del nazifascismo a quella del comunismo. Gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe, l’esodo forzato degli italiani dell’Istria, della Venezia Giulia e della Dalmazia, fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa”. A oggi una vera quantificazione delle vittime non è certa, ma secondo gli storici e le testimonianze dei sopravvissuti, i morti sono stati almeno 20mila e più di 250 mila gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case. Il “Giorno del Ricordo”, ha sottolineato il Capo dello Stato nel suo emozionante discorso, ha contribuito e contribuisce a farci rivivere una pagina tragica della nostra storia recente, per molti anni ignorata, rimossa o addirittura negata e alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per 24
calcolo – il dovuto rilievo a questa immane tragedia che coinvolse gli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia sotto l’occupazione dei comunisti jugoslavi.” “Questa penosa circostanza, ha continuato il Presidente Mattarella, pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati d’incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità”. Un discorso, quello del nostro Presidente, che ha aperto un nuovo e necessario libro del ricordo le cui pagine devono svegliare
la mente di coloro i quali per oltre 60 anni , forse anche volutamente, non hanno voluto leggere. “Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti, ha sottolineato Mattarella, se, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell’esodo è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa, conquistando, doverosamente, la dignità della memoria. Il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe, e del tanto tanto sangue innocente versato, ha detto, è un orrore che colpisce le nostre coscienze. Prezioso è stato il contributo delle associazioni degli esuli per riportare alla luce vicende storiche oscurate o dimenticate, e contribuire così a quella ricostruzione della memoria che resta condizione per affermare pienamente i valori di libertà, democrazia, pace”. “Purtroppo, ha continuato il Capo dello Stato, esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante. Ma oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi. Questi ci insegnano che l’odio la vendetta, la discriminazione, a
Il giorno del ricordo
qualunque titolo esercitati, germinano solo altro odio e violenza”. Alle vittime di quella persecuzione, ai profughi, ai loro discendenti, ha concluso il Presidente Mattarella, rivolgo un pensiero commosso e partecipe. La loro angoscia e le loro sofferenze non dovranno essere mai dimenticate. Esse restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto e malinteso ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali della persona. E ci rafforzano nei nostri propositi di difendere e rafforzare gli istituti della democrazia e di promuovere la pace e la collaborazione internazionale, che si fondano sul dialogo tra gli Stati e l’amicizia tra i popoli”.
nascosta, taciuta, colpevolmente ignorata. Una verità che un inaccettabile negazionismo, figlio del pregiudizio, aveva relegato all’oblio. La tragedia che si è consumata sulle terre del confine orientale a cavallo tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni dell’Italia repubblicana -ha aggiunto la seconda carica dello Statonon si può cancellare e non può essere fatta passare attraverso i filtri e le censure
delle ideologie. La storia non è un racconto di parte: è testimonianza di ciò che è stato. E come tale va ricostruita, documentata, studiata e tramandata: specie quando ci riguarda direttamente come italiani. Perché italiani erano i giuliani, gli istriani e i dalmati fatti cadere –uno ad uno, legati insieme con il fil di ferro– e lasciati morire nelle gole del Carso”. “Migliaia -ha detto ancora il presidente del Senato- sono gli italiani sepolti nelle foibe; centinaia di migliaia i profughi istriani, fiumani e dalmati sparsi in giro per il mondo per sfuggire ad una inaccettabile ed inumana pulizia etnica. Un popolo sradicato dalla sua terra, abbandonato dalle diplomazie e dalle istituzioni, emarginato persino in Italia, dove gli esuli che non riuscirono ad integrarsi o a trovare ospitalità da qualche parente, vennero confinati in 109 campi di raccolta, allestiti fuori dalle città, spesso in condizioni di assoluta precarietà”. “Per troppo tempo le ferite lasciate da quei terribili eventi sono state confinate nella memoria degli esuli e dei loro discen-
Per il Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, la celebrazione del Giorno del Ricordo rappresenta “un’opportunità per riflettere insieme su alcune delle pagine più dolorose della nostra storia. Pagine che ci raccontano una verità terribile, eppure per troppo tempo 25
Il giorno del ricordo denti, le cui sofferenze sono state acuite dall’indifferenza o addirittura dall’ostilità di ampie parti del nostro Paese”, ha sottolineato il presidente della Camera, Roberto Fico, in un passaggio del suo discorso. Nel ricordare le migliaia di italiani uccisi dalle milizie comuniste jugoslave, l’esodo di massa e le persecuzioni a cui furono sottoposti gli italiani in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, la terza carica dello Stato, ha sottolineato “che su queste pagine di storia e per tanti anni sono prevalse narrazioni di parte, fortemente distorte da pregiudiziali di natura ideologica e nazionalista, che hanno ostacolato – ed in parte continuano ad ostacolare – una ricostruzione accurata ed oggettiva di quanto realmente avvenuto al confine orientale. Oggi abbiamo tutti gli elementi per respingere senza esitazioni le tesi negazioniste o giustificatorie di quella persecuzione, purtroppo ancora presenti. Questa giornata “deve ricordarci che la pace, la convivenza
tra i popoli, il rispetto dei diritti umani non sono acquisiti per sempre, ma richiedono un impegno quotidiano affinché i conflitti, gli estremismi ideologici e nazionalistici, i totalitarismi, l’odio etnico e di classe non portino nuovamente ad atrocità, persecuzioni e crimini contro l’umanità”. *L’esodo giuliano dalmata, conosciuto anche come esodo istriano, è stato un evento storico che ha determinato una forzata emigrazione della maggioranza, non solo dei cittadini di nazionalità e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, dal Quarnaro e dalla Dalmazia, ma anche di un consistente numero di cittadini italiani di nazionalità mista, slovena e croata. Emigrazione che si verificò a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e nel decennio successivo e che interessò, secondo gli storici un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.
COME SI MORIVA NELLE FOIBE
I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori). Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili. 26
In questo triste periodo, secondo documenti storici e testimonianze di sopravvissuti, migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Purtroppo altri, e non pochi, furono deportati nei campi sloveni e croati oppure uccisi dai partigiani di Tito e gettati nelle foibe. Secondo alcune fonti le vittime di quei pochi mesi furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila. Nel dicembre 1945 il nostro Capo del Governo Alcide De Gasperi presentò agli Alleati un elenco di nomi di oltre 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia e quantificò in almeno 7.500 il numero degli scomparsi. In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi perchè Le uccisioni di italiani, nel periodo tra il 1943 e il 1947, furono almeno 20mila.
Il giorno del ricordo di Chiara Paoli
Le foibe, tomba di italiani e abisso scavato tra due popoli «Quel capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente»; una ferocia funzionale al disegno politico di genocidio perché il terrore diffuso tra la popolazione avrebbe dato luogo, come avvenne, all’esodo di 350 mila italiani. Le foibe, da cavità naturali, si trasformano in buchi neri con i quali oggi sono identificati gli eccidi perpetrati da partigiani comunisti jugoslavi durante, e immediatamente dopo, il secondo conflitto mondiale. Le vittime di quegli anni, compresi fra il 1943 e il 1945, nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste, in realtà non trovarono tutti la morte in quelle profondità; molti spirarono nei campi di concentramento, nelle prigioni o durante gli spostamenti. Quegli inghiottitoi naturali, però, caratteristici della zona carsica, nella nostra quotidianità si traducono con “sterminio” e il termine infoibare viene utilizzato per indicare vere e proprie esecuzioni. Storicamente parlando, queste barbare uccisioni vennero eseguite dal movimento di liberazione sloveno e croato, sotto l’egida di Josip Broz, meglio noto come Tito. La foiba di Basovizza, dichiarata monumento nazionale nel 1992, era in origine una miniera di carbone che arrivava a una profondità di circa 228 metri, ma il sacrario dedicato ai martiri delle foibe oggi misura appena 198 metri, una differenza mostruosa, colmata dai corpi degli uomini vittime di fucilazione. 28
In Istria, in località Faraguni, dalla foiba di Vines, detta anche fossa dei Colombi, nel 1943, furono recuperati 84 corpi. Due i superstiti di questa strage, Giovanni Radeticchio e Graziano Udovisi, che negli anni hanno avuto modo di raccontare in prima persona le atrocità viste e sofferte. In queste voragini infernali precipitarono anche persone ancora in vita, trascinate giù dagli altri. All’intervento dell’Italia per porre fine a queste vessazioni, il ministro degli esteri Alcide Degasperi avanzò molteplici richieste di intervento per l’occupazione della regione Venezia Giulia da parte dei governi alleati, per garantire la sicurezza della popolazione italiana. E’ proprio Degasperi che nel maggio del 1945 riporta le prime notizie inerenti incarcerazioni, deportazioni e sparizioni di migliaia di persone
tra Trieste e Gorizia. Il 26 luglio 1945 alle ambasciate di Washington e Londra, giunge una missiva di Degasperi che riporta: «Di fronte alle continue notizie di vessazioni, violenze, arbitri compiuti dai partigiani di Tito non ci è possibile assistere più oltre passivamente alla tragedia di decine di migliaia di italiani, che supera in crudeltà, metodi e sistemi quanto gli stessi tedeschi hanno compiuto in questi ultimi anni in Europa». Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe. Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del ‘900 si arricchiva così del termine, spaventoso, di “infoibato”».
10 febbraio “Giorno del Ricordo di Roberto De Bernardis
La mia TESTIMONIANZA di VITA “Conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” recita la legge istitutiva del Giorno del Ricordo n. 92 del 30 marzo 2004.
Le ragioni che determinarono il dramma del confine orientale nel secondo dopoguerra si possono individuare nella volontà espansionistica del nazionalismo titino che per raggiungere lo scopo aveva deliberatamente attuato una politica di aggressione della componente italiana della Venezia Giulia componente storica e maggioritaria su buona parte della penisola istriana, soprattutto nella parte costiera, saldandosi con la propaganda ideologica della nuova 30
società comunista che Tito voleva edificare indicando la popolazione italiana come nemico da debellare. Kardelj, braccio destro di Tito, viene inviato in Istria per risolvere la “questione italiana”: uccisioni e migliaia di corpi gettati nelle foibe caratterizzano questa fase.. La ventata di violenza che si protrae anche negli anni successivi alla fine della guerra e avrà il suo culmine nella strage di Vergarolla a Pola il 18 agosto 1946 con più di 70 vittime. Con la firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947 e la cessione dell’Istria, Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia la popolazione italiana inizia un esodo massiccio, lungo, doloroso e straziante. Ci sono le storie diverse di migliaia di persone che vanno nei campi profughi sparsi in tutta Italia o che scelgono le vie dell’Australia o
delle Americhe. Persone con vissuti tragici: hanno visto uccidere il loro marito, il loro padre, il figlio, il fratello, la sorella. Hanno subito la frantumazione sociale e familiare. Per 50 anni hanno tenuto per sé questo enorme dolore, non hanno avuto la possibilità di ottenere giustizia. L’Italia ha pagato con i beni abbandonati dei profughi i danni di guerra alla Jugoslavia e non ha mai completato la promessa di risarcire con equità questa perdita di beni costruiti con secoli, a volte, o con decenni di faticoso lavoro. Per mezzo secolo ragioni politiche nazionali e internazionali hanno messo un
10 febbraio “Giorno del Ricordo
coperchio su questa parte della storia italiana ed europea e impedito anche una ricerca storiografica approfondita e una ricostruzione veritiera.
QUELL’ESODO CHE CAMBIÒ LA NOSTRA VITA Quando mio padre tornò dalla prigionia in estremo oriente nell’autunno del 1946 trovò una situazione pesante e intimidatoria. C’erano gli inglesi che governavano a Pola ma ormai tutto era deciso: Pola sarebbe passata alla Jugoslavia. Con la firma del trattato di pace a Parigi il 10 febbraio 1947 il destino degli italiani dell’Istria veniva indirizzato verso l’esodo. Troppo forti erano le vessazioni, impossibili da accettare le condizioni dei nuovi padroni: perdita della lingua, delle tradizioni, delle proprietà fonti di reddito, della sicurezza personale e collettiva. Mio padre e mia madre optarono per rientrare nei confini italiani e mentre mia nonna paterna con due sorelle di mio padre, alcune sorelle di mia madre, zie e zii salpavano con il piroscafo Toscana verso la costa italiana ai miei genitori non veniva concesso il visto dalle autorità jugoslave. Motivo: il cognome di mia madre, Zmak, non veniva considerato italiano
per cui doveva restare. Partisse pure mio padre ma lei no. Finalmente dopo la mia nascita e quella di mio fratello decisero di lasciarci partire, era il 14 aprile 1952. Ma dovevamo farlo subito con la lista delle cose da poter portar via redatta dalle autorità. Alla stazione ci accompagnò una nipote di mia mamma con un cassone di legno riempito con vestiario e alcuni ricordi. Poi stipati sul vagone iniziò il viaggio. Durò cinque giorni: Pola, Lubiana, Trieste, Udine. A Udine, campo di smistamento, restammo due settimane per poi riprendere un altro viaggio: destinazione campo profughi di Altamura, in Puglia. “Il Centro raccolta profughi era situato sulla strada fra Altamura e Gravina in una località poco agevole, chiamata Laura San Buco, distante 5,6 chilometri da Altamura. Recintato da filo spinato non sistemato in
maniera omogenea(...) ci si poteva accedere attraverso un lungo viale di circa 160 metri che terminava con una entrata in legno, filo spinato e quattro pilastri in muratura”. Così lo descrive la ricercatrice Anna Gervasio nel libro “La Puglia dell’accoglienza”. All’interno capannoni con servizi comuni divisi per donne e per uomini e ventisette stanze per ciascun capannone e un grande piazzale in terra dove giocavamo io e mio fratello. Quando mio padre riprese il lavoro di marittimo, alla fine del 1952, risalimmo la penisola sino a Genova, dove ci stabilimmo. Trovammo famiglie di Pola, di Fiume, di Zara con cui legammo subito. Un cugino di mio padre con tutta la sua famiglia. Ma gli altri dove erano finiti? Gli anni cinquanta furono anni di ritrovamenti. Mia nonna paterna e due zie erano a Como. Iniziammo ad andare a trovarle e ogni anno passavo un periodo con mia nonna che vedevo silenziosa, vestita di nero, accanto ai fornelli, lei che aveva abbandonato una piccola trattoria e la casa nel centro di Pola, dove si era trasferita con le figlie negli anni trenta da Rovigno. Il profumo della sua passata di fagioli lo sento ancora oggi. Aveva appeso su una parete un disegno in scala del campanile della chiesa di Santa Eufemia che suo figlio, morto per la spagnola all’inizio degli anni venti del novecento, aveva realizzato. Ogni tanto lo guardava e sospirava poi si sedeva apriva il suo giornale: “L’Arena di Pola”, periodico degli esuli, senza alcun commento, in silenzio. La diaspora fu enorme
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10 febbraio “Giorno del Ricordo
ed era difficile comunicare, poi trovarsi quasi impossibile. Andavamo ogni tanto a Voghera e Tortona per trovare parenti di mio padre ma poi partirono per l’Australia. Altri per l’Argentina e poi per gli Stati Uniti. Nella mappa italiana della mia famiglia dispersa si trovano brandelli a Roma, Lucca, Verona, Gorizia, Trieste, Milano, Como, Genova. Mia madre sorrise per la prima volta alla nascita di mio figlio, il suo primo nipote, nel 1985. Prima non aveva altra preoccupazione che ricostruire la sua e la nostra vita. Anche lei in silenzio e con la volontà di cancellare quell’orribile passato. Dimenticare. Mio padre, gioviale e ciarliero, ricordava la sua barca da pesca, lasciata nella baia di Valsaline. Raccontava dei suoi viaggi, inventava
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storie impossibili che io e mio fratello ascoltavamo a bocca aperta. Ma anche lui non voleva parlare di quell’esodo che continuava a maledire. Loro non vollero più tornare. Eppure a Pola erano rimasti i suoi fratelli, contadini legati alla terra con le loro famiglie e una sua sorella paralizzata nel letto che non aveva potuto andarsene. I rapporti erano rimasti solo epistolari. Solo poco prima di morire le chiesi se conoscesse Lanischie. “Certo, mi disse, era il paese dei miei nonni” e lì, mi confidò, era rimasta con una sua sorella durante la prima guerra mondiale mentre suo padre era al fronte in Galizia e i fratelli più grandi con la mamma badavano a quelli più piccoli e alla azienda agricola a Monte Paradiso, a Pola, per garantire il sostentamento di tutti. Per uno
strano gioco del destino ho conosciuto a Rovereto una persona nata proprio a Lanischie: suo padre, maestro elementare originario di San felice (Mori) in Trentino, fu rapito sotto i suoi occhi e gettato in una foiba. Con Pola ho costruito, quando ero presidente dell’Associazione Velica Trentina, un rapporto stretto per diversi anni con il circolo velico di Bonarina con divertenti e impegnative regate su quelle acque. Il circolo velico di Bonarina aveva una particolarità: i suoi soci parlavano normalmente il dialetto istro-veneto, quello che a casa nostra abbiamo sempre parlato. L’unico bene che ci era rimasto del nostro passato l’abbiamo conservato e non si tratta solo di linguaggio ma anche di cultura, di emozioni, di identità, di flebili ma resistenti radici. Roberto De Bernardis Presidente ANVG –Trentino (Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia). Segretario dell’Associazione Museo Storico in Trento. Membro del Comitato scientifico della Fondazione Alexander Langher di Bolzano
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Le realtà economiche della provincia di Alex De Boni
Le piccole e medie imprese
Dialogo aperto con Paolo Doglioni, Presidente di Confcommercio Belluno Una intervista, la nostra, che analizza la situazione socio-economica relativa alle piccole medie imprese della nostra provincia, focalizzando la necessità fondamentale di aiutarle a rinnovarsi per stare al passo dei tempi che corrono. Ascom Servizi Belluno srl di Confcommercio Imprese per l’Italia di Belluno è una società con più di 80 dipendenti che quotidianamente si impegnano nel miglioramento della qualità dei servizi offerti, con l’obiettivo di contribuire concretamente allo sviluppo dell’imprenditorialità del territorio, attraverso un’adeguata e qualificata assistenza alle piccole e medie imprese.
L’INTERVISTA La pandemia, a suo avviso, come ha influito sulle attività commerciali? “Niente sarà più come prima, la pandemia ha cambiato tutto e la situazione per le piccole realtà bellunesi è drammatica. Tutta la filiera legata al commercio ed il turismo ha subito un colpo durissimo che i ristori erogati non bastano per colmare le difficoltà riscontrate. Purtroppo a pagare
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le conseguenze è anche tutto l’indotto e ci saranno situazioni ancor più drammatiche non appena non sarà più possibile posticipare i licenziamenti”. Quali sono le criticità che ha riscontrato? “Ci troviamo di fronte ad una situazione che non migliorerà fintanto che non sarà stata fatta la vaccinazione di tutta la popolazione. Come Confcommercio abbiamo
evidenziato tre tipologie di criticità da tenere conto per affrontare la situazione: 1. Salute e sistema sanitario 2. Economica 3. Psicologica I dati ci dicono che dopo un anno dall’inizio della pandemia una grande percentuale della popolazione ha problemi psicologici legati alle paure, lo stress e l’isolamento sociale comportato dalla situazione che viviamo quotidianamente. Il buio porta ad una situazione di sconforto. Abbiamo quasi raggiunto le 100 mila vittime, ossia come mezza provincia di Belluno. Anche i giovani hanno paura per i propri genitori o nonni e con questo sentimento non si è sereni. Gli aspetti sociali vanno di pari passo con quelli economici e lavorativi”. A suo avviso seve una maggiore tutela per le zone di montagna? “Sì. È assolutamente necessario tutelare le zone montane, preservandone l’esistenza. Le persone vivono la montagna e i suoi disagi fin tanto che ha ciò di che vivere.
Le realtà economiche della provincia Senza lavoro la gente lascia questi territori, senza la gente non c’è cura e manutenzione del territorio. In questa fase pandemica la montagna deve avere garanzie socioeconomiche che permettano di uscire da questa crisi senza pagarla a caro prezzo. I piccoli negozi bellunesi hanno un valore importantissimo per i nostri centri abitati, l’esempio di ciò che hanno rappresentato durante il primo lockdown è evidente a tutti. Non possiamo negare che, per stare al passo con i tempi che corrono, devono rinnovarsi in particolare modo sotto il profilo dell’offerta e in questo Confcommercio Belluno è uno strumento indispensabile”. L’esempio del feltrino “Il grande male per le piccole botteghe locali si chiama acquisto on line dove le grandi multinazionali, che non pagano le tasse in Italia e non applicano i contratti di lavoro del settore commercio, creano una forte disparità commerciale. Da tempo diciamo che ci deve essere: Stesso mercato stesse regole. Con Confcommercio abbiamo avviato un analisi di mercato per aiutare le realtà bellunesi a rinnovare la propria presenza sul mercato. Come? Un esempio sono le attività del comune di Feltre dove abbiamo lanciato l’iniziativa “Feltre in vetrina”, un portale che mette in relazione diretta commercianti e operatori della città con turisti, cittadini e potenziali acquirenti. Sostanzialmente si rendono accessibili a molti più potenziali clienti le eccellenze produttive delle realtà artigia-
nali di questo territorio. Rinnovarsi diventa un obiettivo fondamentale ed un incentivo ulteriore per resistere alle problematiche dei giorni nostri”. Quale futuro prevede per le nostre aziende? “In questo momento vedo molte nubi all’orizzonte purtroppo. Se i dati inerenti l’annata 2020 sono stati in flessione, ma in parte attenuati dagli aiuti statali, per il 2021 non possiamo essere ottimisti. Non possiamo prorogate all’infinito il blocco dei licenziamenti e questo rappresenterà un disastro perché dietro ogni azienda in difficoltà c’è una filiera che a sua volta
entra in crisi. Le zone rosse, arancio e gialle che continuano ad alternarsi rappresentano un macigno per le nostre attività in quanto i costi fissi rimangono inalterati anche quando gli incassi non ci sono . Serve una politica di tassazione diversa, sia a livello nazionale sia a livello comunale. Ad ogni nuova azienda che apre dico di essere consapevoli che i tempi cambiano e maturano continuamente, non bisogna mai adagiarsi su quello che si ha ed è essenziale rinnovarsi per ricercare il meglio delle nostre possibilità”.
