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2 • Un pacchetto per il cane?
from Abbasso lo spreco!
Storia 2
Un pacchetto per il cane?
«Tu al ristorante ci vieni. Punto e stop».
Lei ci mette il punto, aggiunge pure stop, quindi la discussione finisce lì. Sono andato a controllare sul vocabolario (ogni tanto lo faccio, si scoprono delle cose interessanti, che non avresti immaginato) e trovo che stop lo usano in tanti campi. Nel calcio lo sapevo già, ovvio: stoppare a me riesce piuttosto bene, anche di petto, e di testa!
Ma qual è il primo significato? Se scrivi una frase, vuol dire punto fermo. Quindi punto e stop sono la stessa cosa. Quindi quando la mamma dice, cioè urla, punto e stop, fa una ripetizione. Chissà se lo sa che è l’imperativo del verbo inglese stop (che vuol dire fermare)? Forse sì. Comunque si dimentica che se sei alla guida e ti fermi allo stop, poi
riparti. Le discussioni con lei invece non ripartono. Si fa come ha già deciso. Questa si chiama tirannia. I tiranni finiscono tutti male, prima o poi. Intanto io domenica prossima devo andare al ristorante.
Ci siamo tutti. Anche la mamma dei miei cugini, che è sorella della mia e si chiama zia Betty, è una tiranna. Hanno messo noi ragazzi in un tavolo a parte. Per gentilezza, dicono, ma io credo per tenerci fuori dai piedi.
«Così potete parlare liberamente delle vostre cose, invece di ascoltare i noiosi discorsi di noi adulti» ci ha detto il nonno facendoci l’occhiolino.
Peccato che tra i ragazzi ci sia la cuginetta Ofelia di tre anni, con cui al massimo puoi parlare di Winnie Pooh, e quel mocciosetto saputello del figlio degli amicissimi.
Il mocciosetto si chiama Lodovico, con la o, e sa tutto. Meglio per lui. Il problema è che deve sempre dimostrartelo e allora a te viene voglia di dimostrargli che sapresti come si zittisce un undicenne che se la tira: lo strozzi.
Chi sono gli amicissimi? Sono Dario e Donatella, che si sono sposati lo stesso giorno dei miei, ma in due posti diversi, e poi si sono conosciuti durante il viaggio di nozze a Venezia. E da allora non si sono più mollati, cioè sono restati in contatto e ogni
tanto si incontrano e così possono verificare quanto sono invecchiati nel frattempo e lamentarsi di come sono cambiate le cose. Tranne Venezia, che quella è sempre la stessa, a parte i prezzi alle stelle. Sono cose che ho già sentito. Ecco perché non volevo venire al ristorante.
Avevo provato a convincere il papà (mamma dice corrompere) che avrei potuto andare dagli altri nonni. Ma papà non si è fatto corrompere. In effetti è una tattica che dà scarsi risultati e di solito ottiene che la mamma si arrabbia ancora di più.
«Quarant’anni di matrimonio sono un tappa importante. Quasi un record oggi. Non pensi che valga la pena di stare vicino ai nonni in questa occasione?»
«Ma perché al ristorante? Non potevano fare una cena fredda a casa loro, come l’altra volta?»
«L’altra volta avevano cinque anni di meno e soprattutto qualche acciacco in meno. Te la vedi la nonna che cucina per venticinque? E poi chi li avrebbe lavati i piatti, tu?»
Io, al momento di lavare i piatti, mi chiudo in bagno. E a chi bussa e protesta perché non ci crede che ho davvero il mal di pancia dico: «Vuoi entrare e annusare?» Nessuno ha mai raccolto l’invito. Comunque non fingo: davvero subito dopo mangiato
mi viene il mal di pancia! La cosa non ha solo vantaggi. Non sempre è piacevole passare cinque, dieci o perfino quindici minuti in un bagno che non è quello di casa tua.
