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Altre annotazioni su I cavalieri del Nord-Ovest

Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

Altre annotazioni su I cavalieri del Nord-Ovest

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Chi volesse accingersi all’opera invero non semplice di compiere una revisione storica e dare un giudizio sulla personalità di John Ford, tenendo conto delle sue opere importanti e meno importanti (e la lettura di esse costituisce un problema a se stante, superando il centinaio a detta dei più accreditati filologi), dovrebbe considerare una “caratteristica” di Ford, quella che è stata chiamata l’attitudine, di natura romantico-religiosa, a guardare criticamente la psicologia dei suoi personaggi. In mezzo ai giudizi più diversi e contrastanti, appare dalla letteratura sull’argomento il perfetto accordo su un punto: riconoscere a Ford una densa, fertile, calda umanità di personaggi. Ma non bisogna pensare che le creature fordiane siano così analizzate, fatte segno di una accurata e finissima introspezione, come quelle diWyler: esse sono piuttosto ampi e profondi motivi psicologici in cui vive per lo più un monito ed un’esigenza morale. Ed è comprensibile la differenza fra i due artisti: in Wyler fine ultimo è il racconto, la prosa narrativa, perciò vi è una accurata e fine descrittiva dei personaggi che animeranno la finzione cinematografica; in Ford, invece, il personaggio è l’importante punto di partenza e di arrivo per sviluppare una visione complessa e talora poetica della vita. E siccome i personaggi di un autore sono sempre in fondo il loro autore stesso, diaspora ideale del suo sentimento, nelle figure femminili wyleriane troviamo Wyler, la sua precisa conoscenza dei moti del cuore umano, l’attenzione per i movimenti più segreti e riposti in esso, e nelle figure di Ford troviamo qualcosa di più complesso, il rapido scherzo psicologico viene tracciato nella mente, l’interesse morale, le inclinazione di un uomo irlandese, cattolico e religioso, la lezione del romanticismo. Nella concezione di Ford romanticismo e religione s’incontrano sempre, ma il primo assoggetta sempre la seconda e la piega ad una poetica che è quella di un romantico, non di un poeta cristiano. Un Ford poeta religioso è credibile solo per gli americani e per certi giornalisti cattolici: l’America, si sa, è un paese moralista e nelle opere d’arte le basta di trovare della religione, della psicologia, della morale, non importa se più o meno raffinate. Il popolo americano, notava giustamente Luigi Russo, è di facile e puerile con-

Guido Gerosa

tentatura in fatto di religione; e l’insigne critico ne traeva il corollario di una povertà della democrazia americana. Corollario errato, a mio parere, perché un popolo facilone in materia religiosa può essere acutissimo nello svolgimento della vita politica, tanto che i Romani, veramente puerili in fatto di religione, ebbero quel lustro politico e giuridico che tutti sanno. Comunque, solo in America potrebbe incontrare pieno credito una concezione religiosa vaga e romanticamente per null’affatto originale come quella fordiana; e se Ford può passare per il Paul Claudel cinematografico d’America, questo non fa tanto torto a Ford quanto all’America. O, meglio, fa torto alla scarsa penetrabilità di certi critici di giornaletti ecclesiastici nelle cose cinematografiche. Per difendersi dal laicismo e talora dall’estremismo degli scrittori cinematografici più noti, la Chiesa giustamente deve ricorrere all’opera di critici strettamente osservanti che però all’atto pratico non hanno neanche quella cultura formalistica e grammaticale che per lo meno era patrimonio dei padri Cesari di letteraria memoria. Incapaci a leggere, nei film, la vera concezione fordiana, costoro si perdono in strane interpretazioni: ed ecco creato il mito di un Ford poeta pienamente cattolico e religioso, il cui verbo sarebbe contenuto nel mediocre e calligrafico The Fugitive.Anche di queste deformazioni storiche dovrà necessariamente tener conto la critica su Ford: perché critica è, e dev ’essere, anche storia della critica precedente.