Chi è Paolo Doglioni.
Classe 1949, sposato, due figlie, laureato in Storia, è in Confcommercio con vari incarichi dirigenziali fin dal 1968, ne diviene presidente nel 2014. Proprio quest’anno l’attività di famiglia festeggia i cent’anni dalla fondazione. Già presidente della CCIAA di Belluno e del Centro Estero del Veneto nonché direttore generale e consigliere delegato di Veneto Promozione, attualmente è presidente di Doglioni srl (immobiliare) e di Dollone srl (intermediazione del commercio e immobiliare), socio del ristorante- enoteca De Gusto Dolomiti oltre che già brand ambassador per Blackfin per una linea di occhiali a marchio Arrigo Cipriani” 35
Donne e uomini nell’arte di Alice Vettorata
…e se vincessero le donne?
L
a violenza, in questo caso quella di genere, è una dinamica subdola che non sempre si manifesta in modo esplicito. La cronaca si fa portavoce di fenomeni legati agli episodi con l’epilogo più evidente, quello che sfocia tragicamente nel femminicidio, ma altri segnali meno visibili sono da considerarsi delle torture inflitte alla vittima. Oltre alla violenza fisica infatti subentra quella psicologica che lascia a sua volta delle ferite profonde che plasmano la donna che le vive, limitando la sua libertà sociale, emotiva e lavorativa. Questo è il caso di donne che hanno visto svanire la possibilità di affermarsi poiché eclissate da una figura maschile incontrata durante il loro percorso. Anche nel settore lavorativo artistico ciò avviene molto spesso. Pensando alla storia dell’arte, a quante opere con protagoniste delle donne riusciamo ad immaginare? La figura femminile è stata ed è tuttora uno dei soggetti più apprezzati nelle arti e la nostra mente trova diverse sculture e dipinti che rispondono al
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quesito. La domanda più complessa sorge ora. Quante artiste donne conosciamo e sono nell’olimpo degli artisti? Un esempio noto è Frida Kahlo che con i suoi autoritratti è la donna più nota che è riuscita ad emergere nel settore. La sua personalità oggi è divenuta ulteriormente un’icona anche grazie all’anticonformismo che la contraddistinse, caratteristica che ha contribuito a renderla un simbolo del movimento femminista e per le pari opportunità. Proprio per quest’ultimo motivo è necessario conoscere il mondo di donne nascosto dietro le fantasie dei tessuti messicani indossati dalla Kahlo, personalità artistiche che, a differenza di Frida, non hanno avuto la fortuna di avere un compagno lavorativo e di vita come Diego Rivera, che le ha supportate e spronate a conseguire le loro carriere. Guardando nello stesso periodo storico della pittrice messicana, ma spostandoci idealmente verso il nord America incontriamo Josephine Verstille Nivison, nata nel 1883 a Manhattan da una famiglia dedita all’arte, da padre pianista e madre insegnate di musica. La piccola Jo non fu meno sensibile verso questi aspetti. Intraprese gli studi alla School of Art per diventare pittrice, carriera che iniziò con discreto successo dopo aver lavorato come docente per alcuni anni. Impiego non scontato per una donna appartenente alla classe sociale borghese, destinata spesso a creare una famiglia in tempi brevi. Mentre la Nivison si affermava lavorativamente esponendo le proprie opere, si
presentò nella sua vita chi ci ha permesso di conoscerla soltanto per le sue fattezze riportate su tela, ma non per il suo talento. Parliamo di Edward Hopper, pittore americano noto per aver ritratto scene desolate cariche di luci che si stagliano su individui solitari e architetture di un’epoca ormai trascorsa. Celebre è la sua opera Nighthawks: un bar ritratto di notte in un’atmosfera tesa che strizza l’occhio ai film gangster degli anni Trenta. Il merito del titolo? Proprio della Nivison, la quale divenne sua moglie e lo supportò a perseverare per diventare un celebre pittore, intento nel quale riuscì. Il prezzo da pagare per ottenere il successo del marito Edward, fu però perdere la libertà di una donna con ambizioni e talento. Inizialmente Josephine, prima che Edward ebbe successo e divenisse un’icona della pittura americana riconosciuta mondialmente, venne invitata a esporre al Brooklyn Museum, occasione nella quale la pittrice convinse i curatori della mostra a inserire anche Hopper, emergente e promettente compagno. Ci
Donne e uomini nell’arte riuscì, facendo decollare la carriera dell’artista. I ringraziamenti non furono sicuramente evidenti. Condividere con la propria metà un’attività dovrebbe essere considerato un punto di unione, caratteristica alla quale ambire. Josephine invece, sopraffatta dall’ombra di quel pittore dapprima sconosciuto e ora richiesto in tutto il mondo, se gli chiedeva: “Non è bello avere una moglie che dipinge?” si sentiva replicare “fa schifo”. Dai diari della pittrice si può evincere che non le era nemmeno concesso lavorare nella stessa stanza di Hopper, ora definito il genio della pittura americana. Sosteneva che l’avrebbe distratto dalla sua evoluzione creativa. Josephine era invece d’altra opinione. Era certa infatti che il
motivo di questo astio nei suoi confronti fosse riconducibile a gelosia e timore nei confronti della competizione che sarebbe nata tra la coppia che viveva sotto lo stesso tetto. Da fruitori delle opere di Hopper possiamo concordare con la Nivison; osservando Jo Painting, tela del 1936, è possibile vedere il profilo della donna, ma non l’attività che sta compiendo. Lui nasconde l’abilità della moglie anche quando la ritrae. Ci suggerisce che lei sta dipingendo dal titolo, ma non vuole ammetterlo. Ancora una volta, la annienta.
Inizia con questo numero la collaborazione con Alice Vettorata che tratterà temi e argomenti che nello specifico possono essere al mondo della Storia dell’Arte, al cinema, alla letteratura, ai Beni Culturali, musica e spettacolo.
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Covid 19: Un anno di pandemia Nostra intervista a Stefano Merler, epidemiologo trentino.
U
n anno di Covid: a che punto siamo e cosa ci riserverà il futuro? Ne abbiamo parlato con Stefano Merler, epidemiologo e matematico trentino della Fondazione Bruno Kessler, il quale contribuisce al monitoraggio del virus nelle regioni italiane ed ha fornito un apporto determinante alla redazione del “Piano sanitario di organizzazione della risposta dell’Italia” all’emergenza pandemica da Covid-19. Merler, innanzitutto Le chiedo: in che situazione ci troviamo attualmente, dopo un anno di pandemia? Grande incertezza. Credo che tutto sommato abbiamo imparato molto su SARS-COV-2 e, anche se tutto il mondo o quasi sta ancora facendo molta fatica a gestire questa epidemia, siamo molto più preparati rispetto a marzo 2020. C’è chi lo definisce una semplice influenza e chi invece lo paragona alla spagnola: qual’è la verità e, soprattutto, possiamo parlare di un problema “strutturale” del sistema sanitario? In termini di trasmissibilità e di letalità questo virus è peggiore della spagnola. Ha una trasmissibilità naturale di circa 3 (ogni persona ne infetta 3 in media) contro l’1.8-2 della spagnola e un tasso di mortalità per infezione altissimo, probabilmente superiore all’1%. Infatti, nonostante gli enormi sforzi fatti in tutto il mondo, siamo già ai milioni di morti accertati. Nessun sistema sanita-
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rio al mondo sarebbe stato in grado di reggere all’impatto di una malattia come questa senza importanti misure di distanziamento sociale che ne hanno limitato la trasmissione. Non credo sia solo un problema di posti letto in terapia intensiva, per due motivi: il primo è che le persone spesso muoiono anche se ammesse in questo reparto. Il secondo, è che non si parla solo di ventilatori: servono anche operatori sanitari specializzati, rari da trovare. Ogni giorno giornali e telegiornali riportano dati, numeri e opinioni di esperti di ogni settore. C’è il rischio concreto che si crei disorientamento in coloro che vogliono informarsi? Parliamo della più grave emergenza dalla seconda guerra mondiale. È normale che tutti vogliano dire la loro, anche se questo genera molta confusione. Posso
solo suggerire di guardarsi bene il curriculum scientifico, cioè le pubblicazioni dei vari esperti, per capire di cosa realmente lo sono e valutare se ascoltarli. Virologia, infettivologia ed epidemiologia sono discipline completamente diverse tra loro. Parte economica: la pandemia sta mettendo in ginocchio tutte le attività, ma chiudere è davvero la soluzione? Io mi occupo di studiare l’epidemia, mentre questo è un aspetto politico. Posso essere d’accordo sul fatto che non disponiamo, a livello mondiale, di studi definitivi che mostrino quanto sono più o meno rischiose certe attività, pur con stime di rischio o evidenze di focolai in certi ambienti. Scientificamente, ciò che è certo è che non riusciamo a gestire un’epidemia con RT anche di poco sopra 1 per più di qualche settimana: nonostante le restrizioni, però, non riusciamo a far scendere RT di molto sotto 1. La suddivisione in zone colorate funziona? Col lockdown nella prima ondata RT era sceso a 0.6: ora, le zone gialle possono valere un RT di circa 1, quelle arancioni e rosse circa 0.9 e 0.8 rispettivamente. Queste stime ovviamente valgono solo per lo strain “tradizionale”. Che uso fare di questi risultati è una
scelta politica. Capitolo vaccini. Stanno arrivando, siamo solo all’inizio ma abbiamo già vaccinato più di tre milioni e mezzo di persone. È un buon risultato o bisogna fare di più? Ma soprattutto, gli altri dati (morti, contagi) vanno considerati come reali? Più vacciniamo e più casi ci risparmiamo, diminuendo così il carico sui servizi sanitari e le morti. Inoltre, diamo al virus meno possibilità di mutare e rendere magari meno efficienti i vaccini stessi.
Sulla questione dei dati, quelli dei vaccini credo siano precisi, quelli sui casi meno perché sappiamo che riusciamo ad identificare solo una frazione delle infezioni totali: secondo le nostre stime il tasso di notifica è passato da circa il 10% nella prima ondata ad un numero variabile tra il 20% e il 40% nella seconda. Per qualche riapertura credo basterà mettere in sicurezza la parte più fragile della popolazione, anche se
sarà un percorso di mesi. Il ritmo attuale non è incoraggiante ma leggo con estremo piacere sui giornali dell’impegno del Governo a vaccinare il 50% degli italiani prima dell’estate. Incognita varianti. Pur essendo tantissime, tre sono quelle più chiacchierate oggi: inglese, sudafricana e brasiliana. Cosa cambia e, soprattutto, potrebbero vanificare tutta la campagna vaccinale? Intanto mi preme dire che dai primi risultati i vaccini sembrano efficaci contro la variante inglese, che rappresenta il problema più immediato visto che la sua prevalenza in Italia era già del 18% agli inizi di febbraio ed è più trasmissibile dal 30% al 70%. Le altre due varianti sono probabilmente meno prevalenti in Italia ma in effetti pongono qualche problema dal punto di vista immunologico. Credo sia importante vaccinare il più possibile ora in modo da mitigare lo strain “tradizionale” e la variante inglese. Io, potessi farlo, mi vaccinerei domani stesso con qualunque vaccino. Finiamo con una previsione: come potrebbe evolversi la situazione nei prossimi mesi? Previsioni non ne ho mai fatte, se non a 30 giorni al massimo perché sono abbastanza affidabili e utili per capire l’impatto a breve sul sistema sanitario. Quelle a lungo termine mi lasciano sempre molto perplesso perché per predire questa epidemia bisognerebbe saper predire il comportamento umano e come interverrà la politica per gestire l’epidemia stessa. Mi auguro che per l’estate si siano vaccinate una larga percentuale delle persone esposte a maggior rischio. Poi, con la stagione calda passeremo molto più tempo all’aperto, durante le vacanze estive si ridurranno spontaneamente i contatti sociali e tutto questo potrebbe aiutarci. 39
Il passato in cronaca di Laura Mansini
Quando GOLDONI fu a FELTRE “Due cose contribuirono alla mia intera soddisfazione in Feltre: la buona compagnia che ho sempre amato e desiderato ed un bellissimo Teatro” Così scriveva Carlo Goldoni ospite in una villa del Feltrino.
C
orreva l’anno 1729 quando Carlo Goldoni giunse a Feltre in qualità di Coadiutore della Cancelleria; aveva solo 22 anni e nelle sue “ Memorie” racconta dell’importanza di questa cittadina nella sua vita artistica. Seguendo il padre che lavorava a Belluno andò ad abitare nella Villa Bonsembiante, sita a Colvago di Santa Giustina, che apparteneva al dottor Gerolamo Gasperetti, amico di famiglia, essa si trova a 15 km da Feltre e circa a 15 da Belluno. La Cancelleria Criminale era sita nel Palazzo del Podestà, dove al primo piano vi era un delizioso teatro. Nelle “Memorie” egli racconta ,infatti, che a Feltre “trovò felicemente una compagnia diretta dal famoso Carlo Veronesi”. Fu un incontro quanto mai fortunato, che lo avvicinò alla commedia dell’Arte, imparando
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da lui le tecniche teatrali. Nel 1730 poi Goldoni mise in scena, con una compagnia di filodrammatici feltrini, due melodrammi di Metastasio e fu in quell’occasione che iniziò a scrivere , ma non riuscendo nel genere tragico, compose personalmente 2 intermezzi in versi “ Il buon vecchio”, ( che è andato perduto) e la “Cantatrice” . Nelle memorie afferma “ Due cose contribuirono alla mia intera soddisfazione in Feltre; la buona compagnia, che ho sempre amato e desiderato ed un Teatro, nel Palazzo medesimo del Podestà, di cui mi servo per poter esporre...e
questa è la prima volta che io esposi qualche cosa del mio teatro. E fu proprio là che principiai a gustare il piacere dell’applauso e del pubblico aggradimento”. Il Teatro era il bel “Teatro Sociale”, ospitato al primo piano del Palazzo della Ragione, l’imponente edificio cinquecentesco dai grandi portici palladiani. Feltre gode di una storia antica. Il villaggio primitivo secondo Plinio il Vecchio sorse dalla cultura arcaica dei Reti, venne abitato più decisamente in epoca romana. Divenne molto popolosa nel Medio Evo e questo dovuto anche alla vicinanza con la via Claudia Augusta che partendo da Altino, sulla laguna veneta , attraversando il Trentino ed il Brennero giungeva fino ad Augusta Vindelicum ( Augusta di Baviera). Feltre ebbe una lunga storia artigianale, vi si produceva il famoso Feltro, una sorta di lana cotta molto rasata, era abbastanza ricca da attirare gli appetiti sia dei Venezia-
Il passato in cronaca ni che degli Asburgo. Proprio l'imperatore Massimiliano primo d'Asburgo nel 1510 durante il conflitto con la Serenissima per conquistarla non trovò di meglio che raderla al suolo. Fu una grande tragedia e i Veneziani, alla fine della guerra, che vinsero, apportarono un imponente ricostruzione dando alla cittadina uno stile rinascimentale, che le donò la bellezza che troviamo ancora . Se si sale sul Castello di Alboino, posto sul Colle delle Capre, si può osservare la Piazza Maggiore, la più bella della città, nella quale si trova appunto il bellissimo loggiato sorretto da colonne col tradizionale Leone di San Marco. Campeggiano inoltre due grandi statue raffiguranti Vittorino da Feltre e Panfilo Castaldi , troviamo la fontana di Tullio Lombardi ed infine torniamo con lo sguardo al Palazzo della Ragione, che è stato la prima sede del Governo cittadino. Nel 1510, infatti l’edificio venne modificato dopo l’incendio che lo aveva distrutto
e si presenta con l’imponente loggiato palladiano, mentre al centro del “portego” una scalinata conduce al grande salone centrale utilizzato per le riunioni dei 70 membri del “Maggior Consiglio”, ma vi era solamente un caminetto per riscaldare uno stanzone così grande e buio. Le riunioni furono quindi spostate nell’attuale sala del Consiglio. Nel 1600 la sala principale del palazzo divenne il ” Teatro de la Sena” con due ordini di palchi ed il palcoscenico dedicato alle rappresentazioni teatrali. Era il 1684 quando lo spazio ebbe crescente importanza anche sotto il profilo sociale; i nobili animavano i palchetti, si racconta
dalla riva
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Paola Antoniol
che in questi spazi così privati mangiavano, tenevano incontri galanti, mentre il popolo, in piedi riempiva la platea. Fu un teatro molto apprezzato, infatti venivano compagnie della commedia dell’Arte, fra le quali appunto quella diretta dal famoso Pantalone Carlo Veronesi che ebbe il grande merito di capire le qualità del giovane Carlo Goldoni. Un autore capace di superare in pochi anni il maestro ed entrare tra gli immortali della commedia italiana.
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Società, famiglia e figli di Caterina Michieletto
La missione educativa
dei genitori E
ducazione, una parola che affonda le sue radici nel latino “educere” letteralmente “trarre fuori, allevare, accompagnare”, si potrebbe dire che il latino, spesso etichettato come “lingua morta”, restituisce un significato quanto mai vivo e attuale della funzione educativa. L’educazione si snoda nell’arco dell’età evolutiva, cioè dalla nascita fino al compimento del diciottesimo anno di età: è in questo lasso di tempo che si compie l’educazione dei figli, una delle missioni più importanti, ma anche più impegnative per i genitori. Si può dire che la gioia di essere genitori fa parte di un “pacchetto tutto compreso” contenente anche fatiche, incertezze e paura di sbagliare. Del resto, è risaputo che essere genitori non sia semplice e che comporta un carico di responsabilità e di impegno che si protrae fino all’età adulta dei figli e spesso anche oltre. Nonostante questo rilievo attribuito al ruolo educativo dei genitori si è assistito negli ultimi anni ad un’inversione di tendenza, causata da fattori esterni che hanno portato a ritenere meno determinante il riferimento genitoriale nella vita dei figli, nella loro educazione individuale, sociale, affettiva e morale. Per fattori esterni si allude ad una politica del lavoro che è ancora distante dalla necessità per i genitori di coniugare il lavoro con l’impegno nella famiglia. Non solo, l’era dei cosiddetti “nativi digitali” è costellata dall’influenza, già in età molto precoce, dei social network ai quali sembra essere stata data “in appalto” una funzione, quella educativa, che non può compiersi per il tramite del mondo di Internet che offre tutto sul mercato, intendendo con tutto buono e cattivo.
Indubbiamente, l’educazione si configura come policentrica, dal momento che si compie per il tramite di differenti attori, la scuola, il gruppo “dei pari”, ossia il gruppo di amiche e amici, il gruppo della parrocchia, il centro sportivo… Pertanto, le occasioni di apprendimento e di crescita umana sono molteplici, tuttavia il ruolo di protagonisti dev’essere riconosciuto ai genitori, i primi accompagnatori nella trama della vita dei propri figli, coloro che “donano radici per ricordare e ali per volare”. Per quale motivo i genitori non possono abdicare al loro ruolo? Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile, cultore e sostenitore dell’educazione dei figli con amore, disponibilità all’ascolto ed esempio, poneva una riflessione molto acuta rispetto al rapporto genitori e figli che spiega la natura insostituibile dell’azione educativa dei genitori. Bollea affermava nel suo libro “Le madri non sbagliano mai”, che ogni nuova generazione è trasgressiva nei confronti dei genitori, quale contrasto positivo che aggiunge nuove idee e risorse nell’ambiente culturale, morale, politico e sociale. Tuttavia, accanto a questa “trasgressività positiva”, convivono forme di trasgressività negativa, di differente intensità e gravità, intese come comportamenti a rischio e distruttivi che purtroppo si rivoltano contro i giovani e loro famiglie. La prima e fondamentale forma di prevenzione di queste insidie avviene nel nucleo famigliare, tramite quell’attività di travaso di
valori, di principi, di regole di comportamento, di esperienza che diventano parte del bagaglio educativo dei figli. Gettando queste fondamenta solide per la costruzione della persona individuo e della persona cittadino si potranno respingere le spinte a quelle trasgressioni negative che dall’esterno irrompono nella vita dei giovani. Nell’adempiere al ruolo di educatori i genitori definiscono i punti cardinali del percorso dei propri figli, trasmettendo loro un messaggio che può essere valido per affrontare i molti ostacoli che si pongono nel proprio percorso: nella vita bisogna seguire la “stella polare” e non le “stelle cadenti”. Una direzione che nella mia esperienza personale ho trovato spesso nelle parole incoraggianti e rassicuranti: “la buona volontà premia sempre”. Quello che si instaura tra genitori e figli è raffigurabile come un rapporto a vasi comunicanti, in cui è l’amore per i figli e l’amore per i genitori che alimentati fin dall’inizio consolidano l’esclusività di questo rapporto, pertanto la preziosità e l’unicità della funzione educativa dei genitori.
