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El Cochinillo di Segovia Riccardo Lagorio

sono da ricercarsi in un decreto emanato già nel 2011 dal MIPAAF, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Stiamo parlando di un organo politico che rappresenta l’Italia dinanzi all’Unione Europea nelle materie di competenza ed è riconosciuto anche a livello internazionale. Esso si occupa della politica agricola, dell’agroalimentare, di pesca e acquacoltura, della preservazione di boschi e foreste, ma anche di frodi e sicurezza alimentare.

Tra gli obiettivi del MIPAAF si annovera quello di valorizzare e

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certifi care prodotti agroalimenta-

ri con caratteristiche specifi che, oppure la cui fi liera si basa su particolari processi produttivi, o ancora con una qualità fi nale signifi cativamente superiore rispetto alle norme commerciali. Proprio per questo nasce il SQNZ, un organo istituzionale che si occupa non solo della defi nizione delle linee guida da seguire per ottenere il riconoscimento, ma anche dell’effettivo controllo sul rispetto delle stesse.

SQNZ: una sigla, una garanzia

La sigla SQNZ va ad aggiungersi a quelle riconosciute dall’Unione Europea e già da tempo apprezzate dai consumatori, come DOP (Denominazione d’Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografi ca Protetta). Certo, spesso le sigle confondono e non si riesce a comprenderne l’effettivo signifi cato. Ciononostante, esse hanno un obiettivo comune:

certifi care la qualità del prodotto

per orientare il consumatore a una scelta consapevole. Inoltre, tali sigle giocano un altro ruolo fondamentale: consentono ai prodotti di uscire dall’anonimato. Sul bancone del supermercato, infatti, si trovano schiere di prodotti indistinti. Al contrario, i marchi riconosciuti a livello europeo, con i loro loghi inconfondibili, permettono al consumatore fi nale di individuare facilmente i prodotti controllati e di qualità direttamente al momento dell’acquisto. Le sigle, coi relativi loghi, sono di fatto garanzia di un certo tipo di fi liera, improntata alla qualità e rigidamente controllata. In particolare, il SQNZ ha approvato sotto il suo marchio-ombrello una serie di Disciplinari che regolano produzioni di qualità in diversi ambiti, nello specifi co “Vitellone e Scottona ai cereali”, “Fassone di Razza Piemontese”, “Bovino Podolico al Pascolo” e “Uovo + Qualità ai cereali”.

Vitellone e scottona ai cereali: l’alimentazione è il segreto dell’eccellenza

Gli allevatori di Blonde d’Aquitaine in Piemonte aderiscono al disciplinare “Vitellone e Scottona ai Cereali”, approvato dal SQNZ. Con riferimento a tale regolamento, sono doverose innanzitutto alcune precisazioni terminologiche. Il termine “scottona”, infatti, non si riferisce, come si usa nel linguaggio comune, ad un tipo di carne, bensì ad un bovino femmina che non ha mai partorito. Per “vitellone” si intende, in gergo tecnico, un maschio tra i 12 e i 24 mesi d’età. Si tratta, in entrambi i casi, di bovini la cui

Asprocarne Piemonte è un’organizzazione italiana di produttori di bovini da carne, che opera sull’intero territorio della Regione Piemonte, costituita nel 1985 sulla base di un’apposita normativa comunitaria. Oggi Asprocarne conta circa 500 soci, che allevano oltre 130.000 bovini da carne di razze italiane ed estere e che rappresentano il 25% della produzione regionale. Asprocarne Piemonte rappresenta il volto dei produttori piemontesi di carne bovina sul mercato. E ha come obbiettivo quello di migliorare, qualifi care, promuovere, valorizzare e commercializzare le carni prodotte dagli allevatori associati. www.asprocarne.com

France Blonde d’Aquitaine Sélection è un’associazione francese incaricata dal Ministero dell’Agricoltura che ha il compito di curare la selezione genetica della Blonde d’Aquitaine per migliorarne le qualità originali, la sua morfologia e le performance dei capi. Si occupa inoltre di mantenere aggiornato il Libro Genealogico della razza, di certifi care i capi riproduttori selezionati e di assicurare gli interessi generali degli allevatori attraverso l’organizzazione di eventi specifi ci e implementando attività di promozione sul territorio. www.blonde-aquitaine.com

Il Consorzio Sigillo Italiano, riconosciuto con Decreto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali n. 828 del 28.02.2018, è un Consorzio di valorizzazione dei prodotti ottenuti grazie all’adozione dei Disciplinari approvati all’interno dei Sistemi di Qualità Nazionale in Zootecnia (SQNZ). Gli allevamenti piemontesi che partecipano al progetto aderiscono al Disciplinare del “Vitellone e Scottona ai cereali” e sono rappresentati all’interno del Consorzio dall’Asprocarne Piemonte. sigilloitaliano.it

carne si distingue per tenerezza e gusto intenso. Si parla, infi ne, di vitellone e scottona “ai cereali” con riferimento al fatto che gli animali seguono una dieta equilibrata e priva di grassi animali aggiunti. Come si suol dire, siamo quel che mangiamo, e lo stesso vale per gli animali. Non a caso i bovini allevati secondo il disciplinare “Vitellone e Scottona ai Cereali”, come quelli di razza Blonde d’Aquitaine, sono nutriti unicamente con prodotti di origine vegetale. Oltretutto, la dieta viene adattata all’età del bovino. In particolare, nella prima fase di adattamento essa è a base di cereali, come mais, orzo e grano. Segue la fase di ingrasso, durante la quale viene incrementato il contenuto di proteine e amidi. L’ultima fase è quella del fi nissaggio, con la quale si aumenta il grasso intramuscolare grazie agli zuccheri. L’obiettivo degli allevatori che aderiscono al Disciplinare del SQNZ è quello di adottare una dieta sana ed equilibrata per i loro animali. Il risultato è una carne di qualità eccellente, che si distingue per il giusto quantitativo di grasso e una tenerezza senza pari.

Consorzio Sigillo Italiano: approvato dal SQNZ

Nel 2018 il MIPAAF ha emanato un decreto di riconoscimento del Consorzio Sigillo Italiano. Si tratta di un marchio fi nalizzato a promuovere la qualità approvata dal SQNZ tra i consumatori. Uno degli obiettivi, infatti, è proprio di fornire un marchio ben riconoscibile, che si faccia garante di qualità sugli scaffali dei negozi prima ancora che il consumatore legga le minuscole etichette. La vera mission del Consorzio, ideato e promosso dagli allevatori stessi, è il benessereanimale. Ambienti protetti, una dieta sana ed equilibrata, una fi liera controllata e tracciabile, nonché la grande passione degli allevatori sono, infatti, il primo passo verso un prodotto fi nito eccellente. Proprio per questo motivo gli allevatori di Blonde d’Aquitaine che aderiscono al Consorzio mettono a disposizione degli animali stalle ampie e spaziose, acqua pulita, alimenti di prima scelta e prevedono controlli veterinari di routine.