Cattolicesimo, sì, nella poetica fordiana, ma cattolicesimo mescolato ed unito ad elementi romantici, vagamente mistici, miracolistici. La concezione di Ford la possiamo ricostruire in base ad un’opera interessante, se pure propriamente poetica, Com ’ era verde la mia valle (1941), il film tratto dal bel romanzo di Llewellyn. Gli uomini, nello svolgersi della loro vita, sono chiusi come monachi, solitari e lontani: vivono esperienze spirituali pericolose, come accade adAngela e al signor Gruffydd ad esempio, ma non riescono a comprendersi né tra loro che insieme compiono l’esperienza né tanto meno a farsi comprendere dagli altri. Non vi è una sincera solidarietà, una fraternità cristiana fra di essi: e Cyfartha si rifiuterà anche di scendere nel pericolo della miniera insieme al suo compagno Dai Bando. Lega queste creature una forza che, se fosse la provvidenza, giustificherebbe in gran parte il cre-

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dito ad un pieno cattolicesimo di Ford: ma non è la provvidenza, è qualcosa di più vago e nebuloso, un “destino” romantico. Quello stesso destino che unisce la moglie dell’ ufficiale e il medico e la prostituta e lo sceriffo e gli altri sulla diligenza di “Ombre rosse” , e gli uomini sul camion di “Furore” , ed i marinai sulla nave del “Lungo viaggio di ritorno” . Drammi non tanto di Dio quanto del destino, presente anche nelle parole della madre dei Morgan quando dice: “Per me non esiste carta geografica né continenti; i miei figli sono tutti sparsi per il mondo, ma io li sento tutti vicini a me e questo basta” . Ad un certo momento il destino lascia il posto alla fiducia in Dio: ma anche qui essa ha qualcosa di miracolistico, di romantico, le donne “sentono” oscuramente nel finale che Morgan è morto. Religiosità sì, ma contaminata da motivi e da ansietà tipicamente romantiche, palesi in pagine tormentose ed agitate come quelle dei vibranti colloqui di Gruffydd ed Angela e del matrimonio di Angela. Questa concezione fordiana, per la sua religiosità più umana e romantica che totale, può estendersi anche a vicende che non riguardino strettamente conflitti spirituali e religiosi; la si ritrova così nei maggiori film fordiani, dai “ western” alle opere “sociali” . Essendo una poetica vaga ed agitata, è la più adatta per una vita drammatica dei personaggi, ricchi proprio per il romanticismo, la mancanza di organicità nel pensiero del regista, la sua vena patetica. Ne escono figure insolitamente ricche di tormento interiore, di umanità che inutilmente va alla ricerca della luce. E, nei suoi momenti migliori, quest’arte rispecchia, molto più profondamente che non il giuoco narrativo di un Wyler, la vita morale dell’America, cogliendola in quella sua appassionata ricerca di un moralismo pratico, naturale, che è una delle necessità più profondo e sentite nella società americana.

Ben poca attenzione ha dedicato la critica a I cavalieri del NordOvest (SheWore aYellow Ribbon, 1949): mentre questo film ha una notevole importanza per quel che riguarda uno sfiorire dei motivi poetici fordiani, una vena che va facendosi sempre più fiacca, una lenta decadenza del regista. Nel passato, allorché Ford, vincendo gli ostacoli pratici e impellenti alla realizzazione dei suoi progetti, riusciva ad impostare un film secondo la sua visione, questo film acquistava dei valori poetici o, per lo meno, vi si notava la fertile umanità di Ford. She