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Il calcio in controluce di Alessandro Caldera
L’inizio di una dinastia: CESARE MALDINI
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rendiamo una città storicamente sferzata dalla Bora, Trieste, e un anno tra le due Guerre mondiali, il 1932. Qui, una mattina di febbraio, viene alla luce uno dei giocatori più conosciuti della storia del calcio italiano del ventesimo secolo. Origini slave, cosa non così inusuale vista la vicinanza del mondo jugoslavo, per la precisione slovene, con un cognome che in principio sarebbe stato Malduin. A causa però di un regio decreto dell’anno 1927, che impediva la permanenza nella nostra penisola di famiglie con cognome di origine straniera, quest’ultimo fu conseguentemente riadattato in Maldini. Con il tempo, queste sette lettere riempiranno in continuazione le testate dei più accreditati giornali sportivi e non, portandoci inevitabilmente a parlare di una vera e propria dinastia, capeggiata da
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Cesare, protagonista del racconto, proseguita in maniera eccelsa da Paolo e ora retta da Daniel. Torniamo però ad analizzare da vicino la storia del capostipite, il “mulo de Servola”, tradotto per i più profani, o in generale per coloro che non hanno tutta questa affinità con il vernacolo triestino, come “il ragazzo di Servola”. È da questo semplice quartiere, storica enclave slovena, che Cesare si avvicina al mondo del calcio; pare infatti che le sue prestazioni nell’oratorio locale, avessero impressionato non poco l’allora massaggiatore della Triestina, tale dottor Cerne. Questo signore, convinto delle potenzialità del ragazzo, contribuì a farlo provinare con la società alabardata, con la quale disputò tutta la trafila, prima dell’esordio in Serie A avvenuto il 24 maggio 1953. Quel giorno, indelebile nella mente di Cesare Maldini, anticipò di qualche mese un fatto abbastanza grave, occorso in occasione della prima giornata di campionato. Si dice infatti che al momento di partire per Torino,
dove si sarebbe dovuta svolgere la sfida contro la Juventus, quattro giocatori si ammutinarono per protesta contro i mancati pagamenti del loro stipendio, portando pertanto l’allenatore a schierare al loro posto alcuni giovani della primavera, tra cui anche Cesare. L’uomo alla guida di quella squadra era un triestino incallito di nome Nereo Rocco, per tutti il “paròn”, noto per essere il primo fruitore, nel dopoguerra, di un calcio meno orientato alla fluidità e alla bellezza, focalizzato maggiormente su di una disposizione tattica ossessiva e su una strenua difesa: il “catenaccio”. Al di là però della visione o della concezione del gioco, per Maldini il suddetto allenatore era molto di più, un sorta di padre, presente in quel pomeriggio piemontese e immancabilmente nella magica notte londinese del ‘63. Prima di arrivare a quella serata, il giovane triestino avrà modo di consacrarsi definitivamente durante la
Il calcio in controluce stagione 1953/54 al termine della quale il Milan, allora nelle mani dell’imprenditore Andrea Rizzoli, ne avvalorerà l’acquisto per ben 58 miliardi di lire. L’esborso, non indifferente ai tempi, era motivato da una richiesta esplicita da parte del mister rossonero dell’epoca, Bèla Guttmann, colui che notando per primo le potenzialità di Maldini affermò: “Questo ragazzo è da Milan e nel Milan giocherà”. Per chi non lo conoscesse, il “maestro” ungherese fu tra i primi a teorizzare il modulo 4-2-4 e successivamente l’uomo che lanciò Eusebio, la “Pantera Nera”, uno dei più forti giocatori della storia portoghese e centravanti del suo Benfica, in grado di vincere per due anni consecutivi la Coppa dei Campioni. Oltre al tecnico magiaro, reo di averlo riadattato come centromediano o libero, Cesare deve, come detto in precedenza, moltissimo a Nereo Rocco. Era lui che sedeva sulla panchina rossonera quella memorabile sera del 22 maggio
1963, quando il Milan si impose con il passivo di due reti a uno contro il Benfica, grazie a due marcature di Altafini. Quel giorno risulta oggi, rianalizzandolo, abbastanza paradossale: è storico, perché la società meneghina fu la prima squadra italiana a trionfare in campo europeo, con Cesare a farne da capitano, ma più di tutto è particolare perché mostra due creature plasmate da Bèla a confronto. Da una parte il mulo triestino e dall’altra Eusebio. Maldini disputerà la sua ultima partita con i “diavoli” milanesi, esattamente tre anni dopo, contro il Catania in un match a senso unico terminato con il risultato di 6-1. Il gol dei siciliani fu un’autorete di Cesare, questo però al popolo milanista non interessava. Tutti erano affranti, perché consapevoli del fatto che in quel momento un’istituzione se ne andava, lasciando un vuoto incolmabile nel prato di San Siro.
Nessuno ancora poteva immaginare che quella voragine si sarebbe chiusa in poco tempo, ma soprattutto che a farlo potesse essere un altro Maldini: il figlio Paolo.
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L’arte in cronaca di Alice Vettorata
Le ILLUSIONI nella PITTURA
Osservando delle opere appartenenti all’arte visiva come a quella cinematografica o teatrale, risulta evidente che gli autori spesso devono ricorrere a degli espedienti per creare delle illusioni nelle quali far immergere il pubblico. Sin dall’antica Grecia nell’arte pittorica sono stati realizzati dipinti che ricoprivano pareti dei palazzi, emulando scenari capaci di sfondare la quarta parete e di illudere l’osservatore. In età Barocca questo stile si affermò maggiormente assumendo il nome di Trompe l’oeil, letteralmente, “inganna l’occhio” con finte prospettive e illusioni. Nel cinema e nel teatro allo stesso modo si finge costantemente per creare una patina di verosimiglianza, anche in questo caso con il fine di infrangere la quarta parete e di coinvolgere gli spettatori. Queste sono alcune delle finzioni subito visibili, ma l’arte non si limita a ingannarci solo su questo livello. Per Platone quest’ultima è una menzogna che emula la realtà, dato che il pittore ne ritrae una copia. L’artista diventa così un ingannatore capace di depistare chi la osserva. Un aneddoto che si basa su questo concetto ha come protagonisti i pittori della Grecia antica
Zeusi e Parrasio e una gara di pittura e ci viene narrata da Plinio il Vecchio. Si racconta che Zeusi ritrasse un grappolo d’uva ricoperto di gocce di rugiada e la loro verosimiglianza fu tale da ingannare dei passeri che provarono a beccarne gli acini. Certo di aver vinto la sfida, Zeusi spronò il rivale a svelare la sua tela. Immaginate il rammarico del pittore scoprendo di essere stato ingannato dallo sfidante, il quale aveva proprio dipinto come soggetto un telo. Parrasio non aveva ingannato l’istinto animale come aveva fatto Zeusi bensì il raziocinio umano. Questo è solo l’inizio della finzione nell’arte. Un esempio concreto da prendere in analisi per poter comprendere questa dinamica è l’opera manierista di Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, tela che fa ragionare l’osservatore già con il proprio titolo, dato che non ci presenta il reale protagonista del quadro, bensì gioca con la simbologia e i personaggi presenti, per farci capire a lettura avvenuta che la reale protagonista è la personificazione dell’inganno, ritratta con le sembianze di una fanciulla dal corpo di serpe. Facendo un salto temporale importante approdiamo al movimento Surrealista nato negli anni venti del Novecento, a Parigi. Una cerchia di artisti influenzata dalle recenti scoperte e introduzioni nell’ambito della psicologia, in fattispecie quelle più incisive attuate da Freud e Jung, tradusse in
immagini le nuove teorie scientifiche. Tra gli esponenti più noti è presente il belga Renè Magritte, pittore distante dallo stile degli altri surrealisti portavoce della corrente come Salvador Dalì o Max Ernst, più inclini a rappresentare scenari impossibili se non nel mondo onirico, ma più direzionato invece a dipingere in modo verosimile episodi improbabili. Magritte nelle sue tele infatti inganna l’osservatore servendosi dei meccanismi della grammatica del linguaggio e li incorpora a delle scene surreali, servendosi di prospettive insolite e illusioni. Come è stato evidenziato per il dipinto di Agnolo Bronzino, anche Magritte giocò molto spesso con i titoli, con la negazione e il paradosso. Un esempio è la celebre “La Trahison des images” conosciuta come “Ceci n’est pas une pipe” che fa ragionare sul fatto che non si sta osservando una pipa bensì la rappresentazione di essa. Rimanendo nell’ambito della psicologia indagata dai surrealisti, lo psicanalista Jacques Lacan, commentando l’aneddoto di Zeusi e Parrasio, osservò che gli esseri umani sono attratti dall’idea di ciò che è nascosto. In quanto osservatori siamo sedotti dallo scostare il telo per poter comprendere l’arte e il suo inganno.
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Il personagio di ieri di Paolo Rossetti
Sonja Henie, la regina del ghiaccio
È stata una delle più grandi campionesse di tutti i tempi. Quella di Sonja Henie è una stupenda favola. Di questa vivace ragazzina nata nel 1912 a Oslo che sin dalla più tenera età scopre e dimostra una particolare predisposizione per i pattini. Da essi è attratta più di ogni altra cosa e ben presto il gioco di una bambina si trasforma in vera passione e vero amore. Una passione che l’accompagnerà per tutta la vita.
È
stata la più giovane pattinatrice di sempre nella storia del pattinaggio e dei giochi olimpici. Partecipò, infatti, all’età di 12 anni a quelli invernali del 1924 a Chamonix e pur giungendo ottava su otto partecipanti, gli esperti e il Rapporto Ufficiale di quell’edizione, considerato il suo eccellente programma libero, pronosticarono per lei un grande avvenire. E così fu. Nel 1927 la 15enne Sonja vinse il suo primo titolo mondiale seguito da altri dieci consecutivi dal 1927 al 1936 che la incoronarono regina incontrastata
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dell’artistico femminile. E a questi titoli si aggiunsero sei campionati europei (dal 1931 al 1936) e tre titoli olimpici, nel 1928, nel 1932 e nel 1936. Nessun’altra pattinatrice è riuscita finora ad eguagliare tali risultati. Secondo le statistiche è ad oggi una delle soli sei atlete al mondo ad aver vinto tre medaglie d’oro consecutive ai giochi invernali. Gli altri, per la cronaca, furono lo svedese Gillis Grafström (192028) nel pattinaggio di figura, il tedesco dell’est Ulrich Wehling (1972-80) nella combinata nordica, Bonnie Blair ( USA 1988-94) nel pattinaggio di velocità, il tedesco Georg Hackl (199298) nello slittino e il norvegese Bjørn Dæhlie (1992-98). E altri due primati spettano a questa grandissima atleta: fu la prima ad indossare il gonnellino corto, diventato poi il costume tipico del pattinaggio artistico femminile, e la prima ad aver introdotto nel pattinaggio la coreografia della danza che fino a quel momento era soltanto accennata o eseguita con piccoli e
accennati passi. Le cronache di ieri e di oggi ci dicono che Sonja è stata la regina indiscussa del pattinaggio su ghiaccio anche perché, quando gareggiava o si esibiva, dimostrava una semplicità “disarmante” esprimendo numeri di altissima scuola con una tecnica sopraffina ed unica. Nei suo volteggi evidenziava una padronanza, uno stile e un’innata eleganza che in quegli anni, e in tutto il mondo, non aveva eguali. Durante gli esercizi dimostra come le cose difficili potevano
Il personagio di ieri
diventano banali. E il pubblico, estasiato del suo “danzare”, e conscio di assistere a qualcosa di unico e di irripetibile, alla fine la salutava con lunghi e fragorosi applausi che non di rado erano accompagnati da standing ovation. Nel 1936 Sonja Henie, meravigliando il mondo intero, abbandonò lo sport l’agonistico e quindi lo status da dilettante per passare al professionismo. Si trasferì negli Stati Uniti, dove era già conosciuta per aver partecipato alle Olimpiadi di Lake Placid nel 1932, e intraprese la carriera artistica, sia come attrice cinematografica e sia come interprete di spettacoli sul ghiaccio. Il suo debutto hollywoodiano avvenne nello stesso anno con il film musicale “ Turbine bianco” e fu uno dei più grandi successi al botteghino della stagione 1936-1937, piazzando Sonja Henie al settimo posto tra le star dell’anno (Shirley Temple, la piccola diva della Fox, era al secondo posto). Nel 1938, visti i risultati, la 20th Century Fox la mise sotto contratto e con questa casa cinematografica Sonja Henie, lavorò fino alla fine degli anni quaranta, realizzando una decina di commedie sentimentali e musicali che la fecero presto diventare
una delle celebrità più amate. Negli anni cinquanta, concluso il contratto con la Fox, Sonja Henie, sfruttando la popolarità ottenuta sia come atleta e sia con il cinema, continuò a pattinare dedicandosi esclusivamente alle esibizioni e agli spettacoli sul ghiaccio. E le sue esibizioni, parafrasando un vecchio dire, registravano sempre il tutto esaurito. Si sposa con l’armatore norvegese Niels Onstad e con lui condivide, oltre all’affetto e una vita insieme, l’interesse per il collezionismo d’arte, soprattutto con opere della pittura contemporanea europea. Nel 1959 i coniugi espongono la loro ricca collezione, dapprima negli USA poi, in Europa ed infine in Norvegia, il paese amato e mai dimenticato di Sonja. Si ritirò definitivamente dalle scene nel 1960 per dedicarsi a tempo pieno ai “suoi” quadri e alla
ricerca di nuovi artisti. Dopo numerose mostre e acquisti di numerosi dipinti, per volere di entrambi e anche perché il marito vantava già una notevole collezione personale, in parte ereditata dalla famiglia, Sonja, nel 1968, inaugura, nei pressi di Oslo, un centro d’arte e un museo espositivo vero e proprio che ospita tutti i loro dipinti: l’Henie-Onstad Kunstsenter. Il tempo scorre e tutto sembra avere a lieto fine, ma pochi mesi dopo, la regina del pattinaggio si ammala di leucemia in una forma patologia grave e senza speranza di guarigione alcuna. Il 12 ottobre del 1969 Sonja Henie muore mentre è in volo da Parigi a Oslo. Ricordata con una stella nella Hollywood Walk of Fame,ora è sepolta, come il marito, nell’amata Norvegia nel parco Henie-Onstad Kunstsenter
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Il Pattinaggio Artistico Feltre A.S.D è una società sportiva dilettantistica nata nel 2006, grazie alla tenacia di un gruppo di allenatori e genitori che con una visione futuristica avevano capito che il movimento poteva e doveva crescere mettendosi a disposizioni di tutti. Questo perché uno dei valori fondamentali del PAF è il poter garantire a tutta la comunità della vallata feltrina e non solo, la possibilità di appartenere a una società sportiva in cui ognuno trova il proprio posto, indipendentemente dall’età, dal livello e dalla frequenza. La società ha da sempre ritenuto fondamentale formare i propri allenatori e atleti, dando loro la possibilità di crescere, garantendo continuità di valori sociali e sportivi. “Da molti anni, oltre ai risultati sportivi degli agonisti - che non sono mai mancati -, è stato intrapreso un percorso sociale di cui andiamo molto fieri, dallo spettacolo di raccolta fondi per Belluno Donna, al Natale con gli Alpini e in tutte le altre occasioni in cui abbiamo potuto aiutare a modo nostro la comunità. Abbiamo sempre voluto definirci una famiglia, nella quale gli atleti si sentono coccolati e seguiti nel loro percorso di crescita, sia umano che sportivo; quel posto sicuro in cui i genitori ritrovano un ambiente sano, con le giuste regole, per garantire ai loro figli l’acquisizione della fiducia in se stessi e l’autostima, fondamentale poi nella vita adulta”. E per proseguire nella scoperta di questa realtà sportiva ecco le interviste al vice presidente Marino Pellin, da 24 anni dirigente storico del Pattinaggio Artistico Feltrino, a Renato Biti, presidente, e a Isabella Pellin, capo allenatrice.
Un ringraziamento particolare a coloro i quali sostengono la nostra attività e, in particolar modo, agli sponsor che, con la loro fiducia e supporto economico, ci permettono di continuare questo “nostro” magnifico progetto,
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Dialogo aperto con MARINO PELLIN…il dirigente Marino, lei è da oltre 24 anni dirigente del Pattinaggio artistico Feltre. Cosa è cambiato in questi anni? Diciamo che le aspettative sono aumentate per gli atleti di tutte le età. È cambiato notevolmente il modo di allenamento, perché le gare sotto l’aspetto tecnico necessitano di una maggiore competitività. Si aggiunga anche il fatto che i genitori, che sono i tifosi più sfegatati, sono diventati più esigenti nei confronti del loro figli. Vent’anni fa eravamo degli amatori, forse anche un pochino dilettanti mentre oggi le cose sono decisamente cambiate sia da parte degli atleti che della società. Come avete vissuto la pandemia? Purtroppo, per effetto della situazione Covid possiamo dire che abbiamo perso due generazioni di pattinatori. Quelli che erano in buona preparazione hanno dovuto, causa forza maggiore, interrompere gli allenamenti. Gli altri che avevano appena iniziato hanno dovuto fermarsi mentre chi desiderava avvicinarsi al pattinaggio non lo ha potuto fare. Chi, in giovane età decide di iniziare la pratica del pattinaggio artistico lo fa per gioco, divertimento, oppure in cuor suo ha aspettative di diventare
campione? All’inizio nessuno è consapevole di che cosa va incontro e quali saranno le possibilità per emergere. La svolta avviene quando iniziano i confronti con le altre bambine e le altre atlete. In quel momento si prende consapevolezza che per emergere e diventare “qualcuno” è indispensabile non solo un maggiore impegno e allenamento, ma anche continuo sacrificio e continuo lavoro. Credo che avvenga così in tutti gli sport. Alla luce della mia esperienza potrei dire, ma magari mi sbaglio, che all’inizio è più una scelta del genitore che della bambina. Lei e gli altri dirigenti, cosa provate quando una vostra atleta ottiene un risultato di assoluto valore? La soddisfazione è grande e non solo per il risultato ottenuto, ma anche perché si concretizza l’idea che la società ha ben lavorato e ha ben seminato. Ed è indubbio che su questi risultati vanno accomunati tutti gli elementi che hanno determinato l’esito finale. Ed è anche grazie a questi risultati che l’insegna della società comincia a splendere di luce propria e non solo a livello locale, ma anche provinciale regionale e nazionale. E questo è per noi
veramente gratificante. Mi permetta di sottolineare un mio pensiero che spesso richiamo alla mente: se è vero che un’atleta fa grande la società, da par suo la società, con gli allenatori, la dirigenza, e tutti gli elementi che ne fanno parte, fa grande l’atleta. Molti dei “vecchi” atleti che oggi portano avanti la nostra società, sono vissuti a “pane e ghiaccio”, ovvero un panino e via con i faticosi allenamenti. Ed è anche grazie a loro, mi creda, che si devono gli attuali risultati. E in merito ai costi di gestione, le istituzioni vi supportano? Finché c’era la vecchia convenzione con il CONI le nostre spese erano ridotte perché in parte coperte. Con il trascorrere degli anni le cose sono cambiate e, purtroppo, siamo stati penalizzati in quelli che sono tutti i costi di gestione. Oggi, poter conseguire risultati, fare gli allenamenti e concretizzare tutto ciò che comporta l’attività agonistica, spesso dobbiamo spostarci, per cui i costi aumentano e anche notevolmente. Mi auguro che le cose passano cambiare.
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PATTINAGGIO ARTISTICO FELTRE
Per il Pattinaggio Artistico Feltre… …un anno veramente particolare Un anno che non ha paragoni perché mai ci siamo trovati d’avanti a una pandemia globale e alla mancata apertura del nostro amato palaghiaccio. Tutto questo, però, questo non ci ha fermato perché abbiamo imparato a gestire tutte le situazioni, anche quelle più strane. Durante il lockdown siamo rimasti in costante rapporto con tutti gli atleti, insegnando loro a utilizzare le video lezioni come metodo di allenamento, mantenendoli così in perfetta condizione fisica; con l’apertura di maggio, siamo tornati in presenza al Prà del Moro al quale rinnoviamo un “grande grazie!” per l’ospitalità. Con luglio e agosto siamo tornati in pista, prima ad Asiago, poi ad Alleghe. Purtroppo, causa pandemia, i lavori al palaghiaccio erano in ritardo, così da settembre a oggi ad aprirci le porte è stato il palaghiaccio di Pergine, e questa volta il grazie va a Maurilio Meneghini responsabile dell’Hockey Pergine per le ore riservateci con puntualità e costanza, ben 3 volte a settimana, e prolungateci fino a marzo 2021, data la notizia che Feltre non potrà avere ghiaccio prima della prossima stagione.
Pantone 484 C C M Y K
Nonostante tutte queste sfide, il PAF macina continui risultati, con podi nei circuiti federali, sia in fascia nazionale con Riccardo Pesca, terzo a Trento, qualificato per il campionato italiano, che in fascia regionale con ben 5 podi alla gara di Alleghe. Medaglia d’oro per Letizia De Carli e Medlin Mello, medaglia d’argento per Flona Quevanaj, medaglia di bronzo per Valentina Schievenin e Gioia Vieceli, e quarto posto a pari merito per Beatrice Fent, Angelica Pellin, Agata Triches, Gaia Glicidio, Marta Soi. La pandemia non ci ha fermato neanche a livello internazionale: il nostro Seldin Saliù si è confermato anche quest’anno campione della Macedonia del Nord segnando il suo nuovo personal best di 70,25 e atterrando per la prima volta in gara con un salto triplo. Ora lo attende la gara internazionale di Sofia in Bulgaria. E cosa dire della nostra Lucrezia Grigoletto che è vicecampionessa Europea del Circuito del Criterium Europa in attesa di ritirare il trofeo, appena sarà possibile. Nel frattempo ha partecipato alla gara di campionato a Bolzano
classificandosi sesta. Buone notizie anche dalla Danimarca dove Marissa Biti ha ottenuto il marchio d’oro dalla DSU (Federazione danese di pattinaggio), che le permette, da oggi in poi, di gareggiare per sempre nel circuito elite senza dover più pensare ai passaggi di categoria. Possiamo dire con fermezza che abbiamo vinto la gara più importante, quella che ci ha reso più forti che mai, facendoci superare anche l’impossibile. Attualmente abbiamo più di 60 tesserati tra agonisti e corsisti e per fortuna tutti hanno potuto riprendere l’attività a secco al Palaghiaccio di Feltre.
