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LE CONFRATERNITE ROMANE NEL MEDIOEVO

Desidero prima di tutto ringraziare gli organizzatori di questo incontro in ricordo di Luigi Fiorani per avermi invitato a trattare un argomento che mi sta molto a cuore, quello delle confraternite, e a dare contemporaneamente la mia testimonianza sulla attività di una persona che è stata – per molti anni della mia vita – un punto di riferimento culturale, oltre che un amico, a cui mi aveva ‘ufficialmente’ presentato un altro caro amico oggi scomparso, padre Jean Coste. Con Luigi Fiorani, tra gli anni ’80 e ’90, ho condiviso non solo la passione per la ricerca, ma anche le diverse iniziative scientifiche della Fondazione Caetani1, oltre ai caffè ‘chiacchierati’ nel bar della Biblioteca Vaticana, una pausa che era anche un momento di scambio di idee e riflessioni, molte delle quali vertevano proprio sui sodalizi romani.

Luigi Fiorani, infatti, pur non essendo un medievista ma uno storico dell’età moderna, aveva sempre considerato fondamentale seguire il fenomeno confraternale dalle sue origini fino all’età post-tridentina ed oltre, proprio per valutarne le trasformazioni e le persistenze soprattutto a livello della carità e della religiosità, temi che gli erano cari e su cui ha scritto pagine molto importanti. Quindi nel mio breve intervento mi limiterò a segnalare il contributo e l’impulso che Luigi ha dato agli studi in questo campo anche per quanto riguarda il periodo medievale, con l’ideazione di quello che – a quanto mi risulta – rimane l’unico convegno organizzato nella nostra città in tema di pie confraternite laicali, ad eccezione – ma si tratta appunto di un caso particolare – del Colloquio esclusivamente rivolto alle ‘fondazioni nazionali nella Roma pontificale’ svolto nel maggio 1978 su

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1 Ninfa: storia, arte e immagine, ambiente. Atti del Convegno (Roma – Sermoneta – Ninfa, 7-9 ottobre 1988), a cura di l. fiorani, Roma 1990; Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra Medioevo ed età moderna. Atti del Convegno della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermoneta, 16-19 giugno 1993, a cura di l. fiorani, Roma 1999.

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it impulso dell’École française de Rome e della Accademia di Francia, i cui Atti furono pubblicati nel 19812.

Nella Premessa al nr. 5 delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma», del 1984, che accoglieva gli interventi presentati due anni prima al Colloquio Per la storia delle confraternite romane svoltosi nella sede della Fondazione Camillo Caetani, Luigi Fiorani, che di quel convegno era stato il convinto animatore insieme ad Alberto Monticone, così scriveva con una punta d’orgoglio: «il volume costituisce ora un contributo significativo alla storia del movimento confraternale romano, tanto corposamente presente nella vita della città, quanto ancora da scoprire e da studiare adeguatamente»3, concetto ribadito nel suo denso saggio dal titolo Discussioni e ricerche sulle confraternite romane negli ultimi cento anni, apparso nel 1985 nel numero 6 della sue «Ricerche», saggio – questo – dove veniva presentata, «forse per la prima volta, una lettura globale della lacunosa storiografia sull’argomento», per certi versi una riconsiderazione della passata produzione in materia, un bilancio più meditato degli apporti degli stessi Atti del convegno del 1982 e l’indicazione di nuove piste da percorrere4. Dunque, in Fiorani si può riscontrare sempre piena coscienza sia del lavoro svolto ma anche della lunga strada da percorrere per penetrare più in profondità in un campo così articolato e pieno di sfaccettature come quello confraternale, che – per quanto riguardava Roma – non aveva neppure l’ausilio di un buon background storiografico. «La magra storiografia sulle confraternite romane …» – scriveva Luigi Fiorani – «ha dato luogo a una miriade di piccoli contributi e scandagli eruditi, che si perdono talora in una lettura frammentaria, o, peggio, aneddotica dei fatti»5. E ancora: «lette dagli uni in chiave apologetica e confessionale, affrontate dagli altri sulla scorta di categorie giuridiche e amministrative, sottoposte alla lente d’ingrandimento di contabili scrupolosi ma senza respiro, o convogliate nel folto contenzioso che l’intransigentismo cattolico mette in piedi contro l’avanzare dello stato laico, alle confraternite romane era venuta a mancare la possibilità di una pacata riflessione su se stesse, sulle proprie origini, sui titoli e sul senso della propria esperienza storica»6.

2 Les fondations nationales dans la Rome pontificale. Actes du colloque (Rome, 16-19 mai 1978), Rome 1981.

3 l fiorani, Premessa, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 5 (1984), pp. 9-17: 9.

4 l. fiorani, Discussioni e ricerche sulle confraternite romane negli ultimi cento anni, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 6 (1985), pp. 11-105.

5 fiorani, Premessa, pp. 9-10.

6 fiorani, Discussioni e ricerche, p. 41.

Ciò valeva particolarmente per le confraternite fondate a Roma in età medievale, che fino alla fine degli anni ’70 non avevano ricevuto un’adeguata attenzione da parte degli studiosi, anche di coloro che si occupavano di storia religiosa, con solo qualche contributo, per lo più rivolto alla pubblicazione di testi statutari o di registri confraternali da parte – essenzialmente – di storici della lingua7, ed eccezion fatta per il repertorio Le confraternite romane nelle loro chiese, purtroppo non privo di errori proprio a causa della ridotta produzione storiografica di riferimento, curato nel lontano 1963 da Matizia Maroni Lumbroso e Antonio Martini8. Solo con la pubblicazione nel 1978 nell’Archivio della Società Romana di Storia Patria del saggio di Paola Pavan sulla Società dei Raccomandati del Salvatore9 si apriva una nuova stagione per la storia delle confraternite romane medievali10, che avrebbe avuto un momento fondamentale proprio con il convegno del 1982.

Come lo stesso Fiorani ricordava in una nota annessa alla già ricordata Premessa, questo Colloquio era stato preceduto da «una lunga serie di incontri e di seminari tenuti da giovani ricercatori e studiosi romani» sulla storia religiosa di Roma, e già nel luglio 1980 – in uno di questi incontri, a cui – insieme ad altri – avevo preso parte anch’io – si cominciò a parlare della necessità di avere un’attenzione più mirata verso lo studio delle confraternite romane, per cercare non solo, e cito, di «diradare la conoscenza approssimativa di quella storia, ma di una metodologia che tenesse conto della sensibilità nuova con cui si guarda oggi ai fenomeni della vita religiosa»11. Si concordò allora di concentrare le ricerche intorno a quattro punti di rife- rimento ovvero 1) pietà e vita religiosa; 2) composizione e incidenza sociale; c) economia; d) carità ed assistenza. Si lasciò però fuori il tema della committenza artistica, perché il programma abbozzato e naturalmente pensato sul lungo periodo, sembrava già molto fitto. Nella pubblicazioni degli Atti sarebbero poi stati inseriti anche diversi saggi su questo tema, di Claudio Strinati, di Sergio Rossi, di Antonio Vannugli, e per il ’400 quello di Anna Cavallaro su Antoniazzo Romano e le confraternite romane. Per quanto riguarda il ciclo dei seminari preparatori, dei veri e propri work in progress, uno tra i sette preventivati – dal titolo Le confraternite medievali romane: problemi di ricerca – fu organizzato da tre allora ‘giovani ricercatrici’, ovvero dalla già ricordata Paola Pavan, da Giulia Barone, che da tempo studiava il mondo religioso romano, e da me stessa, che dalla fine degli anni ’70 mi ero occupata delle confraternite ospedaliere di S. Maria in Portico, S. Maria delle Grazie e S. Maria della Consolazione12 e avevo appena iniziato ad intraprendere le ricerche sul sodalizio del Gonfalone, il cui archivio era ancora privo del prezioso inventario pubblicato nel 1990 da mons. Sergio Pagano13. Un altro incontro seminariale relativo al tardo medioevo ebbe come animatrice Silvana Di Mattia Spirito e verteva sull’assistenza e la carità ai poveri da parte delle confraternite romane del Tre-Quattrocento. Gli altri seminari – dedicati all’età moderna – furono coordinati da Vincenzo Paglia, Luigi Cajani, lo stesso Fiorani ed esperti della Sovrintendenza archivistica del Lazio e dell’Archivio di Stato di Roma.

7 Cfr. f a ugolini, Contributo allo studio dell’antico romanesco. Un registro della confraternita dell’Annunziata (1457), «Archivum Romanicum», XVI (1932), 1, pp. 21-50; m pelaez, La fraternita di S. Maria delle Grazie e il suo statuto in volgare romanesco, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», LXIX (1946), pp. 73-90.

8 m. maroni lumbroso – a. martini, Le confraternite romane nelle loro chiese, Roma 1963.

9 p pavan, Gli statuti della società dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Sanctorum (1331-1496), «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CI (1978), pp. 35-96. Nello stesso anno chi scrive iniziava a prendere in esame la documentazione di S. Maria della Consolazione, cfr. a. esposito, Notizie sull’archivio dell’ospedale della Consolazione in Roma, ibidem, pp. 384-396.

10 Al convegno sul tema Le confraternite in Italia tra Medioevo e Rinascimento tenutosi a Vicenza il 3-4 novembre 1979 furono presentate tre relazioni relative a confraternite romane, poi pubbliche negli Atti del convegno nella rivista «Ricerche di storia sociale e religiosa», n.s., IX (1980), 17-18: a esposito, Le confraternite e gli ospedali di S. Maria in Portico, S. Maria delle Grazie e S. Maria della Consolazione a Roma (secc. xV-xVI), pp. 145-172; p. pavan, Un esempio romano: la confraternita dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Sanctorum, pp. 189-194; v. paglia, Contributo allo studio delle confraternite romane dei secoli xV-xVI, pp. 233-286.

11 fiorani, Premessa, p. 17.

Infatti, parallelamente allo stimolo per gli studi sulle associazioni confraternali, Luigi Fiorani si era reso animatore di un’altra iniziativa meritoria, che consisteva sia nella ricognizione del materiale di queste istituzioni conservato non solo nell’Archivio di Stato di Roma, nell’Archivio Segreto Vaticano e nell’Archivio Storico del Vicariato di Roma, ma soprattutto negli archivi esistenti presso le sedi di sodalizi ancora operativi o collocati in sedi di fortuna, sia nella redazione di un Repertorio degli archivi delle confraternite romane, che costituisce la gran parte del numero 6 delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma», repertorio a cui collaborarono sia molti (allora) ‘giovani’ ricercatori della Fondazione Caetani, tra cui mi piace ricordare tra gli altri Sergio Pagano (oggi prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano), Domenico Rocciolo (oggi direttore dell’Archivio Storico del Vicariato di Roma), e Miriam Chiabò dell’Università di Roma Tre, sia funzionari – allora altrettanto giovani – della

12 Cfr. note 9 e 10.

13 s pagano, L’ archivio dell’arciconfraternita del Gonfalone. Cenni storici ed inventario, Città del Vaticano 1990 (Collectanea Archivi Vaticani, 26).

Sovrintendenza archivistica per il Lazio, come ad esempio Alessandra Mulè e Cristina Carbonetti Vendittelli dell’Università di Roma Tre. Il lavoro di rilevamento e inventariazione delle fonti archivistiche, che era stato immediatamente sentito come una necessità per la ricerca, aveva avuto un’ulteriore motivazione proprio dagli Atti del convegno. «Paradossalmente – scriveva Fiorani – è stato proprio il passaggio storico e il tentativo di veder più chiaro su certi passaggi e su certi nodi delle confraternite romane a sollevare la domanda delle fonti, la questione degli archivi, a mettere in luce la necessità di averne sotto mano un quadro complessivo»14

Dunque, quello del 1982 fu un colloquio scientifico costruito e progettato nei dettagli e punto di arrivo di ricerche su fonti spesso inesplorate, ricerche di prima mano, che erano state programmate e discusse collegialmente nelle loro finalità dai vari ricercatori/poi relatori, con l’obbiettivo di superare il disagio determinato da una storiografia insufficiente e di aprire qualche nuovo varco su di un fenomeno – di cui non ci si nascondeva la vastità e complessità – con una ricerca ed un esame analitico delle fonti disponibili, edite ed inedite.

Per quanto attiene al periodo medievale, l’obbiettivo che muoveva Giulia Barone nel delineare le origini di quella che è considerata la prima confraternita romana, ovvero la società dei Raccomandati della Vergine, testimoniata con sicurezza dal 1267, era quello – cito – di «correggere alcune infondate certezze», a partire dalla fondazione del sodalizio nel 1260 ovvero nell’anno delle grandi processioni flagellanti e all’ispirazione religiosa di Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dei Francescani, che ne avrebbe dettato gli statuti. Dall’attenta lettura della documentazione duecentesca, che la Barone definiva «di una scarsità quasi alto-medievale», è stato almeno possibile fissare alcuni punti fermi: già dalla prima metà del XIII secolo vi era stato almeno un tentativo da parte dei laici romani di associarsi per scopi religiosi, tentativo bloccato sul nascere dall’opposizione del clero cittadino, riunito a sua volta in associazione – la Romana Fraternitas – che temeva di perdere le sue prerogative, soprattutto per quanto riguardava le pratiche funerarie. Dopo un silenzio documentario di circa trenta anni emergeva una nuova associazione di laici, di carattere esclusivamente devozionale, dove le strutture religiose tradizionali non sembravano essere ‘scavalcate’ e che escludeva dalle proprie finalità ogni attività pratica e la stessa possibilità di ricevere legati testamentari, per evitare di entrare in conflitto con il clero cittadino. In questo contesto s’inseriscono gli Ordini mendicanti, che prendono il sodalizio sotto la loro protezione e lo fanno partecipe dei loro benefici spirituali. La documentazione disponibile non consente neppure di mettere in collegamento i Raccomandati della Vergine alle chiese francescane di Roma, ma solo – secondo una tradizione interna peraltro da verificare – indica i primitivi luoghi di riunione nella chiesa di S. Alberto e quindi nella basilica di S. Maria Maggiore, ed esclude in modo sicuro anche l’uso della disciplina da parte del sodalizio mariano nel periodo delle origini15. Anche il mio intervento, intitolato programmaticamente Le confraternite del Gonfalone16, connesso idealmente a quello della Barone, tendeva in primo luogo a sgombrare il campo da «infondate certezze» che si erano andate sedimentando nel corso dei secoli su questo celebre sodalizio mariano, in particolare quella che lo metteva tout court in relazione alla pratica devozionale della flagellazione. La ricostruzione della sua storia, nelle sue linee essenziali ma sicuramente accertate, fu resa possibile attraverso l’esame sistematico della documentazione del fondo del Gonfalone, conservata nell’Archivio Segreto Vaticano, allora priva di inventari di corredo, e di cui ho potuto prendere diretta visione grazie alla generosità dell’allora prefetto dell’Archivio, Martino Giusti, che mi permise di accedere ai magazzini per prendere diretta visione del materiale – naturalmente in compagnia di un gentile custode. Il recupero di pergamene e registri – di cui aggiornavo periodicamente Luigi nei nostri incontri alla Fondazione Caetani – mi diede la possibilità di delineare, seppur per grandi linee, la fisionomia sociodevozionale di ben quattro confraternite di Raccomandati della Vergine esistenti a Roma a metà ’300, di cui una soltanto sicuramente di disciplinati – il sodalizio trasteverino dei XL Martiri –, mentre le altre (S. Lucia vecchia in Parione, l’Annunziata della periferica via Oratoria e la società dei Raccomandati in S. Maria Maggiore) si dedicavano esclusivamente alle tradizionali pratiche funerarie e commemorative e all’opera di carità verso poveri e malati accolti negli ospizi fondati accanto alle chiese loro sedi. La tendenza alla federazione dei piccoli sodalizi, già operante a fine ’300, diviene più forte nel corso del ’400, quando ai primi quattro, si viene ad aggiungere dapprima la confraternita della Maddalena, quindi, dopo il 1486, quella di S. Maria ed Elena in Araceli, entrambe d’ispirazione francescana. A fine secolo erano tutte raggruppate sotto il mantello del Gonfalone e con una ben definita fisionomia caritativa, dedita essenzialmente all’aiuto di poveri e malati, affiancata però da una ‘nuova’ fisionomia devozionale, rivolta in modo particolare alle cerimonie liturgiche, alle processioni, alla sacra rappresentazione della passione di Cristo.

15 g. barone , Il movimento francescano e la nascita delle confraternite romane, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 5 (1984), pp. 71-80.

16 a esposito, Le «confraternite» del Gonfalone (secoli x IV-x V), ibidem, pp. 91-136.

Dunque, – così osservava Luigi Fiorani nella citata rassegna storiografica – anche nel Gonfalone prevalse un tipo d’impegno più misurato, più attento al contesto sociale, sul tipo di quello che aveva contraddistinto fin dalle origini la confraternita trecentesca del Salvatore ad Sancta Sanctorum Paola Pavan, nello studio di questo sodalizio, non aveva dovuto fare i conti con una documentazione frammentaria, avendo a disposizione un archivio ben ordinato e fin troppo ricco, conservato nell’Archivio di Stato di Roma, che le aveva dato modo, nel saggio del 1978 prima ricordato, di ricostruire attraverso i suoi statuti, le linee essenziali della sua evoluzione dal primo ’300 alla fine del ’400. In occasione del convegno, partendo dai risultati raggiunti, aveva invece puntato l’attenzione sulla fisionomia sociale degli iscritti, tra cui vi erano i personaggi più in vista del mondo imprenditoriale romano, sulla pratica degli anniversari che veniva giustamente connessa al tema tutto laico della memoria, sulla gestione degli ospedali, in cui si manifestavano le capacità manageriali dei Raccomandati del Salvatore, esponenti di una classe, ormai, nel ’400, di fatto esautorata dal potere politico, che era in mano al pontefice, e in via di emarginazione da quello economico, in mano ai mercanti-banchieri forestieri17.

Il sottile trapasso di mentalità tra ’400 e ’500 veniva mostrato anche da Silvana Di Mattia Spirito attraverso l’analisi dei testi statutari, alcuni dei quali inediti, di diverse confraternite, in particolare quelle ‘nazionali’ – dei fiorentini e dei genovesi in primo luogo – con lo scopo di evidenziare il modo di considerare la figura del povero e la povertà (e quindi i mezzi che avevano i confratelli per alleviarla) e i suoi cambiamenti nel tempo18, tema questo che costituiva da sempre uno tra gli interessi più sentiti di Luigi Fiorani.

Ma Luigi aveva anche un’altra esigenza da soddisfare: quella di «situare il discorso delle confraternite romane nel quadro della storiografia religiosa più recente, e richiamare la necessità di mettere alla prova, sul tessuto romano, metodologie e ipotesi di lavoro già altrove efficacemente applicati»19. Assolveva a questo compito la ‘Tavola rotonda’ introduttiva, che troviamo in apertura del volume degli Atti, ma che nel 1982 era stata collocata in chiusura del convegno. Vi parteciparono studiosi di primo piano della storia religiosa: Alberto Monticone, Gabriele de Rosa, Giuseppe Alberigo, Giuseppina De Sandre, Charles de la Roncière, Giovanni Vitolo, che intervennero in modo sintetico ma estremamente puntuale sulle principali problematiche connesse alla storia dell’associazionismo devozionale e sulle singole situazioni prese in esame 20 .

17 p pavan, La confraternita del Salvatore nella società romana del Tre-Quattrocento, ibidem, pp. 81-90.

18 s. di mattia spirito, Assistenza e carità ai poveri in alcuni statuti di confraternite nei secoli x V-x VI, ibidem, pp. 137-154.

19 fiorani, Premessa, ibidem, p. 10.

In conclusione, il convegno del 1982, e il volume che ne è derivato, così intensamente voluto da Luigi Fiorani, costituisce ancora oggi un punto di riferimento obbligato non solo per gli studiosi delle confraternite ma più in generale per tutti coloro che si occupano dei fenomeni legati alla vita religiosa nella Roma del Medioevo e dell’Età moderna. Perciò, non è solo per onorare un amico scomparso, ma anche per rendere omaggio ad uno studioso che tanto impegno ha profuso per il rilancio di questo settore di studi, che Giulia Barone ed io stessa, insieme ai relatori e al comitato di redazione dell’Archivio della Società Romana di Storia Patria, nel licenziare gli Atti del seminario Roma religiosa, tenutosi alla Sapienza il 12 maggio 2008, atti pubblicati nel numero 132 della predetta rivista, abbiamo voluto dedicare questa raccolta alla sua cara memoria.

LA CHIESA DI ROMA NELL’ ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

Si può senza dubbio affermare che il tema della Chiesa di Roma nell’età della Controriforma all’interno dell’opera di Luigi Fiorani si presenta come materia di notevole complessità, sia in sé, sia per il fatto che, all’interno dell’ampia e multiforme produzione dell’autore, numerosi saggi ruotano proprio attorno a questo punto focale. Con diverse sfaccettature, è nucleo portante di un’attività condotta con straordinaria operosità; sono argomenti sui quali Fiorani ha dato un contributo importantissimo, soffermandosi con competenza e incisività su moltissimi argomenti.

Una prima indispensabile considerazione riguarda precisamente la capacità dimostrata da Fiorani nel cogliere la realtà nelle sue molteplici sfaccettature. Strutture ecclesiastiche e pratica religiosa, vita istituzionale e vita di pietà, cultura alta e idee popolari: sono tutti argomenti trattati in profondità e senza contrapposizioni schematiche. Seguendo a ritroso le trame della storia, l’autore opera per rintracciarvi quegli elementi che, ricomposti in un quadro organico a partire dalle indagini specifiche, consentono di ricostruire vicende e sensibilità del passato. La riflessione storica non è peraltro disgiunta dalla coscienza del presente: lo storico guida dunque sino alla più ampia percezione di una coscienza collettiva i cui segni e i cui mutamenti portano a considerazioni sull’oggi. Ricordo un’affermazione di Maria Zambrano: andare alla scoperta del nostro passato per noi non è altro che scoprire ciò che di esso ci risulta irrinunciabile. Mi sembra che meriti un particolare apprezzamento, nell’opera di Fiorani, la straordinaria sensibilità che lega l’indagine storica più accurata, l’acribia nella ricerca delle fonti e l’intelligenza nella loro interpretazione, alla riflessione da parte dell’uomo e della comunità di oggi, che vuole «ritrovare il bandolo della propria matassa e della propria originalità storica»1

1 Storia religiosa di Roma. Note intorno a recenti esperienze di ricerca, in Ricerca storica e Chiesa locale in Italia. Risultati e prospettive, Roma, Edizioni Dehoniane, 1995, pp. 225-258:

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it

Mi soffermo ora rapidamente sul periodo oggetto della presente indagine. Attualmente molti storici tendono a respingere il termine ‘Controriforma’ e a sostituirlo con altre formule; peraltro, nella sua valenza neutra, esso ha un ampio campo di utilizzo e indica, per generale riconoscimento, qualcosa che va ben al di là della fase più specifica di opposizione alla Riforma. Caratteristica basilare di una storiografia degna di questo nome è quella di non lasciarsi invischiare nelle polemiche che hanno creato una contrapposizione, a lungo perdurante, tra cultura clericale e laica, o, per dirla con Giovanni Pozzi, tra «tristizie dell’Arcadia devota e pregiudizi dell’Accademia indevota»2. Oggi forse persistono più i secondi che le prime, ma certo la questione non è ancora definitivamente risolta.