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Wore a Yellow Ribbon risponde pienamente alla poetica fordiana, eppure è un film decisamente mancato: segno di decadenza, quindi, mancata rispondenza tra l’ispirazione felice e la capacità di concretare in fantasmi poetici questa vena particolarmente fruttuosa. Ci troviamo di fronte ad un’opera in cui sussistono le condizioni ideali per creare qualcosa di duraturo: siamo in pieno mondo fordiano, nelle immense pianure dell’Arizona e dell’Utah, terre del nord-ovest, battute dai bufali e dagli indiani, un paesaggio a tratti aspro e roccioso, a tratti aperto e verdeggiante. Qui si svolge la favola caratteristica di Ford: i personaggi sono distanti, chiusi in se stessi, inaccessibili a più vasti rapporti umani. Nella figura di Olivia Ford ci ha dato il microcosmo dell’opera: per molto tempo essa sarà la ragazza sdegnosa e chiusa nella propria solitudine, che tormenta gli innamorati per tormentare se stessa. Tra lei e Bennett e Cornell non vi è comprensione, come non vi è tra lei e Brittles, tra Brittles e i tenenti, tra tutti costoro e la fiera, militaresca zia Emma. Penserà il destino fordiano, solo in parte identificabile con la fiducia in Dio, ad accostarli: avanza lo squadrone nella notte e porta gli uomini verso l’ignoto, Olivia ha appena finito di litigare con Philip e nasconde il viso nel mantello lasciandovi una cocente lacrima di rabbia, il vecchio capitano Brittles le si accosta e paternamente le passa la mano sulla spalla, procedono poi lentamente appaiati: il “destino” li unisce. Dopo aver visto il massacro alla fattoria, la giovane sinceramente si accusa: “è tutta colpa mia, che ho voluto vedere il nord-ovest, e credevo di essere forte come un soldato, mentre poi ho resistito soltanto un inverno!” , e Nathan: “Non siete un soldato, se lo foste, sapreste che scusarsi è segno di debolezza. La colpa non è vostra, è stato come il cielo ha voluto” . Insorge alfine nei personaggi la fiducia in Dio. In un primo momento, più che Dio, è l’inconscio, l’al-di-là, un segreto impulso, il Dio dei romantici e dei tormentati: per Nathan la tomba della moglie, cui egli si accosta tristemente, dopo gli eventi più importanti della sua carriera, per parlare all’ombra della consorte. Ma al punto cruciale, quando il destino li sconvolge, li agita, i personaggi fordiani si rivolgono fiduciosi a Dio: quando muore il soldato Smith, la voce ed i pensieri dei cavalieri del Nord-Ovest corrono subito al Signore. Ma accorre sempre un turbamento, un’agitazione: la commozione religiosa deve essere preceduta

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dalla commozione romantica.

Oltre alla concezione-base, tutte le voci della poetica di Ford sono presenti nel film. Secondo l’evoluzione subita da quella poetica, il capitano Nathan Brittles non è più il leggendario eroe del West, come in un altro senso non lo era il colonnello Thursday di Fort Apache, ma è un uomo soggetto a tutte le debolezze e le meschinità della nostra natura: un eroe con gli occhiali, che sa anche commuoversi. L’atteggiamento fordiani riguardo gli indiani, quantunque, come vedremo, non storicisticamente spiegato, è contrario alla prammatica: Nathan, l’ uomo bianco, e Pelle di Volpe, la pellerossa, sono posti sul medesimo piano in quanto cacciarono assieme il bufalo ed assieme si ubriacarono, ed entrambi sono vecchi e stanchi, inetti per la guerra; cadranno i giovani “ yankees” e cadranno i giovani pellirosse, potrà piangere Olivia come qualsiasi “squaw ” indiana che abbia perso il suo caro in guerra. Immutata è la simpatia per l’esercito e sono considerate con interesse la servitù e grandezza militari: l’abito borghese è chiamato “ vestito da prete” , i giovani delle accademie sono “pivelli” , e sulla vita militare Nathan fa amare considerazioni: “quando si è comandanti di uno squadrone, sono in cento ad ubbidirti e servirti, i tenenti scattano sull’attenti, ma il giorno dopo che sei andato in pensione il maniscalco ti fa un gran piacere se ti ferra il cavallo” . Ford cerca inoltre di fare la poesia della storia, alimentare la creazione artistica con la fedeltà della storia, introducendo per incidente personaggi ed eventi reali che diano concretezza alla narrazione fantastica (la strage di Custer, avvenuta sul Little Big Horn nel 1876, e la guerra santa di Toro Seduto, cui parteciperanno i Sioux, gli Arrapakoes ed i Cheyennes, la guerra di secessione, i nomi di Sherman, Sheridan, Ulysses Grant presidente degli Stati Uniti e del generale sudista Lee, l’ uomo che voleva fare la guerra da “gentleman” e fu annientato dal brutale “piano Anaconda” di Sherman: Robert Lee fu una specie di Gamelin americano), volendo giungere così alla celebrazione di un’epopea: “eccoli qui tutti, i volontari e i regolari, gente che per 50 cents al giorno difendeva i confini della nazione, dal forte Colorado al fortApache; eccoli, i cavalieri del Nord-Ovest, dovunque essi cavalcarono, dovunque essi combatterono, quella terra divenne terra degli Stati Uniti” .