Asprocarne Piemonte: missione qualità

Oltre 200 allevatori appartenenti al circuito Asprocarne Piemonte sono stati tra i primi in Italia a ottenere la certifi cazione del SQNZ. Nato nel 1985, il suo scopo è quello di

valorizzare e commercializzare le

carni bovine prodotte dai soci. Da più di 35 anni Asprocarne Piemonte si batte per la trasparenza dei prodotti degli allevatori del circuito, puntando sulla tracciabilità e sull’informazione del consumatore.

Naturalmente tenera

Da gennaio 2020 è in corso il progetto di promozione “Blonde d’Aquitaine: European Beef Excellence”, gestito da ASPROCARNE PIEMONTE in collaborazione con FRANCE BLONDE

D’AQUITAINE SÉLECTION e co-fi nanziato dalla UE nell’ambito del Reg. (UE) 1144/2014. Il loro fi ne è quello di promuovere la conoscenza della razza bovina Blonde d’Aquitaine. Si tratta di una razza esportata in tutto il mondo e nota per la qualità della sua carne — come dice lo slogan — naturalmente tenera.

Photo © Paolo Ferrante, Altaluce

• Info: www.blonde-aquitaine.com • E-mail: info@blonde-aquitaine.com • Blonde d’Aquitaine: European Beef

Excellence • blonde.aquitaine

Vuoi conoscere il disciplinare “Vitellone e Scottona ai Cereali”? Scannerizza il QR code

Il contenuto di questa campagna promozionale rappresenta soltanto le opinioni dell’autore ed è di sua esclusiva responsabilità. La Commissione europea e l’Agenzia esecutiva europea per la ricerca (REA) non accettano alcuna responsabilità riguardo al possibile uso delle informazioni che include.

El Cochinillo di Segovia

di Riccardo Lagorio

Jorge Bernabé Llorente, direttore generale dell’azienda spagnola El Cochinillo segoviano. Q uelli d’età compresa tra i 40 e i 50 anni sono cresciuti con l’idea che un certo tonno si potesse recidere con un grissino. Del tutto inconsapevoli che un porco, benché di piccola taglia, un lattonzolo, si potesse fare a pezzi con un piatto. Il cochinillo, così si chiama in Spagna, il Paese che più ama i lattonzoli, è particolarmente apprezzato nella provincia di Segovia, a nord-ovest di Madrid, per le carni assai tenere e la cotenna croccante.

Segovia si trova sulla strada verso la capitale e nei secoli è stata passaggio obbligato per molti dignitari diretti a corte. Risulta normale che le osterie e le locande facessero di tutto per procurarsi il maggior numero di clienti con pietanze e specialità culinarie. Nel 1941 iniziò ad operare CÁNDIDO LÓPEZ, diventato in seguito uno dei cuochi più popolari di Spagna. Egli deliziava i propri clienti con stufati d’agnello, agnello al forno cucinato in tegami di terracotta (allo stile di Sepúlveda, un grazioso centro non distante da Segovia), i fagioloni bianchi di La Granja serviti con orecchie e zampetti di maialino e, appunto, il lattonzolo arrosto. L’intraprendenza di López lo portò a dimostrare quanto fosse tenera la carne, dando luogo alla tradizione consolidata di sezionare il lattonzolo con l’orlo del piatto. Del resto la gastronomia segoviana è bene nota nel resto della Spagna per i suoi ingredienti dal sapore forte e provenienti da materie prime genuine.

Per valorizzare il lattonzolo la Asociación para la Promoción del Cochinillo de Segovia, con l’aiuto della Comunità Autonoma di Castiglia e León, ha depositato il marchio collettivo Cochinillo de Segovia. Il marchio è in disponibilità di tutti coloro che partecipano alla

La caratteristica del cochinillo a fi ne cottura deve essere quella di avere una pelle sottile, d’aspetto dorato e croccante esternamente mentre la carne rimane tenera, succulenta e saporita.

fi liera, dall’allevatore, al grossista, ai mattatoi, ai ristoratori, che insieme hanno il compito di rivitalizzare e stimolare il consumo del cochinillo di Segovia.

Esistono alcuni parametri minimi ai quali il prodotto deve sottostare affinché sul mercato siano presenti capi omogenei e con qualità precise. Tali proprietà vanno dalla nascita alla distribuzione e vendita ad iniziare dal latte materno, di scrofe nate e allevate con le pasture segoviane. Il peso vivo per la commercializzazione può oscillare tra 4,5 e 6,5 kg, per un’età che non può eccedere le tre settimane. L’alimentazione del cochinillo deve essere esclusivamente di latte materno. La carcassa è messa in vendita intera entro sei giorni dalla macellazione. In ragione dell’età, la pelle è bianca, limpida e omogenea, la carne rosa e il profumo di carne fresca, caratteristica di un animale lattante. La consistenza della carne è soda ma non dura.

Qualora si prepari arrosto con legna locale, si presume che l’animale sia intero e non venga riscaldato una volta cucinato. All’inizio delle operazioni di cottura l’animale viene messo di spalle e si apre lungo la colonna vertebrale in una casseruola di terracotta con acqua e poco strutto. Trascorse almeno tre ore, la caratteristica esterna dev’essere quella di avere una pelle sottile, d’aspetto dorato e croccante mentre a termine cottura la carne è tenera, succulenta e saporita.

Tra le società che mettono in commercio i lattonzoli, anche arrosto e sottovuoto, bisogna annoverare

EL COCHINILLO SEGOVIANO (telefono: +34 921101919; info@cochinillosegoviano.com, cochinillosegoviano. com). Cercando di adattare la tradizione alle necessità delle famiglie di oggi propone da qualche tempo il lattonzolo intero, in quarti o in carré all’interno di una busta che contiene anche la salsa pronta all’uso. L’approvvigionamento degli animali avviene nei centri rurali intorno a Segovia, in circa 40 fattorie che in questo modo possono continuare la tradizione dell’allevamento dei suinetti. Ne vengono macellati circa 15.000 al mese e servono 14 Paesi, tra i quali l’Italia. Oltre alle modalità tradizionali di presentare i lattonzoli, preparano anche costolette fresche, da grigliare. Da tagliare con un grissino.

Riccardo Lagorio

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Alla Fattoria Zivieri con Chef… al Massimo

Èstata una bellissima domenica di inizio settembre quella dedicata a celebrare fi nalmente di nuovo in presenza (dopo due anni di sospensione per Covid) la XII edizione di Chef… al Massimo, una giornata di festa che ha richiamato ben 1200! amanti della buona carne alla Fattoria Zivieri di Sasso Marconi (BO). Una giornata, questa, promossa da ALDO,

FABRIZIO, ELENA e STEFANO ZIVIERI per ricordare il fratello MASSIMO, scomparso prematuramente a 37 anni. «Il dolore e la perdita di una persona così speciale ed unica potevano essere resi meno terribili dall’idea di dedicare un giorno, la prima domenica di settembre, per fare una festa, una festa per Massimo. La sua incontenibile voglia e gioia di vivere potevano infatti essere ricordate solo in questo modo» spiegano i fratelli sulle pagine del sito dedicato all’evento, chefalmassimo.it. E dato che Massimo aveva tantissimi amici chef, ecco l’idea ogni anno di coinvolgere anche loro per interpretare, attraverso quattro menù, la carne degli Zivieri, una carne che ha alla base una fi liera controllata e il benessere dei suoi animali.