Il proposito di Fiorani, secondo le sue stesse parole, è stato quello di uscire dal «cerchio di letture univoche o parziali dei fenomeni storici»3. Alla base della visione organica e serena da lui elaborata vi è innanzitutto la coscienza che gli storici fossero chiamati a superare quelle angustie, a guardare alla realtà nella sua complessità proteiforme. Per la storia ecclesiastica e religiosa, ciò significava allargare gli orizzonti per cogliere l’ampiezza e il significato dei fenomeni, senza per questo disprezzare il ‘frammento storico’, anzi ponendo una cura particolarissima nella ricerca delle fonti ad esso relative e nella sua ricostruzione. Così egli stesso si esprimeva vent’anni orsono:

Il crescere di una visione di chiesa più aperta alla dimensione storica (...), da un lato; dall’altro il diffondersi delle diverse forme di conoscenza indotte dalle nouvelles histoires ci hanno progressivamente allontanato dai metodi e dalle mentalità di una vecchia storia locale, ma contemporaneamente hanno riproposto la fecondità e la necessità di una riconsiderazione del frammento storico, purché, beninteso, l’approccio si lasci guidare da una metodologia e da una ermeneutica rinnovate 4 .

Si può dire, seguendo il titolo di un’opera di von Balthasar, che Fiorani ha saputo cogliere Das Ganze im Fragment. Proprio attraverso le indagini finissime su argomenti circoscritti egli ha potuto fornire agli storici materiale prezioso per una comprensione d’insieme.

226. Tutte le citazioni bibliografiche, salvo diversa indicazione, fanno riferimento alle opere di Luigi Fiorani.

2 g pozzi, L’ alfabeto delle sante, ora in id , Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 289-313: 294-295. Con diverse parole il concetto è presente più volte negli scritti di Fiorani. A mero titolo di esempio, Storia religiosa di Roma. Note intorno a recenti esperienze di ricerca, pp. 251, 258: «leggere le cose al di là dei muri, delle ideologie e delle separatezze inconcludenti».

3 Ibidem, p. 249.

4 Ibidem, pp. 229-230.

L’ espressione ‘Chiesa di Roma’, data la specificità di tale sede, può essere intesa in riferimento alla Chiesa locale oppure alla Chiesa universale. Se Luigi Fiorani si è concentrato essenzialmente nei suoi lavori sul primo aspetto, il suo sguardo tuttavia è, come si usa dire oggi con termine inelegante ma efficace, ‘glocale’. Egli stesso ha rilevato le difficoltà che sovente la storiografia ha incontrato nel voler considerare gli intrecci tra «grande storia» e «piccola storia locale»: al rischio dell’eccessiva concentrazione sulle minuzie slegate dai contesti si è talora sostituita – soprattutto per l’età contemporanea – la tendenza a distrarre la ricerca dall’osservazione diretta e ravvicinata della realtà specifica, da interrogare invece «nelle sue espressioni sociali e civili e soprattutto nei moti spontanei e segreti della sua religiosità»5.

Religione, pubblica e privata, e ‘confessionalizzazione’ della vita sociale vengono a costituire la «grande intelaiatura che tiene assieme i dinamismi complessivi della città, che suscita e disciplina una cultura e una mentalità, che governa i comportamenti»6: attorno a questa considerazione ruotano poi con grande incisività le diverse ricerche. Vari fenomeni religiosi presi in esame nella Roma dei papi, una Roma dalla «composita identità»7, sono quelli caratteristici dell’epoca anche a livello generale. Non si tratta tra l’altro di una sede alla stregua di altre, ma di una sorta di laboratorio e di modello, a sua volta influenzato peraltro dall’esterno. Gli studi di Fiorani vertono soprattutto su aspetti della realtà ecclesiastico-religiosa del centro del mondo cattolico e della sua diocesi e al tempo stesso rimandano a linee portanti della storia della Chiesa moderna: capacità che è il segno di un’autentica vocazione storica. L’ autore ben sottolinea il ruolo della città e della diocesi all’interno della Chiesa: «in qualche modo si proiettano sulla realtà e sui destini dell’urbe i compiti nuovi che la Chiesa tridentina sente di dover assumere per rispondere ai mutati orientamenti della società moderna, oltre che a un intimo disegno di ripresa sul piano più strettamente religioso»8.

Ciò che maggiormente distingueva la diocesi di Roma dalle altre diocesi era la peculiarità somma della coincidenza tra vescovo, pontefice e sovra- no, che comportava una forte prevalenza delle strutture curiali rispetto al Vicariato. Ne è testimonianza la mancata convocazione di sinodi, con l’eccezione del sinodo romano del 1725, inteso da Fiorani quale momento di snodo importante nella storia della Chiesa del tempo, «uno dei tentativi riformistici più originali che Roma seppe suscitare nel primo Settecento»9. Pur con scarsi effetti sulla diocesi di Roma e sulla Chiesa, esso venne a costituire il coagulo di spinte che avevano percorso l’ultimo Seicento e il primo Settecento, soprattutto sul piano della pastoralità. Il volume dedicato all’argomento è un autentico caposaldo per la comprensione di una serie di problemi, dalla discussa figura di papa Orsini agli esiti, nella breve e nella lunga durata, di certi orientamenti e provvedimenti. Ciò anche al di fuori dell’orizzonte della pastorale: l’infuocato dibattito di quegli anni intorno al modo di concepire la Unigenitus (una regola di fede o no?) trovava ulteriori motivi nelle discussioni sinodali sull’argomento, che oltre a tutto sembravano esulare dai compiti di un’assemblea come quella10

5 Discussioni e ricerche sulle confraternite romane negli ultimi cento anni, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 6 (1985), pp. 11-105: 11-12. L’ autore si concentra poi sulla specifica situazione di Roma nel passaggio dallo Stato pontificio allo Stato unitario: un caso, significativo anche se non certo l’unico, in cui l’attualità politica di certi temi ha condizionato negativamente la storiografia.

6 Storia religiosa di Roma, p. 235.

7 Ibidem, p. 233.

8 Verso la nuova città. Conversione e conversionismo a Roma nel Cinque-Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 10 (1998), pp. 91-186: 93.

In ultima analisi, il sinodo romano del 1725 è inteso come un punto di arrivo e al tempo stesso un punto di partenza, quasi una cesura tra due mondi, quello di una lunga ‘Controriforma’ e quello del vero e proprio Settecento religioso11. Nella fase che, in modo molto discutibile e discusso, Hazard ha definito «crisi della coscienza europea», sul piano religioso Fiorani individua uno snodo fondamentale: tra il 1680 e i primissimi decenni del Settecento la fase del barocco si chiude – seppur non in modo brusco e definitivo – e si aprono nuovi scenari, ivi compreso quel progressivo cedimento del rigorismo nell’ambito romano che avrà conseguenze di rilievo.

Oltre alla scarsa sinodalità, altro elemento peculiare nella storia ecclesiastica di Roma era a quell’epoca l’utilizzo ricorrente delle visite apostoliche12; per certi versi richiamano, più che le visite pastorali post-tridentine, quelle pre-tridentine, dotate di una forte componente giuridica, quasi «sopralluogo meramente amministrativo e burocratico»13. Non bisogna tuttavia fermarsi all’apparenza. Un’attenta lettura ne svela un volto particolarissimo: esse sono interpretate da Fiorani come parte costitutiva di quella «nuova dinamica che si è venuta a stabilire tra la Chiesa uscita rinvigorita dal Tridentino e la città», una sorta di «specchio fedele di come il Tridentino allarga le sue maglie su un tessuto sociale e culturale (...) e di come all’interno di questo tessuto riesce a far camminare la sua proposta religiosa, i suoi modelli ufficiali»14. L’ azione svolta attraverso le visite è il segnale della volontà – influenzata tra l’altro dall’attiva presenza romana di Carlo Borromeo e da personaggi come Antonio Seneca15 – di riordinare la Chiesa locale sul piano delle strutture e di aprirsi maggiormente ai problemi della società religiosa.

9 Il concilio romano del 1725, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura – Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, 1978.

10 Vd. il cap. IV, L’ Unigenitus e il concilio, pp. 193-217.

11 Fiorani ritiene che gli anni, peraltro cruciali, dall’inizio del Settecento sino al 1730 circa siano «per quanto riguarda il clima religioso, ancora pienamente secenteschi» (Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, Roma, Edizioni Paoline, 1984, coll. 1895-1990: 1949).

12 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento e la società religiosa romana, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», IV (1980), pp. 53-148.

13 Ibidem, p. 84.

Dopo il Concilio, il centro della cristianità andava proponendo con chiarezza una propria valenza esemplare16. Fiorani lo documenta attraverso l’attenta analisi di scritti di varia natura, molti dei quali pubblicati a Roma. Essi sono incentrati sulla figura del vescovo e sulle sue responsabilità – in primis la visita. Nella trama delle visite, in frammenti apparentemente disparati o burocratici, Fiorani individua con grande finezza le tracce di sfondi teologici ed ecclesiologici. Così, la cura posta nell’architettura e nell’arredo degli edifici sacri rimanda alla volontà di proporre una Chiesa visibile, non solo spirituale o carismatica. Di fatto, il tema della visibilità percorre tutta l’età moderna, sino al tardo Settecento e alla fiera opposizione romana (si pensi alla Auctorem Fidei) contro chi propugnava una diversa ecclesiologia, negando o sottovalutando questi elementi.

La parrocchia, struttura ormai ben consolidata dal tardo medioevo, assunse nell’età moderna un ruolo nuovo. Centro importante della vita ecclesiastica, veniva sempre più ad essere un riferimento civile e sociale, in stretto contatto con la realtà locale; proprio la parrocchia era chiamata a svolgere un’attività spesso intensa su vari piani, ivi compreso quello caritativo. Nel corso del Seicento essa rivestiva una fisionomia e un peso specifico particolarissimi, destinati a incidere profondamente sulle età successive17.

Tuttavia, si tratta di un’istituzione cresciuta disordinatamente, come si può agevolmente constatare proprio nel caso di Roma. Qui la parrocchia aveva dimensioni perlopiù di modesta consistenza (300-400 anime in media, 3000 come punta massima) e sotto vari profili presentava caratteri di fragilità, anche a causa della non sempre coerente preparazione e azione del clero18. L’ analisi degli sviluppi nel corso del tempo (soprattutto nel cruciale passaggio dalla prima applicazione del Tridentino alla situazione del Seicento inoltrato19) evidenzia qualche importante mutamento, cui non risultò certo estranea la migliore formazione dei sacerdoti, uno dei punti cruciali nell’età moderna, nella teoria come nella prassi.

14 Ibidem, p. 61.

15 Ibidem, passim, per es. pp. 117 e 66 sgg.

16 Per molti aspetti Roma non subì, ma talora addirittura precorse il Tridentino; tuttavia il moto di centralizzazione si realizzò nella fase successiva al concilio.

17 Il parroco, se cosciente del proprio ruolo, tentava di imporre alcune linee direttive, attraverso la convinzione e attraverso la coercizione: insegnare il catechismo e controllare il rispetto del precetto della comunione pasquale ne sono due elementi indicativi.

«Dall’incontro della teologia e della canonistica tridentina sull’ordine sacro con la spiritualità della Compagnia di Gesù si sono poste le basi per quel modello di ‘prete romano’, il cui ideale ha perdurato nel tempo fino ai nostri giorni»20. A questa figura Fiorani ha dedicato un saggio fondamentale, dal significativo titolo Identità e crisi del prete romano tra Sei e Settecento.

In esso, all’interno di un quadro ecclesiastico ben definito e di un contesto cronologico di ampio respiro, le riflessioni sui riferimenti teologici e sulla sensibilità religiosa si confrontano e si armonizzano con i dati relativi all’economia e ai problemi della vita quotidiana, nonché con l’attenta considerazione delle dinamiche culturali e formative. Ne emerge la variegata tipologia del clero, tra quanti ad esempio si ponevano alla disperata ricerca di protezioni e benefici 21 e coloro invece che si preoccupavano della formazione religiosa dei propri fedeli, della loro frequenza ai sacramenti, delle difficoltà della loro vita quotidiana, persino a livello economico22. A partire dalla figura del parroco la dimensione pastorale, costitutiva, si estendeva a tutti gli aspetti della vita della parrocchia, alle necessità delle anime e dei corpi.

Non diversa funzione, per certi versi, esplicavano le confraternite, momenti di aggregazione la cui analisi permette di ricostruire alcune dinamiche della vita religiosa e sociale. Fiorani rileva con puntuale cura gli elementi di continuità e discontinuità rispetto all’età medievale. Nell’asserire che l’associazionismo devoto in epoca moderna è complessivamente più controllato, opportunamente fa notare come ciò non significhi uniformità o stabilità nel tempo. L’ occhio dello storico è attentissimo a individuare sia il permanere e il tenace sopravvivere di queste forme associative, sia la mutabilità delle esigenze e delle istanze che stanno alla loro base e che ne condizionano forme e sviluppi, tra «duttilità e irrequietezza spirituale»23. La straordinaria ricchezza del patrimonio archivistico romano in proposito, nonostante le inevitabili perdite nel corso del tempo, ha dato luogo a indagini di scavo per restituirne l’ampiezza e la specifica fisionomia: un lavoro collettivo che è sfociato in un numero monografico delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma» nel 1985.

18 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, pp. 97 sgg.; sull’irrazionale distribuzione della popolazione tra le parrocchie ibidem, pp. 130 sgg.

19 Vd. anche ibidem, p. 139 sg.

20 Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, col. 1942 e Storia religiosa di Roma, pp. 251-252; cfr. più ampiamente: Identità e crisi del prete romano tra Sei e Settecento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 7 (1988), pp. 135-212, passim.

21 Ibidem, p. 181.

22 Ibidem, p. 159 e passim.

Nell’organizzazione complessiva di questi sodalizi, assai ben strutturati, oggetto e finalità principali sono indicati nel sostegno spirituale tra confratelli, nella risposta ad aspirazioni devote e inclinazioni di pietà. L’ attenzione degli studiosi si è sovente concentrata su fenomeni più macroscopici, particolarmente sulle organizzazioni festive, sulla partecipazione alle processioni urbane e via dicendo. Un ‘effimero’ coinvolgente, che rimanda ad un tempo all’aspetto spirituale e a quello della partecipazione alla vita cittadina, si esprimeva nelle processioni, nei riti collettivi, negli apparati, nelle azioni sceniche.

È da rilevare il legame stretto che nei sodalizi si stabilisce tra l’istanza devota che sta alla base del radunarsi e la necessità di non creare una pietà astratta e disincarnata, intimistica e penitenziale: carità e pietà sono dunque due facce di una stessa medaglia. La riforma interiore e il mutamento della persona erano accompagnati e sostenuti dall’agire caritativo24. Le radici derivanti dalla devotio moderna si innestavano su un impianto teologico caratteristico della Chiesa di Roma: fede ed opere, sentimento religiosodevoto e operante carità non possono essere in alcun modo disgiunti.

I confratelli, uniti sulla base di istanze religiose, si consideravano, con «sottile orgoglio», «espressione della sollecitudine della Chiesa» verso i poveri, soprattutto quando la situazione di costoro, per la modesta entità, non provocava risposte generali e politiche (come nel caso di guerre, carestie, pestilenze), ma richiedeva piuttosto interventi tanto urgenti quanto specifici, che in qualche caso potevano essere individuati e ottenere risposta solo attraverso vasti coinvolgimenti 25 .

L’ attenzione sociale non riguardava solo i sodali e il loro reciproco assistersi, ma anche quella consistente fascia di poveri cui molte confraternite prestavano assistenza, seppur talora in contrasto con i loro pastori, per una conclamata volontà di autonomia e auto-organizzazione Luigi Fiorani pone l’accento su problematiche che si legano al volto urbanistico della città, agli andamenti della proprietà immobiliare, alla richiesta di protezione –attraverso l’associarsi – contro le difficoltà e i malesseri dell’ordinaria vita quotidiana e le loro emergenze straordinarie. Tutto questo si rivolgeva anche all’esterno del piccolo gruppo consociato, attento a quel pauperismo strutturale che provocava vivaci dibattiti, come pure alle questioni più minute e specifiche, che l’essere inseriti nel medesimo tessuto, nel medesimo quartiere, consentiva di cogliere con grande prontezza e di affrontare talora con ampiezza d’orizzonte, talora con risultati modesti e precari, dettati da una certa approssimazione 26. Tra le risposte ad emergenze eccezionali pur nel loro ripetersi si può menzionare l’attività di riscatto, svolta da un sodalizio nato alla fine del Cinquecento a favore di quanti erano caduti nelle mani dei ‘turchi’. Se spesso l’analisi storiografica di questa tipologia di associazioni pone l’accento in modo quasi esclusivo sui risultati materiali dell’azione, l’autore accenna, seppur rapidamente, al contributo fornito per la formazione del sentimento religioso, suggestione che studi recenti hanno sviluppato. Le confraternite assumevano in particolare il volto di entità atte a «dare risposte concrete a interi strati sociali o a semplici fasce di cristiani alla ricerca di un ambito in cui proiettare le esigenze di una nuova ansia religiosa, e insieme la volontà di affacciarsi sui problemi cittadini con un impegno diretto e organizzato»27. In quest’intreccio è da rilevare la capacità dello storico di non sottrarsi all’analisi dell’una o dell’altra componente, come talora può accadere, per ragioni concrete o per scelte ideologiche. Lo studioso si sofferma anche sulle implicazioni che il ruolo autorevole dei sodali comportava a livello cittadino, in situazioni nelle quali oltre a tutto contingenze difficili o drammatiche potevano creare sollevazioni e rivolte. La potenzialità politica dei sodalizi era dunque marcatissima. La devozione, la carità... ma, come ben sottolinea Fiorani, occorre non dimenticare la configurazione delle confraternite come gruppi di prestigio e di potere, che in qualche caso raggiungono punte alte.

23 “Charità et pietate”. Confraternite e gruppi devoti nella città rinascimentale e barocca, in Storia d’Italia. Annali, 16, Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtył a, a cura di l. fiorani – a. prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 429-476: 431.

24 Si veda in particolare il caso dell’Oratorio del Divino Amore, ibidem, pp. 443-446.

25 Ibidem, p. 438.

Le associazioni devote venivano ad assumere un ruolo socio-politico non indifferente, come luoghi di risposta ai bisogni degli indigenti e dei pellegrini 28, ma soprattutto come fattore di controllo e di introduzione di

26 Ibidem, passim; Religione e povertà. Il dibattito sul pauperismo a Roma tra Cinque e Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 3 (1979), pp. 43-131.

27 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, p. 90.

28 È un elemento, questo, che ritorna frequentemente nei saggi di Fiorani, per una città nella quale la presenza di un alto numero di forestieri e pellegrini era una consuetudine, che toccava punte altissime nella ricorrenza dei Giubilei. Cfr. Le confraternite, la città e la perdo - nanza giubilare, in Roma sancta. La città delle basiliche, a cura di m. fagiolo – m. l. madonna, Roma, Gangemi, 1985, pp. 54-70; Gli anni santi del Cinque-Seicento e la confraternita della SS. Trinità dei Pellegrini, ibidem, pp. 85-90. Tra coloro che erano attirati a Roma anche dalle manifestazioni giubilari v’erano spesso ‘eretici’. Alla politica di accoglienza s’accostava – nei confronti di tutti, cattolici e non – anche quella di ‘conversione’. Cfr. Verso la nuova città. Conversione e conversionismo.

«sottili forme di razionalità nella convivenza cittadina»29. In ultima analisi tale funzione si estendeva al di là del piano strettamente sociale e influiva anche su quello morale. Si tratta di piani diversi, ma non contrapposti, poiché in entrambi giocano elementi difficili a cogliersi storicamente, ma non ignorabili: la sensibilità, i sentimenti e le emozioni popolari 30 .

La nuova sensibilità religiosa, talvolta espressa nella forma dell’ansia per la salvezza, non è separata dalla considerazione attenta dei problemi sociali e dalla progettualità in tale settore, così come separata non era nelle dinamiche dell’epoca e nelle persone che ne furono i creatori e i protagonisti. Il mondo della carità e dell’assistenza è efficacemente delineato da Fiorani, attento a cogliere i tratti di una «città della fede» che «è insieme la cittadella della carità e dell’elemosina prodigate largamente a tutti i bisognosi», ma anche impegnato a tratteggiare le linee teoriche che informarono gli interventi concreti 31 .

L’ importanza del legame tra storia e territorio emerge qui con singolare chiarezza32. D’altronde, la concretezza dell’aggancio storico è evidente anche in altri campi di indagine. Ciò risalta nelle ricerche relative a pietà e devozione, sulla scia di un maestro come don Giuseppe De Luca. La pietà e le devozioni presentano molteplici valenze, dall’effimero emozionale o spettacolare all’espressione di una religiosità interiore profonda, sino a giungere in qualche caso a sintomi di inquietudine nella ricerca dell’assoluto. Le devozioni erano anche un modo per sostenere i fedeli e infondere loro ottimismo, mostrando il sostegno di benefiche presenze: un atteggiamento psicologico atto a sconfiggere lo sconforto, che il rigorismo, giansenista e non, tendeva ad ingenerare nell’uomo, seppur per nobili scopi 33 .

29 “Charità et pietate”. Confraternite e gruppi devoti, p. 437.

30 Alcune osservazioni molto interessanti ibidem, pp. 441-442 e passim.

31 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, p. 115; Religione e povertà. Il dibattito sul pauperismo.