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PATTINAGGIO ARTISTICO FELTRE
La nostra intervista a due voci
Le opinioni e i pareri di Renato Biti, presidente e di Isabella Pellin capo allenatore Renato, come e perché la pandemia ha influito sulla pratica del pattinaggio Feltre? Come già detto, la pandemia non ha fermato il pattinaggio e le attività della società, ma purtroppo ha fermato Feltre. I lavori di ristrutturazione hanno subìto un notevole ritardo, e quando poi finalmente tutto era pronto, la struttura non ha potuto fare ghiaccio causa le restrizioni. Isabella, gli atleti e le atlete come hanno vissuto il lockdown? Si possono svolgere allenamenti a casa? Gli atleti sono stati fantastici, come sempre sono riusciti a insegnare a noi adulti che anche nei momenti più difficili, la tenacia, l’amore e la passione per questo sport fa superare ogni ostacolo. Con gli allenamenti online sulla piattaforma zoom, abbiamo mantenuto la loro forma fisica, in modo da non farci trovare impreparati quando abbiamo rimesso i pattini. Il pattinaggio, nella sua pratica, sposa diverse componenti. Isabella ci può dire quali? Il pattinaggio artistico è uno degli sport più completi, un atleta deve essere agile e rapido nella fase di salto, elastico nelle trottole, deve avere resistenza e fiato per portare a termine il programma di gara,
deve avere una buona base di danza, sia classica che moderna, per interpretare al meglio le coreografie, e deve imparare a gestire la pressione psicologica di una gara, nella quale in circa 3 minuti di balletto ci si gioca una stagione, il tutto stando in equilibro su 2-3 millimetri di lama. Renato, a suo avviso, qual’è l’età per cominciare a praticare questa disciplina? L’età migliore per iniziare questo sport è a 4-5 anni se si vuole intraprendere un percorso agonistico. Io preferisco continuare a sostenere che ogni età è quella giusta, perché il pattinaggio artistico ha molto da offrire a tutti noi. Quali le doti, Isabella, per poter emergere agli alti livelli? Le doti da tenere in considerazione sono molte: la predisposizione fisica, la possibilità di allenamento, le ore di allenamento, il giusto staff tecnico, non solo in pista ma anche fuori, e la possibilità economica della famiglia. Il pattinaggio artistico è uno sport che praticato ad alto livello ha un peso importante nel bilancio familiare. Renato, si può praticare pattinaggio artistico a livello amatoriale?
Certo, come società abbiamo sempre dato la possibilità a tutti di pattinare, indipendentemente dall’età o dal livello. Abbiamo ricavato spazi per i bambini dell’asilo, per i corsi delle scuole elementari, per i ragazzi delle medie e delle superiori. Gareggiando in tutti i circuiti federali, e da sempre abbiamo il corso adulti. Isabella, è più difficile e impegnativo pattinare come singola atleta o in coppia? A livello tecnico non c’è differenza, ciò che cambia è la parte organizzativa. Quando pattini in singolo hai la responsabilità solo di te stesso, mentre quando hai un partner bisogna riuscire a conciliare gli impegni di entrambi. Molti affermano che il pattinaggio artistico può essere uno sport pericoloso. È vero Renato? No. Ogni sport ha una percentuale di pericolosità, ma non è certo il pattinaggio artistico uno degli sport più pericolosi. Agli atleti viene insegnato fin da piccoli che la lama del pattino è come la lama di un coltello, e che per questo bisogna stare attenti. La parte pericolosa di questo sport, sono gli infortuni, che possono avvenire per un errata preparazione a secco, o un sovraccarico di allenamento.
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PATTINAGGIO ARTISTICO FELTRE
La GESTIONE TECNICA
É Giorgia Zampieri a gestire tutta la squadra agonistica e il movimento, affiancata da Isabella Pellin, Stefano Pellin, Giulia Pellin, Simonetta Beppiani, e dal Consiglio Direttivo con soprattutto l’apporto di Anita Larsen che in questo difficile periodo ha sempre fatto sentire la sua presenza, partecipando agli allenamenti e sostenendo gli atleti in gara. Giorgia, che oltre a essere un punto fermo e anche esempio per tutti, è in attesa di poter continuare le sua crescita professionale all’interno della Federazione Italiana Sport Ghiaccio non appena la pandemia lo permetterà. Nel frattempo ha intrapreso gli studi universitari nella facoltà di psicologia con un indirizzo inerente al suo ruolo di tecnico in “Scienze della formazione della preinfanzia”. Non appena Feltre riaprirà a pieno regime l’attività, non vediamo l’ora di poter riabbracciare anche Luciana Ceiner, Chiara Pontin, Silvia Cecchin, e tutti gli altri.
EVENTI IN CITTÀ
7 Dicembre - Dalle ore 17.30 Borgo Ruga: Borgo Ruga Live Music - Libreria Il morto da Feltre, Osteria Casot e Crown Pub EVENTI IN CITTÀ 11 Dicembre - Palazzo Borgasio: “Sotto la polvere” - La stampa antica e il mercato. Conferenza Daniele Bertoldo Vittore Canova - Comune diBorgo Feltre e Ass. Feltre Vivere il centro storico Live Music - Libreria Il morto da Feltre, Osteria Casot e Crown Pub 7 diDicembre - eDalle ore 17.30 Ruga: Borgo Ruga 12 Dicembre Ore 18.00 Galleria d’arte moderna “C. Rizzarda”: Unisono in concerto 11 Dicembre - Palazzo Borgasio: “Sotto la polvere” - LaGroovemakers stampa antica e il mercato. Comune Conferenza di Feltre e Associazione Musicale Unisono di Daniele Bertoldo e Vittore Canova - Comune di Feltre e Ass. Feltre Vivere il centro storico
12 Dicembre Ore 20.30-Chiesa di Santa- Maria deglid’arte Angeli: moderna “Aspettando“C. il Natale” 12 Dicembre Ore 18.00 Galleria Rizzarda”: Unisono Groovemakers in concerto di Feltre di e Associazione ConcertoComune dei cori Montecimon Miane (TV), coroMusicale Calicantus Unisono di Pergine Valsugana (TN) e Vocincanto di Feltre - Coro Vocincanto
EVENTI IN CITTÀ
12 Dicembre 20.30Istituto ChiesaCanossiano: di Santa Rassegna Maria degli il Natale” 12 Dicembre Ore 20.45 Ore Auditorium teatraleAngeli: Tinnifoli“Aspettando “Cuor” di Sandra Mangini
EVENTI IN CITTÀ
cori Montecimon di Miane (TV), coro di Pergine Valsugana (TN) e Vocincanto di Feltre - Coro Vocincanto con NoraConcerto Fuser - Ass.dei Teatrale Bretelle Lasche con la collaborazione del Calicantus Comune di Feltre
12 Dicembre Ore 20.45 Rassegna teatrale Tinnifoli “Cuor” di Sandra Mangini 7 Dicembre - Dalle ore 17.30 Borgo Ruga:storico: Borgo RugaAuditorium Live Musicritrovato -Istituto Libreria Il Canossiano: morto da Feltre, Casot17.30 e Crown Pub storico 7 Dicembre - Dalle ore Borgo Ruga: Borgo Ruga Live Music - Libreria Il morto da Feltre, Os 13 Dicembre - Centro Fiera dell’oggetto - Comune di Feltre eOsteria Ass. Feltre Vivere il centro con Nora Fuser - Ass. Teatrale Bretelle Lasche con la collaborazione del Comune di Feltre 11 - Palazzo Borgasio: “Sotto la polvere” - La stampa antica e il mercato. 11 Dicembre - Palazzo Borgasio: “Sotto la- polvere” -storico: La stampa e ililDicembre mercato. 13 Dicembre Auditorium Istituto Canossiano: “Vaantica di moda 900” diSfilata di moda e percorso culturale - ARC Feltre Salzan Conferenza Daniele Bertoldo e Vittore Canova - Comune di Feltre e Ass. Feltre storico Vivere il centro storico 13 Dicembre Centro Fiera dell’oggetto ritrovato Comune di Feltre e Ass. Vivere il centro Conferenza di Daniele Bertoldo e Vittore Canova - Comune di Feltre e Ass. Feltre Vivere il centro storico 12 Dicembre - Rech Ore e18.00 - Sfilata Galleria d’arte Rizzarda”: Groovemakers 18 Dicembre - Ore 17.00 Galleria d’arte moderna “C. Rizzarda”: Chiara Tessari -diConferenza su 13 Dicembre Auditorium Canossiano: “Va di emoda ilMichela 900” moda emoderna percorso“C. culturale - ARC Unisono Salzan di Feltre Associazione Musicale Unisono 12 Dicembre - Ore 18.00 - Resentera Galleria d’arte moderna Rizzarda”: Unisono Groovemakers in concerto BIRRE ALLA“C.Istituto SPINA - Comune PANINI - TOAST - CAFFETTERIA Walter di Feltre17.00 Galleria d’arte 18 Dicembre - Ore Chiara Rech eMaria Michela Tessari - Conferenza 12moderna Dicembre“C. OreRizzarda”: 20.30 Chiesa di Santa degli Angeli: “Aspettandosuil Natale” Comune di Feltre e Associazione Musicale Unisono- Comune Concerto dei cori Montecimon di Miane (TV), coro Calicantus di Pergine Valsugana (TN) e Vocincanto di Feltre - Coro Vocinca Walter Resentera - Comune di Feltre 20 Dicembre 20.45Maria - Duomo: Concerto di Natale della 12 Banda “Città di Feltre”; ospite ilAuditorium Coro Oio - BandaIstituto “Città di Feltre” 12 Dicembre Ore 20.30 Chiesa diOreSanta degli Angeli: “Aspettando il Dicembre Natale” Ore 20.45 Canossiano: Rassegna teatrale Tinnifoli “Cuor” Ideale per qualsiasi occasione, anche per gruppi condi Nora Fuser - Ass. Teatrale Bretelle Lasche con la collaborazione del Oio Comune di Feltre 20 (TV), Dicembre Ore 20.45 -Valsugana Duomo: Concerto Natale della Banda “Città di (masch. Feltre”; - Banda “Città di Feltre” Concertonumerosi dei cori Montecimon Miane coro18.00 Calicantus di Pergine (TN) e Vocincanto di Feltre - Coro Vocincanto 28diDicembre Ore - Prà del Moro: Campionato italiano e coppa Italia Sprint Sci di fondo e ospite femm.)il Coro 13 Dicembre Centro storico: Fiera dell’oggetto - Comune di Feltre e Ass. Feltre Vivere il Sci Nordico 28Sportful Dicembre Ore 18.00 - Prà del Moro: Campionato italiano e coppa Italia Sprint Sci diritrovato fondo (masch. e femm.) 12 Dicembre Ore 20.45 Auditorium Istituto Canossiano: Rassegna teatrale Tinnifoli “Cuor” di Sandra Mangini 13 Dicembre Auditorium Istituto Canossiano: “Va di moda il 900” Sfilata di moda e percorso EVENTI IN CITTÀ Sci Nordico Sportful diComune con Nora Fuser - Ass. Teatrale Bretelle Lasche la collaborazione del di Feltre Concerto del Gruppo Solo Voci e del Coro La7 Rupe 6 Gennaio 20.30con- Duomo: “Anno nuovo inValentina concerto” di Quincinetto (TO) - Gruppo “Solo voci” SPECIALITÀ CARNE ALLA BRACE Dicembre -Galleria Dalle ore 17.30 Borgo Ruga: Borgo Ruga Live Music“C. 18concerto” Dicembre - Oredel17.00 d’arte moderna Rizzarda”: 6 Gennaio 20.30 - Duomo: “Anno nuovo in Concerto Gruppo Solo Voci e del Corola La Rupe distampa Quincinetto (TO) - Gruppo Chiara “Solo voci”Rech e Michela Te 11 Dicembre Palazzo Borgasio: “Sotto polvere” La antica e il mercato. 13 Dicembre - Centro storico: Fiera dell’oggetto ritrovato - Comune di- Feltre e Ass. Feltre Vivere il -centro storico Comune di15 Feltre Walter Resentera ESPOSIZIONI TEMPORANEE ORARI GALLERIE E MUSEI A PAG ESPOSIZIONI TEMPORANEE ORARI GALLERIE E MUSEI A PAG 15 12 Dicembre Ore 18.00 Galleria d’arte moderna “C. Rizzarda”: Unisono Groovemakers in concerto Ore - Duomo: Concerto di Natale della Banda “Città di Feltre”; ospite il Coro Via Segusini, 17 - FELTRE(BL) - Tel. 0439 302730 13 Dicembre Auditorium Istituto di modaDal il 900” Sfilata20 moda percorso culturale - ARC Salzan Galleria d’arteCanossiano: moderna “C.“Va Rizzarda”: 20 Dicembre, condilaDicembre mostrae“Valli mai20.45 viste”... un’altra Venezia: quello strano T O Rinfo@lacasona.it A N T E Galleria moderna “C. Rizzarda”: DalDicembre 20 Dicembre, la mostra “Valli mai viste”... Venezia: stranoItalia Sprint Sci di fon 28 Orecon 18.00 - Prà del Campionato italiano e coppa 12 Dicembre Ore 20.30 ChiesaMoro: di Santa Maria degliun’altra Angeli: “Aspettando il Natale”quello Comune di Feltre e dell’Associazione Internazionale “Dino paesaggio che Buzzatid’arte ha nell’anima - A curaodel Nordico Sportful - www.lacasona.it 18 Dicembre - Ore 17.00 Galleria moderna “C. Rizzarda”: Chiara Rech ediMichela -Buzzati” Conferenza su “Dino Buzzati” delSci Comune Feltre e Tessari dell’Associazione Internazionale paesaggiod’arte che Buzzati ha nell’anima - A cura 12 Dicembre Ore 20.45 Auditorium Istituto Canossiano: Rassegna teatrale Tinnifoli “Cuor” di Sandra Mangini MuseoMuseo Civico: con la mostracon “Armi e materiali belliciedella Prima Guerra Mondiale” 6 Gennaio 20.30 - Duomo: “Anno nuovo in concerto” Concerto del Gruppo Solo Voci e del Coro La Rupe di Quincin Civico: la mostra “Armi materiali bellici della Prima Guerra Mondiale” Walter Resentera - Comune di Feltre 13 Dicembre - Centro storico: Fiera TEMPORANEE dell’oggetto ritrovato - Comune di-Feltre e Ass. Feltre Vivere il centro storico ESPOSIZIONI ORARI GALLERIE E MUSEI A PAG 15 Oratorio dell’Annunziata: Mostra “L’Esculapio di Feltre dal rinvenimento al restauro” Oratorio dell’Annunziata: Mostra “L’Esculapio di Feltre rinvenimento al restauro” 13-Dicembre Istituto Canossiano: “Va di moda il 900” Sfilata di moda e percorso culturale - ARC Salzan 20 Dicembre Ore 20.45A cura - Duomo: didiNatale “Città diArchelogici, Feltre”; ildal Coro Oio Banda Auditorium “Città di Feltre” diAComune Feltre, Soprintendenza ai BB. Banda Archelogici, Associazioni Feltrine ospite Dal 20 Dicembre, con la mostra “Vallisumai viste”... un’altra Ve Galleria d’arte moderna Rizzarda”: cura Concerto didi Comune Feltre, della Soprintendenza ai BB. Associazioni Feltrine 18 Dicembre“C. - Ore 17.00 Galleria d’arte moderna “C. Rizzarda”: Chiara Rech e Michela Tessari - Conferenza paesaggio che Buzzati ha nell’anima - A cura del Comune di Feltre e dell’Associazione Internazionale “Dino Buzzati” Walter Resenterae femm.) 28 Dicembre Ore 18.00 - Prà del Moro: Campionato italiano e coppa Italia Sprint Sci di fondo (masch. Museo Civico: con la mostra “Armi e materiali bellici della Prima Guerra Mondiale”
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20 Dicembre Ore 20.45 - Duomo: Concerto di Natale della Banda “Città di Feltre”; ospite il Coro Oio - Banda “Città di Feltre”
28 Dicembre Ore 18.00 - Prà“L del’Esculapio Moro: Campionatodiitaliano e coppa Italia Sprint Sci di fondo (masch. e femm.) Oratorio dell’Annunziata: Mostra Feltre dal rinvenimento al restauro” Nordico Sportful di Feltre,Sci(TO) Soprintendenza ai BB. Archelogici, Associazioni Feltrine 6 Gennaio 20.30 - Duomo: “Anno nuovo in concerto” Concerto del Gruppo Solo Voci Ae delcura CorodiLaComune Rupe di Quincinetto - Gruppo “Solo voci” 6 Gennaio 20.30 - Duomo: “Anno nuovo in concerto” Concerto del Gruppo Solo Voci e del Coro La Rupe di Quincinetto (TO) - Gruppo “Solo voci”
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A parere mio di Grazioso Piazza
Mobilità, lavoro e pandemia
Q
uanto vissuto negli ultimi mesi, con l’ingombrante presenza della pandemia generata dal virus SARSCov-2, ha destabilizzato alcune delle nostre convinzioni e abitudini in merito al quando e come ci spostiamo. Il trasporto collettivo, pubblico o meno, un tempo baluardo del nostro futuro di mobilità green, ha mostrato il suo lato debole. Se la condivisione di uno stesso mezzo da parte di molte persone rimane garanzia di riduzione delle emissioni inquinanti imputabili al singolo, si è dovuto per la prima volta considerare come questa scelta, almeno nei modi con cui la conosciamo, rappresenti una criticità in caso di esigenza di contenimento di un virus. La gestione del distanziamento e la riduzione dell’affollamento rappresentano nuovi ostacoli in un ambito in cui il rapporto tra costi e ricavi vede i primi superare abbondantemente i secondi. Altrettanto incisivo è stato ciò che molti hanno toccato con mano, ovvero un nuovo modo di approcciare al lavoro, rappresentato da quello che oggi è divenuto un termine noto: smart
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working. Un qualcosa di cui in realtà si favoleggiava da lungo tempo, da quando le connessioni digitali hanno permesso di superare limiti in precedenza solo immaginabili. Un approccio al lavoro che tuttavia rimaneva noto, fino a pochi mesi fa, solo a quei pochi che vi si erano già affacciati, per necessità o superando la pigrizia che ostacola ogni cambiamento. Così è accaduto che fosse il Covid-19 e i DPCM che ne sono derivati ad accompagnarci forzatamente verso questa modalità di lavoro da remoto. Un tema su cui la discussione in atto è accesa e affronta il dubbio se lo smart working sia un bene o un male, se le comodità che esso introduce compensino le criticità che inevitabilmente porta con se, prima tra tutte l’ulteriore taglio alle occasioni di rapporto interpersonale non filtrato da schermi e tastiere. Benché rilevante non è su questo che qui si vuole porre l’attenzione. Più interessante è invece osservare come un’organizzazione del lavoro, nata come risposta ad una emergenza, sembri via via rappresentare un assetto che
per molti perdurerà anche alla fine della crisi sanitaria, pur con quei correttivi tali da ridurre le conseguenze dell’isolamento. Ciò che è certo, se così sarà, è che anche le necessità di spostamento cambieranno, come già accaduto negli ultimi mesi. Molti di coloro che prima sedevano in auto per incolonnarsi lungo gli assi principali o le circonvallazioni cittadine, potrebbero continuare a raggiungere la propria postazione di lavoro percorrendo solo quei pochi metri che la separano dal tinello o dalla camera da letto. Gli effetti appaiono piuttosto evidenti sia nella loro negatività, rispetto all’indotto che basava la propria economia sulla concentrazione di persone nei luoghi di lavoro, sia nelle positività, riscontrabili nella riduzione della congestione stradale cittadina, dei rischi e delle conseguenze che essa porta con sè. Uno degli ulteriori aspetti su cui esistono oggi, a seguito delle azioni di contrasto alla pandemia, maggiori elementi di valutazioni investe il tema ambientale delle emissioni inquinanti da traffico. Se da un lato l’immaginario collettivo disegna un quadro per cui la riduzione delle auto comporta sempre un calo delle concentrazioni di inquinanti in atmosfera, le analisi condotte nel periodo di lockdown della primavera scorsa hanno permesso di costruire un base prima non disponibile, in quanto limitata alla sola osservazione di soluzioni attuate in periodi ristretti di tempo, come targhe alterne o similari. Lavori quali quello pubblicato da ARPAV[1], focalizzato in prevalenza su due fattori inquinanti, NO2 e PM10, potendo osservare dati acquisiti in periodi con vario grado di restrizione, in cui gli apporti (emissioni residenziali, industriali, traffico, …) assumevano pesi diversi, hanno fornito una quadro con aspetti sia di conferma che, in alcuni casi,
A parere mio contraddittori rispetto a quello che può essere un sentire comune. [1] Analisi degli effetti sulla qualità dell’aria delle misure di contrasto all’emergenza COVID-19 in Veneto – Luglio 2020 Con questo numero siamo lieti di avere tra i nostro collaboratori l’Ing. Grazioso Piazza. Laureato in Ingegneria Civile svolge la sua attività quale libero professionista e come Amministratore e Direttore Tecnico della società TPI Ingegneria srl, struttura che opera prevalentemente nell’ambito dell’Ingegneria dei Trasporti e dei Sistemi Informativi, con servizi che spaziano da studi e ricerche a supporto della pianificazione fino alla progettazione stradale, con particolare attenzione agli aspetti funzionali e di sicurezza delle infrastrutture. I servizi, diretti sia a enti pubblici che a soggetti privati,
si integrano con le attività di acquisizione massiva di dati sul campo, resi poi accessibili tramite piattaforme GIS (Geographic Information System). Da qui nasce anche l’attività legata al Building Information Modeling (BIM), particolare applicazione dei sistemi informativi all’edilizia e alle infrastrutture. Nel tempo
libero sperimenta attività complementari a quello che è l’abituale approccio tecnico alle questioni, dedicandosi così anche alla scrittura creativa che lo ha condotto alla pubblicazione di alcuni racconti brevi, all’interno di antologie di autori vari, oltre ad un romanzo ambientato nel contesto dolomitico.