Tra i 12 chef di questa edizione RICCARDO FORAPANI del Cavallino (Maranello, MO), FABIO FIORE di QuantoBasta (BO), MASSIMILIANO POGGI di Massimiliano Poggi Cucina (Trebbo di Reno, BO), ALICE DELCOURT di Erba Brusca (Mi-

lano), ISABELLA LAZZERINI DENCHI del ristorante Lo Scoglietto (Livorno)

e JACOPO BRAMINI e RICCARDO CECCHETTI della Salumeria Roscioli (Roma).

Fattoria Zivieri, nello splendido contesto naturalistico della piana delle Lagune di Sasso Marconi, è stata la sede perfetta per accogliere gli amici della famiglia Zivieri e i buongustai che hanno potuto godere di quattro punti di ristoro in questo grande ristorante all’aria aperta da cui si può ammirare uno dei panorami più suggestivi dell’Appennino bolognese.

Un luogo speciale “fatto di collina, di agricoltura e di animali. Di ospitalità nella natura. Di cibo buono e di pace, ricercata, ritrovata” come disse qualche tempo fa Aldo Zivieri all’inaugurazione della Fattoria. Un sogno nato da lontano e che oggi è realtà ed è perfetto per ricordare Massimo.

>> Link: www.fattoriazivieri.it

In alto: una bella giornata di fi ne estate ha premiato i 1.200 ospiti che con ampio anticipo avevano prenotato tutti i posti disponibili di quel grande ristorante all’aria aperta che è Fattoria Zivieri e nei cui ampi spazi si svolge accoglienza, ristorazione, allevamento, soggiorni a contatto con la natura, escursioni e laboratori. Ma anche recupero della manualità e dei vecchi mestieri della tradizione contadina. A sinistra: Aldo Zivieri.

Razze in pericolo: il caso della vacca Sardo-Modicana

di Chiara Papotti

Tra i pascoli del Montiferru si respira un profumo dolce e delicato, insolito per la macchia mediterranea, dove tutto è forte, intenso. Il merito va a piccoli fi ori bianchi, dai lunghi peduncoli, simili allo scoppio di un fuoco d’artifi cio. È il mirto, l’ultimo fi ore che sboccia in Sardegna, quasi a concludere il lungo inverno. I prati sono interrotti soltanto dalle nere pietre di lava, che disegnano un reticolo di muretti a secco, e dal colore rosso rame delle Sardo Modicane: vacche selvagge e rustiche che vivono brade tutto l’anno, estate e inverno, giorno e notte. Tra le colline che annunciano paesaggi più aspri, natura e tradizioni si incontrano a tavola, sorseggiando liquori al mirto, mentre si apprezzano carni pregiate bollite, arrosto e allo spiedo.

La Sardo Modicana deriva dall’incrocio fra tori di razza Modicana, la cui importazione dalla Sicilia ebbe inizio sul fi nire del 1800, e le vacche sarde della Sardegna centromeridionale. L’incrocio, voluto per migliorare l’attitudine al lavoro, ha nel tempo trasformato la razza sarda, già allevata in pianura e sulle montagne dell’area Sud-Occidentale, in una nuova popolazione, molto simile per caratteristiche alla razza Modicana. Ecco perché, ancora oggi, mantiene il doppio nome.

I capi al pascolo sono molto limitati, si parla di circa 3.000 esemplari, e per questo motivo il loro mercato è prevalentemente locale, nonostante l’elevata qualità del latte e della carne che producono.

La razza bovina Sardo–Modicana deriva dall’incrocio di assorbimento e dal successivo meticciamento selettivo fra tori di razza Modicana e vacche della popolazione autoctona della Sardegna meridionale (photo © Ivo Piras, www.biodiversitasardegna.it).

Toro di razza Sardo Modicana, foresta di Burgos (photo © Ivo Piras, www. biodiversitasardegna.it).

Fino ai primi anni del Novecento le Sardo Modicane erano molto apprezzate in Francia, sul più sciovinista dei mercati, ma poi è cominciato il declino.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, con la meccanizzazione e l’importazione di razze estere, la disponibilità si è ridotta radicalmente, a tal punto da rischiare l’estinzione. Per questo motivo Slow Food nel 2004 ha voluto fortemente inserire la razza Sarda Modicana tra i presidi. Nel 2002 è nato anche un consorzio ad hoc, il Consorzio del Bue Rosso, con circa una quarantina di aderenti, ma oggi il loro numero è più che dimezzato.

I pochi allevatori rimasti sono molto preoccupati sul futuro dei loro amati animali e hanno defi nito una convenzione con alcune macellerie sul territorio regionale, approntando un sistema di etichettatura volontaria che garantisca l’origine e la tracciabilità di fi liera. Sono, inoltre, impegnati nella pianificazione, concentrazione, valorizzazione e commercializzazione delle produzioni di carni bovine dei propri associati perché, purtroppo, nonostante il passare degli anni, la Sardo Modicana rimane iscritta nel registro anagrafi co delle razze bovine autoctone a limitata diffusione.

Il Disciplinare del presidio prevede che i vitellini siano allattati dalla madre fi no all’età dello svezzamento e che, poi, si nutrano con sole erbe da pascolo, dagli arbusti della macchia mediterranea (olivastro, corbezzolo e lentisco), dalle foglie degli alberi (leccio e roverella) e dalle stoppie dei cereali. Quasi esclusivamente nei mesi invernali viene praticata l’integrazione alimentare con fi eno e/o paglia, normalmente di provenienza aziendale, e concentrati.

Prima della macellazione è previsto un periodo di fi nissaggio: gli animali sono ingrassati in stalla per circa due mesi secondo una regola che esclude insilati, mangimi di origine animale e composti con OGM. L’alimentazione, la qualità ambientale del territorio, nonché la tecnica di allevamento semi-brado sono i requisiti fondamentali per rendere la Sardo Modicana una tra le razze più pregiate sul mercato.

Dal latte della Sardo Modicana si ottiene un formaggio a pasta fi lata dal sapore straordinario, anch’esso presidio Slow Food: il Casizolu, una rara eccezione — in una terra di pecore e di pecorini — di un antico e pregiato formaggio a latte di vacca. Per produrlo il lavoro è lungo e faticoso, rovina le mani e costringe a levatacce. Dopo aver aggiunto il caglio e preparato la rottura della cagliata bisogna aspettare il punto esatto di fermentazione lattica, che può essere di sera, la notte, all’alba. Solo allora si può procedere alla fi latura, riscaldando pezzi di cagliata in acqua calda per far fi lare la pasta e poi modellandola in acqua fredda.

L’acqua bianca di siero non si getta: s’abbagasu è un brodo gustoso per profumare le tradizionali minestre sarde. Una volta modellato, il Casizolu va seguito con molta cura: prima è adagiato su un canovaccio (oppure in un cesto di crusca) perché non si rovini la forma, poi — dopo due o tre giorni — viene appeso al soffi tto e riposto in cantina. Generalmente viene consumato fresco dopo solo una settimana di stagionatura, ma dopo circa due mesi può essere anche un ottimo formaggio da grattugia.