32 Un caso a sé è costituito dalle confraternite mariane dei gesuiti, di cui Fiorani intuisce e sottolinea l’importanza, tra i primi all’interno di un filone storiografico che avrebbe avuto grande sviluppo: Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, col. 1943.

33 «Cercando l’anime per la campagna». Missioni e predicazione dei gesuiti nell’agro romano nel secolo xVII, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, a cura di g martina – u dovere, Roma, Edizioni Dehoniane, 1996, pp. 421-456: 454.

Ma non tutto si chiude nel cerchio della religione in sé e per sé: nell’esperienza religiosa personale si riflettevano anche le ragnatele di rapporti, le questioni economico-sociali e quelle culturali nel senso più ampio del termine. Uno dei casi più significativi è quello dell’Oratorio gesuitico del Caravita. L’ azione svolta dai suoi membri giovava a configurare le linee di una corretta e profonda devozione, interiore e al tempo stesso segnata da manifestazioni esteriori e ritualità, fattore di presenza nella società; l’azione caritativa era esplicata soprattutto nelle carceri; ma si caricava di valenze ulteriori, incidendo a lungo sull’opinione pubblica romana, persino nell’epoca, tra tardo Settecento e Restaurazione, in cui la Compagnia non sussisteva più.

Nelle confraternite le devozioni e le pratiche di pietà assumevano le tonalità più varie, con accenti molteplici e mutevoli, sino a sfiorare talora la superstizione. «La spontaneità e la sregolatezza» degli spunti devoti vengono inquadrate e costruite non tanto dal clero secolare quanto dai regolari: «le vie della devozione sono il loro terreno specifico e su di esso fanno rifluire tutta la sensibilità religiosa dell’età barocca»34. Nelle visite, l’autorità ecclesiastica si preoccupava senza dubbio di estirpare deviazioni e abusi, quelle forme superstiziose che non sono negazione della pietà autentica ma suo sfiguramento: devozione e superstizione erano considerate allora due facce della stessa medaglia. Solo successivamente una differente considerazione ‘teologica’ della superstizione avrebbe indotto molti ecclesiastici a politiche diverse in materia, con esiti nella lunga durata talora assai poco corrispondenti alle intenzioni, che miravano soprattutto a una più profonda spiritualizzazione. Un caso specifico, affrontato da Fiorani con grande competenza e lucidità, è quello della commistione tra mondo devozionale da un lato e dall’altro astrologia e superstizione. «Astrologia, magia, devozione costituiscono un capitolo del sentimento e della pratica religiosa dalle interdipendenze molto strette», luogo di familiarità con il mistero35. Tale considerazione previa si estende a un raffinato discorrere sulla tematica della pietà e della devozione, nel loro complesso articolarsi, nei loro chiaroscuri.

34 Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, col. 1949; Storia religiosa di Roma. Note intorno a recenti esperienze di ricerca, p. 257.

35 Espressione di una medesima visione della realtà umana della natura: cfr. Astrologi, superstiziosi e devoti nella società romana del Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 2 (1978), pp. 97-162 (vd. in particolare pp. 126-127 e 131). Come osserva l’autore a proposito di visite apostoliche, nei visitatori era radicata la convinzione del valore e delle possibilità della pietà degli umili, che non doveva essere espunta ma indirizzata: Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, p. 85. I differenti atteggiamenti delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti di questi fenomeni generarono conseguenze di lunghissima durata, i cui echi sono ancor oggi avvertibili.

Portare alla pietà e alla devozione, e ancor prima alla frequenza ai sacramenti, quanti – pur battezzati – erano in sostanza ben lontani dall’accettare concretamente le istanze della Chiesa tridentina significava attuare una peculiare politica di conversione. Di questo Fiorani si interessa, come pure, in modo specifico, della politica di conversioni in senso stretto, particolarmente importante nel contesto romano: dalla clamorosa conversione di Cristina di Svezia alle vicende degli ebrei. In quest’ultimo caso, si tratta di una politica di conversione imprigionata «in uno schema strutturale, in cui confluiscono aspirazioni religiose e preoccupazioni sociali, ragioni di accoglienza e residui di sospetto, sottolineature apologetiche e riaffermazione della grande città e delle sue gerarchie»36.

I casi specifici – i tentativi, più o meno coercitivi, di convertire ebrei ed eretici – vengono inseriti sullo sfondo delle vicende di un’epoca. Viene messa in luce soprattutto, con molta efficacia, l’azione che seguì alla clamorosa sconfitta politica della Chiesa nella pace di Westfalia. «Il segno e il momento più acuto della sua emarginazione» fu per la Chiesa l’occasione di tornare a «costituire uno dei maggiori punti di riferimento e di aggregazione sul piano strettamente religioso e spirituale», che comportava tra l’altro un rinnovato slancio missionario37. In tutto ciò un ruolo non irrilevante fu svolto dai gesuiti.

Del mondo dei regolari nel XVII secolo Fiorani ha opportunamente messo in luce il fatto che lo sfondo è dato dal «momento in cui tutto si complica, si confonde, si accresce di elementi umani e giuridici, talora ambigui e contraddittori, su cui si proiettano le medesime inquietudini provocate dalle violenze che scuotono l’Europa»38. Si può sottolineare il crescere smisurato di piccoli conventi e monasteri, che indusse Innocenzo X ad assumere i noti, e tutt’altro che risolutivi, provvedimenti. Analogamente, è da mettere in luce la difficoltà a valutare con precisione le motivazioni che portarono all’eccezionale incremento del numero di religiosi e religiose, motivazioni che in molti casi paiono estranee allo spirito della vita regolare o comunque non profondamente consone con esso. Al tempo stesso, non possono essere sminuiti gli aspetti positivi, in particolare per alcuni ordini sorti nel Cinquecento, che affinarono metodi di intervento e strategie missionarie, venendo a incidere in profondità sul tessuto religioso e sociale attraverso la loro attiva presenza.

36 Verso la nuova città. Conversione e conversionismo, p. 176.

37 Ibidem, pp. 129-130.

38 Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, col. 1940.

Nella considerazione della realtà monastica l’autore si sofferma sui più vari elementi che concorrono a ricostruire il quadro d’insieme: il contesto sociale, con le dinamiche del reclutamento e dei dati quantitativi relativi agli ingressi, come pure, ineludibile, lo sfondo più strettamente religioso, tra adeguamento alle linee portanti dell’epoca e sensibilità a fattori nuovi. L’ indagine sui monasteri evoca dunque anche le grandi questioni della mistica e del quietismo, evidenziate, all’interno di una ricostruzione complessiva delle varie sfaccettature del mondo religioso femminile, soprattutto nell’esemplare saggio su Monache e monasteri romani nell’età del quietismo39

Il ruolo dei gesuiti nella battaglia antiquietista è fondamentale, studiato da Fiorani soprattutto – ma non solo – attraverso la figura di Antonio Caprini40. Qui la perizia filologica e la raffinatezza interpretativa dell’autore giungono a prospettare, accanto e attraverso la personalità di questo gesuita, lo scenario complessivo dei serrati dibattiti e delle loro ragioni. L’ aspirazione quietista a una verticalità dell’incontro con il divino veniva a scontrarsi con la consolidata proposta gesuitica di una spiritualità concreta, volta a valorizzare l’operare dell’uomo: istanze opposte dunque, che avevano come oggetto primario la dimensione della pietà di ogni giorno, e che in personaggi come Caprini sfociarono non in mera astiosa polemica, ma in un vero e proprio confronto culturale di grande portata. Si tratta di concezioni assai differenti, in cui «sembra riassumersi il contraddittorio e drammatico oscillare della devozione secentesca, alla ricerca di una difficile composizione tra ascesi e mistica, tra volontà e sentimento, tra impegno e contemplazione» 41. La puntuale ricognizione archivistica compiuta dall’autore porta a una ricostruzione tanto più interessante in quanto non si ferma ai vertici, ma cerca di comprendere anche le dinamiche «dal basso e dall’interno di una società» che percepisce e vive questi problemi in modo non marginale 42 .

È, questa, una caratteristica ricorrente nelle ricerche di Fiorani, in genere assai sensibile verso «la concretezza e il fluire del quotidiano sotto il permanere della struttura». Ciò è armonicamente integrato con l’analisi delle istituzioni, in un’epoca nella quale «l’impulso del Tridentino si fa veramente la matrice della vita religiosa romana e insieme la struttura complessiva, all’in- terno della quale si compagina la stessa collettività cittadina» 43. D’altronde l’apporto dell’assise tridentina non è mai ignorato o sottovalutato, come nel caso relativo all’immagine ideale del sacerdote, della quale Fiorani rivendica gli aspetti di novità, senza esitare a porsi in contrasto con interpretazioni storiografiche dissonanti44.

39 Monache e monasteri romani nell’età del quietismo, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 1 (1977), pp. 63-111.

40 Per la storia dell’antiquietismo romano. Il padre Antonio Caprini e la polemica contro i “moderni contemplativi” tra il 1680 e il 1890, in L’ uomo e la storia. Studi storici in onore di Massimo Petrocchi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp. 299-343.

41 Verso la nuova città. Conversione e conversionismo, p. 123.

42 Per la storia dell’antiquietismo romano, p. 318.

Il legame con il passato, gli elementi di continuità o di discontinuità, sono sempre messi a tema, pur laddove non si riesca, sulla base delle fonti, a pervenire a una conclusione definitiva, come nel caso del rapporto tra visite pre- e post-tridentine a Roma o delle modalità attraverso le quali i vescovi di Roma hanno sentito e vissuto il loro ministero di pastori di quella specifica diocesi45. Uno spazio importante negli studi di Fiorani è dedicato alle missioni46. In ciò, come su altri argomenti, egli si inseriva in filoni storiografici in corso d’opera contribuendo a configurarli più precisamente, o addirittura li anticipava47. La Chiesa post-tridentina era caratterizzata dalla volontà di diffondere la fede cattolica, sia in risposta alle perdite subite per l’affermarsi della Riforma, sia in conseguenza del progressivo recupero della propria peculiare fisionomia e identità. In tale processo, la spinta motrice e le modalità sostanziali della propagazione della fede non differivano radicalmente tra la vecchia Europa e i mondi nuovi o lontani. Le campagne romane erano singolare esempio delle «nostre Indie», luogo deputato per comprendere sia la situazione religiosa e sociale delle aree più abbandonate, sia le dinamiche e le strategie di evangelizzazione messe in atto nella Chiesa moderna. Si trattava dell’instaurazione di vere e proprie tecniche di trasmissione del messaggio religioso. In effetti qui venne sperimentata un’azione di recupero di popolazioni socialmente emarginate, lontane dalle forme di civiltà dell’epoca, quasi inabissate nell’ignoranza religiosa. Le tecniche utilizzate, dalla predicazione reiterata alle scenografie rituali, sortirono effetti graduali e un accostamento almeno iniziale ai principi della fede e dell’etica cristiane. In ciò si distinsero i gesuiti. Nelle loro missioni nell’agro romano mostrarono, come in altre situazioni, dinamismo spirituale, capacità orga- nizzative, volontà di adattamento, attenzione a cogliere i «crocevia umani e culturali più decisivi», sino a configurarsi come gli autori di «una delle pagine principali dell’evangelizzazione cristiana e cattolica delle campagne nell’età moderna» 48. Nonostante le difficoltà, che proseguirono in diverse forme lungo tutto l’arco cronologico in esame, l’impegno non venne mai meno; anzi, alla missione furono spesso deputati gli uomini di punta della Compagnia, chiaro segnale dell’importanza attribuita a quest’attività49.

43 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, pp. 54-55.

44 Identità e crisi del prete romano.

45 Le visite apostoliche del Cinque-Seicento, p. 60.

46 Cfr. per es.: Missioni della Compagnia di Gesù nell’agro romano nel x VII secolo, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (1994), pp. 216-234; «Cercando l’anime per la campagna».

47 Già alla fine degli anni Settanta Fiorani aveva posto con grande chiarezza il problema, e segnalato la necessità di precise e capillari indagini in materia (Religione e povertà. Il dibattito sul pauperismo, pp. 91 sgg.).

D’altra parte, la missione urbana dei gesuiti esercitò anch’essa una profonda influenza, seppur a un diverso livello, cioè, per l’appunto, sul tessuto cittadino: predicazione e incitamento a una vita sacramentale regolare ne costituiscono i tratti principali, caratteristici di una religiosità lontana dai rigori giansenistici come dagli abbandoni quietistici 50. La missione propriamente detta, nelle sue forme strutturali, era stata preannunciata da un’azione più informale, ma non per questo meno significativa, che Fiorani restituisce con grande vivezza, mostrando giovani Padri che «hanno un senso vivo della città, ne percepiscono la topografia spirituale non meno di quella fisica, conoscono la conformazione dei gruppi sociali, i diversi mestieri, ma soprattutto hanno piena consapevolezza del paesaggio morale complessivo, con le sue luci e le sue ombre»51.

Del mondo regolare Fiorani analizza i più vari momenti di azione e il loro impatto. Per esempio, i gesuiti figuravano tra i maggiori produttori di una sovrabbondante letteratura di pietà, con alcuni aspetti innovativi 52. Ma nel mondo romano la pietà più «intensa e sorridente», secondo la definizione di Fiorani, era quella dei membri dell’Oratorio, che non per questo erano alieni da impegni caritativi o dalla produzione musicale, che aveva segnato le loro origini 53 .

48 «Cercando l’anime per la campagna», p. 427.

49 Ibidem, p. 443.

50 Il ruolo dei domenicani nell’amministrazione del sacramento della penitenza è ugualmente posto in rilievo, mentre a Roma i cappuccini si segnalavano per il compito di predicatori apostolici da loro efficacemente svolto. Su altro terreno, il contributo peculiare, seppur non esclusivo, dei domenicani riguardava il piano inquisitorio e censorio.

51 Verso la nuova città. Conversione e conversionismo, p. 104.

52 Tra cui l’impulso dato alla devozione per l’angelo custode. La devozione all’Immacolata venne diffusa a Roma soprattutto per opera dei francescani conventuali.

53 La cultura nei più svariati settori, ivi compresa la scienza, costituiva un elemento importante per molti ordini regolari; da rilevare l’attenzione posta da Fiorani su questi aspetti del mondo regolare (Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, coll. 19441946). Evidenti soprattutto nell’ambito della città di Roma, sono stati ulteriormente messi in luce da vari studi recenti

I difetti e i limiti della vita regolare nella piena età della Controriforma, numerosi, non sono sottaciuti: ma, in un grande equilibrio di valutazione complessiva, si vedono affiorare i molti elementi positivi, tra cui in particolare l’operoso prestarsi nella dedizione al prossimo, sino al cosiddetto «martirio senza sangue», come in occasione delle pestilenze. «È in questo intreccio tra una presenza sul piano spirituale e religioso, e una sul piano della sofferenza e dei bisogni (...) che le congregazioni religiose, nel loro complesso, costruiscono una grande parte della loro storia nel Seicento»54.

Ancora una volta, furono alcuni ordini religiosi i grandi protagonisti delle querelles teologiche, nell’ambito delle diatribe intorno sia al quietismo sia al giansenismo. Merita evidenziare la puntuale attenzione di Fiorani a tali aspetti, un tempo considerati astratti, lontani dalla vita concreta della gente comune, e dunque scarsamente incidenti sul piano storico complessivo. Inoltre in passato alcuni storici tendevano a sfumarne l’importanza nell’età successiva, almeno per quanto riguarda le tematiche più propriamente teologiche; egli invece ne sottolinea la prosecuzione particolarmente virulenta nel corso del XVIII secolo proprio sul piano dottrinale, seppur con caratteri in parte mutati 55

Dall’attenzione a cogliere le sfaccettature della storia religiosa moderna, a delineare la pluralità e la varietà dei percorsi, le influenze e i contrasti che la caratterizzano, rampolla una ricostruzione storica di eccezionale lucidità. La storiografia recente, soprattutto al di fuori d’Italia, in vari modi ha cercato di sovvertire una visione tradizionalmente acquisita – e che ancora in larga parte, forse per ragioni più accademiche che realmente scientifiche, domina la storiografia italiana – in cui l’età moderna è intesa come periodo nel quale la Chiesa non esercitava altro che repressione e controllo delle coscienze. Da quanto sin qui detto sui contributi di Luigi Fiorani, risulta evidente che un ripensamento storiografico è reso possibile solo dal lavoro tenace e paziente di chi, senza cercare tribune mediatiche, ha studiato in modo coerente e appassionato i diversi aspetti di quest’epoca cruciale, con spirito libero e assetato di quella verità storica che, senza indebite pretese, è tuttavia lo scopo di ogni autentica indagine sul passato. Tale lavoro è stato compiuto sulla base di indagini puntualissime sulle fonti e di una compiuta conoscenza della bibliografia: basta leggere le note dei lavori di Fiorani per rendersene pienamente conto.

54 Roma, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, col. 1948.

55 Ibidem, col. 1949.

Le istituzioni, in sé e nei loro riverberi concreti sulla vita di una società; l’azione dei pastori, tra impegno e contraddizioni; la presenza di religiosi e religiose, con i suoi evidenti limiti e le sue innegabili valenze positive; la teologia stessa, che non resta confinata in elevate quanto astratte discussioni, ma si cala nella pastoralità e dunque nella vita dei fedeli, soprattutto attraverso la confessione; la devozione, nella sua proposta ufficiale e nella sua realtà, talora deviante e abusiva: tutti questi aspetti, e molti altri non specificamente menzionati, emergono dall’opera di Fiorani. Essi giovano alla ricostruzione di un ambiente, di un mondo, di un microcosmo e di un macrocosmo, sino a fare dei suoi saggi, ancor oggi, a distanza talora non breve dalla loro pubblicazione, un punto di riferimento ineludibile per comprendere il volto della Chiesa di Roma – nel suo duplice significato – tra età tridentina e primo Settecento.

mirella mombelli castracane

LE CONFRATERNITE ROMANE: LA LOTTA AL PAUPERISMO E I CONFLITTI CON LO STATO ITALIANO

1. Considerazioni introduttive.

Nel contesto della storia religiosa di Roma il tema delle confraternite, nella fattispecie, delle confraternite laicali, ovvero formate prevalentemente da membri laici, occupa uno spazio di rilevante interesse, che non sempre la storiografia ha saputo cogliere in misura adeguata, come fu osservato nel corso del Colloquio Le confraternite romane. Esperienza religiosa, società, committenza artistica introdotto dalla Tavola Rotonda sul tema La storiografia confraternale e le confraternite romane, svoltosi a Roma presso la sede della Fondazione Caetani nel maggio del 1982, i cui Atti sono stati pubblicato nel 1984. Gli interventi dei partecipanti al Colloquio posero in evidenza la molteplicità degli elementi caratterizzanti questi istituti, espressione della religiosità e della pietà, ma intrecciati al contesto sociale in cui operavano, «come struttura in rapporto ad altre strutture e dimensioni della vita associata», quindi il loro ruolo nell’ambito della società di appartenenza e il rapporto con le autorità costituite.

In questo contesto si collocano alcune delle ricerche svolte dallo storico Luigi Fiorani, che diresse, insieme ad Alberto Monticone, il Colloquio sul tema indicato, completate da altre ricerche sul medesimo tema, pubblicate in altri volumi, che arricchiscono con ulteriori approfondimenti l’argomento delle confraternite laicali1. Questi atti sono l’occasione per affrontare il complesso tema delle confraternite romane, particolarmente approfondito da Fiorani nei suoi studi di storia religiosa, consentendomi di porre attenzione ad alcuni argomenti che ho ritenuto di particolare interesse.

1 Cfr. Le confraternite romane – Esperienza religiosa, società, committenza artistica, a cura di l. fiorani, Colloquio della Fondazione Caetani, Roma 14-15 maggio 1982. Gli Atti del Colloquio in «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 5 (1984), pp. 9-443. La Tavola Rotonda introduttiva si trova alle pagine 19-70.

2013

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it

Il primo tema riguarda l’analisi storica ma anche sociologica, della capitale dello Stato pontificio nei secoli XVI e XVII, proposta dall’Autore, che ci presenta una città immersa nelle difficoltà economiche, oppressa da conflitti religiosi e da instabilità sociale, pervasa da istanze ascetiche ma anche da necessità politiche, accentuate da difficoltà gravi quali il pauperismo dilagante, le malattie, le epidemie 2. L’ impegno delle associazioni confraternali in quell’epoca fu, in ampia misura, la lotta al pauperismo, che Fiorani descrive soffermandosi sulle cause e sui metodi adottati per cercare di risolvere i problemi connessi alla povertà quali le malattie, il carcere, l’abbandono dei diseredati.

Il secondo tema riguarda la altrettanto suggestiva e approfondita descrizione dell’Italia sulla via dell’unificazione nazionale, la politica del governo regio dopo il 1861 e in seguito, dopo la presa di Roma nel 1870, i conseguenti conflitti tra la Santa Sede, che non riconosceva ‘l’intruso governo’, e lo Stato italiano, a proposito della attività di beneficenza che lo Stato avocava alla sua indiscutibile competenza. Con l’emanazione di leggi definite eversive furono sciolti vari enti confraternali e incamerati i beni di proprietà ecclesiastica 3 .

Si tratta di due dimensioni storiche, che abbiamo scelto di approfondire, cronologicamente determinate e differenziate per le vicende politiche che ne hanno caratterizzato il percorso, ma pur sempre rivolte a sottolineare la continuità dell’opera benefica svolta da questi enti, fondata sulla volontà di assolvere ai doveri posti dalla fede e dalla dottrina cattolica.

Come è stato in precedenza sottolineato, le ricerche svolte da Fiorani sulle confraternite laicali romane non sono incentrate esclusivamente sulla dimensione religiosa, ma pongono con particolare evidenza il rapporto tra quegli istituti e le caratteristiche culturali ed economiche della società in cui si formarono ed operarono, e che ne determinarono la configurazione e gli orientamenti, in conseguenza delle esigenze che emergevano soprattutto tra i ceti più deboli e sfortunati. A suo avviso « (…) non è possibile porre in astratto il tema della religiosità vissuta, o anche solo prospettata, dalle confraternite, senza un costante raffronto con i problemi della città e con il contesto più ampio della vita della Chiesa» 4. In questa ottica, infatti, emerge anche il rapporto, talvolta conflittuale, con le autorità di riferimento, le par- rocchie, le diocesi o i conventi, nonché gli aspetti, che potremmo definire ‘devianti’ rispetto alle motivazioni originarie, che talvolta affiorarono nel corso delle attività svolte.

2 Cfr. l fiorani, Religione e povertà – Il dibattito sul pauperismo a Roma tra Cinque e Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 3 (1979), pp. 43-131.

