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5 • La prova di coraggio

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Storia 5

La prova di coraggio

Ieri, durante l’intervallo, ho sentito Jason che diceva che nella nostra classe, tranne loro cinque, non c’era nessuno che avesse un po’ di coraggio. Io io mi sono avvicinato e in tono spavaldo ho detto: «Io posso fare cose che voi non avreste mai il coraggio nemmeno di immaginare».

Perché l’ho detto? Il fatto è che a volte parlo prima di pensare. Era meglio se fossi stato zitto. O forse no. Prima o poi uno deve farsi avanti e se tiene a qualcosa deve almeno provarci, o non l’avrà mai.

I cinque in questione sono i più tosti della classe: Luca, Francesca, Silvio, Pamuk e Jason. E io ci tenevo tanto ad essere ammesso nel gruppo.

Luca e Silvio mi hanno guardato stupiti; Francesca ha sbuffato; Jason e Pamuk hanno fatto un

verso come per liberarsi di una caramella incastrata nella gola. Poi tutti hanno fatto: «Eeeeh?»

Sembravano pecore, così mi è venuto da ridere. Con quella risata era come se avessi lanciato una sfida. Ormai non potevo più tirarmi indietro. Ho aggiunto, con tono ancora più spavaldo: «E non sapete che cosa vi perdete a non avere anche me nel vostro gruppo!»

«Bla bla bla» ha fatto Jason. «Non ci interessano le tue chiacchiere!»

«Già, a noi interessano i fatti» ha detto Francesca.

«Mettiamolo alla prova» ha detto Pamuk.

«Sì, mettetemi alla prova» ho detto io.

Tornando in classe (era suonata la campanella della fine dell’intervallo) Francesca mi ha sibilato: «Tra due ore saprai che cosa devi fare, Simone cuor di leone!»

Mi guardava come un serpente che sta per mangiare un topolino.

Le due ore di matematica, che è la mia seconda materia preferita, non passavano mai. Di solito intervengo un sacco, ma di solito non mi frullano per la testa pensieri come: “Se mi chiedono di fare una cosa pericolosa, li mando a quel paese. Anche se mi chiedono di fare una cosa stupida, tipo rubare un rotolo di carta igienica dal gabinetto degli inse-

gnanti… E se mi chiedessero di saltare giù dalla finestra? Impossibile, siamo al terzo piano. Se lo facessi sarei pazzo, non coraggioso”. Mi venivano in mente altre prove, a dire il vero una più assurda dell’altra. A questo punto non vedevo l’ora di sapere che cosa mi aspettava. È proprio vero che l’attesa è peggio della prova, come mi dice mia nonna quando mi vede preoccupato il pomeriggio prima di una verifica.

La risposta mi è arrivata in mensa. Infatti la prova di coraggio c’entrava proprio con la mensa.

«Devi mangiare tutto quello che c’è nel menu» mi annuncia Pamuk. “Non mi è andata troppo male” penso, “oggi c’è la pizza al prosciutto”.

«Ma proprio tutto!» precisa Francesca.

“Accidenti, dopo la pizza al prosciutto passano sempre con l’insalata”.

«Per una settimana» aggiunge Luca.

Che perfidi! Lo sanno tutti che in mensa si mangia malissimo. Praticamente metà dei piatti tornano indietro intatti e metà dell’altra metà rimane mezza piena. Insomma, solo un quarto del cibo che arriva in tavola viene mangiato. Fatta eccezione per un paio di mangioni per classe che sbafano tutto, gli altri cincischiano, piluccano, assaggiano…

Veramente dovrei dire: cincischiamo, pilucchiamo, assaggiamo…

Sì, i cinque avevano scelto una prova davvero difficile.

Dopo due giorni avevo deciso di lasciar perdere. Avevo già ingollato, oltre al trancio di pizza e all’insalata, una fettona di polenta con lo spezzatino. Con tutti quei pezzi di carne un po’ duri e un po’ mollicci… Era troppo.