La carne del Bue Rosso, invece, si cucina in diversi modi. Una delle ricette più apprezzate che la vede protagonista è nella versione del petza in brou: carne bollita con timo,

Fino ai primi anni del ’900 le Sardo Modicane erano molto apprezzate in Francia, sul più sciovinista dei mercati, poi è cominciato il declino. Negli anni ’50 e ’60, con la meccanizzazione e l’importazione di razze estere, la disponibilità si è ridotta radicalmente, a tal punto da rischiare l’estinzione. Per questo motivo Slow Food nel 2004 ha voluto fortemente inserire la razza tra i presidi

origano, menta, fi nocchio selvatico, uno o due pomodori secchi, patate e cipolle rosse. In inverno si condisce con olio extravergine del Montiferru e si serve molto calda; in estate, invece, si può trovare servita fredda, accompagnata da insalata verde, patate lesse, pomodorini, peperoni e cetrioli.

Altro piatto che si fa ricordare sono le bombas (polpette); in questo caso la carne tritata di Sardo Modicana viene lavorata con aglio, prezzemolo, pane grattugiato e uova sbattute. L’impasto ottenuto si arricchisce poi con sale, pepe nero, noce moscata e circa quattro cucchiai di Casizolu grattugiato. Le polpette così ottenute vengono fritte in abbondante olio d’oliva e, infi ne, ripassate per qualche minuto sul fuoco affogate in un sugo di pomodoro fresco: un’esperienza gastronomica da leccarsi i baffi !

Per i puristi la carne di Sardo Modicana andrebbe consumata cruda, dopo la dovuta frollatura, o dopo una veloce cottura per mantenerla al sangue.

Il suo colore rosso vivo stupisce ad un primo sguardo, ma è al palato che esalta le sue caratteristiche migliori: tenera e ben equilibrata, se ben allevata e lavorata non necessita di alcuna aggiunta di sapore. Un vero peccato sarebbe non godere più a lungo di una eccellenza così insolita.

Nei comuni interessati all’allevamento della Sardo Modicana (Bonarcado, Cuglieri, Seneghe, Santulussurgiu, Sennariolo, Scano Montiferro, Paulilatino, Sindia, Tresnuraghes, Narbolia, Macomer, Norbello, Abbasanta, Milis, Bauladu e Borore) ai produttori non resta, dunque, che aggrapparsi alla forza del presidio per salvaguardare la razza e valorizzarla fuori della zona di produzione del Montiferru. A noi il compito di parlarne, stuzzicare la curiosità ed invitare tutti all’assaggio di una carne fuori dall’ordinario.

Chiara Papotti

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Facciamo il punto sulla carne di coniglio

L’ Italia è tra i primi cinque produttori di carne di coniglio al mondo; tuttavia, il consumo di coniglio negli ultimi anni è diminuito. Uno studio dell’Osservatorio dell’Istituto Zooprofi lattico delle Venezie (IZSVe) ha indagato le conoscenze e le percezioni dei consumatori sulla produzione e il consumo di carne di coniglio e sul benessere animale in allevamento.

Conoscenze e percezione dei consumatori, consumi in calo

I dati raccolti confermano un basso consumo di carne di coniglio tra gli Italiani, con un trend in diminuzione negli ultimi anni. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifi ca FOODS. Durante la prima fase della ricerca sono stati realizzati 4 focus group che hanno coinvolto un campione di 32 consumatori di carne di coniglio, suddivisi in base all’età (<50; >50) e alla frequenza di consumo (occasionale o abituale). La seconda fase del progetto ha previsto la realizzazione di una survey nazionale on-line indirizzata a 1.001 consumatori di carne selezionati per genere, classi di età e area geografi ca di residenza.

Rispetto alle altre tipologie di carne (pollame, carne bovina e carne suina) i dati raccolti confermano un basso consumo di carne di coniglio: ogni tanto (1-2 volte al mese) il 28,8%, raramente (1-2 volte l’anno) il 32,1%.

La percezione del coniglio come animale da compagnia (pet), nuovi cambiamenti nello stile di vita e abitudini alimentari dei consumatori possono essere considerate tra i principali fattori che orientano questo trend.

Le modalità di preparazione e cottura, descritte come lunghe e laboriose, emergono come ulteriore eventuale difficoltà al consumo del coniglio. Inoltre, si delinea una crescente attenzione e importanza alle questioni etiche relative al benessere degli animali in allevamento.

Circa la metà degli intervistati acquista la carne di coniglio prevalentemente nei supermercati (60,4%) o in macelleria (27,8%); pochi invece quelli che comprano direttamente dall’allevatore e ai mercati di strada.

L’allevamento di tipo industriale è associato dal consumatore ad un’immagine negativa per l’animale, mentre quello rurale/domestico è indicato come tipologia di allevamento in cui è possibile applicare misure di benessere animale che migliorano la qualità organolettica e la sicurezza della carne.

I consumatori si dichiarano favorevoli a pagare ad un prezzo leggermente più elevato per la carne di coniglio, indipendentemente dal costo fi nale, qualora nell’allevamento di provenienza venissero garantite in primo luogo “misure per la riduzione dell’uso di antibiotici” (70,1%) e, a seguire, “misure rivolte a ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti” (56,7%), “misure per l’azione di

sistemi di allevamento alternativi rispetto a quello intensivo” (55,5%) e attraverso l’implementazione di “condizioni che tutelino il benessere dell’animale” (50,4%).

Circa un terzo degli intervistati non sa come avvenga l’allevamento del coniglio a livello industriale; di questi il 41,6% non consuma carne di coniglio.

La gabbia è stata identifi cata dai partecipanti come la modalità principale di allevamento dei conigli. Inoltre, è stata associata all’uso di mangimi industriali e abuso di antibiotici. Sono emerse anche analogie tra i metodi di allevamento industriale di coniglio e pollame, entrambi definiti sovraffollati e poco puliti.

Il contrasto tra allevamento industriale, defi nito dai consumatori come intensivo, e quella non industriale, inteso come domestico ed estensivo, è emersa con chiarezza anche durante i focus group. I consumatori più anziani associano immagini maggiormente positive alle modalità di allevamento estensive-domestiche rispetto a quelle industriali-intensive.

I consumatori più giovani, discutendo sulle ragioni che incoraggiano i consumatori a scegliere prodotti che provengono da allevamenti con standard di benessere animale, hanno convenuto che tale scelta è principalmente legata alla tutela della salute dei consumatori, in quanto gli animali allevati secondo benessere animale sono percepiti come sani e la loro carne è considerata più sicura e di alta qualità.

Fra coloro che acquistano carne di coniglio, molti cercano informazioni sui metodi di allevamento in etichetta (44,1%), che risulta essere lo strumento più utilizzato, oppure chiedendo direttamente al venditore/allevatore (25,2%); il 28,4% dichiara di non cercare informazioni.

I risultati ottenuti potrebbero essere utili al settore della produzione di carne di coniglio nel riconoscere le richieste dei consumatori e sensibilizzare gli operatori sull’uso di sistemi di allevamento basati sul benessere degli animali. Questo potrebbe avere ricadute positive non solo per i produttori stessi, ma anche per i consumatori e gli animali allevati. L’adozione di metodi di allevamento alternativi (ad esempio, nuove gabbie più ampie) e il miglioramento delle condizioni ambientali degli animali contribuirebbero attivamente allo sviluppo di una percezione positiva dei consumatori rispetto alle modalità di allevamento del coniglio.