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I personaggi fordiani sono vivi per le rapide notazione con cui è colta la loro umanità; vivi per un gesto, un movimento, anche se poi non sono analizzati pazientemente. In quel gesto, in quel movimento c’è già tutta la vita poetica del personaggi. She Wore a Yellow Ribbon è invece il trionfo di un’analisi paziente, minuziosa, tanto minuziosa quanto superficiale: manca lo scherzo, la notazione immediata, la si avverte solo in pochi momenti. Il resto è fatto tutto o di un esteriore romanzo d’avventura o di un’analisi stracca, inconcludente. Interni freddi visti in campo totale, ambienti che non risentono della visione di un personaggio, non legano con esso, dialoghi inutili, sequenze che hanno del meccanico, del forzato, dell’interpolato, talora obbligate da una comicità per null’affatto naturale. L’ umorismo di Ford sta nel contrasto tra le cose grandi, le cose serie, l’epopea da una porte e la bonarietà dei personaggi dall’altra. Comico può essere il discorso di Nathan alla moglie morta: “Hanno ucciso Giorgio Custer con tutti i suoi; le cose si mettono male per noi. Ed è morto anche…: ti ricordi quel bel ragazzo che ballava sempre con te al forte? Sai, è morto: lo ricordi, vero?” . Il comico fordiano è in questo contrasto, fra l’ombra triste del cimitero alla sera e la bonaria semplicità di Nathan Brittles, il tono amenamente e scherzevolmente conversevole che prende il suo monologo e la sua consapevolezza del luogo in cui ci troviamo; una comicità funeraria, se si vuole, ma nel vero Ford, il comico non è mai schietto, genuino, porta sempre con sé un carico di pena nascosta. Il comico tutto comico sarebbe quanto di più antiromantico si potrebbe immaginare. Solo a tratti in questo film c’è la vera comicità fordiana; il resto è un susseguirsi di trovate meccaniche. Non essendovi dei personaggi ben definiti nella loro grandezza, manca il contrasto necessario all’ umorismo fordiano.

Solo nella descrizione di Olivia Ford ha tratti felici quasi ad ogni pagina, seppure ne sciupi la freschezza talora con l’insistere su una stupida schermaglia amorosa ch’ella conduce con i due pretendenti. Ma la presentazione è efficace: capricciosa e ribelle, Olivia vorrebbe uscire dal forte per un picnic con il tenente Bennett … di fiamma quando Cornell le nega il permesso. Poi v ’è il tratto assai grazioso quando ella vorrebbe dare un bacio al suo segreto amore Philip e la zia li sorprende. È deliziosa, con quel vestito da soldato, quella baldanza tutta femminile che

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ostenta perché ha indosso abiti maschili: le aggiunge leggiadria il nastro giallo, segno di un amore in cavalleria, “a yellow ribbon” , in forma di fiore che aumenta la freschezza del suo viso così pronto alle lagrime coma alla gioia. Più complessa e femmina la si sente allorché al cimitero pone i fiori sulla tomba della signora Brittles; e quell’ombra, quella figura che si staglia nelle tenebre della tarda sera, suggeriscono un che di tormentato, di commosso. Olivia si sente sola, chiusa in se stessa, incapace di esprimersi e cerca di rivelare a qualcuno il suo cuore. Solo più tardi, potrà farlo: allorché vede che il giovane amato si appresta a rischiare la vita, cessa di stuzzicarlo, di ingelosirlo, e lo bacia piangendo. Poco dopo, troviamo un’altra singolarissima notazione: risalita a cavallo col cuore colmo di pianto, ella si rivolge a Bennet dicendogli: “Ha capito adesso?” , al che l’altro risponde: “Credo di sì” . Poche parole in cui è pienamente ritratta quell’inconscia crudeltà femminile che rende più penose le sconfitte in amore: rare volte ci è sembrata così naturale la descrizione dell’epilogo di una passione non condivisa.