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Tra passato e presente di di Monica Argenta
Paolo Mantegazza
il medico che unificò l’Italia attraverso l’educazione all’igiene
P
aolo Mantegazza è un nome che oramai dice poco. Invece, soprattutto in questo periodo di lavaggi di mani continui, mascherine e arieggiamenti più o meno forzati degli ambienti scolastici o di lavoro, val la pena ricordare che questo fu
l’uomo che per primo a cercò di divulgare le regole per un’igiene basilare a livello nazionale, già più di 150 anni fa. Non è facile riassumere la figura poliedrica di Mantegazza: patriota, convinto assertore della necessità di risanare il Paese, nacque a Monza nel 1831. Da giovanissimo riuscì a frequentare le più autorevoli personalità dell’epoca e respirare le ideologie rivoluzionarie di quegli anni. Partecipò alle Cinque Giornate di Milano del 1848 e, dopo essersi laureato in medicina a Pavia, partì per un lungo viaggio attraverso le principali capitali europee per poi spostarsi in America Latina. Nel 1858 rientrò in Italia e, assolutamente all’avanguardia sui tempi, sviluppò l’idea di un programma di divulgazione scientifica incentrata sulla centralità dell’igiene per mantenere una società sana e felice. Di fatti, egli riteneva che i due concetti fossero strettamente correlati. Per concretizzare la sua strategia di divulgazione, egli impegnò tutta la vita attraverso la stesura di romanzi, la creazione di riviste e soprattutto, la direzione di almanacchi. Gli almanacchi sono oggi un tipo di pubbli-
cazione quasi estinta ma questi “calendari” arricchiti da informazioni da leggere giorno dopo giorno erano il tipo di pubblicazione più diffusa nell’800 perché alla portata di mano anche delle classi meno abbienti e meno colte. Mantegazza capì che se voleva far applicare le recenti scoperte in campo medico sull’importanza dell’igiene al maggior numero di persone, l’almanacco era il veicolo giusto. Così scrisse una lunga e popolarissima serie di “almanacchi igienico-popolari” che pubblicò ininterrottamente dal 1865 al 1905. Di fatti, all’indomani dell’unificazione d’Italia, gli individui, le abitazioni e i luoghi di lavoro nel nostro Paese erano in condizioni igieniche a dir poco allarmanti, ancor peggiori rispetto a quelle delle altre nazioni europee causa la totale mancanza o scarsità di investimenti e provvedimenti a livello nazionale. Gli almanacchi fornirono le indicazioni di base per una corretta
Inizia con questo numero la collaborazione con la dott.ssa Monica Argenta la quale tratterà tematiche antropologiche, sociali e che nello specifico potranno interessare la nostra quotidianità.. La dott.ssa Argenta nasce a Feltre nel 1970 ma si trasferisce a Milano a soli 20 giorni. Dopo la licenza liceale si trasferisce a Londra dove consegue una Laurea in Antropologia e una Laurea Specialistica in Ricerca Sociale. Rientrata in Italia a metà degli anni 90 ha modo di applicare e sviluppare le sue conoscenze e competenze presso enti pubblici e privati. Quali, per citarne alcuni, il Centro Camuno di Studi Preistorici, l’Università Statale di Milano, L’Università di Torino e l’Università di Padova. Ha diretto e svolto attività di ricerca e di politiche di inclusione per svariate amministrazioni locali e Unità Socio-sanitarie in Lombardia e Veneto. Dal 2009 vive in provincia di Belluno dilettandosi col suo violino e continuando le sue indagini e ricerche antropologiche.
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Tra passato e presente gestione dell’igiene domestica e dei luoghi di lavoro e furono diffusi in egual modo da Nord a Sud della penisola. L’opera di Mantegazza contemplò anche la pubblicazione di romanzi con il medesimo intento. Il libro “Testa” fu scritto nel 1887 ed é il proseguimento del libro “Cuore” di De Amicis, pubblicato l’anno precedente e divenuto immediatamente “best seller” nazionale. La trama di “Testa” è infatti la storia di Enrico che, oramai adolescente e ammalatosi per il troppo studio, apprenderà uno stile di vita sano attraverso un susseguirsi di lezioni presso la casa di campagna dello zio. In tal senso, Mantegazza rientra a pieno titolo tra quegli autori che negli anni di costruzione di cultura nazionale, tentarono di unificare le abitudini e i valori degli Italiani fornendo dei veri e propri manuali di comportamen-
to. E’ il caso non solo di romanzieri come Edmondo De Amicis o Carlo Collodi, ma persino di Pellegrino Artusi che nel 1891 pubblica “La Scienza in Cucina e L’Arte di mangiar bene” gettando le basi per una cucina nazionale. Paolo Mantegazza divenne anche Senatore e promotore di svariati provvedimenti riguardanti la regolamentazione dei fenomeni igienici dei territori palustri delle risaie, la prevenzione della sifilide, l’insalubrità delle sepolture. Nel 1869 assunse la prima cattedra di antropologia presso il Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze dove fondò anche il Museo Nazionale di tale disciplina. C’è da ammettere che alla luce delle conoscenze disponibili oggi, alcune teorie di Mantegazza possono quanto meno strappare un sorriso. Tuttavia, molti dei suoi precetti fondamentali rimangono non solo validi ma son contagiosi per l’entusiasmo riposto sulle potenzialità umane. Della sua eclettica attività ci rimane in eredità il suo decalogo per esser sani che riassume tutta la sua biografia e la sua linea di pensiero: 1 - Lavorar sempre 2 - Amar sempre 3 - Amare la donna più di sé stessi
4 - Non metter mai nel bilancio attivo della vita la riconoscenza altrui 5 - Invece di odiare, educare; invece di disprezzare, sorridere 6 - Dall’ortica cavare il filo, dall’assenzio la medicina 7 - Non piegarsi se non per soccorrere i caduti 8 - Aver sempre l’ingegno maggiore dell’ambizione 9 - Domandare a se stessi ogni sera che cosa ho fatto io di bene? 10 - .Avere sempre nella propria libreria un libro nuovo, nella cantina una bottiglia piena, nel giardino un fiore vergine..
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Il calcio in evidenza di Franco Zadra
La solidarietà del calcio amatoriale non si ferma mai...
C
inquant’anni e più di storia appassionata del calcio amatoriale che sboccia in solidaretà sociale tra le più belle e grate esperienze di vita nate dall’incontro di cinque amici al bar, e che continua anche su FaceBook nella pagina di Franco Rech. Quando a metà degli anni ‘60 don Liviano faceva giocare a calcio in Patronato, sotto l’egida della Stella Verde Duomo di Feltre, tanti ragazzi, alcuni di loro ancora in
I primi frutti si sono cominciati a raccogliere nel 2006, in occasione del 1º Torneo Città di Feltre con l’aiuto dato ai bambini diabetici dell’Ospedale di Feltre, dove opera dal 1980 l’Associazione per l’aiuto ai giovani diabetici Belluno-Feltre fondata da un gruppo di genitori di bambini diabetici, intitolata nel 2013 alla memoria del dott. Amedeo Vergerio. In seguito, in crescendo, altre iniziative solidali hanno potuto sostenere l’asilo Don Bosco di Farra di Feltre, quasi a ribadire con loro che «i bambini sono il nostro futuro e la ragione più profonda per conservare e migliorare la vita comune qualche modo “in campo”, come Franco Rech, Livio Gallio, Ferruccio Rizzo, Tiziano Cossalter, Enrico Scarton, Bruno Rigoni, Luigi Bandirali, affiancati nel corso della storia da Giannino Grando, Cajo Corso, e altri giovani, come Igor Bottacco, stava seminando quel seme della solidarietà, cresciuto come un albero concimato dalla passione del buon calcio amatoriale. Fu così che il 18 Agosto 2005, cinque ragazzi si incontrarono in Birreria Pedavena per dar vita a una nuova avventura calcistica, lasciata qualche mese prima abbandonando il calcio militato al C.s.i. di Feltre, non ritenendolo più adeguato ai loro sogni. E il settembre 2005 vede la fondazione de “le Glorie Feltre”, con il sodalizio “Birreria Pedavena”, in capo a Franco Rech, sostenuto dagli amici Giannino Grando, Claudio Corso, Amilcare De Simoi, Nico Nicoletto, Plinio Polla e Lionello Gorza, accomunati dal desiderio di aiutare ogni anno qualcuno in difficoltà.
nel nostro pianeta». Quindi, il Centro Diurno “La Birola” che accoglie persone disabili in età adulta, con il fine di tutelare la dignità e migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie; il banco alimentare del Comune di Feltre che recupera le eccedenze di produzione della filiera agro-alimentare
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Il calcio in evidenza
e le ridistribuisce alle strutture caritative che si occupano di offrire aiuti alimentari ai poveri agli emarginati; l’Associazione Ail che promuove e sostiene la ricerca scientifica per la cura delle leucemie, dei linfomi e del mieloma; l’Ospedale di Lamon; il centro servizi per anziani a Sovramonte, la Comunità di Villa San Francesco Facen di Pedavena che dal 1948 accoglie ragazzi svantaggiati per aiutarli a crescere, e risponde a quell’emergenza educativa generata spesso da adulti smarriti, sprovvisti di valori, passioni, sguardi alti e lontani; e ancora, aiuti a tante altre realtà che divengono presto tradizione, come “4 calci per la vita...” con la Festa dell’Amicizia e il Trofeo “Autoparco Feltre” che il 19 set-
tembre scorso presso gli impianti sportivi di Celarda ha celebrato la sua docisesima edizione.
«Nel corso di questi anni – dice Franco Rech –, abbiamo portato a Feltre, con l’aiuto dell’Onorevole Paniz, la Nazionale Parlamentari, e l’anno 2017 siamo stati premiati per meriti sportivi dall’Assessore Pelosio del Comune di Feltre che ci ha offerto la possibilità di organizzare e giocare allo Stadio Zugni Tauro di Feltre, confrontandoci con la Nazionale Jezzisti».
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Una storia appassionante, una vita che permane nonostante molti dei suoi protagonisti di un tempo non siano più, cresciuta nei prati, spesso nei cortili, lungo le strade, quando bastava spuntasse un pallone per fare nuove amicizie, tra sogni di gloria e ginocchia sbucciate, per passare pomeriggi interi a rincorrere quella magica sfera; momenti di incontro, di svago e di socializzazione per molti giovani della città e provincia, negli oratori, nei sagrati, o in qualsiasi spazio si prestasse a improvvisare una partita. «Possiamo considerare quelli improvvisati campi di calcio delle palestre di vita – dice ancora Rech –, dei luoghi di formazione della persona. Oggi il mondo dello sport è diventato molto più competitivo rispetto a qualche decennio addietro. I ragazzi giocano per lo più in società ben organizzate, calcano i campi veri e consi-
derano l’attività sportiva impegnativa quasi quanto quella scolastica.Forse il calcio moderno ha perso parte del suo straordinario fascino e allora ben venga questa nostra piccola realtà, ben consapevoli di trasmettere ai più giovani questa chiave di lettura per aprire altre piccole “palestre di vita”. Tutti noi, presto o tardi, bene o male, fenomeni o brocchi, abbiamo dato quattro calci a un pallone ed è indubbio che, nonostante tutto, questo sport mantenga ancora oggi intatti i valori di lealtà e le capacità formative di socializzazione che abbiamo incontrato nella nostra giovinezza».
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Società oggi: CHALLENGES MORTALI di Nicola Maschio
I RISCHI ONLINE CHE METTONO IN PERICOLO I PIÙ PICCOLI
I
nternet ha rappresentato, per tutti noi, un’enorme rivoluzione. Si è aperto un vero e proprio nuovo mondo fatto di notizie, immagini, video e social network.
Ma anche pericoli. Più di quanti si possano immaginare. Un triste fenomeno su tutti si è diffuso in questi ultimi anni: quello dei giochi online. Tra l’altro, va detto, definirli “giochi” è fuori luogo. Potremmo etichettarli come “sfide”? Forse. Ad ogni modo, qualsiasi termine si decida di utilizzare per descriverli, ciò che è innegabile è la loro grandissima pericolosità.
Sul web, ad esempio, vengono definite “Challanges mortali”. Partiamo da quella probabilmente più famosa, la trappola della Balena Blu, più comunemente nota come “Blue Whale”. Ideata dal 22enne russo Philipp Budeikin, studente di psicologia arrestato nel 2017, la sfida comportava una serie di passaggi e di ordini dati dal “curatore” (in questo caso, appunto, il giovane Budeikin) sempre più inquietanti. In un primo momento qualche taglio sulle braccia, poi la visione di video dell’orrore nelle ore notturne. Piccole azioni, ma
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Società oggi: CHALLENGES MORTALI sinonime dell’inizio della fine. Si perché questa sfida, terminati tutti gli ordini del curatore, portava le persone al suicidio. Nello specifico, all’interno della lunga lista di ordini (50 in tutto, uno al giorno) alcuni erano volti a “preparare” la persona all’atto finale: si doveva per prima cosa scegliere un edificio molto alto, poi salire sul tetto di quest’ultimo, sporgersi leggermente, fino ad arrivare agli ultimi ordini i quali, in modo del tutto surreale, portavano la vittima ad accettare il giorno e l’ora della propria morte, stabilite dal curatore. E quel giorno, dopo altre sfide dell’orrore, la “balena” (così erano chiamati i partecipanti al gioco) doveva lanciarsi dal tetto di un edificio. Unitamente a ciò, il soggetto passava giornate intere senza parlare con nessuno, isolandosi dal mondo, procurandosi un dolore sempre maggiore, fino a togliersi definitivamente la vita. Una spirale discendente di orrori, da lasciare basiti
ma, soprattutto, increduli nel pensare che qualcuno abbia davvero deciso di seguire tutti questi terribili passaggi. Leggere le testimonianze di chi è riuscito ad interrompere il gioco, ma anche osservare i video di coloro che hanno deciso di togliersi la vita, fa rabbrividire. Ma non è tutto, perché a questa tragica sfida ne sono seguite altre. Molte altre. Le vittime, per la maggior parte, sono state giovani con problemi famigliari alle spalle, che necessitavano di attenzione o con gravi complicazioni relazionali. Pensiamo ad esempio alla Fire Challenge, sfida nata e praticata soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, che portava i ragazzi a cospargersi di liquido infiammabile e darsi fuoco, rigorosamente filmati dalla propria videocamera. Ancora, va citata la Momo Challenge, con la comparsa di una spaventosa maschera all’interno di video per bambini: il personaggio in questione, per l’appunto Momo, diceva al telespet-
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tatore cosa fare per procurarsi dolore fisico, ferendosi e facendosi del male. Fortunatamente, nonostante la paura che anche questo nuovo fenomeno si diffondesse a macchia di leopardo per tutto il globo, i casi di denunce e gli episodi di autolesionismo sono stati pochi. Scampato pericolo? Per nulla. Ultimo episodio in ordine cronologico è stato quello di Johnatan Galindo, personaggio immaginario apparso nella celebre app Tik Tok. Un uomo con la maschera da cane, simile al Pippo dei cartoni animati, che incita alla violenza gli spettatori più piccoli. Anche in questo caso, correndo velocemente ai ripari, si è riusciti ad interrompere il fenomeno sul nascere. Ma i problemi restano e, oggi più che mai visto che spesso siamo costretti a casa, occorre monitorare con cura le attenzioni che i più piccoli riservano al vasto mondo del web.
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Società e vita in natura di Nicola Maccagnan
Pandemia, divieti e ritardi:
la riscoperta della “montagna di mezzo”.
È
stato un inverno “nero” per molti settori ed attività economiche. Per qualcuno, però, lo è stato innegabilmente di più. E’ il caso degli operatori del settore sciistico, più volte sul punto di poter aprire i propri impianti e più volte stoppati – come accaduto lo scorso 14 febbraio – quando oramai i motori di seggiovie e cabinovie erano pronti ad accendersi. Tralasceremo qui di addentrarci nello spinoso dibattito sulle tempistiche con cui sono state prese queste decisioni e sulla necessità di ristori adeguati perché un intero comparto, vitale per l’economia della montagna, non veda completamente cancellata, oramai, una stagione e mezza di lavoro. Qualche società, anche di grandi dimensioni (vedasi il caso delle funivie Saslong in Val Gardena), scoraggiata dall’incertezza dei risultati che avrebbe potuto raccogliere a fronte di investimenti “fissi” comunque ingenti, ha deciso di alzare da subito bandiera bianca e di dare definitivamente per persa l’intera annata. Certo, il paradosso crudele di un inverno mai così nevoso da molti anni a que-
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sta parte e di piste aperte per i pochi sciatori agonisti tesserati con le società del settore è davanti agli occhi di tutti. “Non tutto il male vien per nuocere”, recita però un vecchio adagio popolare. E così in questi mesi abbiamo assistito, in maniera più o meno ordinata, ad un’autentica riscoperta della montagna di mezzo, intendendo convenzionalmente con questa dicitura tutta l’offerta di servizi turistici, e non, che sta sotto i grandi comprensori dolomitici e alpini.
Piste e sciovie chiuse? Gli appassionati della neve, mai così abbondante, si sono riversati in massa sui pendii accessibili per lo sci-alpinismo, hanno preso d’assalto gli anelli per il fondo, hanno calzato le ciaspole su itinerari mozzafiato in mezzo ai boschi e sui prati di montagna, o – più semplicemente – hanno riscoperto il gusto per una passeggiata all’aria aperta dal sapore tipicamente invernale. Si osserverà che i ritorni economici di questa tipologia di turismo, che è solitamente giornaliero e non sfrutta le opportunità del soggiorno alberghiero, sono decisamente inferiori rispetto alla tradizionale settimana bianca, o anche solo alla sciata della domenica. Non c’è dubbio. Da questo punto di vista non c’è, e non potrebbe esserci, compensazione alcuna. Per un territorio come quello del Feltrino, della Valbelluna, del Bellunese e dell’Alpago, per caratteristiche geografiche fuori dai grandi caroselli dello sci, è stata però una preziosa occasione di riscoperta. La “mezza montagna” appunto, ha dimostrato che può e sa essere
Società e vita in natura
attrattiva non solo d’estate, ma anche durante il periodo invernale. Si tratta di un turismo più “lento”, di immersione nei paesaggi naturali. Qualcuno si è spinto addirittura a parlare del recupero della gita “a misura d’uomo”. Sarà gloria vera o un fuoco di paglia (magari dettato soltanto dalle abbon-
danti nevicate e dalla chiusura forzata degli impianti da sci)? Si tratta, in ogni caso, di una tendenza da non trascurare. Le ricerche a livello europeo segnalano che da anni è in atto, soprattutto su impulso dei Paesi del Nord, una riscoperta del viaggiare lento; ne sono testimonianze, ad esempio, la
grande crescita del cicloturismo, anche internazionale e la riscoperta delle vacanze nelle aree ritenute più periferiche. Anche nel Feltrino non mancano esempi virtuosi di questo tipo, che riguardano non soltanto la città murata, ma zone come quelle dell’”albergo diffuso” di Faller o l’area di San Donato di Lamon. Non solo grandi resse domenicali e autostrade intasate, insomma. La domanda di chi cerca luoghi tranquilli, rilassanti, dove vivere almeno per qualche giorno il distacco dalla frenesia della città è in grande crescita. E non si tratta di un aut aut. La montagna bellunese e veneta può offrire tutto, esperienze a misura di ciascuno. Forse anche grazie a questo strano inverno di pandemia ora saprà anche farlo meglio, o quanto meno ne prenderà coscienza. Ne va del futuro di un intero territorio e delle comunità che lo abitano.
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Società oggi di Patrizia Rapposelli
VIOLENZA NEI FESTINI di Alberto Genovese L’opinione pubblica condanna le giovani a una seconda violenza.