L’utilizzo inoltre di un’etichetta contenente maggiori informazioni sulle modalità di allevamento e sugli standard di benessere animale potrebbe essere un valido strumento per incrementare la fi ducia del

consumatore nei confronti dell’intera fi liera.

Fonte: S.I.Ve.M.P. Sindacato Italiano Veterinari Medicina Pubblica. sivemp.it

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Batticarne: il sogno di Jonny diventato realtà

di Elisa Guizzo

JONNY DI MARCO è un giovane estroso con stoffa da vendere che comincia la gavetta molto presto dividendo le sue giornate tra i libri di scuola e il reparto tripperia del macello di Cecina. Oggi, insieme alla sua famiglia, gestisce una delle macellerie più belle della provincia di Livorno: il Batticarne.

Ma partiamo dagli inizi, quando Jonny, durante le pause scolastiche, andava ad aiutare mamma Teresa e babbo Maurizio che, al tempo, gestivano il mattatoio comunale di Cecina: «I miei genitori hanno sempre sostenuto che io fossi la mente e loro la forza ammirando le mie potenzialità, questo è stato lo stimolo che mi ha permesso di arrivare fi n qui». Nel 2007, terminati gli studi con la maturità, si dedica completamente alle attività del macello, cominciando dai lavori più umili come il lavaggio delle budella, lo scarico del bestiame, la scuoiatura, la pesatura delle carcasse sino alla loro dislocazione nelle celle di refrigerazione.

Jonny ruba con gli occhi ed apprende qualsiasi particolare che lo possa far diventare un vero professionista. Dopo un anno di intenso lavoro, a soli 19 anni, prende in mano le redini della gestione del

Jonny Di Marco, titolare con la famiglia di Batticarne di Cecina. macello di Cecina. «Macellavamo circa una trentina di bovini a settimana, oltre a suini, ovini, caprini e selvaggina da pelo».

Jonny è anche un esperto classifi catore di carcasse bovine e suine. La classifi cazione SEUROP permette agli operatori di defi nire il valore commerciale di mezzene e quarti. Nel caso dei bovini, ad esempio, vengono presi in considerazione i seguenti criteri: il sesso, l’età dell’animale, lo sviluppo muscolare e la quantità e distribuzione del grasso visibile. La griglia SEUROP è stata introdotta in Europa dal 1981 nel settore bovino e nel 1984 invece in quello suino.

Arriviamo al 2015, quando Jonny rileva un piccolo negozio, soli 40 m2 , nel centro di Cecina. «A Cecina non c’era una macelleria che servisse carni locali e così ho pensato di aprirne una». Il negozio rilevato era di proprietà di un norcino conosciuto al mattatoio, Claudio, dal quale Jonny ha appreso molto del suo sapere, come l’antica arte della norcineria o come scegliere il bestiame da avviare al macello. Jonny ricorda con aria malinconica l’amico e maestro Claudio a pochi mesi dalla sua scomparsa.

La piccola macelleria intanto comincia a prendere vita e, grazie al passaparola, ben presto diventa il punto di riferimento dei ristoratori livornesi e di coloro che della qualità ne hanno fatto una questione di vita come del resto Jonny.

Non si può dire di certo che questo talentuoso giovane toscano abbia una mente statica, anzi, piuttosto acrobatica, al punto da portarlo a formulare idee e progetti più grandi di quel piccolo negozio. Ed è così che, nel 2016, un’insolita mattina

Batticarne è macelleria con cucina con carni selezionate.

il destino lo porta in via Napoli, sempre a Cecina. Dinnanzi a lui due grandi vetrate di un negozio di abbigliamento su cui campeggia la scritta “Affi ttasi”. «Mentre osservavo quel negozio ci vedevo già il mio ristorante, lo sognavo ad occhi aperti». Nel 2017 cominciano i primi lavori di ristrutturazione: «volevo creare la semplicità delle macellerie di un tempo, la convivialità e l’autenticità della fi liera corta».

Batticarne evoca la profondità delle vecchie macellerie con le mattonelle bianche, i piani di marmo, la fi nestrella che si affaccia sulla cella di frollatura; la sala di lavorazione e la cucina sono completamente a vista, «e questo impreziosisce il nostro operato rendendolo trasparente» racconta.

Oggi i clienti possono ammirare un’esposizione delle carni al banco frigo fatta di mille sfumature di rosso, non solo, dalla cella di frollatura è possibile ammirare anche splendidi lombi bovini.

La battuta ricavata dai tagli del petto e della spalla bovina.

Sono stati anni diffi cili per la famiglia Di Marco, non solo per lo sforzo economico particolarmente ingente ma anche per il carico di lavoro: «non ci siamo dati per vinti, nel nostro periodo più diffi cile abbiamo intensifi cato la clientela che ci ha regalato un valore importante: la fi ducia».

Nel 2020, malgrado la pandemia, Jonny inaugura il Batticarne un locale di 200 m2. Perché l’avete chiamato Batticarne? «Il batticarne simboleggia l’antica macelleria artigiana, è l’emblema di un mestiere nobile, antico e rispettoso».

Batticarne non è solo una macelleria, è qualcosa di più: disposti a sinistra del banco frigo troviamo numerosi tavolini contornati da sedie tinte di giallo e di rosso, che danno forma e gioia alla sala dove è possibile accomodarsi e gustare un ricco e prelibato menù carnivoro. In sala troviamo Simon, fratello di Jonny, il sommelier della famiglia, che si occupa di selezionare le migliori etichette da abbinare alla ciccia; Simon gestisce il servizio di sala, così come mamma Teresa, la colonna portante della famiglia nonché il tutto fare che si sposta dalla sala al banco frigo della macelleria sino alla cucina come aiuto chef. Babbo Maurizio invece è dedito alle consegne della carne e al trasporto delle mezzene.

Al Batticarne si lavorano carni locali, «non abbiamo una preferenza per una razza particolare» spiega Jonny. Certo, trovandoci nel regno della Chianina ci si aspetta di trovarla come protagonista indiscussa a menù e invece Jonny dà la precedenza anche ad altre razze meno note. «Seleziono in base ai criteri di allevamento e alimentazione, poiché tutto dipende dalle scelte che gli allevatori compiono, ad esempio preferisco la carne di bovini alimentati a secco, senza l’impiego di insilati». Il menu è un percorso sensoriale strepitoso, tra gli antipasti il crostino di pane nero abbinato a marmellata di Cinta al tartufo, la lasagna con ragù di Chianina come primo piatto e una sfi ziosa sezione di hamburger di carni locali. «Abbiamo imparato a vendere l’anteriore anche ad agosto dove troviamo i tagli più gustosi oltre che economici; la nostra battuta la ricaviamo coi tagli del petto e della spalla del bovino, la tagliata invece la facciamo col cappello del prete e con la pancia ci facciamo la Rosticciana, realizzata con le quattro coste del bovino marinate per 36 ore con erbe e spezie e poi cucinate a bassa temperatura per 24 ore.» Al Batticarne si può pranzare e cenare dal lunedì al sabato.