Eccomi dunque al ristorante La pergola, rinomato per i primi piatti e i dolci al cucchiaio, che sono i dolci appunto che mangi servendoti del cucchiaio, anzi del cucchiaio da dessert. È praticamente un cucchiaino, ma un po’ più grande di quello per mescolare lo zucchero dentro il caffè. Ce l’abbiamo davanti, tra il piatto e il bicchiere, orizzontale. Per poco non nasce una zuffa, per colpa del mocciosetto che vuole tenerci una lezione sulle posate. Che c’è da dire sulle posate? Appunto, niente! Ma lui incomincia a blaterare che il cucchiaio va di qua, a destra, e anche il coltello, con la parte tondeggiante della lama a sinistra, e la forchetta va a sinistra.
«Deduco che non ci sarà una portata di pesce» continua Lodovico, «dal momento che quel coltello non è un coltello da pesce. Che ha la lama leggermente più corta e larga. Lo riconoscerei subito».
«Io so riconoscere subito un rompiscatole» sussurra la cugina Matilde.
Lodovico sente e si offende.
«Sarei io il rompiscatole?» chiede.
«Ci sei arrivato, genio» replica Matilde e allora
quello tira fuori una serie di insulti davvero piuttosto efficaci.
Matilde non è la tipa che sta a sentire mentre la chiamano panna acida. E poi trova un’alleata in mia sorella Chiara, che ha la capacità di sparare parole a raffica. Il mocciosetto non cede. Le voci si alzano. Si alza anche qualche testa dal tavolo dei grandi. Per fortuna arriva il cameriere con la pasta e si decide la tregua.
«La pasta gialla!» ci annuncia.
Infatti i nonni avevano scelto il menu arcobaleno. Sul cartoncino in mezzo al tavolo c’è scritto: Un assaggio di portate colorate! E poi l’elenco delle portate secondo l’ordine: giallo, rosa, rosso, verde, viola. Sono tantissime e rinunciamo a leggere oltre. Tanto a noi non interessa che cosa c’è dentro. Si assaggia l’assaggio e si capisce se ti piace.
Il profumo della pasta gialla è buono. Oltretutto avevamo molta fame, perché praticamente gli antipasti non li avevamo quasi toccati. Tutte cosette minuscole, dall’aspetto viscido. Dopo un’occhiata sospettosa al vassoio e un paio di assaggi per conferma, avevamo deciso tutti che non ci interessavano.
«Potrei avere un pacchetto di patatine fritte, magari al formaggio?» aveva chiesto Alex.
Il cameriere non gli aveva nemmeno risposto. Alex, che non è molto sveglio, non avendo notato l’occhiataccia del cameriere, aveva insistito.
«O dei popcorn. Ce li avete i popcorn?»
«Non ancora, ma ci stiamo attrezzando e la prossima volta troverai anche il megaschermo».
«Davvero? E…»
Il cameriere era già scivolato via. Sulla sua schiena diritta potevi leggere disprezzo e disapprovazione insieme.
«Siamo in un ottimo ristorante!» gli aveva fatto notare la cugina Guendalina che, poverina, di Alex è la sorella maggiore.
«Ottimo! Se non hanno nemmeno le patatine!» aveva replicato Alex.
Al che Guenda aveva lasciato perdere, perché Alex è un caso disperato.
Non abbiamo ancora finito la pasta gialla che un altro cameriere arriva con un vassoio fumante.
«La pasta rosa!» annuncia.
Buona anche quella. Riccardo, che fa sempre l’isolato ed è un tipo un po’ pigro, davanti al cibo tira fuori una bella grinta.
«La finisco io?» chiede prendendo il vassoio dopo che ci siamo serviti già una volta. La sua in realtà non è una domanda. Senza aspettare la no-
stra risposta, rovescia il contenuto del vassoio nel suo piatto e ci fa scivolare anche il sughetto rosa (briciole di salmone e panna).
Riccardo è sovrappeso e dovrebbe perdere almeno dieci chili. Ma se mangia così, non ce la farà mai. Comunque mangiamo tutti un sacco, tranne Chiara e Matilde, che a differenza di Riccardo sono sempre a dieta. Peggio per loro. La pasta rosa è davvero gustosa. Quella rossa idem, la verde suscita meno entusiasmo, ma forse anche perché ormai abbiamo la pancia che scoppia. La viola infatti praticamente nemmeno la tocchiamo. Lodovico dice che è perché il viola non è un colore attraente.