3 Cfr. l. fiorani, Discussioni e ricerche sulle confraternite romane negli ultimi cento anni, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 6 (1985), pp. 12-105.

4 Cfr. l. fiorani, L’ esperienza religiosa nelle confraternite romane tra Cinque e Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 5 (1984), pp. 155-196, la citazione alla pagina 160.

Peraltro, l’attenzione posta dall’autore in ordine al contesto sociale ove si collocano le confraternite laicali romane e allo stretto legame che ne esprime il rapporto, solleva non pochi quesiti sulla loro origine, ma anche sulla loro struttura istituzionale, quindi sulla identificazione della loro natura giuridica in riferimento all’ambito di appartenenza. Argomenti su cui sembra opportuno, in prima istanza, soffermarsi, con l’intento di contribuire a completare il quadro di riferimento proposto dall’Autore sul tema in oggetto.

2. Le origini delle confraternite, la definizione identitaria e le ipotesi sulla loro configurazione giuridica

Come si è in precedenza osservato, il fenomeno dell’associazionismo è prodotto dalla società, che, sulla base del principio di diritto romano ubi societas ibi ius5, presuppone una struttura sociale fondata su regole, da cui inevitabilmente prendono forma molteplici attività, derivanti dalle attitudini e dalle esigenze della società stessa, quale ad esempio l’attività economica, per la sopravvivenza dei suoi membri, ma anche iniziative volte alla socializzazione, alla comunicazione, alla valorizzazione della cultura. Si tratta di fenomeni prodotti dalla tendenza dei singoli a formare gruppi omogenei nei quali riconoscersi e creare legami di solidarietà, di difesa, di protezione personale, quindi raggruppamenti sociali nati da una comunanza di interessi.

Già nel mondo romano erano presenti i Collegia e Sodalitia (solidalitates)6

A questo proposito si ricorda che nell’anno 7 d. C Augusto promulgò la Lex Iulia de Collegiis 7, che introdusse il concetto secondo cui quegli enti costituivano soggetti distinti dalle persone dei soci, quindi in grado di porre in essere rapporti giuridici, prefigurando così la elaborazione dottrinale del concetto di ‘persona ficta’. La legge disponeva inoltre misure drastiche per porre ordine nel complesso settore delle associazioni private, che si erano moltiplicate nell’ultimo secolo con conseguenze negative. Prevedeva quindi lo scioglimento dei collegi esistenti, salvo quelli più antichi e quelli legalmente costituiti, ovvero autorizzati dal Senato. L’ accettazione di un collegium dipendeva quindi dal riconoscimento del Senato che si fondava a sua volta, sulla iusta causa, ovvero lo scopo di culto e di pubblica utilità. Ebbero infatti particolare protezione i Collegia tenuinorum, la cui attività consisteva nella sepoltura dei defunti.

5 Cfr. f. calasso, Il medio evo del diritto, I, Le fonti, Milano, Giuffrè Editore, 1954, pp. 26-27.

6 Cfr. calasso, Il medio evo del diritto, pp. 431-432.

7 Cfr. v arangio ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, Jovene, 1974, pp. 71-73.

In parallelo, con il diffondersi e il consolidarsi del cristianesimo, grazie alla promulgazione del ‘cosiddetto’ Editto del 313 da parte dell’imperatore Costantino, che conferì alla chiesa cristiana la qualificazione di Collegium licitum 8, si diffuse l’associazionismo cristiano.

Peraltro, per quanto riguarda le confraternite, l’origine è incerta dal punto di vista cronologico. Non mancano infatti ipotesi di collegamento con istituzioni già esistenti in epoca pre-cristiana, quali appunto i Collegia romani o le ‘Fratrie’ della Grecia o della Magna Grecia: comunque la loro presenza fondamentale nel mondo cristiano è stata segnalata in Europa, forse già nel IV secolo d.C., ma sicuramente in Francia nell’VIII, e in Italia nel IX secolo.

Occorre sottolineare, a questo proposito, la grande varietà di elementi che caratterizza queste associazioni, tale da rendere difficile non tanto e non solo la identificazione di ciascuna di esse, quanto la ricostruzione della categoria giuridica alla quale esse siano riconducibili, categoria che si esprime appunto con il termine ‘confraternita’.

In senso ampio tale termine si può intendere derivato dal latino fraternitas, che significa fratellanza, quindi associazione composta da chierici o da laici, che nasce al fine di attivare opere di pietà e di carità, di edificazione religiosa, di solidarietà devota, di sostegno reciproco. A questo criterio ha fatto ricorso ad esempio Gioacchino Volpe9, che le definiva «raggruppamenti su base religiosa o, almeno, religiosamente motivati», mentre secondo Gabriel Le Bras si trattava di «famiglie artificiali»10, ed Edoardo Grendi11

8 Cfr. calasso, Il medio evo del diritto, p. 40 nota 4 ove si fa riferimento a vari autori, tra i quali Lattanzio, De mortibus persecutorum ed Eusebio di Cesarea, De vita Constantini. «Come è noto la critica moderna ha da tempo revocato in dubbio l’esistenza storica di un Editto dato a Milano congiuntamente dagli imperatori Costantino e Licinio nel febbraio del 313: la sostanza del documento apparterrebbe in realtà ad un rescritto dato da Licinio per l’Oriente pochi mesi più tardi (…) il rescritto di Licinio non faceva altro che riflettere la politica religiosa che Costantino operava di fatto in Occidente, e che aveva avuto il suo precedente nell’Editto di Galerio del 311 che aveva vietato le persecuzioni (…)».

9 g. volpe , Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana. Secoli x I-x IV, Firenze, Vallecchi, 1922 (1961 seconda edizione), p. 170.

10 g le bras, Les confréries chrétiennes. Problèmes et propositions, «Revue historique de droit français et étranger», XIX-XX (1940-41), pp. 311-363 (trad. it. Contributo a una storia delle confraternite, in id., Studi di sociologia religiosa, Milano 1969, pp. 179-215, p. 179)

11 e. grandi, Le confraternite come fenomeno associativo e religioso, in Società, Chiesa e vita religiosa nell’ancien régime, a cura di c. russo, Napoli, Guida, 1976 pp. 115-186 (già in «Atti della Società ligure di storia patria», ns., LXXIX (1965), 5, pp. 241-311, col titolo sottolineava che la morfologia degli enti confraternali era caratterizzata da due aspetti strettamente congiunti, anzi a suo avviso ‘inscindibili’: quello collegato alle dinamiche associative, e quello attinente alla sfera della religiosità. Nello specifico, è proprio la molteplicità dei termini usati, in particolare nell’età medievale, a delineare la complessità e varietà morfologica delle confraternite, indicate con lemmi quali fraternitas, ma anche schola, consortium, sodalitium, congregatio, societas, universitas, gilda in riferimento alle diverse attività espresse nei vari ambiti sociali, caratterizzate dal comune elemento della religione, ma rivolte alla carità, al culto, alla cura dei mendicanti, dei malati, dei carcerati e dei condannati a morte, ma anche alla solidarietà e alla protezione tra consociati che svolgevano una medesima attività, come le corporazioni di arti e mestieri. Occorre peraltro considerare che nel medio evo non vi era assistenza pubblica né aiuti per la parte più disagiata della collettività. Quindi si manifestò l’esigenza di intervenire per amore e timore di Dio, a cui i cristiani risposero unendosi in associazioni private per aiutarsi reciprocamente e portare aiuto ai bisognosi. Il periodo medievale fu infatti particolarmente fecondo per quanto riguarda queste iniziative. Vi furono associazioni spiccatamente religiose, ispirate al movimento dei Mendicanti del Terzo Ordine francescano, laiche come le corporazioni di arti e mestieri, come anche le fratellanze e le confraternite, inizialmente configurate come organizzazioni di categoria, a tutela del benessere materiale degli appartenenti, ma anche della salvezza spirituale. Gli scopi di queste associazioni consistevano nell’assistenza mutua tra i congregati, o per sopperire a difficoltà economiche, nella cura delle malattie, nella difesa contro i soprusi della legge, come le prevaricazioni o le persecuzioni.

Si tratta, come appare evidente, di un quadro complesso, strettamente legato alla realtà sociale e ai problemi presenti nei settori più deboli della società stessa.

Quanto alle origini delle confraternite laicali romane, sulla base di documenti manoscritti, la storiografia propone varie interpretazioni. La più antica confraternita risulterebbe essere quella del Gonfalone, sorta nel corso dell’anno 1260, per iniziativa di due canonici romani, con il sostegno di un gruppo di aristocratici della città, «mentre l’ispirazione religiosa e il primo testo statutario vengono ascritti a Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dei francescani»12.

Morfologia e dinamica della vita associativa urbana: le confraternite a Genova fra i secoli x VI e x VIII.

12 g. barone , Il movimento francescano e la nascita delle confraternite romane, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 5 (1984), pp. 71-80.

Notizia che sembra confermata anche dal codice vaticano Urb. lat. 1690 del XVII secolo13, che pone in testa ad un elenco di confraternite romane disposte in ordine di antichità, proprio la Confraternita del Gonfalone, con la data addirittura del 1198, sotto il pontificato di Innocenzo III. Peraltro, la perdita di molti documenti dell’archivio della confraternita non consentono la certezza della data di origine. In realtà, sembra che la prima confraternita romana sia stata quella dei ‘Raccomandati della Vergine’, e non quella del Gonfalone, la cui documentazione appare sin dall’anno 1267, e che forse può essere collegata alla confraternita dei Disciplinati «che dal 1260 si andavano moltiplicando in tutta Italia». Non solo. A parere della Barone «la Roma del Duecento continua ad essere un campo aperto per le ipotesi più arrischiate, in quanto la documentazione pervenutaci è di una scarsità quasi alto-medievale»14. Il che non esclude in ultima istanza, l’importanza, se non la necessità, di continuare nella ricerca delle fonti per ricostruire la storia che ci interessa.

Peraltro, un quadro forse ancora più complesso si presenta nell’affrontare l’analisi della natura giuridica delle confraternite, e la loro qualificazione rispetto all’appartenenza alla sfera laica o a quella religiosa. Si tratta infatti di enti che potremmo definire di frontiera, collocati in una zona intermedia tra la sfera ecclesiastica e la sfera laicale, caratterizzati quindi da ambiguità e spunti problematici conseguenti a tale indefinita condizione.

La dottrina giuridica medievale le definiva collegi personali, universitates personarum, sodalizi, associazioni, ma anche pia loca, rendendo così incerta la loro appartenenza alla sfera ecclesiastica o alla sfera laicale, che dipendeva, più che dalla approbatio canonica, dalla loro identificazione come persona giuridica, o come luogo pio. In effetti, in assenza di una legislazione in proposito, i criteri interpretativi propri della dottrina di quell’epoca si fondavano non tanto o non solo sulla elaborazione teorica, ma, talvolta, sul terreno concreto della prassi giudiziaria. Occorrerà arrivare al pontificato di Clemente VIII che il 7 dicembre del 1604 promulgò la Costituzione Quaecumque contenente regole sulla erezione di una confraternita per la quale era esclusa l’iniziativa laica, e sui rapporti con l’autorità diocesana. Principi che erano stati confermati da Innocenzo IV il quale affidò il con- trollo su questi enti esclusivamente alla autorità ecclesiastica, con diritto di scioglimento, in caso di necessità15.

13 barone , Il movimento francescano, p. 71.

14 barone , Il movimento francescano, p. 72. Vedi anche a. esposito, Le confraternite del Gonfalone (secoli x IV-x V), in Le confraternite romane – Esperienza religiosa, società, committenza artistica, pp. 91-136.

Come si è accennato, l’accertamento della natura giuridica dell’ente avveniva sovente per via giudiziale e su richiesta delle parti interessate, ovvero delle confraternite stesse, le quali rivendicavano di volta in volta la ecclesiasticità o la laicità in funzione dei propri interessi16. L’ appartenenza alla sfera ecclesiastica o alla sfera laicale acquistava importanza ai fini del godimento di alcuni privilegi, attribuiti agli enti di natura ecclesiastica, o nella esenzione da alcuni oneri che appunto non riguardavano enti di natura laicale. In caso di controversia e a seconda dei vantaggi che potevano trarne, le confraternite, usando lo strumento della propria ambiguità istituzionale, tendevano ad affermare l’appartenenza alla giurisdizione temporale o al potere ecclesiastico17.

Di fatto, come sopra accennato, la qualificazione ecclesiastica o laicale delle confraternite non dipendeva tanto dalla autorizzazione canonica quanto dal rapporto intercorrente tra il collegium, ovvero la persona giuridica costituita dai singoli sodali, e il luogo pio, ecclesiastico per natura. Valutazione questa che ebbe il suo fondamento in una corrente dottrinale secondo cui l’elemento prevalente di quei pii sodalizi era considerato il collegium, cioè l’elemento personale il quale, con le sue caratteristiche di autonomia e di libertà, era considerato per ciò stesso laicale, pur operando in un luogo pio ed essendo approvato ed eretto canonicamente. La ratifica vescovile infatti, secondo quella interpretazione, non poteva mutare la natura del collegium trasformandolo da persona in luogo: al più poteva ratificarne la liceità. In sostanza, essendo la confraternita persona e non luogo, ed essendo solo il luogo di natura ecclesiastica, ma, rispetto alla ‘persona’ di secondaria importanza, la confraternita non poteva che ricadere sotto la giurisdizione laicale18.

15 m gazzini, Le confraternite italiane: periodi, problemi, storiografie, pp. 1-18, in formato digitale distribuito da IM (Itinerari Medievali ), p. 3 nota 8 e p. 4. Della stessa autrice il testo a stampa con il titolo Confraternite e società cittadina nel medioevo italiano, Bologna, Clueb, 2006, pp. 3-57.

16 m. mombelli castracane, Gli archivi delle confraternite: problemi giuridici e proposte metodologiche, «Archiva Ecclesiae. Bollettino dell’associazione archivistica ecclesiastica», XXVIII-XXIX (1985-1986), pp. 111-128, p. 116 nota 8.

17 Cfr. mombelli, Gli archivi delle confraternite, p 116 nota 9. Cfr. anche m mombelli castracane, Ricerche sulla natura giuridica delle confraternite nell’età della Controriforma, «Rivista di storia del diritto italiano», LV (1982), pp. 43- 116, p. 71 e sgg.

18 Cfr. c. cafaro, Speculum peregrinarum quaestionum decisarum forensium, (Neapoli, ex officina Ioannis Francisci Paci, 1665), L. I, Quaestio XVIII, paragrafi 1-2. Cfr. anche v del giudice, Nozioni di diritto canonico, Milano, Giuffré, 1953, p. 233 e g. le bras, Études de sociologie religeuse, Paris 1985 (trad. g. caputo e l. pellegrini, Studi di sociologia religiosa, pp. 202-205).

Ma vi era anche un’altra interpretazione dottrinale, secondo la quale il collegium acquistava dal luogo pio, per estensione, la qualificazione ecclesiastica, anche in assenza di approbatio canonica, perché il luogo era considerato prevalente rispetto al collegium19. Non solo. Si riteneva ammissibile sia la distinzione tra luogo e persona, sia che la confraternita avesse natura di collegium: in questa ottica era anche accettabile il criterio che la approbatio canonica non potesse mutarne la natura trasformandola da persona in luogo. Ma si negava che il fatto di essere persona escludesse la confraternita dall’ambito canonistico, perché anche le persone giuridiche potevano acquistare carattere ecclesiastico in virtù della approvazione canonica 20 .

I canonisti inoltre a questo proposito facevano ricorso al concetto di ‘causa pia’, con il quale ricomprendevano nell’area ecclesiastica tutti gli enti privi di ratifica religiosa, purché destinati a fini di carità e di spiritualità con il supporto del luogo a ciò deputato. La causa pia «di religione, o diretta ad pium opus », poteva essere accertata sia per quanto riguardava l’uso dei luoghi destinati al culto e soprattutto alla pietà, sia anche in rapporto alla destinazione di patrimoni attribuiti al sodalizio per atto tra vivi o per via testamentaria, alle condizioni espresse dal fondatore e che potevano consistere nell’obbligo perpetuo di celebrazione di messe per l’anima del defunto, nel compito di dotare zitelle povere, di assistere fanciulle pericolanti, e comunque nello svolgimento di qualsiasi opera di misericordia.

Non sembra esservi dubbio, a nostro avviso che, nell’ottica canonistica, il ricorso all’espediente della causa pia consentiva di incardinare la confraternita in una dimensione istituzionale ove, in via di principio, l’elemento soggettivo veniva a perdere la propria autonomia e capacità di autodeterminazione per sottostare ad un vincolo riconosciuto e imposto dall’esterno. Vincolo non più patrimoniale, ma spirituale, espressione del dogma su cui riposava tutta la dottrina, tesa al conseguimento del fine ultimo, la salvezza dal peccato e la conquista del premio eterno, ma anche riflesso della realtà associativa ecclesiale che trovava il suo modello nel corpo istituzionale della Chiesa 21 .

19 g de rosa, Consultationes juris selectissimae cum decisionibus super eis prolatis a supremis Neapolitani Regni tribunalium (Neapoli 1671). Cfr. mombelli, Gli archivi delle confraternite, p. 115 nota 6.

20 Cfr. b. ojetti, Synopsis rerum moralium et iuris pontificii, Romae 1899, ad vocem Confraternitas. Cfr. mombelli, Gli archivi delle confraternite, p. 117 nota 12.

21 Cfr. mombelli, Ricerche sulla natura giuridica delle confraternite, pp. 113-114.

Peraltro, la dottrina canonistica moderna aveva definito ‘confraternita’ una associazione di fedeli, eretta dall’autorità ecclesiastica, organizzata gerarchicamente, che si proponeva come scopo non solo l’esercizio delle opere di pietà ma anche l’accrescimento del culto pubblico. Tuttavia, definiva confraternite, sia pure in senso ampio, anche quelle pie associazioni prive non solo di erezione canonica, ma anche della struttura collegiale. In questa ottica il termine confraternita può intendersi in senso più o meno esteso. In senso ampio si intende per confraternita una associazione di fedeli che ha per scopo l’esercizio di opere di pietà e di carità. In questa accezione possono essere ricomprese anche le pie unioni. In senso più ristretto, invece, si intende una associazione di fedeli che si propone il perseguimento di uno scopo di pietà o di carità, ma organizzata in modo da costituire un vero collegio, un ‘corpo organico’. In questo senso le confraternite si distinguerebbero da altre associazioni come le pie unioni, il cui legame tra i consociati è molto più labile 22. Concetti questi che troviamo confermati in un Decreto della Sacra Congregazione delle Indulgenze del 188023 ove si stabilisce che la confraternita è tale in quanto costituisce un ‘corpo organico’, un collegium, quindi una struttura gerarchicamente organizzata e regolata da norme statutarie, allo scopo di praticare la beneficenza e l’edificazione spirituale, distinguendosi da altri sodalizi, quali le pie unioni, le associazioni e simili, prive di tali caratteristiche.

Aggiungiamo che il concetto di ‘corpo organico’ lo si ritrovava anche nel codex iuris canonici del 1917, ove il canone 707 disponeva che le associazioni di fedeli erette per l’esercizio delle opere di pietà e di carità si chiamavano pie unioni. Quelle costituite in corpo organico si chiamavano sodalizi. Se i sodalizi avevano lo scopo di incrementare il culto pubblico, si definivano confraternite 24 .

La disposizione di cui si è appena detto va posta in relazione alle note vicende legate al nuovo assetto dato agli enti ecclesiastici nell’ambito dell’ordinamento dello Stato italiano unificato, che introdusse a questo scopo criteri notevolmente restrittivi. Peraltro, ora non ci soffermeremo sulle vicende conflittuali intercorse tra questi enti e lo Stato italiano, analizzate da Luigi Fiorani, di cui daremo conto più avanti. Possiamo sottolineare, comunque, che, per quanto riguarda la natura giuridica delle confraternite, il codex iuris canonici vigente, promulgato il 25 gennaio 1983, riferendosi alla ampia e indifferenziata categoria delle Consociationes Christifidelium, distingue tra associazioni pubbliche e associazioni a carattere privatistico, in relazione alla ratifica dell’autorità ecclesiastica al momento della istituzione dell’ente, mentre per quanto riguarda le associazioni private, il codice dispone che non possono acquisire la personalità giuridica se non vi è da parte dell’autorità ecclesiastica la approbatio degli statuti in quanto conformi ai requisiti posti dal canone 31225.

22 Cfr. mombelli, Gli archivi delle confraternite, pp. 117-118 nota 13.

23 Ibidem, p. 118 nota 14. Il testo del Decreto è in Codicis iuris canonici fontes, t. VII, p. 668, n. 5090, cfr. anche b. melata, De erectione confraternitatum in monialium monasterii, II, Romae, apud Analectorum Editorum, 1906.

24 Ibidem, nota 15.

3. I problemi di Roma tra il Cinquecento e il Seicento. La lotta al pauperismo

Occorre tenere presente che nel XVI secolo l’Europa attraversava una fase economica di estrema difficoltà, prodotta intanto dalle guerre di religione conseguenti alla Riforma protestante, che avevano impoverito ampie aree territoriali devastate dalle distruzioni di case e raccolti e dalle morti degli abitanti, con conseguente abbandono delle attività agricole. Si era verificato un esodo di popolazioni dalle campagne alle città, aumentando così il numero dei poveri in cerca di aiuto e di sostentamento, ma anche di altre categorie di sbandati, quali i vagabondi, i pellegrini, gli zingari, le prostitute, a cui si aggiungevano i soldati mercenari, che con la formazione degli eserciti regolari posta dagli Stati assoluti, non avevano più la possibilità di essere assoldati per le guerriglie tra i potenti del tempo. Aggiungiamo le malattie a carattere epidemico, e in particolare la peste. In sostanza, le condizioni di vita del tempo erano rese difficili dai tre flagelli più volte evocati: la peste, la guerra, la carestia.

Anche lo Stato pontificio, e in particolare Roma, subì le conseguenze di quelle vicende.

Come è noto, lo Stato pontificio era caratterizzato da una economia prevalentemente agricola, fondata sul latifondo. Le attività produttive e commerciali che avevano avuto un notevole sviluppo in Italia, grazie anche al ruolo dei comuni, con l’avviamento di un’economia che potremmo definire pre-capitalistica, e poi delle Signorie, nello Stato pontificio avevano avuto uno sviluppo più contenuto. Non a caso, il sistema di governo dello Stato della Chiesa aveva posto le basi di uno stato assistenziale, nell’intento di aiutare i ceti più deboli, ma senza adeguate iniziative per incrementare l’iniziativa dei singoli nei confronti delle attività produttive.