Mi ero già avvicinato ai cinque per comunicare che mollavo, quando il sorrisetto sulla faccia di Luca mi fece cambiare idea. Non gli avrei dato quella soddisfazione, a costo di mangiare non uno, ma due piatti di minestrina con il prezzemolo. Perché quello prevedeva il menu del terzo giorno: minestrina con prezzemolo e frittata. La frittata in realtà la trovai buona; la minestrina non lo so, perché la ingoiai tappandomi il naso e se tieni il naso chiuso non senti i sapori, come quando hai il raffreddore.

Anche il budino al cioccolato era buono, solo un po’ molliccio. Quella fu una piacevole scoperta, perché io prima non lo avevo mai nemmeno voluto assaggiare. Lo lasciavo lì, intatto; invece molti miei compagni si divertono a bucare il coperchio della confezione con la forchetta per sentire il rumore

che fa, che è come un piccolo scoppio. Il giorno dopo c’erano i bastoncini di pesce impanati, che non sono male, e la mela.

A turno, uno dei cinque mi controllava perché in mensa, con la confusione che c’è, è facile far sparire qualcosa e dire che l’hai mangiata.

Alcuni miei compagni ad esempio fanno finta di trafficare con coltello e forchetta e poi passano un po’ del loro cibo dentro il piatto di qualcuno che ha finito tutto e così possono dire di averne mangiato almeno metà, e li lasciano in pace. Ammetto di aver provato a fare il furbo con il pane del secondo giorno, ma Francesca mi aveva beccato.

«È buono! Almeno assaggialo!» mi aveva detto imitando la signora della mensa. Non mi aveva tolto gli occhi di dosso fino a quando anche l’ultima briciola non era sparita dentro la mia bocca.

«Ti è piaciuto?»

«Sì, davvero buono» avevo risposto, ed ero sincero: mi era proprio piaciuto.

«Cinque giorni. Cinque menu. Tutto spazzolato. Bravo!» esclamò Silvio dandomi una pacca sulla spalla. Mentre mi faceva i complimenti, sorrideva in un modo che non prometteva niente di buono.

«Però ha cercato di fare il furbo qualche volta! » si intromise Jason.

«Allora non vale. La prova raddoppia» decise Luca ridacchiando.

«Non vale lo dico io» sbottai. «Non si cambiano le regole a gioco incominciato!»

«C’è una sola regola: noi comandiamo e tu fai come diciamo noi. Chiaro?» strillò Pamuk.

Che regola del cavolo. Mi stava passando la voglia di entrare nel loro gruppo, però mi dissi che in fondo cinque giorni (di sabato e domenica non c’è lezione, per fortuna!) non erano tanti e che altri cinque menu avrei potuto sopportarli.

Non sto a elencare tutti i cibi che trovai nel piatto. Ogni volta restituii quel piatto vuoto e, in qualche occasione, perfino ripassato con il pane per raccogliere il sughetto.

L’unico osso duro furono le carote, che in sé non erano affatto dure, ma così mollicce che mi sembrava di mangiare lumache.

«Visto che ormai ci hai preso gusto» mi disse Jason a nome del gruppo, «la prova continua per un altro mese».

A quel punto però mi ero davvero stufato. Non del cibo della mensa, che non era poi così male, ma dell’arroganza di quei cinque. Mi chiedevo come avevo potuto desiderare di diventare loro amico.

«Rinuncio. Comunque, grazie. Mi avete dato l’occasione di fare delle scoperte interessanti» dissi e li lasciai lì a bocca aperta.

Il giorno dopo io, la mia compagna di banco Gisella e altri tre o quattro abbiamo creato un gruppo tutto nostro. Ci facciamo chiamare GLI AUDACI e la nostra audacia consiste nel mangiare tutto quel

che propone il menu della mensa. Il bis non è obbligatorio, però alza il punteggio.

In mensa ormai siamo famosi!

L’altro giorno, tornando dal bagno, ho notato un piccoletto di prima che cincischiava con aria schifata dentro il suo piatto. Mi sono avvicinato e gli ho sussurrato, con aria da tosto: «Io quella roba lì riesco a ingoiarla tutta, è così che si diventa grandi!»

L’ho lasciato che fissava il piatto con aria decisa, impugnando il cucchiaio come un’arma pronta a colpire.

Chissà chi avrà vinto la battaglia? Il piccoletto o la brodaglia?

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