Tra i primi piatti e i secondi c’è una lunga pausa. Meno male! Ne approfittiamo per fare un po’ di foto nel giardino del ristorante. Prima tutti insieme, poi i nonni insieme ai figli con rispettivi figli, poi i nonni con gli amicissimi, poi i nonni con tutti noi nipoti… Si intrufola anche Lodovico, anche se non c’entra niente. E ovviamente un paio di mani si alzano a regalargli quattro corna. Un urlo di papà, che è il fotografo ufficiale delle grandi occasioni, fa sparire le corna e i sorrisetti perfidi. Con le foto ce la caviamo abbastanza in fretta. In attesa di tornare a rimpinzarci, io e Manuel giochiamo un po’ a calcio con una grossa pigna. Non è la stessa cosa che avere un pallone, ma riusciamo a scartare, tirare… ecco, Manuel tira troppo forte e la pigna va a finire quasi sopra i piedi di un tipo con le scarpe
scamosciate e i pantaloni grigi. Alzo lo sguardo su per i pantaloni, percorro la camicia a righe azzurre e mi trovo con gli occhi dentro gli occhi del mio allenatore.
«Mister! Che ci fa qui?» gli chiedo sorpreso e insieme contento.
«Quello che ci fai tu» risponde scuotendo la testa.
«Io mi alleno» dico dando un calcetto alla pigna, per provargli che non mento.
Il Mister scoppia a ridere.
«Io invece mangio».
«Ah, beh, mangio anch’io. Anche se all’idea di rimettermi a tavola mi viene da vomitare» confesso.
Lui annuisce.
«Non esagerare» mi dice.
«La nonna si è raccomandata di finire tutto» sbuffo. «Non vuole che si sprechi il cibo».
«Ha ragione. Ma anche mangiare quando sei già sazio in fondo è uno spreco».
Ha ragione anche l’allenatore. Ma se ha ragione il Mister e ha ragione pure la nonna, allora io che devo fare?
Il Mister mi saluta con una pacchetta amichevole e torna dentro, richiamato da una signora affacciata a una delle grandi portefinestre.
Quando rientriamo anche noi, mi rendo conto che
il tavolo del Mister e della sua compagnia è abbastanza vicino al nostro. Non me ne ero accorto! Comunque il mio Mister è lì a pochi passi, non solo lo vedo quando alzo gli occhi, ma ogni tanto distinguo anche la sua voce.
Ci siamo appena seduti che arriva il secondo, porzione gialla. Ce la porta lo stesso cameriere della pasta gialla. Si vede che in quel ristorante ogni cameriere ha il suo colore. Facciamo tutti lo stesso pensiero, perché Chiara esclama: «Sarebbe carino se i camerieri avessero anche le giacche del colore dei piatti che servono!»
«Sarebbe ridicolo» sbuffa Marco.
Matilde salta su a difendere Chiara, io attacco mia sorella, Lodovico si intromette cercando di spiegarci il valore simbolico del giallo nell’antica Cina… Insomma, ricominciamo a far confusione. Nemmeno la seconda portata ci zittisce. Dopo l’omelette ai fiori di zucca farcita con non so cosa, ci servono del prosciutto cotto. Poi arriva una carne poco cotta, che non piace a nessuno tranne che a Riccardo e poi non ci faccio nemmeno più caso. Tanto io non potrei mangiare più niente.
«Vuoi lasciare un po’ di posto per il dolce?» mi chiede Guendalina, notando che allontano il piatto.
«Voglio sopravvivere» ribatto.
Lei è golosa di dolci e, menu alla mano, ce li elenca. Crema alla vaniglia, mousse di fragola…
«Smettila» le ordina Alex, ma siccome è suo fratello e per di più ha due anni meno, lei non gli dà retta e continua.