Jonny ama le frollature piuttosto prolungate e lo dimostra facendomi vedere una lombata di Bue maremmano frollato tre anni che inneggia come un trofeo. «Non esiste una legge sui tempi di frollatura» mi spiega Jonny. «Certo la materia prima di partenza assume un’importanza estrema ed è infl uenzata dalla vita che l’animale ha condotto e da ciò che ha mangiato». Se si parte da un’eccellenza quindi si avrà un prodotto fi nale altrettanto eccellente; viceversa, se la qualità della materia prima risulta scadente non possiamo pretendere che tale processo renda migliore la carne. La frollatura non fa miracoli.

Quale futuro per Batticarne? «Vorrei portare questo concept in più parti d’Italia, Cecina è solo un punto di partenza». E nel salutarci, con tono bischero mi sussurra: vincerà la ciccia!

Elisa Guizzo

Batticarne Macelleria con cucina

Via Napoli 22 – 57023 Cecina (LI) Telefono: 0586 018091 – 328 7127154 E-mail: macelleriadm@hotmail.it batticarne.cecina

Assorbimento proteine: il pollo vince sul plant-based

Le proteine della carne fi nta vegetale non vengono assorbite dalle cellule intestinali umane come succede invece con la carne naturale. Uno studio lo ribadisce mettendo a confronto carne di pollo e prodotti iper-processati plant-based

di Susanna Bramante

Isostituti vegetali della carne e dei prodotti di origine animale sono sempre più diffusi e popolari tra chi vuole abbracciare una dieta completamente a base vegetale. Cominciano ad essere numerosi però gli studi (www.carnisostenibili.it/i-sostituti-vegetali-della-carne-non-le-sono-equivalenti) che evidenziano in modo chiaro e inequivocabile che questi prodotti fake non riescono a sostituire dal punto di vista nutrizionale i prodotti originali che tentano di imitare e non sono né salutari, né più sostenibili per l’ambiente.

Arriva, a riguardo, l’ennesimo studio che si propone di valutare il grado di assorbimento delle proteine a livello intestinale, per determinare se il potere nutritivo è lo stesso. Sono state quindi analizzate e messe a confronto le proteine vegetali di un surrogato che dovrebbe sostituire il pollo con quelle di carne vera di pollo ed è stato dimostrato che, nonostante le somiglianze apparenti nell’aspetto fi broso, le proteine derivanti dal sostituto vegetale non riescono ad essere assorbite con facilità dalle cellule intestinali umane, come invece accade per le proteine naturali del pollo.

Lo studio, pubblicato nel JOUR-

I sostituti plant-based della carne sono sottoposti a trattamenti industriali estremi che rovinano la materia prima di base, facendone perdere il valore nutritivo.

NAL OF AGRICULTURAL AND FOOD CHEMISTRY di ACS, rappresenta un’ulteriore conferma che, sebbene il contenuto proteico di questi prodotti composti in genere da legumi come soia, piselli o glutine di grano, in realtà le loro proteine non sono così accessibili come lo sono quelle animali della vera carne.

Già è noto che le proteine vegetali sono inferiori rispetto a quelle animali per livello di assorbimento, completezza di amminoacidi essenziali e per potere nutritivo e in questi prodotti vegani ipertrasformati lo sono ancora meno. Infatti, per imitare l’aspetto e la consistenza della carne, i sostituti plant-based vengono sottoposti a trattamenti industriali estremi, che rovinano la materia prima di base, facendone perdere il valore nutritivo. I vegetali vengono disidratati in polvere e mescolati con tutta una serie di condimenti e additivi, di cui si può leggere in etichetta la lunga

Un nuovo studio ha rilevato che le proteine dei prodotti iperprocessati plantbased non vengono assorbite dalle cellule intestinali umane come la carne di pollo, che è però alla base di una corretta alimentazione, anche dei più piccoli.

lista. Quindi, le miscele vengono tipicamente riscaldate, inumidite e lavorate attraverso un estrusore e sottoposte ad alta pressione e ad alta temperatura.

Diversi studi hanno mostrato che questi prodotti sono iper-processati e per questo motivo il loro consumo non fa bene alla salute, come viene fatto credere da aggressive campagne di marketing per promuoverne la vendita. Nello specifi co, in questo studio i ricercatori hanno fatto dei passi avanti per valutare la biodisponibilità delle proteine di entrambi i prodotti.

A proposito, sono state confrontate le proprietà fi sico-chimiche, la digestione in vitro e l’assorbimento cellulare dei peptidi rilasciati dal pezzo di fi nta carne fatta di soia e glutine di grano con quelli della carne vera di pollo. Entrambi i pezzi sono stati cotti, macinati e fatti digerire da un enzima digestivo umano.

Le prove di laboratorio hanno indicato che le proteine di questi sostituti vegetali non si suddividono in peptidi come fanno quelle delle carni e presentano un minor numero di amminoacidi essenziali e non essenziali. Inoltre, i test in vitro hanno dimostrato che i peptidi della carne fi nta vegetale sono meno solubili in acqua rispetto a quelli del pollo e non riescono ad essere assorbiti facilmente dalle cellule intestinali umane.

È ormai evidente che i sostituti vegetali della carne non hanno la capacità di fornire un grado di nutrizione equivalente ai prodotti di vera carne animale e, pertanto, i termini “sostituti” o “analoghi”, così usati oggi per indicarli, dovrebbero essere evitati. Così come dovrebbe essere vietato il meat sounding, chiamandoli con denominazioni che richiamano la vera carne, ingannando di fatto il consumatore ignaro, che spesso crede di acquistare un prodotto equivalente e più salutare. Speriamo che tutti questi progressi fatti dalla scienza per dimostrare che i prodotti non sono intercambiabili servano anche a fare dei passi avanti a livello politico per tutelare la trasparenza e la salute dei consumatori.

Susanna Bramante

Carni Sostenibili www.carnisostenibili.it

Papà, il professore di latino ha detto che non dobbiamo mangiare la carne…

di Richi Bombus Taurus

Photo © Chad Montano x unsplash

Papà, oggi a scuola il professore di latino ha detto che non dobbiamo mangiare la carne, perché fa male a noi ed all’ambiente. Tu cosa dici?

«Sutor, ne ultra crepidam1».

Papà cosa vuol dire? Sono al secondo anno della scuola secondaria, siamo ancora a rosa, rosae, rosae…

«Dopo ti traduco la locuzione latina. Tornando alla tua domanda, invece, sappi che per darti una risposta corretta occorre studiare molto». Scusa papà, chi meglio di te può rispondere a questa semplice domanda? Tu sei zoonomo/agronomo, lavori in questo settore da 20 anni, studi e leggi sempre, fai corsi di aggiornamento di continuo. Inoltre sei cresciuto in una famiglia col nonno veterinario, dove a tavola si parlava di zootecnia, qualità delle produzioni, malattie infettive, ecc… Con la zia dirigente chimico, specializzata in chimica degli alimenti e agli altri zii tutti mezzi agronomi, sommelier, appassionati di alimentazione sportiva, nutrizione, di prodotti di qualità, vino, olio, ecc… E non dimentichiamoci della nonna, ambientalista incallita, che da sempre differenzia, composta in orto e compra tutto a km 0 dai produttori. Perché mi rispondi così?