25 Cfr. mombelli, Gli archivi delle confraternite, pp. 120 note 20 e 21. Cfr. anche i l Codex iuris canonici, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, pp. 51-56 il Titolo V De Christifidelium consociationes, can. 298-329, cfr. in particolare il can. 322.

Roma in particolare, città caratterizzata dalla presenza del potere ecclesiastico e nobiliare, offriva poche possibilità di inserimento in ambienti lavorativi, e ancor meno prospettive di iniziativa per superare la povertà: i poveri sopravvivevano con le elemosine e la carità, ma alla situazione di stallo così determinata, si aggiungeva anche una sorta di speculazione, da parte degli stessi poveri che finivano con l’approfittare della situazione per ottenere i mezzi di sopravvivenza adagiandosi sulla generosità del prossimo. E su questo aspetto Fiorani indaga descrivendo situazioni a dir poco paradossali anche da parte dei ricchi, e dei calcoli messi a punto per proteggere le proprie ricchezze, in particolare quel superfluo, che la Chiesa sollecitava a concedere in elemosina, da molti ricchi invece ritenuto essenziale, come il necessario, per le proprie esigenze 26

Fiorani pone in evidenza il ruolo della politica nell’affrontare il problema del pauperismo, che è considerato primario in riferimento all’ordine pubblico, ma che proprio per questo impone la necessità di distinguere tra vera e falsa povertà, sottolineando anche l’intento, come vedremo, di procedere ad una razionalizzazione dell’assistenza con la centralizzazione dell’attività assistenziale considerata più adatta e con più garanzie per assolvere tale compito sul piano economico e amministrativo, rispetto alle singole compagnie di carità. Peraltro l’A. non manca di rilevare che tale organizzazione assistenziale aveva finito con l’assumere caratteristiche spiccatamente burocratiche, addirittura poliziesche, o addirittura repressive, dal momento che si poneva la necessità di determinare, quantificare, censire tutte le sacche di povertà, con interventi capillari e definitivi.

Quali sono dunque le caratteristiche dell’offensiva antipauperistica nel periodo considerato a Roma? Da notare che la lotta al pauperismo era presente non solo in altre città italiane, ma anche in Europa, ad esempio in Francia e nei Paesi Bassi 27. Ma a Roma ebbe caratteri particolari, perché a Roma tutto convergeva in un’unica dimensione, la religione. Di conseguenza il fenomeno del pauperismo era ricondotto ad un complesso di riferimenti religiosi e di preoccupazioni morali, che dopo il Concilio di Trento, avevano trasformato anche le intenzioni e le iniziative caritative in azioni volte a contrastare l’eresia, secondo una concezione che poneva la vera fede nella attuazione di opere di bene che ne avrebbero prodotto l’arricchimento spirituale.

Occorre aggiungere a questo proposito che, come sottolinea Fiorani, la lotta al pauperismo a Roma non era recepita come una istanza sociale volta a conseguire una effettiva giustizia e dignità del vivere civile, ma si poneva come un invito alla carità, alla compassione, ai buoni sentimenti. Nella Roma tridentina, infatti, non trova spazio una concezione della povertà in relazione ai problemi sociali da affrontare con la pianificazione di riforme strutturali da parte delle autorità pubbliche incaricate di trovare soluzioni alle difficoltà economiche di masse cittadine e rurali. E non a caso erano considerati riformatori, in tutti i sensi, i predicatori, gli scrittori ascetici, moralisti e teologi, devoti o uomini di buona volontà, membri di nuovi ordini religiosi, e i parroci che svolgevano funzioni non dissimili da quelle dei funzionari civili.

26 fiorani, Religione e povertà, pp. 43-44.

27 Ibidem, p. 45.

L’ A. ricorda a questo proposito tra gli altri, il padre predicatore Giampietro Pinamonti, il quale insisteva nel criticare il comportamento dei ricchi nei confronti dei poveri, sottolineando comunque il consolidarsi di una crescente preoccupazione sociale 28. Di grande interesse è la posizione di Roberto Bellarmino29 espressa nelle sue riflessioni sui poveri e sulla povertà. Le riflessioni del Bellarmino hanno contribuito a definire «l’orizzonte dogmatico nel quale anche la povertà riceve una lettura particolare». Nei suoi scritti emergono due punti di riferimento: l’origine ‘provvidenziale’ del binomio ricchi-poveri, e la dottrina del superfluo.

Nel primo caso Bellarmino afferma che la società è strutturata gerarchicamente, ma è tenuta insieme dal mutuo soccorso. Il che significa che la società è una struttura fissa, non modificabile, e colui che oltrepassa i confini della propria condizione sociale cospira contro la società stessa. In questo contesto negativo ricadono i ricchi, quando frodano o ritardano i pagamenti dovuti, ma anche i poveri, quando volunt vivere more divitum non contenti statu quo e si trascinano nell’ozio, vizio insopportabile a Dio qui vult omnibus providere, sed per laborum ipsorum30 .

Il secondo caso riguarda la beneficenza da parte dei ricchi, fondata sul precetto della distribuzione del superfluo, che Bellarmino considera una doverosa restituzione di una ricchezza ‘indebita’. E sui ricchi si appuntano le riflessioni critiche del Vescovo, che considera l’elemosina un dovere da cui il ricco non può sottrarsi perché si tratta di un dovere sociale, anche se proveniente da ragioni puramente religiose e morali. In questa ottica si configura non il ricco gaudente e passivo, ma un personaggio attivo, che produce e aumenta la ricchezza non solo a proprio vantaggio: si preannuncia la figura del borghese31.

28 fiorani, Religione e povertà, p. 48-49 note 6 e 7 con informazioni sul padre Giampietro Pinamonti (1632-1703).

29 Ibidem, pp. 54-61.

30 Ibidem, p. 57.

Per quanto riguarda i poveri, non manca una identica concezione rigida e controriformistica. I poveri non sono tutti uguali. Vi sono anche i poveri non devoti né pii, che non seguono il Signore. Chi sono? Sono coloro che non accettano la propria condizione, comportandosi scorrettamente, disobbedendo così alla volontà di Dio. Occorre che il povero accetti la sua condizione, in obbedienza alla Sua volontà, non vivendo nell’ozio, ma sforzandosi di procurarsi il necessario per vivere con il lavoro. Si configura così l’immagine del povero ideale, che fugge l’ozio e la vita scioperata, e si applica ad un mestiere, senza mai uscire dalla propria condizione «i povari huomini hanno da vivere da povari huomini»32

Peraltro, le affermazioni di Bellarmino, ispirate, come sottolinea Fiorani, ai principi della patristica, a proposito dell’elemosina considerata una restituzione «di beni indebitamente trattenuti e sottratti dall’avarizia dei ricchi alla collettività dei bisognosi» produsse reazioni indignate da parte dei diretti interessati, per cui fu denunciato alle autorità competenti del tempo, come risulta dalla deposizione di un testimone al processo di canonizzazione33

Altro personaggio di rilievo in quel contesto è Paolo De Angelis con il suo Trattato Della limosina34. Fiorani sottolinea nella dottrina del sacerdote siracusano, fondata anch’essa su riferimenti biblici e sulla patristica, una visione «cupamente religiosa», prettamente controriformistica e pessimistica della povertà. La povertà, in questa ottica, è un castigo irreversibile, ma è anche un’occasione di riscatto e di salvezza, e l’elemosina è obbligatoria perché è strumento di salvezza. In che senso? Ebbene, non è rivolta a migliorare la vita del povero, che è conseguenza del tutto secondaria, ma per salvare l’anima del ricco, perché la ricchezza rappresenta un pericolo dal momento che produce deviazioni di ordine morale e psicologico, da estirpare con un uso ragionevole dei beni materiali. Concetti peraltro espressi con cautela, per evitare reazioni negative da parte degli interessati. In questo senso, l’accumulazione della ricchezza è consentita, purché se ne renda partecipe anche il prossimo, proprio mediante l’elemosina. Il De Angelis inoltre si guarda bene dal fare riferimento alla dottrina ben affermata nella teologia e nella canonistica medievale, dai Padri della Chiesa ai moralisti contemporanei, secondo cui, in caso di estremo bisogno, i beni diventano comuni, e il povero non commetteva peccato né poteva essere punito se si appropriava di ciò che gli era necessario per la sopravvivenza. La ragione fondamentale consisteva nel fatto che, da questo punto di vista, la vita del povero era più importante del superfluo appartenente al ricco35.

31 Ibidem, p. 58.

32 Ibidem, pp. 59-60.

33 Ibidem, pp. 60-61 nel testo la citazione della deposizione, nella nota 28 la fonte: Romana beatificationis et canonizationis ven. servi Dei Roberti s.r.e. cardinalis Bellarmini S.I. positio super dubio…, Romae, R.C.A., 1749, p. 105.

34 p. de angelis, Della limosina overo opere che ci assicurano nel giorno del final giuditio…. Libri X alla Santità di N. S. Papa Paolo V, In Roma, per Giacomo Mascardi, 1611. Cfr. fiorani, Religione e povertà, pp. 61 ssgg. nota 29.

Ma non a caso Fiorani ricorda la denuncia di un prete romano, Celso Millini, che nella seconda metà del Seicento difendeva i ricchi affermando che era meglio essere nato ricco che povero perché siccome tutti hanno bisogno del ricco, è necessario apprezzarlo e non metterlo in stato di accusa36. Un ragionamento non proprio conforme al clima religioso del tempo, ma non privo di un suo realismo ‘laico’.

Ma non manca la posizione nettamente contraria, espressa dal gesuita storico e scrittore Daniello Bartoli, secondo il quale la condizione più vantaggiosa è la povertà, perché il ricco è sempre agitato, come si trova nel titolo del suo trattato La povertà contenta descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti37, pensiero fondato sul principio edificante «perdere con guadagno». Siamo nel XVII secolo: la mentalità mercantilistica è ormai diffusa, cominciano ad emergere nuovi ceti rappresentati da professionisti, banchieri, appaltatori, proprietari di aziende, che diventano protagonisti nella vita della città. Ma in questa veste «possono farsi operatori di salvezza, di misericordia e in qualche modo costruttori del loro stesso futuro».

Nella seconda metà del XVII secolo tuttavia la povertà dilaga, ma non aumenta la carità. Fiorani si sofferma sulla figura di Alessandro Sperelli, vescovo di Gubbio, che scrisse il trattato Della preziosità della limosina38 dopo la grande pestilenza del 1656, in cui denuncia l’insufficienza delle strutture assistenziali romane. L’ Autore osserva che l’analisi dello Sperelli non si fonda su una visione pessimistica della società e dei suoi malanni pro- dotti dalla concezione di staticità e immobilità della società stessa così posta dalla volontà divina, come rilevato da altri autori, ma riconduce le carenze strutturali ad una dimensione morale, con la conseguenza che chi non aiuta i poveri offende non solo la religione, ma la stessa umanità. In questa ottica, l’elemosina risponde a tre aspirazioni della natura umana: conseguire «i veri onori, i sinceri diletti, e l’utile sicuro e incomparabile»39. L’ intento è quello di rassicurare il ricco e di garantirgli che «non ha nulla da rimetterci allargando un poco il cordone della borsa». Si sofferma poi sulla figura del povero che egli analizza ponendo come punto di riferimento la dignità umana. In questo senso, la categoria dei poveri che suscita la sua prioritaria preoccupazione sono «i poveri vergognosi», coloro cioè che sono caduti nello stato della miseria di cui si vergognano come i nobili decaduti o i ricchi che hanno perso le loro sostanza, e che non osano chiedere la carità o i pubblici sussidi40. Sperelli non distingue poveri veri e falsi, degni o indegni. A suo avviso occorre sempre soccorrere chi ha bisogno senza indagare sull’origine della povertà. Fiorani riconosce allo Sperelli il merito di aver trascurato la visione alquanto burocratica e poliziesca volta a distinguere e quindi discriminare i poveri ritenuti indegni della carità: «un povero», sembra dire lo Sperelli, «non lo si può reprimere, bisogna amarlo e soccorrerlo con infinita pietà» 41 .

35 fiorani, Religione e povertà, p. 63. Cfr. anche p. prodi – g. rossi, Non rubare, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37. E dello stesso autore, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna, Il Mulino, 2009.

36 c millini, Discorsi quadragesimali, In Roma, appresso G. Dragoncelli, 1622, la citazione è riportata da fiorani, Religione e povertà, p. 64.

37 d. bartoli, La povertà contenta descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti, In Roma appresso D. Manelfi, 1650, cfr. fiorani, Religione e povertà, p. 65 nota 37.

38 a. sperelli, Della pretiosità della limosina, In Venetia, appresso P. Baglioni, 1666, cfr. fiorani , Religione e povertà, p. 66 note 40-41.

Altro aspetto del pauperismo esaminato da Fiorani è rappresentato dal rapporto tra povero e benefattore, ai fini della valutazione del gesto munifico da parte del benefattore, delle sue vere intenzioni, che potevano essere ispirate da istanze di autoaffermazione, per acquisire la riconoscenza del povero. La questione è approfondita in un trattatello anonimo 42, ove si afferma che i poveri non sono tenuti alla riconoscenza verso i loro benefattori, ma non manca di osservare che «li poveri et mendicanti si devono contentare del solo bisogno necessario et non ricevere limosine superflue». Come rileva Fiorani, si tratta di un’opera che sottolinea non tanto l’elemosina in sé, quanto «la ragione spirituale da cui è animata», giacché, spiega con accento ispirato al movimento francescano «si ha da movere solo l’affetto» 43 .

39 fiorani, Religione e povertà, p. 67 nota 42.

40 Ibidem, p. 68.

41 Ibidem, p. 69.

42 Si tratta del manoscritto Boncompagni G. 14, intitolato Il semplice trattatello sopra la limosina. Composto dalla signora madre carità per amore et servitio delle pie persone, le quali approfittandose in essa opera riceveranno merito et salute dell’anima, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Cfr. fiorani, Religione e povertà, p. 70 ove alla nota 47 fornisce una dettagliata descrizione del manoscritto.

43 In fiorani, Religione e povertà, p. 71.

Il contesto si articola su due questioni: come i ricchi sono obbligati all’elemosina, come i poveri debbono riceverla. L’ obbligo dei ricchi all’elemosina deriva dal fatto che essi sono ricchi per volontà di Dio e per sua volontà sono dispensatori di beneficenza, per aiutare i poveri. Ma i poveri, a loro volta, debbono contentarsi di quello che ricevono, e non scialacquare, non debbono essere quindi egoisti e peccatori, darsi all’ozio e approfittare dei benefici che ricevono perché saranno puniti più severamente dei ricchi44. Principi ispirati chiaramente al controriformismo tridentino e ad un immobilismo dottrinale tipico dell’epoca. E non a caso, come rileva Fiorani, i modi indicati per soccorrere i poveri sono ispirate in modo ‘pedissequo’ alle opere di misericordia45, e non manca di interrogarsi «se operette di questo genere abbiano veramente giovato ad abbattere qualcosa di quel pauroso fossato che divideva, in Roma, i ceti sociali estremi, il ricco e il povero, l’aristocrazia e il popolo indigente, e contribuito a far nascere i presupposti di una nuova e più dignitosa convivenza» 46

L’ analisi dei trattati sopra citati induce Fiorani ad interrogarsi su quali fossero realmente gli intenti che la società perseguiva nell’approntare i provvedimenti contro la mendicità che «poi passava ad applicare con un rigore spesso confinante nella spietatezza», dal momento che era opinione comune che la povertà fosse ineliminabile. Si poteva in qualche modo cercare «un punto di equilibrio fra gli opposti squilibri» senza mettere in dubbio le diseguaglianze sociali esistenti e «la cultura (e diciamo pure gli egoismi) che le rendeva possibili» 47. Lo Sperelli infatti sostiene che «in cadauna città siano due città insieme, ossia la città dei poveri e la città dei ricchi» 48. Il significato è chiaro: la ricchezza e la povertà non sono condizioni sociali «accidentali della vita umana, ma due permanenti realtà strutturali di essa», quindi immodificabili, perché all’origine c’è la Divina Providenza. Non si concepisce una via che superi questa dualità, una più equa distribuzione della ricchezza49. Di conseguenza è altrettanto diffusa e radicata nella società la convinzione della immodificabilità della condizione del povero, al quale

44 Ibidem, p. 72.

45 Ibidem, p. 73

46 Ibidem, p. 74 nota 53.

47 Ibidem non si riconoscono diritti. Il ruolo della religione consiste quindi nel convincere (‘spingere’) i poveri ad accettare la loro condizione e a trovare nella religione il riscatto del loro status con l’acquisizione di «quella dignità che la struttura sociale aveva loro tolto»50, e nell’indurre i ricchi «non perché cessino di essere ricchi», ma «perché trovino un giusto rapporto tra le esigenze del loro stato e il dovere di sovvenire al prossimo bisognoso». Il fulcro della dottrina, o come sostiene Fiorani, della teologia cinque-secentesca, non è il rifiuto della ricchezza, ma la definizione del concetto del superfluo, e di regole morali per stabilirne l’obbligatorietà 51

48 sperelli, Della pretiosità, p. 239 e fiorani, Religione e povertà, p. 75 nota 55.

49 fiorani, Religione e povertà, p. 76 nota 57, considerazioni su Stefano Menochio gesuita che aveva una visione più pragmatica e realistica in ordine all’accrescimento della ricchezza cfr. l’opera di g. s. menochio, Institutiones oeconomicae ex sacris litteris depromtae libri duo… Lugduni, ex officina Rovilliana 1627, dallo stesso autore tradotta in italiano e arricchita nell’opera Economica christiana… Venetia, per il Baba, 1656.

Non a caso, proprio su questo tema si accesero polemiche tra «lassisti e rigoristi»52. Come ricorda Fiorani, Innocenzo XI nel 1679 intervenne contro un provvedimento, considerato ispirato al lassismo, concernente la valutazione del superfluo in relazione alla obbligatorietà della sua utilizzazione a sostegno dei poveri, perché da parte dei ricchi sarebbe stato comunque difficilissimo stabilire la differenza tra la quota di superfluo relativo, ovvero in eccesso rispetto al necessario per mantenere lo stato sociale di appartenenza, e il superfluo assoluto invece indispensabile per vivere convenientemente secondo la propria condizione. «Di fronte ad un povero nel bisogno, sembra dire papa Odescalchi, rigorista e amico dei mendicanti romani, non c’è decoro, non c’è esigenza di rango che possano valere: egli ha diritto di avere il necessario da parte di chi più ha»53.

La politica rigorista di Innocenzo XI comunque non modificò la posizione da parte dei ricchi rispetto alla attività caritativa sulla base della valutazione del superfluo. A questo proposito Fiorani cita le parole dell’oratore gesuita Emanuele Orchi, ispirate ad una concezione politica volta ad incoraggiare l’elemosina senza ricorrere a concetti eccessivamente rigidi. In sostanza, il predicatore non colpevolizza la ricchezza, ma l’idolatria della ricchezza: se il mercante non vuole liberarsi della sua mercanzia, se la tenga pure, ma si guardi dagli ingiusti guadagni, dai traffici illeciti, dai contratti usurari, «dalli scorticamenti del prossimo, dalli assassinamenti del tuo fratello (…)»: è un invito ad utilizzare la ricchezza senza abusarne54. Emerge da questo contesto una doppia morale e forse un doppio Vangelo, «uno, esigente, per i chiamati alla perfezione, l’altro, più “lasso” e benevolo (o tollerante) per i cristiani di modeste possibilità». Una morale che condanna gli eccessi, le intemperanze, ma accetta il compromesso della ricchezza, perché si rivolge ai cristiani non votati alla perfezione55. Difficile quindi prospettare un quadro unitario della situazione pauperismo e dell’approccio caritativo. Fiorani comunque approfondisce i diversi aspetti del pauperismo evidenziati dai contesti di malessere sociale ad esso riconducibili, in primo luogo la malattia «che per la sensibilità religiosa meglio identifica il povero, nella sua condizione di assoluta dipendenza dagli altri (…)». A questo proposito egli cita Giambattista Scanarolo, a parere del quale «il malato povero è dunque il gradino estremo della povertà» perché rappresenta, con la povertà sanitaria e la povertà economica, il povero di Cristo56

50 fiorani, Religione e povertà, p. 76.

51 Ibidem, p. 76 nota 58 ove si espone la classificazione del superfluo, di impianto tomistico, che subisce modificazioni in relazione alle nuove esigenze della società ove è ormai diffusa una attività economica prevalentemente fondata sul commercio e sulla circolazione dei capitali.

52 Ibidem, p. 77 la nota 59 su m petrocchi, Il problema del lassismo nel secolo x VII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1953, pp. 36-40. Il lassismo è un sistema morale che teorizza la possibilità di scegliere secondo coscienza nei casi dubbi anche non seguendo l’opinione migliore o prevalente. Sostenuto da alcuni gesuiti nel XVII secolo, criticato da B. Pascal e condannato da Innocenzo XI nel 1679.

53 Ibidem.

Occorre ricordare che la società romana cinque-secentesca non era preparata a «fronteggiare i problemi dello sviluppo demografico e il progressivo movimento dei commerci in un quadro di riorganizzazione della vita economica e di difesa dei ceti più deboli». In questo contesto i malati poveri erano spesso trascurati e inevitabilmente buttati allo sbaraglio. Nella prima metà del ’600 ci troviamo in presenza di eventi calamitosi quali in primo luogo le carestie, prodotte da cattivi raccolti o, come sottolinea Fiorani, «da mancati rifornimenti dall’Agro romano per speculazione dei baroni o dei grandi mercanti», ma anche dalla presenza di banditi. A cui si aggiungono le malattie infettive come febbri maligne, peste, malaria, nonché casi di «mortalità catastrofica o straordinaria», comunque prodotte da carestia ed epidemie57.

È in effetti singolare osservare come nella Roma secentesca, che «stava vivendo sul piano della cultura, dell’arte e sul piano della riorganizzazione urbanistica» «una splendida storia», erano anche presenti quelle calamità che colpivano soprattutto i ceti più indifesi per gli stenti e le privazioni. E, come nota Fiorani, quando si manifestava un morbo o una carestia, il povero sapeva che «era venuta la sua ora» e che i commissari sanitari intervenivano «per controllarlo, per assegnargli spazi sempre ristretti per l’elemosina» e infine «per recluderlo in S. Sisto o in S. Giacomo, oppure inviarlo ai lavori di campagna pur di metterlo nella condizione di non nuocere (…)»58.

