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C’è sempre un domani

Guido Gerosa

mente. Che c’è nel film, pur nella sua vacuità, una scorrevolezza di periodi, una facilità di racconto e di ritmo che ne fanno uno “scherzo” discreto. Ben diverso, per finezza e per diletto, uso e del tutto stupido Francis il mulo parlante, a cui è stato accostato. Film come Francis non sono accostabili dalla critica, sono esattamente a livello dei fumetti per ragazzi, film come Bill, sei grande sono invece parte della “cinematografia” , intendendo con questo termine l’equivalente di “letteratura” per il cinema, di quell’insieme di opere che pur non presentando valori poetici possono interessare per il loro contenuto espresso in modo acconcio e conveniente: opera di diletto, di lettura amena, farsesche oppure anche serie, scientifiche, specializzate. In questo senso, Bill sei grande appare a livello di un romanzetto umoristico che non abbia altre preoccupazioni se non una comicità avulsa dal reale e dall’ umano. E non si può inserire il film nell’opera fordiana se non appunto come un passatempo uno “scherzo”; allo stesso modo che la trilogia di Ford sulla Seconda guerra mondiale si spiega solo con un bisogno oratorio e propagandistico. Ed è inutile discettare sul passaggio dal tema dei “sacrificati” al tema dell’eroe per burla, e dal concetto della donna che vive la guerra accanto ai combattenti, al ridicolo patriottismo di Marcha e Yvonne: quest’ ultima del tutto assurda e risibile. Se Ford è o meno un poeta lo si può dedurre da film significativi, Stagecoach o The Informer, The Lost Patrol o The Grapes of Wrath, My Darling Clementine o Fort Apache: non mai dalla trilogia bellica o da When Willie… Nei primi un’ umanità da documentario nell’ ultimo un’ umanità da barzellette, uccidono in modo irrimediabile l’ispirazione poetica. (Maggio 1951).

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C’è sempre un domani

regia: Delmer Daves

Tra i “narratori” del cinema americano, Delmer Daves è, dopo John Huston, il più convincente. Innanzitutto è da notarsi la serietà dei suoi intenti, che la portato, in Broken Arrow, a trascurare volutamente la parte romanzesca per preferirle una interessante indagine storico-politica. Ed

Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

in secondo luogo, la caratteristica della sua narrativa: un impegno psicologico costante, soprattutto nella descrizione di figure femminili, ed una verità di caratteri che salva i suoi personaggi anche quando questi sono lasciati un po’ come se stessi in navigano verso le convenzionali tipologie hollywoodiane.

Forever in Love è un film che risale alla fine della guerra, Svela il miglior Daves. La vicenda è frusta, sfruttata: il giovane” yankee” , sportivo e pieno di vita, che torna dalla guerra mutilato e non vuole la “pietà” della fidanzata e degli amici. Su questa trama non nuova Daves ha composto un film nuovo: interessante per il risalto dei vari caratteri, per la sincerità delle situazioni, per la loro “ verità” , solo di rado offuscata da qualche blanda concessione al sentimentalismo ed alla retorica. Intendiamoci: i personaggi situazioni di questo film non giungono che radissimamente a delineare un mondo poetico, sono “carattere” più che “personae poeticae” , figure la cui psicologia è perfettamente resa più che non riflessi di un sentimento, di una visione del mondo. Ma quale ricchezza interiore, quale molteplicità di movimenti umani, quali espressioni di affetto e di umanità risplendono in questi personaggi! Come sempre in Daves, la figura femminile è ritratta con assoluta sincerità: Ruth, perfettamente coerente a se stessa nel gioco amoroso scherzoso, nel sorgere di un sentimento profondo, nella totalità dell’amore comporta sacrificio affetto intenso… Ritratta nelle sue note fisiche con calda simpatia da parte del regista ed un che di malizioso (quel suo far studentessa in vacanza, il suo ottimismo), sfiorante forse la retorica in quel suo accogliere senza accenni di crisi la disgrazia di Al (“Perché dovrei disperare? Io l’ho amato non per i suoi occhi, ma per lui, per tutto l’insieme… ”), ma così umana e palpitante nel colloquio con l’amato accanto all’albero di Natale rovinato, una delle pagine più belle del film (“ma caro, pensa se ci fossimo sposati ed in una disgrazia io fossi rimasta cieca, tu avresti per questo cessato di amarmi? Io ti ho amato, ti ho desiderato in questi anni, non voglio perderti”); e Loretta, una “donnina (?) d’America” , con quei suoi moti così giovanili e pieni di entusiasmo, l’emozione dei primi baci, e cantare per sottintesi le proprie avventure sentimentali. Anche i caratteri degli uomini sono rappresentati con evidenza: Al, l’orgoglioso e quindi più sofferente della sua di-

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