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agazze di eccessi, sesso e droga possono legittimare la violenza maschile? Mi chiedo se sono aggravanti. Uno stupro non è mai giustificato, ma quest’idea barcolla con il clamore mediatico della vicenda Genovese. Dicono “Se lo sono cercato” e il giudizio pubblico cavalca l’onda della corresponsabilità per quanto loro successo. Le vittime si devono difendere dall’attacco popolare. Dal danno alla beffa. Il mago delle start up Alberto Genovese arrestato a Milano lo scorso novembre con l’accusa di abusi sessuali nei confronti di una ragazza di 18 anni e indagato tutt’ora per altre sei violenze commesse, riesce a spostare l’attenzione da sé alle malcapitate. A farlo non è l’uomo d’oro dell’Innovation Digital italiano, ma la pressione mediatica e dell’opinione pubblica riguardo la vicenda accaduta. Infatti, il comportamento delle giovani, trascinate nell’esca perversa dell’acme dionisiaca dell’imprenditore, sta passando sotto la lente d’ingrandimento di un pregiudizio sessista retrivo che inevitabilmente offusca e minimizza la responsabilità dell’autore delle violenze. Da vittime a poco di buono il passo è breve; risucchiate nel tritacarne del giudizio, delle allusioni e delle insinuazio-
ni, raccontiamo di una seconda violenza, quella derivata dal sistema generale. Da una parte i social traboccanti di commenti e opinioni, dall’altra una corrente mediatica che tende a riprodurre costantemente ciò che è successo, alla ricerca di elementi utili a capire una storia che non ha nulla da comprendere. L’unica retrospettiva plausibile è quella che fa capire che non doveva accadere. Da Milano ad Ibiza i party lussuosi dell’uomo d’oro sono noti per quelli del giro: location di divertimento sfrenato, teatro di lusso, droga e giochi erotici, scenario agli occhi delle più giovani di opportunità. Nell’Italia “bene” i festini a base di sesso e cocaina rimangono silenziosi, ma da quella prima storia sordida a Villa Inferno nel Bolognese si è scoperchiato un mondo; un giro di feste a luci rosse dove le prestazioni sessuali venivano pagate con la polvere bianca o gli agganci giusti. È uno di quegli scandali peggiori, tollerati e silenziosi, crimini che pochi osano denunciare. “Tanti sapevano, droga, violenze e silenzi alla corte del mago”. La Terrazza del Sentimento a Milano è solo l’ultimo party costato caro ad una diciottenne, forse la storia più eclatante e brutale come sentito dire o considerata tale per il clamore mediatico prodotto. I racconti di violenze sessuali non hanno differenze, sono tutti disumani. A quella festa era chiaro ci sarebbe stata una “fattanza” e chi vi partecipava ne era consapevole, inutile negarlo. L’attrazione per un
ambiente dorato fa emergere il potere e l’onnipotenza di chi può tutto. La droga nei piatti di portata e i soldi che l’imprenditore scialava per tutti. In queste feste le ragazze non hanno disdegnato qualche riga di coca, maldestramente valutata la situazione, il finale lo conosciamo, ma questo non è un buon motivo per adombrare il carnefice e nemmeno un’aggravante. Ingenuità, evidenza di tanti problemi giovanili che caratterizzano la società d’oggi, ma a differenza di questi ultimi, la figura abusata è sovraesposta, attrae l’attenzione del pubblico in modo proporzionale alla gravità dell’accaduto. Forse i media e social network, ma soprattutto chi usa il web per dare libero sfogo alle proprie problematiche. non hanno considerato l’ulteriore violenza cui una giovane donna poteva essere sottoposta. Il giudizio dovrebbe preoccuparsi della fotografia lasciata da questa vicenda, un’educazione zoppa, una generazione fragile, preda di chi ha il potere di gestirli come pupazzi attaccati ai fili d’interessi- materiali- e adulti spesso disposti a chiudere gli occhi davanti alle atroci banalità. Nota: foto d’archivio non sono riferite all’articolo.
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Erri De Luca:
quel peso che può essere salvezza
Erri De Luca nasce con il mare negli occhi, nella Napoli affamata degli anni ’50. Nonostante la sua origine, De Luca è anche un montanaro, un alpinista, uno scalatore instancabile; è muratore, camionista, volontario in zone di guerra; è autodidatta, ricercatore e traduttore di lingue antiche. Ogni esperienza della sua ricca vita non ha escluso le altre, creando un bagaglio quantomai variegato che ci regala oggi l’inconfondibile poesia che scorre dalla sua penna. Pubblica il suo primo libro Non ora, non qui, a quarant’anni e ne viene subito riconosciuto il valore dalla critica. È difficile raccontare di cosa narra, poiché quello che scrive riflette, in qualche modo, la sua vita. Eppure è altrettanto difficile non riconoscere la sua voce tra le righe dei suoi libri. Libri brevi, potrebbe sembrare: io preferisco definirli essenziali. Non c’è sempre bisogno di scrivere molto per dire quello che serve. Quella di De Luca è una brevità densa, che raccogliendo dal proprio bagaglio una manciata di vita vera, la sparge come
fosse semenza, facendo crescere racconti che diventano immagini vivide. De Luca è artigiano, è contadino, è forse, prima di tutto, osservatore. Non c’è narrazione in lui che non sia contenitore di nuove storie. È una narrazione lineare e pulita, che spesso anticipa ciò che sarà, senza troppe sorprese. Tuttavia le pagine scorrono, e a tenerci col fiato sospeso sono bellezza e precisione delle parole. Sono parole che rimangono in testa e ci costringono a pensare. Sono parole che ingrandiscono un pensiero, parole che si fanno spazio in silenzio, parole capaci di trovare posto nella quotidianità. D’altronde De Luca è maestro indiscusso nel trasformare in poesia la vita di tutti i giorni, e nel cantarla in modo semplice ma estremamente vero. Non c’è finzione, non c’è necessità di farlo, c’è solo desiderio di includere nel raccontare l’esperienza di un singolo che diventa esperienza di tutti. Tra i suoi racconti più belli va senza dubbio ricordato Il peso della farfalla. Si dispiega qui con estrema cura e delicatezza la storia più antica del mondo: quella tra l’uomo e la natura. Più che una storia è una lotta che difficilmente trova una risoluzione netta. De Luca dipinge per noi la figura del re dei camosci: un solitario, cresciuto da solo, che si è guadagnato il suo posto in silenzio, conquistan-
do ammirazione e rispetto da tutti gli animali. Lo stesso rispetto viene portato dal bracconiere che lo insegue da tutta la vita: sembra paradossale che un bracconiere porti rispetto per la sua vittima, eppure in qualche modo è così. Sono entrambi vecchi, stanchi; si sono osservati e aspettati da sempre. La tensione è evidente, cresce fino a sovrastare il controllo del bracconiere. Uccidere il camoscio è il suo ultimo desiderio, la sua conferma di essere il vero re. Il camoscio è evidentemente più forte, eppure, il suo istinto naturale gli impone di soccombere. Il bracconiere vince, ma percepisce immediatamente che in questa morte non può esserci una vera vittoria. Così si carica in spalle l’eterno rivale ormai senza vita, e improvvisamente sembra incapace di reggere quel peso. Quel peso fisico diventa peso mentale, peso di un continuo rincorrere, di un cercare di essere superiore che non porta a nulla, peso della natura che ancora sfidiamo, illusi di poter davvero vincere. Le gambe del bracconiere tremano, eppure non riescono a muoversi. Una farfalla bianca, candida, si posa sulle corna del camoscio, naturalmente, quasi senza peso. Eppure è proprio la delicatezza di quelle ali la goccia che fa traboccare il vaso. Il bracconiere cede, crolla, non ce la fa più. È davvero una sconfitta? O è solo natura? Quel peso impercettibile ma decisivo che può sembrare un fallimento, spesso diventa liberazione e nuova vita… Forse finalmente più leggera.
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Medicina e salute di Laura Fratini
Attacchi di panico:
facciamo una panoramica
L
a parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente dal “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata. Questo è quello che succede a chi prova gli attacchi di panico: si manifestano con un improvvisa e intensa paura in assenza di un reale pericolo, accompagnata da sintomi somatici, dovuti all’attivazione del sistema simpatico, e cognitivi (paura di impazzire, di perdere il controllo, paura di morire). Generalmente raggiungono rapidamente l’apice e sono di breve durata (di solito 10 minuti). Quali sono i principali sintomi degli attacchi di panico, cosa succede a chi ha questa spiacevole esperienza, voglio di seguito elencarvi i segnali più comuni: *rossore al viso e talvolta all’area del petto; *capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi; *parestesie, più comunemente rappresentate da formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso; *difficoltà respiratoria, tecnicamente defini-
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ta dispnea o soffocamento; *aumento della sudorazione oppure brividi, legati a repentini cambiamenti della temperatura corporea e della pressione; *nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali; *tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace; *tremori o scatti. Inoltre, durante questa esperienza si possono avere le seguenti sensazioni: *paura di perdere il controllo; *paura di impazzire; *non appartenenza alla realtà, derealizzazione; *osservare dall’esterno cosa accade al proprio corpo, depersonalizzazione; *non gestione di qualcosa di terribile; *paura o convinzione di stare sul punto di morire; *crisi di pianto. Dopo il primo attacco di panico che generalmente fa da spartiacque tra un prima e un dopo, vi sono dei fattori che mantengono e alimentano il problema, ostacolandone la soluzione e creando la sensazione che tutto ciò non possa avere una fine. Attenzione selettiva Consiste nel monitoraggio delle proprie sensazioni interne con una particolare attenzione alle situazioni temute, allo scopo di verificare la presenza di segnali che potrebbero scatenare l’attacco di panico. Ciò produce un abbassamento della soglia di percezione di queste sensazioni e contemporaneamente l’aumento dell’intensità soggettivamente percepita, facilitando così l’attivazione del circolo vizioso del panico. Comportamenti protettivi Hanno lo scopo durante il circolo del pani-
co di prevenire l’attacco di panico. Distrazione È una forma di evitamento cognitivo dell’ansia che implica il tenersi impegnati per non notare sintomi di ansia e la possibilità che si inneschi il circolo del panico. Evitamenti Le persone con attacchi di panico evitano tutte le situazioni che ritengono favorire il panico, cercando di mantenersi all’interno della propria comfort zone che però rischia, col tempo, di restringersi sempre di più. Le linee guida internazionali (NICE National Institute for Health and Clinical Excelence, 2011) indicano la psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, insieme al training di rilassamento, come i trattamenti più efficaci per la cura degli attacchi di panico. Il trattamento cognitivo comportamentale quindi prevede di aiutare il paziente in una serie di passi a: *Prestare attenzione a ciò che si prova, anche al livello delle sensazioni corporee, in un determinato momento; *identificare quali sono i pensieri relativi all’emozione, il proprio dialogo interno; *esercitarsi a mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni disfunzionali; *sostituire i pensieri e le convinzioni disfunzionali con pensieri più vicini alla realtà e più utili per il raggiungimento dei propri obiettivi; *smettere di evitare con l’uso di tecniche comportamentali come l’esposizione enterocettiva e in vivo; *prevenire le ricadute. dott.ssa Laura Fratini Psicologa - Psicoterapeuta Studio, Piazzale Europa n°7 - Trento Tel. 3392365808
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Medicina & Salute di Erica Zanghellini
Quando l’emozione diventa cibo
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hi di noi non ha ceduto al cioccolatino o a un preciso cibo per noi confortante, in una giornata stressante? Questo è quello che succede quando mangiamo per via di una emozione, tutti noi lo facciamo, il problema si verifica quando questo meccanismo diventa la risposta per la maggior parte degli eventi stressanti o spiacevoli che dobbiamo affrontare. Purtroppo ogni giorno dobbiamo scontrarci con qualche grana o qualche evento spiacevole. Capite bene che se la risposta tendenzialmente sarà sempre questa, saremo schiavi e soprattutto avremmo delle conseguenze spiacevoli con cui fare i conti. Ma cerchiamo di capire meglio di cosa parlo. Proviamo ad immaginare di essere vittime delle emozioni che proviamo ed immaginare un possibile scenario casalingo. Ritorniamo a casa, e poi… di solito chi deve fare i conti con questa problematicità, arriva a casa e se non immediatamente poco dopo, appena si ha un momento libero si dirige verso o il frigo o la dispensa. Può anche succedere che per via di
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tenere segreta questa difficoltà, per evitare eventuali giudizi negativi e/o sensi di colpa, la persona si ritrovi a “svuotare il frigo” durante la notte mentre, gli altri dormono. La scena che può rappresentare al meglio questa difficoltà è una persona che magri cucina la cena, e mentre lo fa assaggia, spizzica i suoi cibi preferiti, tanto che alla fine il suo apporto calorico del pasto è stato già consumato mentre, preparava le pietanze. Un’altra particolarità sta nel fatto che non per forza tutte le volte che si instaura questo meccanismo e ci dirigiamo verso la dispensa si ricerchino gli stessi cibi. Gli studi in questo campo specifico infatti ci indicano, che è possibile che asseconda dell’emozione provata la persona ricerchi determinati alimenti. Per esempio può essere che ci si ritrovi in preda all’ansia e si cerchino cibi ipercalorici e salati, e altre volte che magari invece, ci si ritrova ad affrontare emozioni quali tristezza e/o dispiacere per cui gli
alimenti ricercati sono sempre ipercalorici ma, molto zuccherini. Alla base comunque della ricerca di questi comfort food è l’anestetizzazione dell’emozione. Ebbene si, l’emozione diviene intollerabile, per cui la persona cerca un metodo di gestione veloce ed efficace. Il problema emerge se analizziamo le conseguenze a lungo termine, infatti se guardiamo al qui e ora sicuramente l’obiettivo è centrato in quanto l’emozione scende, se invece, guardiamo le conseguenze a lungo termine cominceremo ad intravedere le complicazioni. Questo stile di fronteggiamento emotivo causa diverse difficoltà, se guardiamo il piano emotivo troveremo sensi di colpa/di fallimento, frustrazione, tanto per citarne alcune, se invece ci rivolgiamo al lato pratico troveremo, molto frequentemente aumento di peso che graverà ancora di più sulla precaria situazione oltre a minare la propria autostima. La fame emotiva se domina la nostra vita col tempo bloccherà la percezione della reale fame fisiologica. Spesso infatti, non si riuscirà più a distinguerle e allora come fare per capire?
Medicina & salute Innanzitutto ricollegandoci a quello che accennavo prima, una delle informazioni che può farci capire che siamo in preda a una fame emotiva, sta nel fatto di aver voglia di un determinato alimento. Se invece, la fame è fisiologica, che ci venga presentato un panino o una bistecca non fa grossa differenza, mentre nell’altro caso bramiamo qualcosa di specifico e solo quello la placcherà. Le alternative che magari una persona prova a mettere in pratica per gestirla infatti, spesso e volentieri sono inefficaci e non pienamente soddisfacenti. I cibi di solito ricadono in tre categorie, cibo gustoso, cibo calorico e cibo proibito se così si può dire. Queste sono i generi che si evincono dai racconti delle persone. Il cibo gustoso e calorico spesso infatti è collegato a piacevoli sensazioni, per cui diventa un modo per provare altro, per confortarci. Quanto più intenso sarà il sapore, tanto più ci scatenerà emozioni positive che stiamo ricercando. Ed infine
i proibiti, si è visto che spesso e volentieri le persone stilano una specie di lista di cibi vietati che vengono deliberatamente elusi il più possibile. Questo evitamento in realtà non farà altro che aumentare l’attrattiva per quest’ultimi e soprattutto il divieto assoluto di mangiarlo ci spingerà a cercarlo ancora con più intensità. E per concludere, voglio parlarvi di un’ ultima caratteristica della fame emotiva ovvero il suo andamento. Spesso viene definita come un’onda, ovvero arriva, aumenta velocemente e diventa molto pregnante. Di solito a questo punto la persona cede al cibo, se invece l’individuo riuscisse a distrarsi, con un altro metodo di fronteggiamento più funzionale potrebbe riuscire a spezzare il circolo vizioso. Non è facile e spesso soprattutto nella prima fase ci vuole aiuto, ma se si riesce a interrompere l’automatismo o a ridurlo sensibilmente la persona
riesce a giovarne. Di certo vanno capite le motivazioni per cui si è instaurata questa condotta. Niente avviene per caso e solo attraversando il dolore, la preoccupazione o la paura che c’è dietro si potranno avere dei risultati duraturi. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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Girovagando tra i libri di Francesco Zadra
Le “parrocchie da incubo” non sopravvivranno al Covid Sarà che negli ultimi anni il format televisivo “cucine da incubo”, creazione dell’irascibile chef britannico Gordon Ramsay, è approdato nelle emittenti di mezzo pianeta, con un “da incubo” di tutti i tipi, cucine, ristoranti, case e perfino hotel, ma con l’imperversare della pandemia è diventato più facile leggere la realtà come un incubo dal quale risvegliarsi al più presto. Un risveglio che non sarà privo di conseguenze, e che un parroco di recente ha preconizzato in una omelia con «la Chiesa uscirà da questo tempo con le ossa rotte».
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embra che l’inganno dell’autosufficienza sia giunto per tutti a un punto irreversibile, tanto da bruciare l’anima facendone una terra arida e deserta; sarà forse però un’opportunità per una riforma di quelle “parrocchie da incubo” che il veronese Andrea Brugnoli, laurea in filosofia alla Gregoriana, fonda-
tore di un progetto di evangelizzazione esportato in tutto il mondo, dalla Spagna a Taiwan, nonché tra i responsabili, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, del dicastero per l’educazione cattolica, aveva trattato in uno scritto di qualche anno fa, edito da “Fede & Cultura”, nel quale puntava il dito contro le piaghe
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che affliggono da decenni le parrocchie “d’ogni clima e d’ogni terra”. In tempi non sospetti, sognava «una Chiesa – dice Brugnoli – tutta protesa a formare evangelizzatori. Dove tu vai a Messa una domenica e senti un’aria di famiglia; e quelli che sono nuovi, lì per la prima volta, vengono accolti con un
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Girovagando tra i libri bel sorriso e comprendono subito che quella può essere la loro casa». Ora il sorriso, per via delle mascherine, si legge negli occhi di chi ti accoglie, ma il decoro esteriore rimane importante. «Non siamo fatti di puro spirito – spiega – ma di carne, di colori, di odori, di gusti», e l’occhio continua a volere la sua parte, come sembrano riconoscere gli stessi vescovi che con un decreto della Cei hanno concesso, dal 14 febbraio scorso, San Valentino, il segno della pace con uno scambio di sguardi. Basta alle chiese simil-sovietiche in cemento armato, bacheche in disordine, e foglietti domenicali graficamente orrendi, basta «sciatteria, improvvisazione e canzoni pop di quart’ordine», Brugnoli rivuole il fascino di quei coloratissimi mosaici, le sublimi composizioni musicali, e le luminosissime vetrate gotiche che per secoli hanno riempito il cuore dei cristiani, mentre ora le presenze dome-
nicali, lockdown a parte, sono in caduta libera. Ma ogni nuova proposta, e il testo di Brugnoli ne è una miniera, dovrà essere adattata al contesto per non risultare controproducente, attenti sempre a non “gettare via il bambino con l’acqua sporca”. Attenzione: il manuale farà storcere il naso a chi, nella Chiesa, vive con gli occhi foderati di prosciutto ideologico: dai progressisti sessantottini fino ai più incalliti tradizionalisti, per non parlare dei tanti don Abbondio, né carne né pesce. Ma se riuscirà a trasmettere anche a una sola persona la “vision” ne sarà valsa la pena. Perché ormai, come conclude l’autore: o si cambia o si muore.
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Le storie di oggi di Waimer Perinelli
Vado a VIVERE in MONTAGNA René Spada ha 23 anni e abita a Vignui sopra Feltre. Quando di anni ne aveva 16 ha deciso che “da grande” avrebbe fatto il malgaro e per imparare il mestiere è andato al passo Rolle e, assieme ad altre due persone, ha lavorato sodo. “Non è che mi dispiacessero le luci della valle, dice mio padre è operaio vicino a Feltre, ma mi piacevano la montagna e gli animali”. Oggi la sua vita si alterna fra Trichiana, paese reso celebre da due illustri abitanti, D’incà e Franco, entrati nel governo Draghi, e la malga che gestisce anche come agritur, a Selva di Cadore. E’ La “malga Pien de vacia” che egli divide con gli animali, oltre un centinaio di mucche e dieci cavalli nei mesi estivi. Lavorare in malga è oggi un’impresa nella quale lo aiutano la madre, che ha lasciato il lavoro in valle e la sorella, anche lei appassionata di montagna e compagna di un altro giovane malgaro.
La scelta di René per quanto singolare non è unica. Una recente indagine statistica ci rivela che in mezza e alta montagna, dopo il calo di abitanti registrato fra il 2005 ed il 2018 quando la popolazione è passata da 7milioni e 444mila a 7milioni e 355mila, c’è una netta ripresa grazie soprattutto ai giovani. Il ritratto o identikit del giovane malgaro, per scelta, rivela che ben il 41% ha frequentato o frequenta l’università, il 67% aveva un precedente lavoro, qualcuno a tempo indeterminato. La maggior parte di questi giovani una volta conosciuta la vita di montagna dichiara di non volerla più cambiare. Le motivazioni sono varie ma dominano la qualità della vita/ambiente 79%, e le relazioni sociali contatti umani. Gli stranieri, rivela la rete internazionale Fo80
rAlps, erano nel 2018 più di un milione e mezzo, oltre 400 mila di loro vive nei comuni alpini. Fra loro molti tedeschi e inglesi, molti migranti economici, pochi i rifugiati e fra loro la brava Agitu Gudeta la quarantaduenne etiope che, dopo la laurea in sociologia a Trento, ha scelto di allevare capre nella vicina valle dei Mocheni. La sua esperienza nella Malga “La capra felice” ha avuto purtroppo un epilogo triste: la donna è stata assassinata da un suo lavorante per un presunto debito di poche centinai di euro. Da questa storia triste ne nasce un’altra con una diciannovenne del luogo, Beatrice Zott, con due anni di esperienza in una malga svizzera
che si è offerta di accudire le 180 capre di Agitu, ma dopo un breve periodo è stata costretta a lasciare l’incarico in attesa che si risolvano alcuni problemi ereditari. Il sociologo Andrea Membretti, dell’università di Pavia fra i fondatori dell’associazione Riabitare l’Italia, rivela che molti giovani chiedono di abitare e lavorare in montagna ma le possibilità di successo sono solo del 10% perché sono richieste competenze, professionalità e caratteri particolari. La solitudine per alcuni mesi può apparire romanticamente una panacea ma in realtà richiede equilibrio e una grande carica emotiva. La ricerca “ Vivere dentro” condotta dall’Associazione con il supporto di Swg
Le storie di oggi e finanziata dalla fondazione Vismara, svela che su mille giovani fra i 18 e i 39 anni, quattro su dieci hanno frequentato o frequentano l’università; più del 50 per cento ha vissuto qualche tempo in città; o all’estero. Due su tre hanno un lavoro o hanno un progetto di lavoro nell’allevamento o agricoltura. C’è chi alleva capre, produce formaggio, lana e maglioni, chi investe in tecnologie rinnovabili: al posto dell’alternatore a benzina, ci sono i pannelli solari, se non, nei casi più “rustici” l’acqua con la ruota dalla roggia, come da tradizione antica, attaccata all’alternatore. Naturalmente come nel caso di René Spada il lavoro della terra e l’allevamento si concretizzano anche nell’ospitalità con l’ apertura di Agritur. Pensate che il giovane di Vignui aveva iniziato a coltivare i celebri fagioli di Lamon prima di approfondire la propria esperienza in malga. Molte le coppie unite nella scelta agreste e fra loro, frequente-
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mente, c’è chi mantiene un contatto di lavoro a valle. La Fondazione genovese Edoardo Garrone per lo sviluppo sociale e culturale, sostiene dal 2014 le StartAlp ed ha contribuito alla nascita di 40 nuove imprese avviate da giovani con un’età media di 29 anni. La possibilità di riuscita è, come abbiamo visto, molto bassa perché l’ambiente è
difficile e, in qualche caso ostile. Non solo quello naturale, anzi, per realizzare questo sogno, oltre alla professionalità e resistenza alla fatica, servono umiltà e tempo: solo così si viene accettati dalla comunità. Andare a vivere in montagna raramente è una scelta economica perché i soldi non crescono fra i rododendri: è una scelta di vita.