54 fiorani, Religione e povertà, p. 78 nota 62 ove si cita padre e. orchi, Prediche quaresimali…. Venetia, per Nicola Pezzana, 1666, p. 5.

55 Ibidem, pp. 78-80, la nota 64, ove si sottolinea il fatto che non è facile dedurre dai testi citati e dal contesto complessivo, una posizione uniforme della Chiesa, anche perché non si hanno notizie delle prediche dei parroci, occorre verificare negli archivi delle parrocchie e da altre fonti consultabili.

56 g. scanarolo, De visitatione carceratorum libri tres. Quibus omnia ad visitationem, patrocinium et liberationem carceratorum spectantia explanatur…. Roma, RCA, 1655 p. 228 citato da fiorani, Religione e povertà, pp. 81-82 alla nota 69.

57 fiorani, Religione e povertà, p. 83 e le note 72, 75, 77.

L’ Autore rileva che, a partire dalla fine del ’500, la malattia assume una grande importanza come fattore sociale che promuove la religione: è la prossimità della morte che sollecita interventi di soccorso spirituale per gli ammalati poveri. Non a caso infatti «la legislazione canonica e le costituzioni degli ordini ospedalieri imponevano la precedenza, su tutto, di una buona confessione e di una buona comunione»59. Il che produceva comportamenti spesso di una crudeltà insensata, come racconta «un camilliano del primo Seicento che aveva visto in azione il De Lellis mentre svolgeva il suo servizio presso il Santo Spirito». Quindi l’assistenza religiosa ai malati poveri rappresenta un capitolo del pauperismo romano che riflette «il rigore della mentalità controriformistica» volta a garantire prioritariamente la salvezza dell’anima, e in seconda istanza l’assistenza al male e al dolore 60 .

Fiorani si sofferma poi sulla figura di Camillo De Lellis61 e sull’opera di assistenza ai malati da lui svolta prima nell’Ospedale San Giacomo, poi «dentro le terribili corsie del San Sisto… dentro gli aulici saloni del Santo Spirito, in cui la conclamata tradizione sanitaria non riusciva a far tacere certi lamentevoli giudizi», il cui merito è quello di aver vissuto e affrontato le terribili condizioni dei poveri ammalati «calandosi senza riserve nelle situazioni» per tentare di portare soccorso «anche a costo di lasciare in secondo piano o di delimitare certi impegni connessi strettamente con il ministero sacerdotale»62.

De Lellis soccorre anche i vagabondi e i mendicanti senza fissa dimora che erano fuggiti dagli ospizi cittadini per amore di libertà, e ricercati dalla giustizia per essere espulsi da Roma. Era del tutto contrario ai metodi dell’Ospizio di San Sisto: egli intendeva attuare il recupero della gente messa al bando dalla società o dalle leggi che regolamentavano la mendicità63. È citata la grande carestia del 1590-91 e la condizione drammatica dei poveri che morivano di fame e di freddo, raccontata dal Cicatelli, che racconta anche dell’impegno straordinario di De Lellis per soccorrere i poveri che vivono nelle soffitte, nelle cantine, nelle grotte del Colosseo o delle Terme di Caracalla64. Ma conoscerà anche i miseri ricoverati negli ospedali. Cos’è un ospedale per De Lellis? una grande concentrazione dei mali, degli egoismi, delle sopraffazioni della città. «Come il punto d’arrivo….non solo delle crisi naturali, dei rovesci atmosferici, delle epidemie, le cui ragioni e le cui dimensioni sfuggivano spesso alla responsabilità degli uomini, ma dell’iniquità di un organismo sociale spaccato verticalmente tra una ricchezza accumulata nelle mani di pochi e l’assoluta indigenza che attanagliava larghi strati popolari65

58 Ibidem, p. 84 nota 83.

59 Ibidem, p. 85 nota 86 ove si osserva che Pio V, con la Bolla Super gregem dominicum dell’8 marzo 1566 «interdiceva ai medici di continuare ad assistere i malati se dopo la terza visita non avessero ancora assolto all’obbligo della confessione».

60 Ibidem, p. 86 nota 87.

61 Sulla figura di Camillo De Lellis Fiorani rinvia a vari autori soffermandosi in particolare su Sanzio Cicatelli che ne scrisse la biografia, il cui originale è conservato in Roma, Archivio generale dei Ministri degli Infermi, ms. 116, Vita del p. Camillo De Lellis fondatore della religione de chierici regolari Ministri degli Infermi descritta brevemente dal p. Santio Cicatelli sacerdote dell’istessa religione, cfr. fiorani, Religione e povertà, p. 87 nota 91.

62 fiorani, Religione e povertà, pp. 88-89 in particolare la nota 94.

Fiorani affronta il tema della povertà nelle campagne. Perché? Perché proprio dalla campagna provenivano i poveri che andavano ad ingrossare le fila dei poveri di città. L’ Autore cita le osservazioni di Bernardino Cirillo, governatore dell’Ospedale Santo Spirito, sulle condizioni in cui i poveri, provenienti dalla campagna che per ragioni di siccità o altre calamità naturali non fornisce più il necessario per vivere, cercano rifugio negli ospedali, spesso troppo tardi per sopravvivere 66. Alle quali aggiunge la relazione «elaborata nell’ambito dell’abate Sacco e della magistratura da lui istituita per difendere i lavoranti di campagna»67. Occorre osservare che «la politica economica della capitale domina la condizione e la situazione della campagna, ancora tutta latifondista e senza prospettiva di nuova sistematica: una campagna quindi legata strettamente agli ordini della città»68.

63 Ibidem, p. 89 nota 95 ove è citata questa affermazione del De Lellis: «Padri e fratelli miei, a me non piace quella pietà che s’arrampica nella contemplazione e nell’estasi, per le cime degli alberi, ignorando e dimenticando i doveri fondamentali della nostra vocazione alla carità dei malati».

64 Ibidem, p. 90 nota 98: «l’anno 1591 nel maggior colmo della carestia tutti li ospedali della città di Roma erano tanto pieni di infermi che non avevano luochi e così li poveri lavoratori forestieri si trovavano per le strade molti erano abbandonati et spesso se ne trovarno morti», Archivum Romanum Societatis Jesu (ARSI) Rom. 127, I, gf. 209.

65 Ibidem, p. 91.

66 Ibidem p. 92, nota 101: Roma, Biblioteca Lancisiana, Collezione Cortelli, II, 14 e m vanti, Un umanista del Cinquecento in funzione di riformatore, Bernardino Cirillo commendatore e maestro generale dell’ordine di S. Spirito (1556-1575), Roma, Tip. Poliglotta Cuore di Maria, 1936 p. 120.

67 n. del re , L’ abate Sacco ed una migliore magistratura romana, «Studi romani», 3 (1955), pp. 11-26 citato da fiorani, Religione e povertà, p. 92 nota 102.

68 Ibidem, p. 93, nota 104 ove sono riportate le parole di Petrocchi citate nel testo.

La città dunque spinge fuori delle sue mura i poveri verso la campagna, perché trovino mezzi di sostentamento, ma è poi restia a riaccoglierli nonostante le disposizioni emanate a favore «degli operarii ammalati della campagna romana». Roma si difende dalla pressione proveniente dalle campagne, non solo a proposito dei poveri, ma anche dei briganti che infestavano l’agro romano. Persegue anche una politica economica fondata sul privilegio, ovvero sulla protezione delle esigenze della città a detrimento dei consumatori rurali 69. Manca quasi totalmente la cura pastorale da parte delle autorità delegate come i cappellani; cura che viene svolta dai nuovi ordini religiosi, quali i gesuiti, i barnabiti, i cappuccini, i lazzaristi, che hanno preso coscienza delle condizioni dei poveri abbandonati, e soprattutto afflitti da una grave ignoranza religiosa e da comportamenti morali riprovevoli. Occorreva quindi rimediare anche a queste deficienze religiose e morali con una educazione religiosa adeguata70. Fiorani sottolinea quindi l’opera meritoria di questi predicatori che, nell’affrontare l’opera di catechizzazione e di istruzione religiosa, non potevano non prendere atto, allo stesso tempo «delle penose condizioni di vita (…) di un contesto sociale dominato da strutture feudali incredibilmente arretrate (…)»71 .

Vediamo allora quale era il rapporto tra i poveri e la città o meglio, quale era la politica assistenziale attuata nella città a favore dei poveri. Intanto, occorre ricordare che il contesto antropologico e teologico di riferimento era comunque rappresentato dai princìpi posti dal Concilio tridentino e si incentrava su due percorsi: il primo riguardava il «processo di assestamento delle confraternite che (…) incrementano le finalità caritative e raffinano le tecniche di intervento». Il secondo riguarda il tentativo di unificare gli interventi caritativi con la creazione di un unico centro di accoglienza per i mendicanti, che ebbe inizio sotto i pontificati di

69 Ibidem, p. 93, nota 107.

70 Ibidem, p. 95, nota 111.

71 Ibidem, p. 96, nota 112 ove si riporta il seguente episodio: «Qui si tratta di una povera donna (…) essendo stata quindici anni in peccato mortale, ogni volta ch’era gravida ammazzava il figlio, strozzandolo, gettandolo per li fiumi, altre volte nascondendolo dentro gl’alberi, turandoli con il terreno, ne mai si confessava di tal peccato; ma alla predica un giorno a caso, sentendo riprendere l’ammazzar li figlioli quant’era grave peccato, compunta grandemente venne a trovare il predicatore, fece una confessione generale, con grandissimo proposito di mutar vita». In ARSI, Rom. 127, II, f. 354. La relazione si riferisce al 1599. Cfr. anche p. 97, secondo Fiorani quale fu la risposta della città a problemi di tale drammaticità.

Gregorio XIII e Sisto V, e che continuò con Innocenzo XII senza peraltro arrivare ad una soluzione72.

In questo quadro si pone l’assistenza romana di cui il Fiorani pone in evidenza alcune personalità di rilievo che operarono in questo settore. L’ attività benefica partiva da un censimento dei poveri effettuato dai parroci, su sollecitazione delle autorità diocesane, con relazioni, quale quella citata da Fiorani relativa all’anno 1625 del Giubileo, ove si esponevano critiche nei confronti dei poveri, che disturbavano i pellegrini e i devoti che affollavano le chiese. Ciò che emerge in queste relazioni è risentimento e fastidio «che solo raramente lasciavano spazio a qualche inflessione di vera pietà»73. E in questo senso si esprimeva anche il parroco di S. Pietro, le cui parole sono citate nel testo, senza che vi fossero tentativi per programmare interventi per sanare una simile situazione. Fiorani ricorda tuttavia la relazione del parroco di S. Maria del Popolo, che al contrario di altre, sottolinea i pessimi trattamenti inflitti ai poveri da parte degli ospedali o da parte di quei parroci che «tengono gli sbirri in chiesa per impedire l’accesso agli accattoni», come nel caso del parroco di S. Maria sopra Minerva74.

Comunque, i censimenti descrivono le diverse categorie di appartenenza dei poveri che comprendono i ‘poveri industriosi’ ossia gli artisti poveri, che non lavorano, le classi povere ‘necessitose’ che sono miserabili, le famiglie che vivono dell’elemosina del papa, i residenti in alberghi e locande, i putti inferiori ai dieci anni, e le meretrici. Sono indicate le famiglie ‘ricche’, quali i nobili, tra le quali la famiglia Orsini, ricchi ecclesiastici e funzionari di Curia, artigiani famosi, avvocati, diplomatici. Circondati da una maggioranza di popolazione povera, vedove, vecchi, manovali senza lavoro75.

Molti di questi poveri soggiornavano nella «casa santa delle Scalette incontro la porta grande della Pace»76, un’istituzione che raccoglieva gruppi di devote romane, ma di cui ancora sappiamo assai poco. Ne emerge un quadro segnato da forti dislivelli sociali, la minoranza dei ricchi e la maggioranza priva del necessario. Da notare, come sottolinea Fiorani che il quadro sociale oggetto dello studio è arricchito dai documenti che testimoniano gli interro-

72 Ibidem, p. 97.

73 Ibidem, p. 98, nota 114 che si riferisce alla relazione del 1625 conservata nella Biblioteca Nazionale di Roma, ms. Vittorio Emanuele 630, Fedi et sottoscrizioni di molti parocchiani per il disturbo che danno li poveri nelle chiese et che periscono per le strade di necessità senz’aiuto alcuno in Roma, ff. 105-113 (v).

74 Ibidem, p. 99.

75 Ibidem, p. 100 gatori condotti dai funzionari degli ospizi nei vari rioni romani, per accertare l’entità dei beni posseduti. Ne deriva che il povero «è chi non ha e non possiede alcunché di suo, e per questo dipende fin nelle piccole cose dagli altri»77

76 Ibidem, p. 101, nota 122.

Come si è già rilevato le confraternite cinque-secentesche sono in una posizione di continuità ma anche di rinnovamento rispetto alle esperienze del passato78. Si tratta della ricerca di vie più dirette alla partecipazione dei mali e della degradazione della società, mossa da un reale amore per la città.

Fiorani cita un passo tratto dall’esordio degli statuti delle congregazioni di carità che poi darà vita all’Ospedale dei Pazzi79 ove si descrive come alcuni uomini di buona volontà si siano adoperati per fornire un rifugio ai poveri abbandonati nella strada: «così nasce una organizzazione di carità sullo scorcio del ’500» che da individuale e privata assume connotati sempre più di valenza pubblica, ove prevale l’attenzione per gli aspetti amministrativi e istituzionali, ma che, proprio per questo lentamente finisce per allontanarsi dallo spirito primitivo.

Due sono le opere ricordate da Fiorani poste a confronto: Il Trattato sulla visita e sull’assistenza ai carcerati poveri di Giambattista Scanarolo e l’Euseuologio di Carlo Bartolomeo Piazza80

Per quanto riguarda lo Scanarolo, nel suo scritto fornisce informazioni preziose sulla condizione di una «forma emergente di povertà, quella del carcerato che non ha da pagarsi il riscatto», mentre il Piazza si sofferma sulla distinzione tra veri e falsi poveri81.

Lo Scanarolo concede pietà e assistenza anche a coloro che mentono e simulano, perché la povertà a suo avviso è sempre un fatto penoso, che non di rado si trasforma in degrado morale e quindi nella menzogna, mentre il Piazza sente il dovere di smascherare chi mente, ispirandosi ai principi tridentini che suggeriscono il controllo sui bisogni, ma anche sulla falsità e la menzogna e di «sgomberare il terreno del pauperismo dall’equivoca e affollata categoria della falsa povertà»82

77 Ibidem, nota 126 e p. 102. A p. 103 la Tabella dei poveri dei rioni Regola, Ponte, Trevi per l’anno 1670.

78 Ibidem, p. 104 nota 130. A parere di Fiorani la storia confraternale non è ancora uscita dalla penombra in cui una certa romanistica e una certa spicciola storiografia l’hanno confinata, spesso limitando le ricerche ad aspetti folkloristici «quando invece sono state la struttura portante di tutta la realtà associativa romana».

79 Ibidem, p. 105 nota 131.

80 g scanarolo, De visitatione carceratorum libri tres. Quibus omnia ad visitationem, patrocinium et liberatione carceratorum spectantia explanatur, Romae, RCA, 1655 e successive edizioni, in fiorani, Religione e povertà, p. 106 nota 133 e c b piazza, Euseuologio romano, overo delle opere pie di Roma, in Roma, a spese di F. Cesaretti e Paribeni, 1698, p. 199, Lettera d’informazione delle qualità e condizioni del signor abate C. B. Piazza scritta ad N.N., in Roma 1696, ivi, nota 134.

81 fiorani, Religione e povertà, p. 107.

A parere di Fiorani le due diverse opinioni espresse dallo Scanarolo e dal Piazza esprimono «le fluttuazioni di una sensibilità comune», ma anche «le preoccupazioni, le incertezze dei rimedi proposti e della confusa politica assistenziale sempre oscillante tra una prospettiva pietistica e il pesante ricorso a metodi più propriamente repressivi e polizieschi»83.

Il problema della valutazione e del controllo del pauperismo in aumento, che è ormai vissuto come un problema sociale, non appartenente esclusivamente alla sfera privata e religiosa, si riflette sulla organizzazione delle confraternite che tende a modificarsi. Un esempio di questo fenomeno è rappresentato dalla Congregazione del soccorso dei poveri, istituita nel 1602 presso la parrocchia di S. Lorenzo in Damaso, per decisione del parroco e di alcuni devoti84, con l’intenzione di dare alla carità «uno sbocco più calibrato ed intelligente». Il quale, afferma Fiorani, «doveva cominciare dal prendere coscienza della realtà, ovvero (…) da un esatto rilevamento delle varie forme di indigenza. In questa ottica si colloca una confraternita che «occupa un posto di grandissimo rilievo nella storia del pauperismo romano», la Confraternita dei XII Apostoli, fondata nel 1553 da Ignazio di Loyola, il cui fine specifico, posto dallo statuto, era quello di «havere cura delli poveri vergognosi e infermi». Negli statuti sono indicati i criteri per individuare le categorie da soccorrere, che sono in primo luogo «gli artisti che hanno botteghe o che stanno nelle case loro con moglie e figli e simili»85.

Emerge così attenzione nei confronti dei poveri che sono tali non a causa dell’ozio o del rifiuto del lavoro, ma per disgraziate congiunture economiche o per circostanze sfavorevoli che hanno determinato la perdita del lavoro: questo era considerato il vero povero, che dava garanzia del suo status. Di conseguenza si escludono dalla categoria dei poveri bisognosi di assistenza, i mendicanti, le lavandaie, «donne che vadano mendicando per mercede, e sopra il tutto nessuna sospetta per conto di onestà». Sono anche esclusi i

82 Ibidem, p. 108, nota 139 ove si cita di c b piazza, Opere Pie di Roma, descritte secondo lo stato presente, Roma, G. B. Bussotti, 1679- fanciulli minori di otto anni, perché potrebbero essere accolti in ospedali, a differenza delle fanciulle nobili «non convenendo loro l’ospedale» e le «donne infantate di buon vita e fama»86

83 Ibidem, p. 109.

84 Ibidem, p. 110 nota 142. Da notare che si tratta di un caso particolare, dal momento che solitamente vi era concorrenza tra l’istituzione parrocchiale e l’ente confraternale.

85 Ibidem, p.110-111, nota 143 contenente informazioni sulle origini e sulla storia della confraternita, e nota 145 contenente istruzioni per il conseguimento dei fini assistenziali.

Come ultimo esempio di questa attività Fiorani ricorda la confraternita della SS.ma Annunziata alla Minerva, fondata dal card. Torquemada nel 1460, che assicurava l’erogazione di doti secondo le disposizioni statutarie. Si ricordano in particolare le regole poste negli statuti del 1614, descritte da Fiorani come «una stizzosa elencazione di circostanze del vivere quotidiano che avevano il potere di trasformare una donna povera in una donna perversa e perciò oltre che indegna di elemosine, meritevole di essere segnata a dito»87.

Si tratta di regole dettate da un moralismo intransigente e privo di spirito caritativo88. In questa ottica il vero povero non è chi vive poveramente, ma chi, pur vivendo in povertà, segue comunque regole di condotta ispirate alla assoluta trasparenza etico-religiosa.

Si arriva così all’ultimo grande intervento antipauperistico della fine del Seicento: l’Ospizio Apostolico, termine con il quale Innocenzo XII intendeva raggruppare sotto un’unica amministrazione tre preesistenti istituti, ovvero l’ospizio lateranense nel quale venivano ricoverate le zitelle e gli invalidi, l’ospizio di San Sisto per gli invalidi e gli anziani, e il S. Michele per i ragazzi89

Si tratta di un intervento volto a «restringere i poveri mendicanti in un solo luogo» per meglio provvedere alle opere di carità, dal momento che il problema della mendicità e del vagabondaggio non era stato risolto e anzi si andava aggravando, proprio perché gli interventi di beneficenza, frazionati in innumerevoli iniziative attuate da una quantità di istituti che agivano senza coordinamento, moltiplicavano le spese di gestione e polverizzavano le poche elemosine disponibili. Fiorani osserva comunque che l’Editto del card. vicario Carpegna del 2 ottobre 1692, si intitolava non a caso «sopra la reclusione dei poveri», perché esprimeva quella che era la vera intenzione delle autorità competenti, togliere dalla vista la massa dei poveri che rappresentava un disturbo per la comunità cittadina90.

86 Ibidem, p. 112, note 147 e 148.

87 Ibidem.

88 Ibidem, p. 113 ove si trova l’elenco delle fanciulle escluse dalle doti.

89 Ibidem, pp. 114 sgg., nota 153 con riferimenti bibliografici; la bolla di erezione Ad Exercitium Pietatis è del 20 maggio 1639.

90 Ibidem, p. 115 nota 154.

L’ Ospizio apostolico, voluto e fondato da Innocenzo XII nel 1693 rappresenta l’assistenza organizzata e controllata dallo Stato «in cui si fanno sentire le ragioni della pietà ma ancor più forti le esigenze di un rigido disciplinamento». Fiorani descrive i nuovi orientamenti caritativi, come emergono da uno scritto di André Guevarre, fondati sulla critica alla gestione sino ad allora affidata, a suo avviso, ad incompetenti, che «avevano fomentato un costume di accomodamento e di rinuncia negli indigenti certamente più avvilente dell’indigenza stessa», trasformando il povero in una figura infingarda e detestabile, senza riconoscenza per i benefattori. «L’ esercizio del mendicare in Roma dirsi poteva una scuola di furto, d’impurità, di bestemmia, di sfrenatezza e d’ogni sorta di abominazione», afferma il Guevarre e non manca di criticare la gestione dei precedenti ospizi91

La soluzione proposta di raccogliere tutti i poveri in alcuni ospizi, ma unitariamente gestiti ed amministrati, implicava comunque l’abolizione dell’accattonaggio e l’espulsione dei riottosi, ma anche l’emergere di una configurazione del povero, che resta una creatura disgraziata che occorre aiutare, ma che occorre anche liberare «dalla falsa compassione dell’elemosina e poi da rieducare con il lavoro, la disciplina e un’intensa pedagogia religiosa». Si delineano cioè preoccupazioni di ordine politico-sociale che cercano risposte non tanto nella carità, ma nella applicazione delle leggi per la tutela dell’ordine pubblico e che avrebbero determinato vantaggi «per il pubblico, i poveri e i ricchi». In che senso? Per il pubblico perché con l’abolizione della mendicità si sarebbero recuperate potenziali forze lavoro da utilizzare «come buoni servitori, buone serve e buoni operarii per la città». Per i ricchi, perché la loro elemosina avrebbe avuto un obbiettivo più preciso e una distribuzione più razionale, e infine per i poveri, che avrebbero usufruito anche di aiuti spirituali, di sostegno religioso e fideistico92.