E delicata è un’altra sfumatura: al forte, mentre pensa a Philip e si sente venire il nodo alla gola, a chi la conforta, ella dice, piano: “Non piango… vorrei soltanto abbracciarlo” .

Aparte queste poche felici notazioni, manca al film l’ unità interiore o dei sentimenti; il racconto si svolge per lo più esteriormente, concepito come un romanzo d’avventura alla maniera di Salgari, Mioni, Cooper. Lo stile si fa anch’esso avventuroso, “ western” , interessante solo per quel che concerne certi movimenti di macchina ed il modo di rappresentare il movimento attraverso il ritmo interno del quadro. Non mancano brani di singolare bellezza formale: le sfilate dello squadrone C, l’avvistamento degli Arrapahoes in marcia nella pianura, il guado del fiume. Ed anche la musica acquista certi valori simbolici e di emozioni. Ma sono parole cinematografiche prive di valore intrinseco, avulse da un contenuto umano: senza significato, quindi.

La storia è vista con occhio poco acuto e le ragioni per cui gli indiani collegati si mossero e massacrarono le truppe di Custer non sono affatto spiegate: non vi è neppure una cronaca, un resoconto di ciò che accadde in quei tempi tra pellerossa e soldati degli Stati Uniti, cronaca che persino nei libri di Salgari troviamo sviluppata. Gli indiani qui

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hanno molta meno importanza concreta che in Fort Apache, e vago è l’accenno al pacifismo: semmai più che di pacifismo bisogna parlare di nazionalismo, molto scoperto in certi tratto apologetici e nella pagina della morte del “soldato” Smith, per altro non del tutto priva di calore umano e di romanticismo fordiano. Qui fanno la loro apparizione retorica le tradizione della cavalleria , di cui il morente tessa l’elogio, mentre il sergente non sa che ripetere “Oh, signore” Oh, signore!”; ed alle tradizione della cavalleria, si rifanno altri tratti retorici come quelli che concernono il soldato ferito, operato durante la ritirata, i quali danno l’avvio ad una strana notazione sociale che cade nel nulla, perché estranea alla natura romantico-religiosa di Ford: il battibecco tra Philip e Olivia perché la fanciulla sostiene contro il tenente la dignità umana e sociale del povero soldato e questi, negandola, accusa lei di sostenerla soltanto per un attaccamento romantico, perché potrà raccontare a tinte forti la storia di quel miserabile nei salotti delle sue amiche. Il contrasto tra Philip e Olivia è lo stesso che, in Fernandez, avviene tra il generale Josè Juan Reyes e Beatriz l’“enamorada”: ma il romanticismo meridionale di Fernandez non è scevro da un certo realismo sociale, laddove Ford anche nelle sue opere più apertamente e dichiaratamente “sociali” non mostra che un interesse parziale per i problemi dell’ uomo moderno. Tanto meno, quindi, in She Wore a Yellow Ribbon.

Di fronte a queste deficienze, palesi nel film, è possibile che si tratti di una soltanto temporanea caduta dell’ispirazione che avrebbe potuto dare i frutti migliori, accostandosi Ford alla materia più sua e prediletta. Ma si può anche pensare che quel tramonto infuocato, con dei rossi addirittura sanguigni (“pretenzioso, infantile simbolismo”? forse sì), che vede l’incontro della staffetta e di Nathan Brittles il quale apprende la sua nomina a colonnello degli esploratori, sia inconscia ipotiposi di un altro tramonto, più triste e più grave. Il tramonto di un regista: John Ford. (s.d.)

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