«Perché forse è necessario studiare ancora. Oltre alle materie agronomiche, zootecniche e medico veterinarie è bene studiare anche altro, tipo la paleoantropologia, disciplina dell’antropologia nata dallo studio dei resti fossili dell’uo-

mo e dei tipi umani ormai estinti, che si integra con lo studio del clima, della fl ora, della fauna, della cultura materiale e delle credenze magico-religiose delle popolazioni scomparse».

Come dici papà? Non ti seguo più…

«Una delle teorie più accreditate del perché l’uomo abbia nella sua evoluzione spostato le proprie preferenze da una dieta vegetale ad una più diversifi cata con aggiunta di alimenti di origine animale è quella del “cervello affamato”».

Teoria del “cervello affamato”?

«Andiamo avanti dai, che il discorso si fa complicato. Comunque dovresti sapere che delle 300.000 generazioni che hanno preceduto l’uomo di oggi, solo 400 hanno conosciuto l’agricoltura».

Esatto. L’agricoltura nasce nella Mezzaluna fertile circa 10.000 anni fa…

«Non solo nella Mezzaluna fertile: nuovi studi dicono che anche in altri siti del pianeta si sviluppò l’agricoltura. Tornando a noi, le circa 400 generazioni che hanno conosciuto l’agricoltura sono troppo poche per permettere al genoma umano di adattarsi a questa disponibilità alimentare artifi ciale. E solo da 150 anni gli uomini dei Paesi sviluppati hanno conosciuto altri alimenti, tra cui la carne in esame, che ha una composizione assai differente da quella dei selvatici. A prescindere dalla specie di provenienza, la composizione lipidica della carne (acidi grassi, ecc…) è fortemente infl uenzata dal regime alimentare e dalle tecniche di allevamento».

Ho capito: oltre a studiare tutto lo scibile in materia, prima di comprare una bistecca bisogna studiare anche da chi, come e dove viene allevata?

«Esattamente. Come non basta leggere un post sui social per diventare architetto, allenatore… così non si può demonizzare un alimento senza cognizione di causa. Perché con la stessa facilità si rischia di diventare razzisti, bulli, violenti, ecc… L’agricoltura e la zootecnia non vanno viste solo come mero sfruttamento del suolo perché, se regolamentate ed aiutate adeguatamente, possono fornire ecosystem services, che sono tutti quei servizi che apportano molteplici benefi ci al genere umano. In Italia abbiamo zone fortemente antropizzate dall’attività agricola, però riconosciute dall’UNESCO patrimonio mondiale, come ad esempio le Langhe. Se non vuoi andare fi no in Piemonte, pensa a quante foto hai fatto e quanto ti sei divertito con le vacche al pascolo in montagna quest’estate. Come in tutti i settori ed argomenti generalizzare è sempre sbagliato: in agricoltura ci sono allevatori e produttori virtuosi a cui spesso non si riconoscono i giusti meriti».

A cosa ti riferisci papà?

«Ci sono voluti più di 2.500 anni di storia ed una pandemia per capire che l’apologo di MENENIO AGRIPPA2 che hai studiato in determinate situazioni fa acqua da tutte le parti. Il console, rivolgendosi ai plebei rivoltosi, descrive la società romana come un corpo umano, dove stomaco e braccia devono lavorare in armonia per sopravvivere. Se le braccia non portano cibo alla bocca, muore lo stomaco, ma anche le braccia.

Nel periodo di stop lavorativo forzato dovuto al contenimento dell coronavirus ci siamo resi tutti conto che esistono lavori indispensabili che non possono assolutamente fermarsi. Sono lavori di grande sacrifi cio, inspiegabilmente retribuiti non in maniera adeguata. Lavori svolti da molti addetti della fi liera agroalimentare italiana. Lavoratori impegnati il giorno, la notte, a Natale, a Ferragosto ed anche in tempo di Covid-19. Lavoratori che in quel periodo ci hanno fatto arrivare in tavola pane, carne, frutta e verdura, che hanno continuato a lavorare esponendosi al rischio del contagio.

Tornando al senatore Agrippa, questi operatori dovrebbero essere coadiuvati dalla classe dirigente. Classe che, purtroppo, per diffi coltà non sempre giustifi cabili, ha dimostrato nei giorni diffi cili di inizio pandemia che, oltre a non essere utile, può fare gran danno! E per questo sembra a volte mal inserita in un contesto produttivo e diffi cile da collocare in una macchina perfetta come il corpo umano, riferendomi al famoso apologo. Tutto ciò per dire che forse tornare ad incentivare

veramente e rafforzare il settore

primario non è una cattiva scelta. La UE deve intervenire cercando di fermare l’evoluzione negativa dell’agricoltura italiana, che dagli anni Novanta in poi ha visto una riduzione sia in termini di SAU (Superfi cie Agricola Utilizzata, –17%, dal 1990 al 2013), sia in numero di aziende agricole (–48%). Progressivo decremento che ha portato principalmente alla chiusura delle aziende medio-piccole.

Volendo analizzare il settore zootecnico italiano, notiamo che riveste un ruolo rilevante nell’economia agricola del Paese con un valore

della produzione di oltre 16 miliardi

di euro, pari ad un terzo del valore complessivo generato dalla produzione agricola nazionale. Purtroppo gran parte dei capi di bestiame si trova in allevamenti intensivi localizzati al Nord, mentre si riducono le produzioni zootecniche estensive, quelle meno specializzate e quelle diffuse principalmente lungo la dorsale appenninica, l’arco alpino e nelle aree collinari delle regioni centro-meridionali.

Bisogna permettere alle aziende estensive e semi-estensive, che operano in territori marginali a rischio di abbandono, di operare per la valorizzazione dei prodotti locali e il mantenimento del territorio

in termini ambientali, economici e

sociali. Il modello di allevamento italiano, e in gran parte anche quello della UE, è basato su strutture agricole diversifi cate, locali e familiari che rappresentano l’unica forma di sopravvivenza delle aree rurali, alimentando una bioeconomia che garantisce posti di lavoro e forniture stabili di alimenti sicuri al giusto prezzo per il consumatore e soprattutto per l’ambiente!

Diminuire o addirittura sostituire animali da reddito in UE vuol dire perdere materie prime essenziali, perdere pascoli, esporre

Il sistema zootecnico (produzione di carne, latte e derivati) è uno dei segmenti più dinamici e rilevanti dell’agricoltura comunitaria e nazionale. I valori generati dal comparto sono di straordinaria importanza e coinvolgono la sfera economica, sociale e ambientale (photo © Priscilla du Preez x unsplash).

il territorio al rischio di incendi, perdere fertilizzanti organici ed energia green. Inoltre, per soddisfare la domanda di proteine animali bisognerebbe rivolgersi a Paesi extra-UE, con diminuzione degli standard di sicurezza alimentare e, soprattutto, con impatto ambiente non sostenibile.