Il percorso dell’istituto che vide la luce nel 1692, secondo Fiorani, fu ispirato dalla teorica e dalla prassi adottate nella Francia al tempo di Richelieu, ma soprattutto all’azione dei due padri filippini Mariano Sozzini93 e Francesco Marchesi94, considerati precursori di una concezione rigoristica e di disciplina per la gestione del pauperismo e della mendicità, con progetti sul «modo di togliere il birbante (il mendicante fraudolento) con metodi di coercizione come la clausura e il lavoro coatto nelle galere». Non mancano poi relazioni di parroci, monaci dei conventi e membri di confraternite, sollecitate dal card. Vicario al tempo di Clemente X, concernenti il modo di affrontare la povertà. Le risposte sono convergenti sulla necessità di individuare un luogo unico per accogliere i poveri, un ospizio unico ove convergere le elemosine raccolte nelle parrocchie e delle quali il parroco era responsabile, che ospitasse i poveri, per liberare la città dall’assedio ormai intollerabile dei poveri95.

91 Ibidem, p. 116 nota 156 concernente a. guevarre, La mendicità proveduta nella città di Roma coll’ospizio publico fondato dalla pietà e beneficenza d nostro signore Innocenzo x II p. m. con le risposte all’obbiezioni contro simili fondazioni, In Roma, nella stamperia di G. G. Komarek, 1693.

92 Ibidem, p. 117.

93 Ibidem, p. 118 nota 164 con informazioni biografiche sul sacerdote senese che può essere considerato un anticipatore della soluzione dell’ospizio unico.

94 Ibidem, p. 119. nota 165 informazioni sull’oratoriano Francesco Marchesi.

Peraltro Fiorani sottolinea che l’accoglienza a questa proposta da parte di chi era direttamente interessato fu estremamente tiepida se non ostile: «…aspre critiche cominceranno ad affiorare negli stessi ambienti curiali che mettevano il dito sui punti deboli dell’istituzione»96, in particolare a proposito della replica alla critica che ai giovani ricoverati veniva fornito un vitto scarso. La risposta fu: « (…) si è creduto necessario un trattamento frugale, perché le ragazze per non haver dote, dovendosi maritare a gente povere e che devono guadagnarsi il pane con le loro fatiche che, se fossero assuefatte a vivere con abbondanza e delicatezza difficilmente sariono state d’accordo con li loro mariti, e più difficilmente si sarisano anche trovate da maritarsi, e li ragazzi mai si sariano potuti accomodare a i patimenti che richiederà il vivere con le proprie braccia»97. Senza contare gli episodi di fuga, quale quello segnalato dall’ospizio di S. Giovanni in Laterano98. La ragione era il rifiuto di un soccorso offerto con severità arcigna e rigorosa e la ricerca di libertà e di calore umano. Fiorani conclude questa vicenda dell’ospizio unico descrivendo un contesto rappresentato da «un modello di povero e di povertà costruito dalle leggi, dai teorici, dai filantropi, (quindi astratto) e un povero in carne ed ossa che è restio a ritrovarcisi, che recalcitra e addirittura tenta di sfuggire alle maglie in cui lo si vorrebbe imprigionare». Una sorta di battaglia che non ebbe esiti risolutivi, se non nel secolo XVIII, e che Fiorani riconduce alla posizione già vista in precedenza di Camillo De Lellis, di cui riporta alcune riflessioni99.

95 Ibidem, p. 120.

96 Ibidem, nota 171.

97 Ibidem.

98 Ibidem, nota 172.

99 Ibidem, p. 121 nota 175. Così risponde il De Lellis a chi gli faceva osservare che «certi poveri erano ribaldelli che avevano abusato della carità: “…ma dunque, fratello, non considerate voi, in questi poveri, altro che quei quattro stracci che loro vedete addosso? E

Al povero ribelle e insofferente la letteratura devota contrappone il ‘povero santo’, il cui modello è rappresentato da due poverissimi e oscuri mendicanti, Angelo Fiorucci e Bartolomeo Tanari100, della prima metà del Seicento, che passarono gran parte della loro vita nell’ospizio di S. Sisto, il cui comportamento mostra quale doveva essere il comportamento del povero virtuoso ‘devoto e pio’, «contento del suo stato e disponibile a leggere in chiave spirituale il senso delle sue privazioni»101.

A parere di Fiorani, questo era il punto d’arrivo della letteratura devota e della mentalità ricorrente: il santo povero, espressione «delle infinite sofferenze che la città infliggeva, delle malattie, delle varie forme di disoccupazione o di sottoccupazione, della fame vera e propria che nessuna provvidenza riusciva a sconfiggere, un motivo di elevatezza spirituale ed eventualmente di santità»102. Tuttavia, si evidenzia anche l’aspetto del rapporto del povero con il potere, rappresentato in questo caso dal «delizioso cicaleccio di principesse e di donne titolate che invadono le corsie di un ospizio e fanno ressa attorno ad un disgraziato in fama di santità, per sollecitarne qualche consiglio da opporre ai loro fragili affanni»103. In questa ottica la povertà perde la sua durezza carica di dolore e sembra trasformarsi in una occasione di esibizione sociale a vantaggio di alcuni soggetti privilegiati. E non a caso si riscontra una certa coincidenza con la trattatistica coeva sull’argomento della povertà e sull’elemosina come mezzo per salvarsi l’anima, concentrando l’attenzione sulla beneficenza e sulla valutazione del superfluo, affidata alla totale discrezione dei ricchi, «i quali», come rileva Fiorani, «naturalmente non avevano difficoltà a fare appello a tutte le ragioni più serie per non dare, per dare poco, e ad ogni modo per dare in base a valutazioni inevitabilmente misurate dei loro beni, e di ciò che di essi poteva essere considerato il superfluo»104. Eppure, a questa tendenza conservatrice, si contrappongono figure di alta qualità morale, come Giuseppe Calasanzio, che intraprese una azione educativa volta ad aiutare i poveri ad istruirsi per uscire dall’immobilismo in cui li condannava la concezione passiva del loro non riflettete che sotto di quegli stracci potrebbe essere nascosta la persona di Gesù Cristo, come avvenne a s. Gregorio che più volte diede l’elemosina ad un angelo pensando che fosse un povero?”». status sociale, per combattere quindi l’analfabetismo, l’ignoranza e il pericolo della criminalità, avendo constatato «che né i maestri rionali né le scuole tenute da religiosi erano in grado di raccogliere questi figli dei poveri»105 Aiutato da semplici preti e parroci, egli riuscì a fondare nel rione Trastevere, presso la parrocchia di S. Dorotea, una scuola aperta all’accoglienza verso tutti i bambini e giovani che non potevano accedere all’istruzione per mancanza di mezzi. Egli fondò quindi «la prima scuola popolare gratuita d’Europa». Poiché l’istruzione era privilegio delle classi più abbienti, ampliò poi la sua azione educativa con l’apertura di altri istituti scolastici, tra cui l’Autore ricorda l’istituto Nazareno di Roma. Fondò anche un ordine religioso, riconosciuto dalla Chiesa come Ordine dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, i cui membri si chiamarono Scolopi. Fiorani sottolinea infatti il ruolo della religione, ma si potrebbe dire del modo di intendere la religione di alcuni personaggi di animo nobile che hanno vissuto direttamente e con partecipazione la povertà intervenendo per portare solidarietà ed effettivo sollievo alle sofferenze dei tanti poveri della città106.

100 Ibidem, p. 122 ssg., note 176, 177.

101 Ibidem, p. 123.

102 Ibidem, p. 128.

103 Ibidem.

104 Ibidem, p. 129, nota 189.

4. Lo Stato e la Chiesa: conflitti e rivendicazioni sulla gestione della beneficenza

Diverso è il contesto cronologico di riferimento del secondo saggio su cui abbiamo soffermato l’attenzione in ordine alla ricerca svolta da Fiorani sul rapporto tra le confraternite e lo Stato italiano107. Di conseguenza è diverso il contesto storico, politico e sociologico nel quale le confraternite hanno svolto la loro opera.

L’ Italia, sulla spinta dei moti risorgimentali e delle guerre vittoriose, nel 1861 si era unificata nella configurazione del Regno, sotto la guida di Vittorio Emanuele II. Restava aperto il problema di Roma, ancora capitale dello Stato pontificio, ridotto al Lazio, quindi del rapporto con la Chiesa che non riconosceva la legittimità del governo sabaudo, definito ‘intruso governo’. Siamo in presenza quindi di una fase di transizione durante la quale si andava consolidando la struttura istituzionale dello Stato italiano, considerato dal pontefice una minaccia nei confronti dello Stato pontificio ormai in declino. Il 1870, con la presa di Roma da parte dell’esercito italiano, segnò la fine del potere temporale e un nuovo assetto istituzionale della città che divenne la capitale del Regno e il papa confinato per sua volontà nel

105 Ibidem, nota 190.

106 Ibidem, p. 131.

107 fiorani, Discussioni e ricerche, cfr. la nota 3.

Vaticano. In questo contesto Fiorani pone la questione delle confraternite connesse alla attività di beneficenza, e l’intervento dello Stato italiano che intese riorganizzare quel settore di grande importanza per la ripercussione che poteva avere nell’opinione pubblica.

In prima istanza Fiorani non manca di rilevare che la storiografia sull’associazionismo confraternale, concernente il periodo indicato, nonostante la complessità e la ricchezza del tema, per le implicazioni e i suggerimenti del contesto in cui si pone, pur essendo abbondante, fu in realtà notevolmente superficiale ed approssimativa. «Si tratta» egli osserva «salvo una parte assai esigua, di saggi e articoli molto rapidi, comparsi su periodici romani e sulle pagine dei quotidiani. Il loro taglio, la loro misura sono dunque rivolti a soddisfare la spicciola curiosità dei lettori, con molte concessioni ad elementi coloriti ed aneddotici. Spesso sotto questi brevi scritti si cela una rara competenza, ma per la maggior parte si tratta di letteratura molto modesta, costruita su fonti di seconda e terza mano, ferma alla superficie più banale e abusata dei fenomeni storici»108.

Fiorani osserva che tale fenomeno deve in gran parte essere ricondotto alla fase di transizione dallo Stato pontificio allo Stato italiano109, transizione che aveva prodotto un mutamento nella cultura, più aperta a suggestioni laiche e scientifiche e più recettiva rispetto a contrapposizioni etiche o utilitaristiche sulla funzione del potere pubblico statale nella gestione, in particolare, della attività di beneficenza, sulle circostanze che ne avevano garantito la funzione e lo sviluppo, ma anche il giudizio sulla loro configurazione.

Per quanto riguarda la pubblicistica a sfondo ecclesiastico e confessionale, Fiorani cita il saggio del cardinale Carlo Luigi Morichini110, che a suo avviso, rappresenta «l’espressione più significativa, anche se in termini assai misurati, di una mentalità legata al vecchio mondo curiale e papalino, e degli umori che la caduta dello Stato pontificio aveva contribuito potentemente ad alimentare»111 , quindi una contrapposizione «all’espandersi di una cultura impregnata di fermenti laicisti ed anticlericali», per dimostrare che «la carità e la sollecitudine verso i problemi della città terrena erano state efficacemente praticate laddove non erano attecchite le cattive radici delle ideologie moderne».

108 Ibidem, p. 11 nota 1.

109 Ibidem, p. 12 nota 3.

110 Ibidem, p. 13 nota 5 ove è citato c. l. morichini, Degl’istituti di carità per l’assistenza e l’educazione dei poveri e dei prigionieri, Roma, ed. Novissima, 1870.

111 Ibidem, p. 14 nota 7 ove rinvia al saggio che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti.

Il saggio del cardinale Morichini ebbe diverse edizioni, che videro la luce tra il 1835 e il 1842, quindi ancora sotto il regno di Pio IX. Vi erano descritti i diversi settori di intervento della beneficenza, vale a dire il settore sanitario, quello per l’ospitalità ai forestieri e ai pellegrini; il settore che comprendeva orfani, vecchi, poveri vergognosi, donne nubili; la questione dell’istruzione elementare e catechistica dei ceti popolari; e, non ultima, la difficile realtà carceraria della città. Come rileva Fiorani, il Morichini intendeva descrivere nel modo più aderente possibile alla realtà le strutture assistenziali esistenti, completate da «ampie disquisizioni teoriche sulla base di una buona conoscenza della letteratura assistenziale italiana e straniera»112. Ma solo nell’edizione definitiva del 1870 l’opera risulta terminata e completata da considerazioni di contenuto, che potremmo definire ‘politico’, con riferimenti alla ‘tristezza dei tempi’, nell’intento di confutare «le idee false su Roma che si teme da alcuni come luogo di miseria e di ignoranza», esaltando invece la funzione fondamentale della Chiesa nella organizzazione delle opere di carità e di beneficenza.

Peraltro, Fiorani non manca di rilevare che il Morichini si sofferma, a proposito delle confraternite, sulle caratteristiche della società ottocentesca, indicando quelle che erano riuscite a svolgere il loro ruolo nell’ambito della società in evoluzione, finendo per «assumere talora, il ruolo di vere e proprie strutture pubbliche»113. Una trasformazione che aveva finito per distogliere quelle associazioni dallo scopo originario, basato esclusivamente sulle religione e sulla carità, per privilegiare invece una attività sociale e amministrativa.

Nei settori su indicati, ove si poneva la necessità di interventi caritativi, erano attive confraternite particolari. Ad esempio, nella realtà sanitaria romana vi era la confraternita della Trinità dei Pellegrini e Convalescenti, unica istituzione confraternale ad amministrare un ospedale. Fondata da San Filippo Neri nel 1548, era riuscita nel tempo a dare assistenza, cibo gratuito e rifugio a folle enormi di pellegrini bisognosi114.

Il Morichini elenca alcune confraternite che ebbero particolare rilevanza nei settori in cui operarono. Così la confraternita dei Dodici Apostoli e Confraternita dei Nobili Aulici per i poveri vergognosi, sia pure ormai in una fase di decadenza, come anche la Congregazione degli Operai della Divina Pietà, invece in pieno sviluppo. A cui si aggiunge la Confraternita della Dottrina Cristiana115 per la catechesi, inoltre le confraternite di San Girolamo della Carità, di San Giovanni Decollato, della Pietà dei Carcerati per il sostegno ai carcerati romani, delle quali il Morichini mette in evidenza la funzione di intervento e di controllo sul disordine delle strutture carcerarie, e per mitigarne le misure talvolta disumane, riferendosi agli scritti del giurista secentesco Scanarolo, «autorevole esponente della Confraternita di San Girolamo»116.

Tuttavia, a parere di Fiorani, il contributo del Morichini alla storia delle confraternite è piuttosto modesto.117 Perché? In primo luogo perché il Morichini si è limitato ad attingere alle opere di storici e compilatori di curiosità romane quali il Fanucci, l’Ameyden, il Piazza, senza introdurre riflessioni critiche o discussioni su quanto veniva affermato, limitandosi ad aggiungere dati desunti da Bolle pontificie, statuti, documenti ufficiali, e qualche raro documento d’archivio consistente nelle relazioni di Visite Apostoliche. Ciò che si coglie, come Fiorani sottolinea, è l’intento di valorizzare la struttura assistenziale al tempo di Pio IX e indirettamente, solo alla fine del volume, la preoccupazione per i tempi nuovi che si annunciavano. In qualche modo, e paradossalmente «il Morichini registra e sollecita l’emergere delle prime formule dell’associazionismo laicale moderno, che condanneranno quelle antiche ad un inesorabile declino»118.

Altro saggio segnalato da Fiorani è quello dell’avvocato francese Léon Lallemand, pubblicato circa un decennio dopo quello del Morichini, ove si descrive una storia della carità nel mondo cristiano. Lallemand esprime comunque lo stesso atteggiamento critico del Morichini nei confronti dell’ambiente romano in fase di laicizzazione e di anticlericalismo per iniziativa del governo italiano e «verso le drastiche misure adottate nei confronti delle istituzioni religiose»119. Pagine dalle quali emerge, come rileva Fiorani, prioritariamente la funzione affidata alle confraternite e alle associazioni laicali di sostenere l’opera di carità cristiana che era stata loro affidata, verso una città non più impregnata di valori religiosi come Roma era sempre stata, ma «sorda, ostile, guidata da princìpi che non solo mal si conciliavano con l’istanza cristiana, ma addirittura si opponevano ad essa (…)»120.

115 Ibidem.

116 Ibidem, p. 18 nota 18.

117 Ibidem.

118 Ibidem, p. 19.

119 Ibidem, p. 19 nota 19 ove è citato l. lallemand, Histoire de la charité à Rome, Paris, Pussielgue frères, 1878.

120 Ibidem, p. 20.

Tra il 1860 e il 1890 si accese una discussione pubblica molto forte sulle confraternite, da parte del clero e delle autorità competenti. Intervennero «certo i pastori d’anime, i vescovi, i parroci» contro quella che consideravano una sorta di concorrenza da parte del potere statale, ma vi fu anche la partecipazione di giuristi, canonisti, burocrati e funzionari dei diversi uffici e ministeri, come anche di sociologi, tecnici della statistica, ragionieri e contabili. «Le confraternite sono divenute un caso nazionale, dai riflessi ideologici molto spiccati»121.

Intanto, già con la legge del 1862 lo Stato italiano aveva disposto l’eliminazione di ogni ingerenza ecclesiastica in ordine alle confraternite sottoponendole al controllo del governo, assimilandole così alle Opere Pie comuni. Nel 1877 il ministro dell’interno Marco Minghetti presentava una Riforma delle leggi sugli istituti di beneficenza. Circa dieci anni dopo, Crispi presentava un Progetto sulle istituzioni pubbliche di beneficenza, poi divenuto legge il 17 luglio 1890, che poneva ulteriori controlli governativi, ma anche «la trasformazione degli enti, ossia stabiliva la destinazione dei patrimoni ad altre finalità, pur restando intatta la personalità dell’ente». Con la successiva legge 20 luglio 1890 concernente le confraternite romane, si dispose che i patrimoni delle confraternite fossero indemaniati e le rendite destinate agli istituti di beneficenza della capitale, gestite dal Comune di Roma122. Provvedimenti che produssero inevitabili inasprimenti del conflitto tra lo Stato italiano, definito invadente e insaziabile dalla Chiesa, e i richiami del governo alle ragioni dello Stato sovrano, con l’intento di consolidare la laicizzazione della nuova Italia e potenziare le funzioni istituzionali, ma anche di sottolineare la realtà della decadenza di molte confraternite rispetto agli originari principi assistenziali123. Era diffusa la convinzione che le confraternite fossero «ridotte a gestire non già la pietà degli umili e i loro bisogni materiali, ma la cupidigia e le trame di piccole congreghe di associati, a farsi centri di interessi particolaristici, circoli chiusi che qualche volta applicavano a sé la beneficenza che l’ente doveva erogare per gli indigenti. Per cui lo Stato riteneva giusto avocare a sé tale competenza, perché occorreva una assistenza libera «da tutte le ingerenze che la teocrazia abbia potuto usurpare perché i soccorsi sono dovuti a tutti, non solo a coloro che frequentano le chiese». Perciò, anche in questo caso, occorreva applicare il

121 Ibidem, p. 21 ssg, note 25.

122 Ibidem, p. 22 nota 26 principio della separazione del potere temporale dallo spirituale sul quale si era fondato il diritto pubblico ecclesiastico del giovane Stato124.

123 Ibidem, p. 23. «Diceva Crispi: prendiamo le 9.464 (confraternite) che hanno un patrimonio: esse possiedono lire 302.167.205. Come si spende questo patrimonio? In beneficenza la parte minima».

Quali furono le repliche? Da parte della Chiesa ufficiale «fu pubblicata una lettera pastorale dai toni molto duri», vi furono interventi molto polemici da parte di parlamentari cattolici, e repliche anche da parte dell’opinione pubblica e di giornali quali L’ Osservatore Romano, Civiltà Cattolica, L’ Osservatore Cattolico, come anche da parte delle confraternite stesse. Si respingeva l’attacco indiscriminato alle confraternite che, in ogni modo, hanno sempre svolto opere di assistenza, con la convinzione «che noi facciamo meglio di loro». Si rilevava che invece l’assistenza praticata dagli enti pubblici era burocratica e fredda, senza il calore della pietà. La risposta era che la religione vissuta e proposta dalle confraternite non era vera religione, ma «superstizione pura e semplice, un ingannevole passatempo offerto alle masse più sprovvedute»125. Fiorani cita a questo proposito le parole del deputato ‘di ispirazione liberale’ Pisanelli il quale affermava «(…) Signori, il povero non si ricrea con laute imbandigioni , non ha balli, non teatri, le sue feste sono nelle chiese, e voi non avete il diritto di rapirgliele, e qualora l’aveste sarebbe esercitato con villania e barbarie, perché il povero non solo ritrae, da questi sodalizi, consolazione e conforto, ma ancora sentimenti d’amore e di pietà»126.

Alle leggi si aggiungevano indagini ‘conoscitive capillari’ per accertare l’entità dei patrimoni posseduti e la situazione giuridica di questi enti. Fiorani cita la Statistica delle confraternite con la quale si provvide alla soppressione di molte di quelle istituzioni, senza una adeguata valutazione delle tipologie confraternali a causa della difficoltà della loro identificazione, ma anche perché i funzionari che si occupavano della questione non avevano competenze a riguardo127.

A questo proposito, Fiorani cita Quirino Querini che traccia una storia della beneficenza romana, pubblicata nel 1892, ove si supera la concezione esclusivamente patrimoniale, e si evidenzia un orientamento dell’opinione pubblica convinta dell’inutilità della carità privata128.

124 Ibidem, nota 31.

125 Ibidem, p. 24.

126 Ibidem, p.25, nota 36. Il discorso di Pisanelli in Atti Ufficiali, 6 luglio 1867 p. 1202 cit. in f scaduto, Il digesto, VIII, I, p. 1034.