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Innovazione tecnologica di Grazioso Piazza
Due o quattro ruote?
Come i motori elettrici cambiano i nostri mezzi.
Con che veicoli ci muoviamo oggi e quanto diversi sono rispetto a quelli che usavamo anche solo pochi anni fa? Un’innovazione tecnologica che avanza a grandi passi ci ha portato svariate novità, inducendo effetti su quelli che sono i nostri comportamenti. Senza entrare eccessivamente negli aspetti tecnici della questione guardiamo nel nostro garage a quello che è il più semplice mezzo che da sempre è stato a nostra disposizione: la bicicletta. Questa non è più il mezzo sgangherato che caratterizzava gli studenti o quello, pur più curato, che costringeva i non troppo allenati a giungere in ufficio con la camicia quale testimone delle energie spese. Non è più quello che ricordano i nostri nonni o i bimbi non millennials. È divenuto invece un condensato di tecnologia, dove la pedalata assistita rende l’utilizzo accessibile a tutti, anche in presenza di un’orografia sfavorevole. L’onere dello sforzo per la componente umana non è eliminato del tutto in quanto l’assistenza comporta che il motore elettrico entri in aiuto solamente se è il ciclista a dare il proprio contributo sui pedali, garantendo quindi quel minimo di attività che è di grande beneficio per la nostra forma fisica.
Nel momento in cui tale spinta viene a mancare cessa anche quello che è l’aiuto fornito da un motore elettrico. L’interesse che ora desta quello che da sempre è il mezzo più accessibile è testimoniato dalle vendite che hanno visto chiudersi il 2019 con un incremento del 7%, trainato appunto dal mercato delle e-bike dove la crescita è stata del 13%, con una produzione nazionale cresciuta del 209%. Analogamente la propulsione elettrica si allarga e acquisisce sempre maggiori quote anche nel mercato dell’automobile, mezzo più utilizzato per gli spostamenti di media o lunga percorrenza o da parte di chi, per esigenza o per scelta, richiede una maggiore comodità o capacità di trasporto. Qui le opportunità si concretizzano in un ventaglio di proposte che vanno dalle soluzioni ibride con accoppiamenti tra motori termici ed elettrici a soluzioni più pure in cui sono solo i secondi a garantire la propulsione (full electric). L’assenza di emissioni da parte dei motori elettrici ha determinato la spinta verso un’innovazione che ora si deve confrontare con un sempre maggior approfondimento sulle prospettive reali e sugli eventuali limiti riconoscibili nella diffusione massiccia dei motori elettrici. Le questioni investono prevalentemente due aspetti: i consumi e gli effetti ambientali. Riguardo ai primi ciò che ci si chiede è quale scenario energetico dovremmo affrontare nel momento in cui tutto il parco veicolare circolante divenisse full electric. Alcuni scenari ipotizzerebbero un notevole incremento dei consumi energetici globali, rendendo necessaria una
produzione oggi non facilmente raggiungibile. Gli effetti ambientali, se stimati con valutazioni centrate sui soli mezzi, non darebbero che una visione positiva, data l’assenza di emissioni da parte dell’alimentazione elettrica. Lo sguardo al ciclo di vita dell’energia (nonché delle componenti del mezzo), dalla sua produzione fino all’uso che ne può fare l’auto, complica però la questione. Oggi la produzione di energia non è carbon free e un massiccio incremento dei consumi non potrebbe essere soddisfatto dal solo uso di fonti a impatto zero. Alcune stime, ad esempio, mostrano come nazioni dotate di un’elevata produzione di energia da nucleare possano effettivamente godere della conversione in elettrico del parco auto, migliorativa dal punto di vista ambientale. Al contrario, nazioni oggi più legate alle fonti fossili potrebbero scontare effetti anche peggiorativi, con un potenziale aumento delle emissioni in atmosfera. La tecnologia apporta quindi il proprio contributo, mentre a noi sta la lucidità di analisi, ripulita da ideologie distorsive e dalla tentazione di considerare un settore disgiunto da altri, al fine di garantire una fruizione ottimale delle nuove opportunità che ci sono offerte.
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Storie di casa nostra di Andrea Casna
L’ultimo anno di guerra fra fame e miseria
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917-1918, l’ultimo anno di guerra, fu il più difficile. Fu l’anno della fame, delle carestie e anche degli scioperi. La popolazione cominciava ad essere stanca di quella guerra che aveva mobilitato 60milioni di uomini. Il prezzo, in termini di vite umane, fu enorme: 10milioni di morti. Per fare un esempio, l’Italia mobilitò 5milioni di uomini, 650mila non fecero ritorno a casa e altri 400mila tornarono mutilati. Milioni furono anche i civili costretti a sostenere lo sforzo bellico lavorando come operai militarizzati al servizio dell’esercito oppure nelle fabbriche per la produzione di armamenti. La Fiat passò da 4mila addetti, nel 1914, a 40mila nel 1918. Stesso discorso per l’Ansaldo: da 6mila nel 1914, 11mila nel 1918. L’intero sistema produttivo, di ogni singolo paese in guerra, fu convertito a fini bellici. A partire dal 1917 l’Europa conobbe una crisi alimentare senza precedenti. Nell’agosto del 1917 le donne di Torino scioperarono contro la mancanza di pane. Stesso discorso nelle
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grandi capitali europee: Parigi, Londra Berlino e Vienna. In Russia gli scioperi si tramutarono presto in una rivoluzione. Il 1917 fu l’anno che segnò la svolta. L’Italia, dopo la disfatta di Caporetto fu costretta e rivedere i piani militari sostituendo Luigi Cadorna con Armando Diaz, aumentando la produzione industriale per fare del Regio Esercito una vera macchina in grado di contrastare l’esercito austro-ungarico sulla linea del Piave. L’Austria, priva di materie prime e con il blocco navale che le impediva di poter accedere ai generi di prima necessità, si trovava in una situazione alimentare drammatica. Dopo Caporetto le terre
occupate (Friuli e Veneto) conobbero un vero e proprio saccheggio: le risorse locali furono destinata in gran parte a rifornire l’esercito occupante. Si stima che partirono più di 5mila vagoni colmi di materie prime, cibo e macchinari: tutto per sostenere lo sforzo bellico dell’esercito austroungarico. Nel Feltrino a raccontare uno spaccato di storia è il diario di Almerico de Marchi, un esercente di Seren, testimone di quel periodo difficile. Nel suo diario ci racconta di un esercito imperiale privo di cibo con i soldati che spesso indossano vestiti civili perché privi della divisa. Al febbraio 1918 Almerico scrive: «Granate in Valle; un tedesco ha preso un bossolo sulla testa. Le batterie sotto S. Siro e Peurna tirano contro aeroplani italiani. Tanti giorni manca il rancio ai soldati. Questi sono stanchi e capiscono che hanno da fare un brutto passo. (…). i bosniaci continuano a rubare. Sono ridotti con pochi chili di patate, 15 fagioli e tre galline. (…). Un vitello abortito fu disotterrato dopo tre giorni e in parte mangiato dai soldati. Porto -scrive sempre Almerico- le tre galline in cantina e le riporto in cucina la sera per precauzione. Quante notti sono sceso in cantina per
Storie di casa nostra
vedere se mi portano via tutto». Il diario di Almerico è ricco di dettagli. A marzo scrive: «questi austriaci rompono le ossa dei muli morti trovate nelle latrine e ne succhiano la midolla, mangiano sorgo rifiutato dai muli, raccolgono fagioli crudi trovati nella via..». Col passare dei mesi la situazione è sempre più difficile: «finora (in sei mesi) i tedeschi ci hanno tolto, si
può dire, tutto e dato niente (…). Essi, pare impossibile, hanno tanta tolleranza; mangiano male e poco e si dicono sicuri della vittoria». Nel suo diario Almerico non si risparmia nell’annotare fame e miseria: «Mangio minestra con erbe che mi fa dolore tutta la notte. Vado ad Aren a lavorare per mangiare. Mi fanno caricare ghiaia a S. Lucia. Colazione niente, a mezzodì rancio militare, alle 5 un po’ di caffè cattivo. Mi duole la schiena, essendo io abituato in bottega». Al 25 giugno 1918 Almerico scrive una cosa molto interessante: «i prigionieri dicono che i tedeschi fotografano i bimbi delle scuole con una pagnotta ciascuno, per far vedere al mondo che
li trattano bene, poi tolgono le pagnotte, lasciando ai bambini un solo pezzetto di pane». Il diario di Almerico, pubblicato in «1917/1918. Il Feltrino invaso. Testimonianze» (Edizioni DBS, 1993) si conclude con: «31 ottobre – Finalmente... gli italiani arrivano. Corriamo tutti e incontriamo in piazza un caporal maggiore con in mano una sciabola, nell’altra una bomba. Chi piange, chi lo bacia. Uno di quei momenti che la penna non può scrivere».
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Non solo animali di di Monica Argenta
Il Coniglio Con le sue lunghe orecchie, i tratti arrotondati e la pelliccia soffice, il coniglio è ben presente nella mente di ognuno di noi. Indipendentemente dall’esser cresciuti in città o in campagna, di vivere in Europa o in un altro continente, il coniglio è talmente presente nella cultura di tutti i popoli che forse non ha bisogno di presentazioni. La Storia (quella documentata) ci dice però che la relazione con l’essere umano può esser riportata ai tempi dei Fenici quando 4000 anni fa approdarono sulle coste di una penisola ad Ovest delle loro terre e la chiamarono “I-shephan-im” (terra dei conigli):l’attuale Spagna. I commerci per mare e per terra e la famigerata capacità riproduttiva hanno contribuito poi alla sua rapida diffusione. Attraverso tecniche di selezionamento delle razze, operate in gran parte dai monaci medioevali, l’addomesticamento del coniglio si sviluppò e si rivelò pratica alquanto diffusa.
Buongiorno Dottor Franchi, sempre meno le persone percepiscono il coniglio come cibo bensì sempre più sta diventando un nostro compagno d’affe86
Ma assieme allo stomaco, il coniglio ha alimentato innumerevoli miti e rituali. Inoltre, nelle opulente società occidentali, il coniglio si contende il 3° o il 4° posto tra gli animali di compagnia più diffuso nelle nostre case. Niente di male o strano: in effetti il coniglio è un mammifero capace di grande affetto e capacità di interazione con l’umano. Tuttavia, è sempre bene ricordare che una sana e felice convivenza si basa sul rispetto, la conoscenza e consapevolezza dei limiti imposti dalle reciproche necessità. A tale proposito possono venire in aiuto le competenze di uno specialista ed oggi vi proponiamo una conversazione avvenuta con il medico veterinario Dottor Eri Franchi, direttore della fattoria urbana “L’Anello di Re Salomone” dell’hinterland milanese, primo centro di recupero animali disabili e di educazione per il rispetto degli animali e dell’ambiente riconosciuto in Lombardia.
zione. Cosa ha da dire a riguardo? Assolutamente nulla di negativo, a patto che si cerchi di rispettarne le caratteristiche etologiche ovvero quell’insieme di bisogni
fisici e comportamentali che ne garantiscono il benessere. Partiamo dalle basi. Cosa mangia un coniglio? L’iconografia del coniglietto che sgranocchia la carota è... Infatti, è ...errata! Principalmente un coniglio dovrebbe mangiare fieno, erba statica dei prati. Le carote sono ricche di carboidrati, così come il pane e se dovrebbe fare un uso ponderato. Al nostro piccolo amico inoltre non dovrebbe mai mancare del legno (scelto fra quelli non tossici) per regolarne la dentatura. Nell’ antica Grecia era l’animale era associato ad Afrodite, dea dell’amore e se ne consumavano le carni e i testicoli per favorire la fecondità. Anche presso molteplici altre culture amerinde o africane si avevano culti e rituali simili. Come rapportarci a questo aspetto se il coniglietto è nostro pet domestico? Ovviamente, se si hanno più conigli e la possibilità che questi si accoppino, dobbiamo
Non solo animali
pensare seriamente alla sterilizzazione. Ma anche se abbiamo un singolo coniglio o una coppia dello stesso sesso la sterilizzazione potrebbe essere la risposta a comportamenti particolarmente aggressivi o nervosi che l’animale può sviluppare. In ogni modo, la singola situazione va valutata caso per caso, confrontandosi col proprio veterinario. Presso i Celti, ma non solo, il coniglio è considerato un animale caro alla Luna. Ciò significa che è un animale che può
rendere rumorose e movimentate le notti del suo convivente umano? No, il coniglio non è un animale notturno. Come tutte le prede però in natura si muove maggiormente avvalendosi dell’oscurità. Tuttavia i suoi apparati percettivi non lo rendono particolarmente adatto alle tenebre e se mantenuto in un ambiente per lui sicuro seguirà i ritmi dell’alternanza giorno e notte del suo amico umano. Qualche ultima raccomandazione Dottor Franchi per chi vorrebbe adottare un coniglio? La raccomandazione
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è sempre la stessa: esser sicuri di poter conciliare il proprio stile di vita con le esigenze dell’animale. Un coniglio ha una vita media di 7 anni e può diventare anche di una certa mole, almeno che non si ripieghi la scelta su di un coniglio nano. Tuttavia le razze nane sono il frutto di selezioni esasperate e spesso sviluppano particolari fragilità, soprattutto agli occhi e alla dentatura. E questo implica un ulteriore impegno, anche a livello finanziario, per il proprietario.
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Amanda Gorman:
le parole dei giovani illuminano il futuro
N
on siamo americani, eppure buttiamo sempre un occhio in là, oltreoceano, ogni volta che qualcosa si smuove. Il 20 gennaio di quest’anno incerto e carico di aspettative, qualcosa
si è smosso: Joe Biden è stato proclamato 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. È l’inizio di una nuova era, come abbiamo sentito fino alla noia nelle edizioni dei telegiornali di tutto il mondo. Eppure la vera rivoluzione va letta nella cornice squisitamente americana che ha segnato questo passaggio di consegne. Il neo-eletto presidente ha fatto la sua parte, e la sua parte include anche—e forse
soprattutto—la capacità di scegliere e delegare a chi è più adatto di lui ogni momento saliente della giornata, ad anticipazione della sua visione per i prossimi quattro anni. Fare un passo indietro per fare un passo avanti. E se un presidente quasi ottantenne chiede che la propria visione venga rappresentata, scritta e declamata dalle parole di una giovane neo-laureata, io credo che si stia seminando su un terreno fertile. Amanda Gorman è è la poetessa scelta per comporre e recitare una propria composizione durante l’insediamento di Biden. The Hill We Climb è il risultato, la collina che scaliamo.
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Giovani e società Così, se ci sentiamo lontani dalla politica, tanto più da quella di un paese che non è il nostro, dobbiamo ricordarci anche che anche noi siamo chiamati a scalare quella collina: come esseri umani prima ancora che come cittadini. Il fatto che a ricordarcelo siano le parole di una ventiduenne di colore, cresciuta dalla madre, erede di quella schiavitù che talvolta non appare poi così lontana, rende il messaggio di Gorman universale. Non indora nulla questa giovane donna, mentre ricorda i recenti attacchi alla democrazia che ‘può essere momentaneamente minacciata, ma mai definitivamente sconfitta’. Racconta con sguardo e mani fiere la sua terra, fatta di sogni ma anche di accattoni, tenendo il ritmo come se stesse cantando. Uno spettacolo. Sembra quasi che ci prenda per mano, mentre ci chiede: come possiamo trovare la luce in quest’ombra senza fine? Una domanda che sposta subito l’io poetico a qualcosa di più grande, a qualcosa che accomuna tutti; qualcosa
che, in qualche modo, unisce. È proprio l’unione la colonna portante di questo componimento. Un’unione che tuttavia è ben lontana dall’essere perfetta, e che proprio in questo svela la propria grandezza. Lo ricorda la Costituzione americana stessa: usiamo la giustizia per creare un’unione che sia ancora più forte. Dobbiamo smettere di considerarci a pezzi, rotti, finiti, da buttare: siamo semplicemente non ancora completi; siamo artigiani, con l’immenso dono dell’incompiutezza che ci permette ogni giorno di cercare di cesellare il nostro volto, di colmare i vuoti che spesso ci creiamo dentro, o attorno, che allontanano invece di avvicinare. Solo colmando lo spazio tra noi riusciremo a colmare quello davanti a noi, sostiene Gorman. In questa visione
superiamo il pregiudizio della generazione passata nei confronti del fallimento, e vediamo le cadute come un insegnamento, come una nuova opportunità, perché comunque tramite esse, non senza dolore, cresciamo. È un climax di forza, un inno alla fede, la chiusa di questa poesia. Una forza che viene da noi, che noi nutriamo, fino a cambiare la domanda iniziale: non ci chiediamo più ‘Come supererò questa catastrofe?’, ma piuttosto ‘Come può questa catastrofe prevalere su di me?’. Cambiamo le carte in tavola, e dalle fessure, dagli spiragli del nostro essere imperfetti e disuniti entra finalmente la luce, perché la luce c’è sempre se solo siamo abbastanza coraggiosi da vederla, se solo siamo abbastanza coraggiosi da diventare noi stessi luce.
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Moda oggi di Laura Paleari
Decluttering:
la magia del cambiamento La primavera è ormai alle porte e, nonostante la pandemia, la voglia di uscire è tanta. Cosi come la natura, anche la nostra voglia di fare si risveglia, e arrivano non solo le classiche pulizie di primavera ma anche il temuto cambio armadio. Tra montagne di vestiti e scarpe in ogni dove, molte volte diventa difficile e impegnativo fare ordine nel nostro armadio, ecco perché il decluttering potrebbe essere la soluzione perfetta.
Gli esseri umani, a differenza degli animali, tendono ad avere e, soprattutto, accumulare oggetti di qualsiasi tipo; che sia per necessità, come l’avere scorte di cibo, o per ricordi annessi ad essi, spesso la situazione può sfuggire di mano, arrivando farci tenere anche le cose più improbabili. Ecco che, in questo caso, entra in gioco il “decluttering” che è un termine inglese che significa “fare spazio”, ma fare spazio di cosa? Semplicemente di tutto quello che non è più necessario ed è diventato o è sempre stato superfluo. Un oggetto superfluo è tutto ciò che non ci serve praticamente e spiritualmente; è qualcosa che ha svolto la propria funzione ed ora non ci serve più 90
o non suscita in noi un’ emozione forte come quando lo abbiamo comprato. Possiamo fare decluttering nel nostro salotto, nella borsa o nel nostro ufficio; in questo caso parleremo di come fare decluttering nel nostro armadio. Come prima cosa, e anche più importante, bisogna tirare fuori tutto dall’armadio, vestiti, accessori, scarpe, borse, e disporli su una superficie piana (come può essere il letto, ma anche il pavimento) e preparare delle borse per i capi che decideremo di non tenere più. Le categorie in cui un capo può rientrare sono quattro: Appen-
dere, Buttare, Regalare/Vendere, Tenerlo da parte. Ovviamente andremo a buttare tutti quei capi rotti o troppo sporchi, invece quelli troppo grandi/piccoli, che non ci piacciono più o di cui non abbiamo più bisogno possiamo regalarli, darli in beneficenza ma anche venderli. Tuttavia buttare/regalare capi vecchi o che non si usano non è affatto semplice, lo scoglio più difficile da superare è quello emotivo, l’effetto nostalgia che subito ci pervade vedendo una camicetta che abbiamo usato tanto molti anni fa o una borsa per la quale abbiamo avuto un “colpo di fulmine”. La prima domanda da porsi è quante volte quel vestito è stato indossato negli ultimi 6 mesi, escludendo infatti tutti quei capi per occasioni speciali (matrimoni, battesimi, ecc…) se non indossiamo quell’abito da così tanto tempo, vuol dire che probabilmente ne possiamo fare a meno.
Moda oggi
Altre domande da porsi sono: mi piace veramente? Mi da gioia e mi fa sentire bene quando lo indosso? Posso farne a meno? Farebbe più felice qualcun altro? Ovviamente fare decluttering non signi-
fica ritrovarsi con solo con due magliette e un paio di jeans. Quello che bisognare lasciare andare è ciò che non ci suscita più emozioni e che conserviamo quasi per “capriccio”.
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In generale è meglio tenere tutti quei capi Basic, ossia quelli che vanno bene in ogni occasione, in cui ci sentiamo a nostro agio e che possiamo facilmente abbinare: una t-shirt bianca, un vestito nero, un maglioncino beige… Altri outfit specifici da tenere sono quelli necessari per il lavoro e lo sport. E se non riusciamo proprio a far andare un capo, perché non sicuri di non riutilizzarlo più, si può tenerlo da parte e darsi un tempo limite: se entro sei mesi o un anno verrà utilizzato effettivamente utilizzato lo si terrà, altrimenti andrà regalato/venduto. Eliminare, o meglio, lasciar andare un oggetto vuol dire essere più flessibili e aprirsi al cambiamento, modificando i rigidi schemi mentali che molte volte ci facciamo. In generale fare decluttering ci aiuta a capire cosa ci piace di più, cosa ci dona e di conseguenza ci rende più consapevoli per i nostri acquisti in futuro.