«…gelatina di ribes, gelato al pistacchio e per finire torta alle more. Credo che assaggerò almeno la torta e la mousse di fragola».
«Io credo che non assaggerò nulla». Peccato, perché il gelato al pistacchio è il mio preferito.
Capita, a volte, che mentre si è a tavola un improvviso silenzio duri un po’ troppo. Di solito la cosa mette un po’ a disagio, ma più pensi a che cosa potresti dire per romperlo, più ti senti in imbarazzo e la bocca resta chiusa. I francesi (me l’ha detto la nonna che da giovane ha studiato a Parigi) dicono: «È passato un angelo». L’angelo che ci stava passando accanto doveva essere lungo come un tir, perché il silenzio si prolunga. Così sentiamo bene la voce del Mister che chiede al cameriere se gli prepara, per favore, il doggy bag, il sacchetto per il cane.
Il cameriere risponde gentilmente: «Certo».
Poi però chiede in tono ironico: «Il suo cane gradisce anche contorni e dolci?»
«Naturalmente» risponde serio l’allenatore.
Ecco, avevo trovato l’argomento per interrompere lo strano, pesante silenzio.
«Chissà di che razza è il cane del Mister? Io dico un pastore tedesco».
«Se mangia verdure e dolci, sarà di una razza maialoide» ridacchia Marco.
Guendalina, che è un’animalista convinta, esclama che non vede perché spendere soldi per un cane di razza, quando i canili sono strapieni di poveri cagnolini abbandonati!
Io sto per replicare che al canile puoi trovare anche cani di razza, perché la gente quando si stufa o va in vacanza vuole liberarsi dell’impiccio e non sta tanto a distinguere, ma Manuel non me ne lascia il tempo.
«Comunque» dice, «il nostro Mister (io e Manuel ci alleniamo nella stessa società) non ha il cane».
«Ce l’ha!» replico.
«No!»
«Sì!»
«Chi te lo dice?»
«Me l’ha detto lui. Cioè l’ha detto a un tizio mentre io ero presente. Gli ha detto che gli piacerebbe tanto avere un cane, ma non può perché è allergico».
Sono disorientato. Lo stomaco, impegnato a digerire tutto il cibo che ci ho ficcato, deve aver chiesto aiuto alle riserve di sangue del cervello e quello gira al minimo, ovvio. Pensare mi richiede uno sforzo immane. Riesco a formulare un semplice ragionamento. Se l’allenatore è allergico e non ha il cane, per chi è il cibo che si porta via dal ristoran-
te? Probabilmente per il canile; anzi, sicuramente.
«Per me quel cibo lo porta al canile. Un sacco di gente ci va per dare una mano e portare a passeggio i cani…»
«No, se uno è allergico» mi fa notare Matilde.
Sì, il mio cervello deve avere prestato troppo sangue allo stomaco. Funziona da schifo. Devo ammettere che mia cugina ha ragione.
Chi mi spiega che cosa sta succedendo? Perché io da solo non ci riesco. E siccome mi conosco, so che la questione mi ronzerà fastidiosamente nella testa e non sarò tranquillo fino a quando l’enigma non sarà risolto. Il Mister e la sua compagnia, più veloci di noi, hanno già preso anche il caffè e si preparano ad andarsene. Mi alzo e lo raggiungo nell’atrio, dove ci sono gli attaccapanni e un grande acquario tutto illuminato.
«Vorrei sapere… cioè se posso… insomma, perché ha chiesto il doggy bag?»
Sono stato un po’ brutale, ma il Mister non si offende. Scoppia a ridere.
«Tu ce l’hai un cane?» mi chiede a sua volta.
Scuoto la testa.
«Nemmeno io. Sono allergico».
Proprio come diceva Manuel.
«Però io chiedo sempre il mio doggy bag!» esclama.
Non capisco. Mi spiega che il doggy bag è il pacchettino con il cibo avanzato che uno si porta a casa dicendo che è per il suo cane. In realtà è tutta roba buona, che si mangiano gli umani. Doggy bag è un’espressione inglese perché è un’abitudine appunto degli anglosassoni.