In questi giorni di guerra, stiamo vedendo i danni causati da scelte sbagliate fatte in passato, che ci vedono defi citari in materia energetica ed alimentare, con conseguente aumento di prezzo e diffi coltà di reperimento. Ci vogliono misure adeguate e rapide da parte della UE se vogliamo una vigorosa ripresa del settore agroalimentare. Dove tutti gli attori della fi liera devono avere un approccio One Health, come voleva insegnarci il “buon” Agrippa, visto l’evidente e stretta interconnessione esistente tra la salute dell’uomo e quella del mondo animale/vegetale che ci ospita».

Ok, mi hai convinto! Basta così, come sempre quando parli di queste cose sei un fi ume in piena. Siamo soli stasera, che dici se facciamo per cena hamburger di Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP e poi videogiochi? E non dirmi che fanno male, sono una perdita di tempo, ecc… Devi sapere che l’ho capito che devo studiare molto.

Richi Bombus Taurus

Mini agronomo3/Zoonomo

Note

1. Ciabattino non andare oltre le scarpe, cioè “parla di quello che conosci”. 2. Durante la secessione del 494 a.C. la plebe romana si ritirò sul Monte Sacro, rifi utandosi di lavorare per i Patrizi fi nché non avessero ottenuto il riconoscimento del diritto di costituire una propria assemblea. Vennero mandati molti ambasciatori, ma nessuno riuscì a persuaderli a ritornare in città. Allora fu inviato sul colle il console Menenio Agrippa, un uomo anziano, molto saggio e molto amato dal popolo. Solo davanti a quella moltitudine di uomini scontenti cominciò a parlare: “C’era un tempo in cui nell’uomo le varie membra del corpo non erano come ora armonicamente congiunte, ma ognuna aveva una propria volontà. Successe così che un giorno alcune di esse si indignarono perché tutte le loro cure, tutte le loro fatiche e funzioni servivano solo per mandare il nutrimento al ventre. E questo se ne stava tranquillo lì, in mezzo al corpo, non facendo niente, godendosi solo i piaceri che gli altri gli procuravano. Decisero dunque che le mani non portassero più cibo alla bocca, che la bocca non lo ricevesse, che i denti non masticassero più ciò che avevano ricevuto. Per questa loro ostilità, però, non solo il ventre, ma anch’esse si ridussero a un estremo esaurimento. Capirono così che anche la funzione del ventre non è inutile, che esso nutre in quanto è nutrito, restituendo a tutte le parti del corpo, equamente diviso per le vene, il sangue che ci dà la vita e le forze, e che si forma appunto dal cibo elaborato dal ventre. Allora le membra si riconciliarono con il ventre. Così il senato e il popolo come fossero un unico corpo con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute”. 3. Mini agronomo, attualmente frequentante la scuola secondaria, classe seconda, ma che vuole fare il veterinario come il nonno.

Un fagiano bello e buono

di Giorgia Fieni

Il fagiano è come un gallo o un pollo, ma più bello (è dotato di un piumaggio variopinto) e più buono (il maschio fornisce una carne adatta a brasati, stracotti e ragù in quanto più stopposa, la femmina è adatta ad arrosti e ripieni in quanto più tenera e delicata), caratteristiche talmente pregiate da rendere da sempre il fagiano una delle prede di caccia preferite.

Come si riconosce quello non di allevamento? Dalle narici. Guardandovi attraverso, devono presentarsi pulite, senza “l’occhiale” postovi dagli allevatori per evitare che l’animale si morda la coda.

Una volta preso, poi, deve rimanere in frollatura in una marinata per 3 giorni, mentre a quello in cattività bastano meno di 24 ore. È importante rispettare questo tempo per eliminare l’odore di selvatico che inevitabilmente andrà ad infl uire sul risultato fi nale anche al palato.

Il problema principale sta però nel cucinarlo, in quanto il fagiano, di veramente gustoso, ha praticamente solo il petto, perciò in genere ha bisogno di un elemento che ammorbidisca la carne completamente.

Se preparato arrosto va bardato di lardo o di coppa o di pancetta, ma ho letto anche parecchie ricette in cui è abbinato ai latticini: mascarpone (con tartufo o brandy o cognac) o fontina (con marsala) o panna. Altrimenti il classico vino rosso per la classica “cacciatora”, l’olio (aromatizzato con erbe aromatiche per renderlo più appetitoso) mentre rosola sullo spiedo, la birra per una padellata rustica.

Agli esperti piace abbinare il fagiano ai sapori forti: BRUNO BARBIERI usa gin e senape, ANDREA MAINARDI lo cucina in salmì con cacao amaro, GORDON RAMSAY preferisce le spezie (zenzero, chiodi di garofano, anice stellato), Carlo Cracco accompagna la fagianella con polenta di amaranto, FABIO CUCCHELLI prepara i tortelli con luppolo e petto di fagiano affumicati con corteccia di cirmolo.

D’altronde, si dice che il “grado zero della cucina” sia spiumare fagiani e spellare conigli, perciò i futuri cuochi e chef sanno bene come trattare queste carni fi n dai primi giorni del proprio apprendistato. Sicuramente imparano presto a trasformarlo in un ottimo pâté in terrina (con fegatini, lardo, marsala ed eventualmente tartufo) o in gelatina o cuocerlo (avvolto nel prosciutto crudo e in strati di carta pergamena e assorbente) nell’argilla o in salmì.

Anche voi, però, a qualunque grado di perizia siate con la carne di fagiano, potete provare a ottenerne ricette succulente. Cucinandola con melagrana e noci oppure panna e succo di limone. Preparandoci il brodo (che in Maremma aggiungono di erbe profumate e servono con crostini di pane fritti nel burro). Servendola con polenta (arricchita magari dai funghi). Ma anche copiare l’idea cinese di usarne la carne come ripieno per gli gnocchi preparati con fecola di taro essiccata al sole e farina di riso glutinoso oppure cuocerlo nella creta, un classico senza tempo.

A proposito di storia. Nel 1871 il fagiano è il protagonista del Potage à la Londonderry per festeggiare Roma quale capitale d’Italia, mentre nel 1902 è servito arrosto sui crostoni alla prima rappresentazione della “Francesca da Rimini” (con ELEONORA DUSE) e, addirittura, nel 1959, nella pellicola “I tartassati”, viene rifi utato da ALDO FABRIZI a TOTÒ che glielo offre per cena. Non so se fosse buono ma probabilmente ai suoi occhi bello non lo era sicuramente!

Giorgia Fieni

Marco Bezzi

San Marco, impronta camuna

di Riccardo Lagorio

Non ha perso lo smalto della gioventù né la consueta affabile irriverenza malgrado i trent’anni di attività. MARCO BEZZI, nel suo Ristorante San Marco, a Ponte di Legno, ultimo lembo di terra bresciana prima del Tonale, sa ancora spiazzare i commensali con la sua battuta sagace, la sua appariscente entrata in sala al termine della serata. A questo ormai storico locale e al suo inventore Marco Bezzi va innanzitutto dato atto di avere acceso i rifl ettori sull’immensa proposta di giacimenti gastronomici dell’intera Valle Camonica: un territorio dove albergano stupefacenti formaggi, sorprendenti carni e salumi; ultimamente qualche buona etichetta. Tanto ispirato ai prodotti locali che il menu annovera tra

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