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonello
2020:
ancora un anno caldo per il Pianeta Terra. E le concentrazioni di anidride carbonica continuano ad aumentare nonostante i “lockdown”.
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ncora un anno molto caldo a livello mondiale ma anche per l’Europa e l’Italia. Il grafico di fig. 1 del NOAA USA (NOAA National Centers for Environmental information, Climate at a Glance: Global Rankings, published February 2021, retrieved on February 17, 2021 from https://www.ncdc.noaa.gov/cag/ ) ci dice che il 2020 è stato il 2° più caldo dal 1880 con un’anomalia di temperatura di +0,98°C rispetto al periodo 1901-2000. Più caldo fu solo il 2016 ma con un’anomalia di temperatura di +1,0°C, più freddo il 1904 con un’anomalia di -0,46°C. I dati sono confermati anche dal programma Copernicus Climate Change Service (C3S), che oltre per l’Europa effettua analisi anche per l’intero pianeta, la cartina di Fig. 2 mostra le differenze di temperatura per la Terra per il 2020, rispetto alla media 1981-2010. Fonte: ERA5. Credito: Copernicus Climate 92
Change Service / ECMWF. Insieme a Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), C3S segnala inoltre che le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera hanno continuato ad aumentare a un tasso di circa 2,3 ppm/annuo nel 2020, raggiungendo un massimo di 413 ppm durante maggio 2020. Sia C3S che CAMS sono implementati dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio da parte della Commissione Europea, con finanziamenti dell’Unione Europea. Riassumendo i dati del report di Copernicus: Il dataset di C3S relativo alle temperature dell’aria in superficie mostra che: - A livello globale, il 2020 è stato alla pari del 2016, l’anno con temperature da record. - Il 2020 è stato di 0,6°C più caldo rispetto al periodo di riferimento stan-
dard 1981-2010 e di circa 1,25 ° C al di sopra del periodo pre-industriale 1850-1900. - Si tratta di uno degli ultimi sei anni i più caldi mai registrati. - Per l’Europa è stato l’anno più caldo mai registrato con temperature di 1,6°C al di sopra del periodo di riferimento 1981-2010 e di 0,4°C al di sopra delle temperature del 2019, l’anno precedentemente più caldo. - La più grande deviazione annuale della temperatura media del periodo 1981-2010 si è registrata nell’Artico e nella Siberia settentrionale, raggiungendo oltre 6° C al di sopra della media. Le misurazioni satellitari delle concentrazioni globali di CO2 nell’atmosfera mostrano che: - Il massimo di CO2 della media globale ha raggiunto 413 ppm - Il livello CO2 ha continuato a crescere nel 2020, aumentando di 2,3 ± 0,4 ppm, con un tasso di crescita leggermente inferiore all’anno precedente Parti dell’Artico e della Siberia settentrionale hanno visto alcune delle più grandi deviazioni della temperatura annuale dalla media nel 2020, con un’ampia regione che ha registrato deviazioni fino a 3°C e in alcune località anche oltre 6° C per l’intero anno. Su base mensile, le maggiori anomalie di temperatura positive/al di sopra dello zero nella regione hanno ripetutamente raggiunto più di 8°C. La Siberia occidentale ha vissuto un inverno e una primavera eccezionalmente caldi, un andamento osservato anche durante l’estate e l’autunno nell’Artico siberiano
Che tempo che fa
e su gran parte dell’Oceano Artico. Inoltre, in questa regione la stagione degli incendi è stata insolitamente attiva: è iniziata a maggio ed è continuata per tutta l’estate, fino ad autunno inoltrato. Di conseguenza, al Circolo Polare Artico gli incendi nel 2020 hanno rilasciato una quantità record di 244 mega tonnellate di anidride carbonica, oltre un terzo in più rispetto al record del 2019. Durante la seconda metà dell’anno, la dimensione della calotta polare artica è stata significativamente inferiore alla media per il periodo dell’anno con luglio e ottobre che hanno registrato una bassa estensione da record. In generale, l’emisfero settentrionale ha registrato temperature superiori alla media per l’anno, ad eccezione di una regione sul centro Nord Atlantico. Al contrario, parti dell’emisfero australe hanno registrato temperature inferiori alla media, in particolare nel Pacifico equatoriale orientale, associate alle condizioni più fresche di La Niña che si sono sviluppate durante la seconda metà dell’anno. È interessante notare che il 2020 eguaglia il record del 2016 nonostante il raffreddamento causato da La Niña, mentre il 2016 è stato un anno record che è iniziato con un forte riscaldamento di El Niño. Vincent-Henri Peuch, Direttore di Copernicus Atmosphere Monitoring
Service (CAMS), commenta: “Sebbene le concentrazioni di anidride carbonica siano aumentate leggermente meno nel 2020 rispetto al 2019, questo non è motivo di compiacimento. Fino a quando le emissioni globali nette non si ridurranno a zero, la CO2 continuerà ad accumularsi nell’atmosfera e a determinare ulteriori cambiamenti climatici. Nel contesto della pandemia COVID-19, è stato stimato dal Global Carbon Project una riduzione di circa il 7% delle emissio-
ni di CO2 fossile. “In quale misura questo sia stato un fattore nel minore aumento totale è discutibile, poiché le variazioni del tasso di crescita globale sono dominate dai processi naturali. Dobbiamo continuare gli sforzi per ridurre le emissioni nette di CO2 per ridurre conseguentemente il rischio di cambiamenti climatici”, aggiunge Vincent-Henri Peuch. “Gli straordinari eventi climatici del 2020 e i dati di Copernicus Climate Change Service ci mostrano che non abbiamo tempo da perdere. Dobbiamo unirci come comunità globale, per garantire una giusta transizione verso un futuro a zero emissioni. Sarà difficile, ma il costo del non agire è troppo alto, motivo per cui gli impegni presi nell’ambito del nostro Green Deal europeo sono così necessari”, sottolinea Matthias Petschke, Direttore della direzione Spazio, direzione generale per l’Industria della difesa e lo spazio (DG DEFIS), Commissione europea. Tornando alle temperature non è andata meglio la situazione in Italia, dove abbiamo registrato il 5° anno più caldo dal 1800 con un’anomalia di +0,96°C rispetto al periodo 1981/2010 il tutto è ben evidenziato nella figura n. 3
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Girovagando in USA di Francesca Gottardi
Se Giulio Cesare avesse avuto un’ambasciata in Nord America, sarebbe stata a Chillicothe! C’è un posto in Nord America che è stato un tempo il crocevia culturale tra le popolazioni tribali nativo-americane. Questo posto si chiama Chillicothe, ed è situato nello stato americano dell’Ohio. Il sito archeologico era una volta il centro nevralgico della cultura indiana Hopewell. Oggi lo andremo a scoprire con il Sig. Bill Huebner, che per 10 anni ha lavorato presso questo centro archeologico che è in procinto di essere dichiarato patrimonio UNESCO dell’umanità.
Il signor Huebner ha 83 anni ma dalle sue risposte pronte e articolate pensereste che abbia 35. Bill ci racconta dell’importanza cruciale di questo sito nativo americano e di come l’unica cosa che separa il sito archeologico dalla dichiarazione a patrimonio UNESCO sia un campo da golf. Bill cos’è il Parco Nazionale Storico della Cultura Hopewell? Il Parco Nazionale è un museo all’aria aperta composto da cinque siti archeologici, tra cui quello principale che contiene gli imponenti tumuli funerari conosciuti come “Mound Group”. A che scopo servivano questi siti archeologici? Servivano da osservatorio astronomico.
Questi grandi tumoli di terreno sono disposti su punti chiave nella posizione del sole e della luna su un ciclo di esattamente 18,6 anni. Se ci pensi, è davvero sorprendente. Immagina quanto tempo devi guardare il cielo per determinare con precisione un ciclo di 18,6 anni, in un’epoca in cui non esisteva ancora una lingua scritta e le informazioni venivano trasmesse oralmente di generazione in generazione! È geniale che qualcuno abbia trovato un modo per “registrare” queste informazioni sul terreno. Evidenzia quanto la cultura Hopewell fosse altamente sofisticata! A quando risale? I primi archeologi che hanno esaminato il sito, hanno stimato che avesse solo sui 300 anni. Con la datazione al radiocarbonio oggi sappiamo che questi siti risalgono a più 2000 anni fa! Sono importantissimi allora! Si, sono talmente importanti che sono in fila per l’iscrizione al patrimonio mondiale
UNESCO, che probabilmente avverrà tra un paio d’anni perché ci sono alcuni problemi con uno dei siti. Che tipo di problema? C’è un campo da golf su uno dei siti. Quindi prima bisogna smantellare il campo da golf, che quello patrimonio UNESCO non ci può diventare! Sei entrato in contatto con qualche italiano in visita al Parco? Si, c’erano dei ricercatori italiani che lavoravano al Parco. Dicevo loro che se Giulio Cesare avesse avuto un’ambasciata in Nord America, sarebbe stata a Chillicothe, perché era lì che si trovava il centro della cultura nativo americana del tempo. Sappiamo chi è stato sepolto negli imponenti tumuli funerari di Hopewell? Si pensa fossero sepolti personaggi di
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Girovagando in USA
spicco importanti nella comunità. Pensa che sotto uno dei più grandi tumuli c’erano almeno 100 sepolture.
Come vivevano i nativi americani di Hopewell? Vivevano in piccoli insediamenti di
due o tre case, come una famiglia allargata. Pensiamo che fosse una cultura piuttosto egualitaria. Non c’erano re, né governanti. Le persone importanti erano i capi religiosi, gli sciamani. Si crede che le persone sepolte qui fossero dei leader religiosi. Come hanno fatto a costruire questi giganteschi terrapieni con rilevanza astronomica? Persone provenienti da tutti gli Stati Uniti orientali venivano qui per partecipare alla loro costruzione. Alcuni pensano che la costruzione in sé fosse un atto di adorazione. Gli oggetti rinvenuti fanno intuire vi fosse del commercio intertribale? Più probabilmente questi oggetti attribuibile alle offerte di pellegrinaggio. Quest’area era un po’come Roma per la chiesa cattolica. I pellegrini venivano e portavano dei doni. La cosa curiosa è che non troviamo oggetti appartenenti alla cultura Hopewell altrove negli
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USA. Era una strada a senso unico. Quindi, tutto fa pensare non si trattasse di commercio intertribale, ma di doni
a sfondo religioso. Il British Museum ha pubblicato un elenco dei suoi 100 oggetti archeologici più importanti. Uno
dei pezzi era proprio una pipa rinvenuta qui al Parco Nazionale di Hopewell. Hai mai avuto visitatori italiani? Si! Un gruppo di archeologi italiani che hanno visitato il parco di recente e ne sono rimasti stupefatti! Immagina che soddisfazione vederli a bocca aperta quando in Italia non puoi mettere una pala nel terreno senza trovare qualcosa di valore storico. Gli ho raccontato tutto quello che so del sito archeologico. Sai, sono sempre il Cicerone qui al Parco! C’è questa retorica secondo cui gli Stati Uniti sono un Paese relativamente “nuovo”. Si dimentica che qui c’erano intere civiltà prima che Cristoforo Colombo arrivasse negli USA… Concordo. Per la maggior parte queste civiltà native sono state cancellate, spazzate via. Per questo uno degli obiettivi del Parco Nazionale è preservare la storia degli indiani d’America.
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Tra storia e folklore di Andrea Casna
La licantropia e il lupo mannaro Il lupo mannaro è solo fantasia cinematografica o, come nel caso del vampiro, anche questa creatura ha origini antiche? La risposta a questa domanda è sì, ha origine nel folklore. In Francia, fra il XVI e il XVII secolo non sono mancati, nel contesto della caccia alle streghe, anche processi contro i licantropi: erano uomini che, accusati di tramutarsi in lupi, furono condannati alla pena capitale. Ma andiamo per ordine.
Secondo le varie leggende il lupo mannaro sarebbe un essere umano condannato a trasformarsi in una bestia feroce a ogni plenilunio. Oggi siamo abituati, sempre grazie alla letteratura o al cinema, alla figura del lupo. Ma in molte culture l’animale in cui si trasforma l’uomo è l’orso o il gatto selvatico. Le origini di questo mito sono molto antiche, risalgono sin dall’età del bronzo. In tutte le culture del mondo antico si trovano leggende o racconti legati all’uomo lupo. Le leggende e le storie si moltiplicarono in tutta Europa a partire dal Medioevo, arrivando a raggiungere l’apice fino al XVIII secolo. A partire dal Settecento - il secolo dei Lumi - si inizierà a sconfessare la loro esistenza (come nel caso dei Vampiri). Nonostante il processo avviato dall’Illumi-
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nismo, il licantropo rimarrà forte e vivo nel folclore e nella cultura popolare. Anche nell’Italia contemporanea non sono mancati casi di licantropia. Fra le storie che circolano nella rete troviamo quella di Iolanda Pascucci “La lupa di Posillipo”, nata nel 1921 che, alcuni anni dopo il suo matrimonio, fu rinchiusa nell’Ospedale degli Incurabili perché trovata in preda ad una forte crisi di “mal di luna”. Ma per i casi interessanti, con tanto di processo, dobbiamo fare un salto indietro di 500 anni e andare in Francia a Dôle. Correva l’anno 1572 e un certo Gilles
Garnier era stato arrestato e poi processato perché accusato di essersi mutato in lupo e di aver rapito nei boschi una bambina di 10 anni per ucciderla e mangiarla. In poche parole Garnier era accusato di essere un lupo mannaro. Secondo i testimoni, nel novembre del 1572, Garnier avrebbe rapito una seconda bambina, che strangolò ma che non riuscì a mangiare a causa dell’intervento di alcune persone che lo obbligarono a fuggire nel bosco. Sempre secondo l’accusa, ci sarebbe stato un terzo rapimento a metà novembre del 1572: in questo caso Garnier sarebbe riuscito a cibarsi della sventurata. Ma fu catturato, in forma umana, durante il suo quarto e ultimo rapimento proprio mentre stava sopra il corpo di un bambino. Quello di Garnier fu un processo per stregoneria. Per l’accusa Garnier (che non era altro che
Tra storia e folklore
un eremita che viveva nei boschi) avrebbe ottenuto il potere di mutarsi in lupo a seguito di un patto fatto con il Diavolo. Garnier, quindi, colpevole di stregoneria fu condannato al rogo. Non fu l’unico caso. Anche nel 1521, nei pressi di Poligny, Pierre Burgot e Michel Verdun furono arrestati con l’accusa di licantropia. Nel 1584, durante una caccia alle streghe in Borgogna, il giudice inquisitore aveva “scovato” fra gli imputati ben quattro licantropi.
Interessante fu il caso di Peter Stubbe (considerato il primo serial killer della storia), a Bleburg in Germania, condannato a morte nel 1589 con l’accusa di licantropia. Stubbe si macchiò di numerosi delitti: uccideva le sue vittime con morsi alla gola per poi berne il sangue. Durante il processo disse di aver ricevuto dal Diavolo una cintura con la quale poteva trasformasi in un lupo mannaro. Agli inizi del Seicento, in Francia,
un certo Jean Greiner, fu catturato e arrestato sempre con l’accusa di licantropia. Nel 1610, al termine del processo, Greiner non fu mandato al rogo ma semplicemente rinchiuso in un convento perché psicolabile. Fu uno dei primi passi che portarono, nel corso del tempo, a vedere nella licantropia, non un patto con il Diavolo, ma una sorta di disagio mentale, lasciando la figura dell’uomo lupo al solo contesto del folklore e della superstizione.
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Aumentano i CELIACI
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econdo i dati dell’ultima relazione annuale del Ministero della Salute al Parlamento che riguardano la celiachia, si documenta che nel nostro paese sono aumentati gli italiani affetti da questa particolare patologia per una quantificazione totale di oltre 215mila casi diagnosticati di cui 2/3 appartenenti alla popolazione femminile e 1/3 a quella maschile. Per quanto riguarda, poi, i casi non diagnosticati il documento parla di circa 420 mila possibili e potenziali ammalati. Se da un lato, però, i numeri aumentano in maniera progressiva e sono preoccupanti, dall’altro si registra un notevole progressivo miglioramento in quelli che sono i prodotti alimentari in grado di combattere questa particolare patologia che, ricordiamolo, si manifesta quando vi è un’infiammazione cronica dell’intestino tenue scatenata dall’ingestione di glutine
in soggetti geneticamente predisposti e che, purtroppo, può colpire individui di tutte le età. Oggi, infatti, in tutti i negozi titolati a vendere alimenti per celiaci sempre di più si evidenzia la possibilità di scelta tra prodotti in grado non solo di soddisfare tutte le esigenze e il palato dei “particolari” clienti, ma anche e principalmente di essere una vera e concreta barriera al progredire della malattia. “Si, è vero, ci dichiara il titolare di un negozio per celiaci, eliminare il glutine dalla alimentazione di un celiaco oggi si può. La ricerca alimentare, prosegue, legata a questa particolare patologia sempre di più produce e offre un’infinità varietà di scelta impensabile anni fa. Se poi si rispettano i giusti
accorgimenti e suggerimenti, la particolare alimentazione per i celiaci non è più un problema. L’unica cosa che, però, si deve ricordare, aggiungiamo noi, è evitare il famoso ”fai da te” e quindi l’indispensabile necessità di rivolgersi al medico e a chi opera con perfetta conoscenza e preparazione in questo specifico settore.
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Il Documento Unico di Circolazione - DUC
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ntrato in vigore lo scorso 2020, il DUC è il nuovo documento che deve accompagnare il veicolo, che sia esso auto o moto: riunisce in un unico foglio il certificato di proprietà, che dall’ottobre 2015 era già diventato digitale, e la carta di circolazione, rilasciata dalla Motorizzazione civile, i dati tecnici e di intestazione del veicolo, oltre alle informazioni in possesso del Pubblico registro automobilistico (PRA) sulla situazione giuridica del mezzo (ipoteche, fermi amministrativi, radiazione). Il DUC è già obbligatorio e viene emesso tutte le operazioni di immatricolazione, reimmatricolazione, passaggio di proprietà, radiazioni per esportazione di autovetture
PRATICHE VEICOLI
e motoveicoli. Il passaggio al DUC sarà graduale: la sua adozione sarà immediata solo nel caso in cui riguardi una delle operazioni di cui abbiamo fatto cenno sopra. Per cui nessuno ha alcun obbligo di procedere alla sostituzione di certificato di proprietà e libretto col nuovo documento unico. Quindi, al momento, per l’automobilista non cambia niente. Rimangono in effetti ancora separati gli archivi del PRA e della Motorizzazione. Infatti il PRA rimane in essere per quanto riguarda la registrazione di proprietà di un veicolo e resta attiva anche la Motorizzazione Civile, che si occupa del controllo tecnico amministrativo su tutti i mezzi che circolano nel nostro
Trasferimenti di proprietà e immatricolazioni Radiazione per esportazione veicoli Consulenze e pratiche per il trasporto di merci conto terzi e conto proprio Nazionalizzazione veicoli provenienti dall’estero
PATENTI
Paese. Alla prima operazione di aggiornamento, che verrà fatta sui veicoli (come ad esempio un passaggio di proprietà o una reimmatricolazione), verranno ritirati i vecchi documenti e rilasciato il nuvo DUC, e così anche per le operazioni successive non saranno più rilasciati i vecchi tagliandi di aggiornamento da applicare sul libretto ma verrà emesso uno nuovo documento ogni volta. In merito poi ai veicoli di interesse storico o che abbiano compito il 30esimo anno di età, il ministero dei Trasporti prevede che oltre al rilascio del DUC il vecchio libretto non più valido possa rimanere in possesso del proprietario.
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Altroconsumo risponde di Alice Rovati
Il diritto di RECESSO In data 2.2.2021 acquistavo un tappeto mediante televendita. Ricevuto il bene mi accorgevo che non presentava le caratteristiche e qualità descritte in tv (anche il colore era differente rispetto a quello ordinato). Ho quindi esercitato il recesso inviando la raccomandata a.r. il 12.2.2021. Vi chiedo, quindi, se per rispettare i termini previsti dalla normativa (14 giorni) fa fede il timbro postale di invio o la ricezione della raccomandata al destinatario.
Esercitare il diritto di recesso significa semplicemente rinunciare all’acquisto. Indipendentemente dal motivo, anche semplicemente perché avete cambiato idea, è possibile inviare una lettera raccomandata con avviso di ricevimento, un fax o una e-mail (attenzione che l’onere della
prova spetta a voi) al venditore entro: 14 giorni che decorrono: - dalla data di consegna, se ho comperato un prodotto; - dalla data di conclusione del contratto, se ho acquistato un servizio. Ai fini della verifica dell’effettivo rispetto dei
termini per l’esercizio del diritto di recesso fa fede il timbro postale, in altre parole la lettera raccomandata dovrà essere consegnata all’ufficio per essere spedita entro il termine utile. Ricordo che le spese per la restituzione dei beni è solitamente a carico del consumatore. Nel caso in esame è configurabile anche di un difetto di conformità. Il Consumatore, quando il prodotto acquistato non rispetti quanto promesso dal venditore (o dalla pubblicità) è tutelato dalla garanzia legale, detta proprio di conformità, prevista dal Codice del Consumo (D. Lgs205/2006, articoli 128 e ss.). In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. Il termine per la denuncia del difetto è di due mesi dalla sua scoperta.
La dott.ssa Alice Rovati, docente di diritto, rappresentante provinciale di Altroconsumo. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Trento, con una tesi sui diritti umani. Ha frequentato diversi corsi di specializzazione in materia consumeristica e ha partecipato, in qualità di relatrice, a numerosi incontri informativi e a progetti dedicati alla tutela del consumatore. Dal 2016 è membro del Consiglio di Altroconsumo Chi desiderasse avere un parere o una risposta su un qualsiasi problema o porre un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore.feltrinonew@gmail.com 102
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