«Una buona abitudine» aggiunge. «Da noi in Italia non si usa, ma è un peccato, perché il cibo che resta sulle tavole dei ristoranti viene buttato. Sai quanto ne finisce nella spazzatura in un anno?»
Scuoto la testa. «Immagino tanto» dico.
«Immagina ancora di più! Ci vediamo martedì al centro sportivo».
L’allenatore esce dalla porta a vetri e io spingo quella dei bagni. Ecco, mi è venuto il mal di pancia anche se non ci sono piatti da lavare. Non fingo, funziono così.
I bagni sono decenti. Li divide dall’atrio una parete sottilissima e sento tutto quel che dice chi passa. Sento un bambino che si incanta davanti all’acquario, una signora che si lamenta per il ginocchio che le fa vedere le stelle, due uomini che invece sono tutti contenti.
«Questo è un ristorante che dà soddisfazione!» esclama voce uno.
L’altro è d’accordo: «Già. Si mangia bene, e tanto».
Voce uno: «Anche troppo».
Voce due: «Meglio troppo che poco. Ci sono certi ristoranti che quando ti alzi hai ancora fame. Lasci il piatto pulito e non ci vuole nemmeno la lavastoviglie».
Voce uno: «Vero!»
Anch’io dico: «Vero!» Però, a pensarci bene (il cervello ha ricominciato funzionare) che spreco!
Torno al nostro tavolo qualche minuto dopo. Il mio gelato al pistacchio si sta squagliando. Ne raccolgo un po’ con il cucchiaino da dessert. Buono. Con un po’ di sforzo lo mangio tutto. La mia fetta di torta invece la passo a Riccardo. Meglio nella sua pancia che nella spazzatura. Se fossero tutti come lui, il problema dei rifiuti, almeno di quelli commestibili, sarebbe già risolto.
La tavola disordinata a fine pasto mi mette sempre un po’ di tristezza. Tanto più se intorno stanno seduti dei cugini in vena di polemiche e un mocciosetto che deve aver fatto un corso su come rendersi antipatico, tanto ci riesce bene. Non vedo l’ora di andarmene.
Finalmente arriva il momento dei saluti.
I nonni e gli amicissimi non hanno fretta. Si fermano ancora un secolo nel parcheggio, chiacchierando di Venezia e Zara e gli altri posti del loro
viaggio di nozze di quarant’anni prima. Ovviamente poi seguono gli accordi, complicatissimi, per il prossimo appuntamento.
Finalmente saliamo in macchina. Io, papà, mamma e i nonni. Chiara è sull’auto dello zio Flavio, con Matilde. Chissà che cosa hanno sempre da raccontarsi quelle due.
Il nonno, alla mia destra, si abbiocca presto. La nonna invece è bella arzilla.
«Che cosa ti è piaciuto di più?» mi chiede.
«La pasta rosa» rispondo.
«A me le barchette di pasta frolla con salsa al salmone» dice la mamma. «Che peccato lasciarne sul vassoio almeno la metà…»
«E le crepes» aggiunge il papà.
«Perché non abbiamo chiesto il doggy bag anche noi?» chiedo.
La mamma scuote la testa. «Non oserei. Mi sembra di fare una brutta figura».
«Il Mister l’ha chiesto. L’ho sentito io».
«Davvero? Allora, la prossima volta lo facciamo anche noi. Ci sono un sacco di cibi che si possono mangiare anche il giorno dopo. La pasta con i pomodorini o le verdure lessate o la crema di piselli o la torta alle more…»
«Basta!» mi lamento. Solo a sentire nominare il
cibo mi viene la nausea; forse un po’ è colpa anche della strada tutta a curve.
«Non stai bene? Ti avrà fatto male la crema alla vaniglia, ci avranno messo un sacco di uova» dice la nonna.
Mi chiudo la bocca con la mano.
«Parliamo d’altro, per favore» sussurro.
«Hai finito i compiti?» chiede il papà. «Questa sera faremo tardi».
Per la prima volta in vita mia sono contento che si parli di scuola.