127 Ibidem, p. 27, nota 44 Statistica delle confraternite, a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e commercio, Direzione Generale della statistica, vol. I, Piemomnte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche, Lazio e Umbria, Roma 1982 affidata alla Direzione Generale della statistica, Statistica delle opere pie al 31 dicembre 1880 e dei lasciti di beneficenza fatti negli anni 1880-89. Spese di beneficenza sostenute dai comuni e dalle provincie negli anni 1880-87, VII, Lazio e Umbria, Roma 1890.

Nel percorso della storia delle confraternite, a partire dal pauperismo della società romana sino al sorgere dell’intervento del clero nel medioevo, sino alla formazione dello spirito associativo dei semplici fedeli, quindi delle confraternite laicali, «il Querini sottolinea bene la centralità della dimensione religiosa»129 e in particolare delle confraternite romane cinque – secentesche. Infine «giunge ai problemi di assistenza nella Roma di Pio IX e alla situazione delle opere pie romane dopo l’applicazione, nel 1870, delle leggi sulla beneficenza»130.

Il Querini è convinto, da liberale, «che lo Stato ha il dovere di gestire e di governare la materia della beneficenza, ma il problema è quello di individuare il modo corretto di esercitare questo dovere». A suo avviso, da giurista, «c’è un equivoco (…) nel credere che le istituzioni di beneficenza siano regolate soltanto da ragioni di diritto pubblico e non abbiano alcun rapporto con le norme di diritto privato». Sono invece il risultato di due coefficienti: la volontà privata che fornisce beni e scopo per determinare l’esistenza giuridica dell’ente, e l’atto formale, giuridico, del potere legittimo, ovvero della autorità competente, che nell’interesse pubblico lo riconosce e lo dichiara. Quindi bisogna procedere con cautela. La legislazione sulla soppressione indiscriminata delle confraternite era stata un atto improprio e non a caso aveva sollevato molte proteste: «fu ingiusta e impolitica». Occorreva invece riformarle con scopi più moderni e più civili, più adatti ai bisogni della società nostra131. Senza parlare delle confraternite romane costrette a devolvere le loro rendite al Comune di Roma. Esprime quindi una posizione a favore delle confraternite e contro una legislazione a dir poco impropria132.

Fiorani peraltro non manca di osservare che «la ricognizione del Querini è comunque opera di non grande rilievo: troppe pagine generiche, troppi interventi fantasiosi la indeboliscono e la rendono di scarsa utilità»133. Un contesto che trova riscontro nella Guida della beneficenza, che tuttavia, come

128 Ibidem, p. 29 nota 48 ove è citato q. querini, La beneficenza romana dagli antichi tempi fino ad oggi, Studio storico critico, Roma, Tipografia Tiberina di F. Setth, 1892, cfr. anche la p. 30 sullo stesso argomento.

129 Ibidem, p. 30 nota 5, cfr. anche il saggio precedente Religione e pauperismo, esaminato in questo saggio.

130 Ibidem, p. 31.

131 Ibidem.

132 Ibidem, p. 32

133 Ibidem, p. 33 osserva Fiorani dimostra che «l’elemento di maggior confusione è dato proprio dal rapporto, non chiarito, tra le confraternite e le istituzioni pubbliche di beneficenza (…)»134

Non mancò la reazione cattolica e le confraternite romane assunsero una posizione decisa a loro difesa. Le critiche riguardarono in primo luogo i punti deboli della legge 1890 prefigurando un contenzioso contro le autorità pubbliche. E in proposito non mancò il sostegno degli ambienti ecclesiastici e curiali più qualificati, compreso il papa Leone XIII, che nel dicembre del 1889 espresse «sia pure in termini moderati, la sorpresa e il disagio per le misure eversive progettate». Posizione assunta anche da L’ Osservatore Romano e da Civiltà Cattolica. In particolare L’ Osservatore romano segnalava il pericolo di intromissioni della massoneria che mirava ad impossessarsi dei patrimoni della Chiesa nell’indifferenza delle autorità pubbliche, e dei giornali monarchici «assorti tutti nella soddisfazione di far cosa ingiusta e ingrata alla Chiesa»135

La Civiltà cattolica, organo della Compagnia di Gesù difese con decisione le confraternite romane che meritavano «ben altro credito e riconoscenza di quanto non erano disposti a concedere altri settori dell’opinione pubblica». Oltre ad esprimere lo sdegno per la decimazione delle confraternite, il giornale si soffermava sulla vendita della Chiesa della Pietà in piazza Colonna, decisa dalla confraternita nazionale dei Bergamaschi su sollecitazione dei commissari regi, come anche sulla trasformazione del patrimonio della confraternita dei Fiorentini, sostenendo in particolare le accuse di ruberie e irregolarità nei confronti dei funzionari degli istituti di controllo136. A questo proposito si descriveva una seduta del Consiglio comunale del 10 aprile 1893, in cui la maggioranza liberale aveva approvato il passaggio di 33 opere pie dai parroci e dal clero nelle mani dei laici della Congregazione di Carità137.

Si apriva così una fase conflittuale, caratterizzata da vertenze, relazioni dei commissari regi, perizie e sentenze, come testimoniano i documenti allegati alla Relazione della Commissione istituita dal prefetto di Roma con

134 Ibidem, nota 59 Guida della beneficenza in Roma, Roma, Tip. dell’Unione Coop. Editrice, 1907; nota 60, e p. 34 nota 61; la citazione nel testo a p. 35.

135 Ibidem, p. 66 nota 65 ove è citato il discorso di Leone XIII nel concistoro del 30 dicembre 1889, inizialmente moderato, ma, con l’approssimarsi della approvazione della legge Crispi, con il ricorso ad espressioni quali «violenza nemica» che perseguita «gli ultimi avanzi dei beni ecclesiastici».

136 Ibidem, p. 37, le note 69 e 70 decreto 6 giugno 1904 sullo stato patrimoniale dell’Arciconfraternita di S. Carlo dei Lombardi , ma anche su altre confraternite nazionali138.

137 Ibidem, pp. 37 e 38.

In effetti, le controversie tra lo Stato italiano e le confraternite posero all’attenzione dell’opinione pubblica le confraternite, ma in termini riduttivi, se non addirittura negativi, dal momento che assumevano rilevanza gli aspetti patrimoniali, economici ed amministrativi mentre non si evidenziavano gli scopi della loro esistenza e il contesto religioso delle attività benefiche svolte139.

Occorre altresì aggiungere che nell’opinione pubblica dello Stato italiano, orientata verso una sempre più decisa laicità, le confraternite apparivano un relitto del passato, la loro presenza più ingombrante che benefica, dal momento che la difesa dei ceti bisognosi si riteneva raggiunta con i sistemi di sicurezza sociale e non con la religione e la carità140. Ricorda Fiorani che nel periodico laico La Nuova Antologia si affermava: «Basta con le dame di carità» dal momento che, nella nuova mentalità l’assistenza non era una questione religiosa, ma un dovere sociale ed un servizio pubblico141.

L’ Autore si sofferma poi sull’orientamento storiografico sulle confraternite posto in essere «da quella cerchia di storici e di ricercatori di cose romane – i romanisti appunto – particolarmente attiva tra gli anni venti-quaranta del nostro Novecento»142, per i quali il tema trattato si colloca nel contesto della città di Roma, punto di riferimento affettivo, storico, artistico. In questa ottica la storia delle confraternite si identifica con la storia della città, ne diviene una componente essenziale dal punto di vista sociologico e anche politico, oltreché religioso. In questa dimensione si colloca, tra gli altri citati, un breve scritto di Luigi Huetter, il quale, senza pretese di erudizione, tuttavia «in poche pagine riesce così ad evocare storia e leggenda delle confraternite, soffermandosi sulle forme espressive della loro pietà religiosa (…) e sulle manifestazioni più tipiche della loro attività (giustizie, rappresentazioni, morti di campagna) dalle quali traspare tutta intera la vena affettuosa del suo raccontare (…)»143.

138 Ibidem, p. 39 nota 77 con riferimento a g bonella, Relazione della commissione istituita dal Prefetto di Roma con decreto 6 giugno 1904 n. 22201 sulla arciconfraternita dei SS. Ambrogio e Carlo della nazione lombarda in Roma, Roma, Unione Cooperativa Editrice, 1907.

139 Ibidem.

140 Ibidem.

141 Ibidem, pp. 40 -41, le note 78 e 79.

142 Ibidem, p. 55 nota 114 ove l’Autore ricorda in particolare le opere di j. f.alonzo, Las Iglesias nacionales de España en Roma. Sus orìgines in Anthologica annua, 5, 1956, pp. 48-96 e id., Santiago de los espanoles y la archiconfradìa de la Santìsima Resurreccìon de Roma hasta 1754, ivi, VIII, 1960, pp. 279-329.

Non manca di citare anche altri autori che hanno affrontato il tema in oggetto144, comunque l’analisi svolta in ordine agli «esiti finali di questa serie di approcci» trova un suo punto di riferimento nel lavoro di Matizia Maroni Lumbroso e di Antonio Martini, che offre un quadro storico puntuale e approfondito dell’associazionismo laicale nelle sue varie manifestazioni, quali «confraternite, pie unioni, congregazioni, sodalizi aggregati a corporazioni, gruppi parrocchiali, funerari, assistenziali e così via», il cui fondamento è sempre costituito dalla pietà religiosa145. Fiorani sottolinea il merito di questa ricerca che rappresenta «uno strumento di lavoro prezioso» perché non si fonda esclusivamente su documenti ufficiali o fonti bibliografiche, ma coglie la realtà della vita quotidiana della città e dei suoi abitanti, ove appunto quei sodalizi svolgono la loro funzione benefica integrandosi nella società. Non manca tuttavia di osservare che sarebbe stato opportuno un maggiore approfondimento delle fonti archivistiche, riferendosi alle lacune riscontrate nella descrizione di confraternite quali quella dell’Annunziata, di Santa Maria sopra Minerva o la SS.ma Trinità dei Pellegrini146

Altrettanto interessante è il riferimento al rapporto tra arte e confraternita, approfondito dal Martini in un altro volume intitolato Arti mestieri e fede nella Roma dei Papi147. Si sottolinea la difficoltà di darne una esatta definizione, difficoltà prodotta dal rapporto tra le confraternite, le corporazioni, le università di arti e mestieri, e «quei gruppi religiosi che si erano formati all’interno di quei sodalizi e svolgevano la loro attività in stretto collegamento con essi». La difficoltà consisteva appunto nel legame tra confraternite e università: in alcuni casi il legame era rafforzato dalla esistenza di uno statuto unico per i due organismi, in altri caso le unioni del lavoratori e degli artigiani erano rappresentati solo dalle confraternite, con conseguenze problematiche non tanto dal punto di vista giuridico, ma della collaborazione148.

143 Ibidem, p. 56 nota 116 ove si cita l huetter, Le confraternite (Curiosità romane, I, 5) Albano, Fratelli Strini, 1927, pp. 63.

144 Ibidem.

145 Ibidem, p. 58 nota 122 ove si cita m. maroni lumbroso – a. martini, Le confraternite romane nelle loro chiese, Roma, Fondazione Marco Basso, 1963. Si segnala anche la dedica che apre il volume: «A Luigi Huetter romano studioso di Roma e delle confraternite».

146 Ibidem, p. 58 e 59.

147 Ibidem, p. 60 nota 124 ove si cita a. martini, Arti mestieri e fede nella Roma dei papi, Bologna, Cappelli, 1965 (Roma cristiana, XIII).

148 Ibidem, Fiorani osserva «che le confraternite “religiose” non differivano dalle altre, ma si trovavano talvolta in conflitto con “collettività” spesso riottose, intrise di spirito laico,

A parere di Fiorani, anche questo lavoro del Martini ha il merito di evidenziare i problemi che nascevano tra le confraternite e l’ambiente cittadino con le sue strutture economiche e i soggetti che operavano in quel settore, e il ruolo determinante della religiosità nelle sue manifestazioni private e pubbliche.

Ma Fiorani non manca poi di sottolineare le conseguenze della riforma tridentina, in particolare in ordine alle confraternite, pervase in quel periodo dall’ansia di una purificazione religiosa e spirituale «che stava diventando il pensiero costante di settori sempre più larghi della comunità ecclesiale»149, come è stato descritto da studiosi quali Gilles Gérard Meersseman e da altri studiosi, i cui lavori sono stati pubblicati nei quaderni del Centro perugino di documentazione e di studio dei Disciplinati150

Non solo. Fiorani aggiunge, tra i molti altri, il lavoro di Ludwig von Pastor sull’Oratorio romano del Divino Amore151, istituito a Roma dopo il primo decennio del sec. XVI presso la parrocchia trasteverina di Santa Dorotea152, di cui l’autore sottolinea con forza l’importanza dell’intenso spirito religioso che animava quel sodalizio, come anche tutte le strutture religiose del XVI secolo, che indicavano «col loro esempio la giusta via della riforma»153. Merita inoltre di essere citata anche la Storia della Compagnia di Gesù di Pietro Tacchi Venturi154 non diversamente ispirata allo spirito di rinnovamento religioso, quindi ai principi di quella religiosità ‘autentica’, che pervadeva la società del secolo XVI, opponendosi ai severi giudizi dei riformatori protestanti che descrivevano il «cattolicesimo ormai intimamente corrotto e disgregato»155.

Peraltro, al di là della importante rassegna bibliografica e dei nomi di prestigiosi studiosi citati, i cui lavori sono ampiamente approfonditi e ade- molto più impegnate nella difesa dei propri statuti e dei propri privilegi, che a dare corso alle mozioni interiori».

149 Ibidem, p. 62 guatamente esaminati, di rilevante interesse ci sembrano le valutazioni e i suggerimenti che Fiorani sottolinea a proposito delle nuove prospettive di ricerca e dei problemi ancora presenti nel settore delle confraternite. Emerge con chiarezza negli studi più recenti l’intento di porre in evidenza non solo o non tanto il fondamento religioso di questi enti, quanto il rapporto tra istituzione e contesto. Il che poi significa porre attenzione a quegli aspetti della storia religiosa che evidenziano la dialettica tra l’esperienza e la norma, tra la religiosità colta e quella popolare. La religione è al centro di questa nuova storiografia, ma non si tratta di una religione astrattamente e canonicamente definita, bensì di una religione che esprime i bisogni interiori dei singoli, che si incarna nella storia degli uomini e nel contesto in cui si esprimono156. Sono oggetto di attenzione e di approfondimento argomenti quali la morte, la malattia, le paure collettive, il pauperismo, l’emarginazione. Lo dimostrano alcuni contributi quali gli studi di Vincenzo Paglia, e gli Atti del Colloquio tenutosi nel 1982 alla Fondazione Caetani, pubblicati nel 1984, già segnalati all’inizio di questo saggio. Per quanto riguarda gli scritti del Paglia si coglie il rifiuto di considerare le confraternite come enti chiusi e lontani dalla storia collettiva, della società di appartenenza, considerandoli invece recettivi delle istanze provenienti dalla realtà in cui operano157. Egli descrive la Roma della seconda metà del ’500, affollata di pellegrini poveri e bisognosi, sino al Seicento, «che affronta con mentalità ostile e rigorosa un pauperismo ulteriormente accresciuto».

150 Ibidem, p. 63 nota 128 ove si cita g g meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collab. con P. Pacini, Roma, Herder, 1977, 3 volumi. Cfr. anche la nota 129 sulle pubblicazioni del Centro perugino di documentazione e di studio sul movimento dei Disciplinati.

151 Ibidem, p. 64 nota 130 ove si cita, a proposito dell’Oratorio del Divino Amore, l von pastor, IV, 2, Roma 1951, pp. 147-209.

152 Ibidem, p. 64.

153 Ibidem, p. 64 e 65.

154 Ibidem, p. 64 nota 131 ove si cita p. tacchi venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, II, Roma, Civiltà cattolica, 1950, pp. 147-209.

155 Ibidem, p. 66.

Nel volume La Pietà dei carcerati158, Vincenzo Paglia imposta la sua analisi storica sul rapporto tra la confraternita, istituita dal padre gesuita Jean Tellier nel 1575, confermata da Gregorio XIII nel 1579 «per assistere religiosamente e materialmente i detenuti delle carceri romane»159 e la città di Roma soffermandosi in particolare sugli aspetti più rilevanti e drammatici della emarginazione, rappresentati dalle carceri e dai carcerati, appartenenti alla categoria dei poveri. L’ ipotesi di fondo è che il pauperismo sia un fenomeno legato «alla disgregazione della società agricola tradizionale e accompagna la nascita della società capitalistica ed in essa anche l’origine del carcere moderno»160. Ipotesi su cui Fiorani è in disaccordo dal momento che, all’epoca non esisteva una società agricola e «una società capitalistica non ha mai avuto modo di attecchire»161. La descrizione di Paglia riguarda in particolare la popolazione carceraria, costituita anche da debitori insolventi definiti «lavoratori poveri carcerati per debiti»; sono essi che rappresentano il vero volto della povertà romana. Fiorani rileva che attraverso lo studio della realtà confraternale Paglia approfondisce in modo concreto e realistico la storia della società.

156 Ibidem, pp. 72 e 73.

157 Ibidem, p. 73 e 74.

158 Ibidem, p. 74 nota 155 ove si cita v paglia, La “Pietà dei carcerati”. Confraternite e società a Roma nei secoli x VI-x VIII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980 (Biblioteca di storia sociale, 11).

159 Ibidem.

160 Ibidem, p. 75.

In questo modo si superano gli schemi spesso troppo aridi della ricerca erudita e si analizzano le esperienze associative alla luce di realtà più profonde e coinvolgenti della città. In sostanza «Mi pare di poter dire che, attraverso l’indagine confraternale, si stanno ponendo le premesse per una storia interna, interiore della città (…)»162. In questa rappresentazione della realtà carceraria posta come metafora della esistenza umana, si configura lo scopo principale da raggiungere ovvero la conversione dal peccato163.

In un altro volume di Paglia del 1982 dal titolo La morte confortata164, si affronta invece la storia delle mentalità mediante lo studio sulle confraternite dedite all’assistenza spirituale dei moribondi e dei condannati a morte: la morte confortata era stata tra i pensieri dominanti delle confraternite medievali perché era dominante l’idea del giudizio finale e delle realtà escatologiche165. L’ intento era quello di indurre il peccatore in punto di morte alla conversione e al pensiero dell’Aldilà, e aiutare con la preghiera il terrore dei moribondi, rendendo la coscienza più vigile e consapevole dell’approssimarsi della morte, e non invece distoglierla da quei pensieri. Iniziativa ritenuta di particolare importanza per quanto riguardava i condannati, che conoscevano la data della loro morte166.

Proprio in riferimento a questo contesto drammatico, della morte non naturale, ma ‘corporale’, violenta, inflitta per via di giustizia si spiega, secondo Paglia, la diffusione, tra il secondo Cinquecento e il Seicento, anche a causa «della nuova religiosità tridentina»167, di confraternite dedite al conforto dei moribondi e in particolare dei condannati alla pena capitale, con la prospettiva della salvezza eterna. Sempre a proposito di questo tema, l’A. si sofferma sul Trattato utilissimo per confortare i condannati a morte per via di giustizia di Pompeo Serni168, confratello della compagnia della Buona Morte. Egli esamina lo scritto e mette in evidenza le tecniche della persuasione usate dal confortatore nei confronti del condannato e fondate sulle ragioni religiose. In questo senso «il vero fine della vita è la salvezza dell’anima: qualora si ha la fondata speranza di raggiungerla (…) non solo deve essere rassegnato, ma contento di tale sorte; non ve ne può essere di migliore»169. La collocazione ambientale, sociologica in cui si pone il problema della morte per via di giustizia nella Roma secentesca, secondo Paglia, induce alla considerazione che quella morte «si presenta con tutti i suoi riti, la più densa di significati personali, pubblici, morali e politici». A parere di Fiorani, si tratta di una riflessione che suggerisce l’intento di dare una sorta di giustificazione «a fatti che, per certi versi non potevano non apparire di una irrazionalità insormontabile»170. Per queste ragioni il concetto della morte inflitta come punizione per un crimine si trasforma in una «morte espiatrice, esemplare, motivo di ritorno a Dio per i peccatori (assimilati ai trasgressori della legge), pegno sicuro per la salvezza eterna, ma anche la via alla reintegrazione per coloro che un rigoroso sistema giudiziario e una schematica mentalità avevano emarginato dal contesto sociale»171. A parere di Paglia comunque, la funzione delle confraternite descritte era rappresentata non tanto da un ruolo di supporto al potere politico o ad una strategia di conservazione dell’ordine costituito, quanto piuttosto, e in misura maggiore, alla preoccupazione di prospettare la salvezza eterna, dando quindi prevalenza all’aspetto religioso.

161 Ibidem.

162 Ibidem, p. 76.

163 Ibidem, p. 77.

164 Ibidem, nota 162 ove si cita v paglia, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982 (Biblioteca di storia sociale, 13).

165 Ibidem.

166 Ibidem, p. 78.

167 Ibidem, p. 79 nota 164.

Un ulteriore e significativo approfondimento concernente il ruolo religioso e sociale delle confraternite laicali è stato affrontato, come Fiorani ricorda, nel già citato Colloquio sulle confraternite romane del 1982, i cui Atti, pubblicati nel 1984 testimoniano l’intento di affrontare il tema confraternale con una metodologia storiografica innovativa, prodotta appunto dalla nuova situazione politica172.

168 Ibidem, nota 165 ove si cita di pompeo serni il Trattato utilissimo per confortare i condannati a morte per via di giustizia, di cui esistono copie manoscritte. Cfr. in BAV, Vat. lat. 13558, Memorie a fratelli della ven. arciconfraternita di S. Giovanni Decollato (…) per la solita prattica d’aiutare a ben morire i condannati a morte, ff. 73-134; e Vat. lat. 13596, Trattato utilissimo per confortare i condannati a morte per via di giustizia, diviso in cinque parti composto dal dott. Pompeo Serni (…) MDCLXV, ff. 112.

169 Ibidem, p. 80.

170 Ibidem.

171 Ibidem, pp. 80 e 81.

La prospettiva storica proposta è ampia, comprende il contesto medievale, ove trova una collocazione privilegiata la confraternita del Gonfalone, poi le confraternite tre-quattrocentesche, per passare poi «ai temi specifici della religione confraternale, degli assetti finanziari e amministrativi, della committenza artistica cinque-secentesca, fino alle pagine tormentate delle soppressioni che alla fine dell’Ottocento concludono una grande storia, o almeno una certa parte di essa»173

Fiorani descrive i contenuti delle relazioni di vari studiosi a proposito di questo periodo sino al Quattrocento, che rappresenta «un periodo….. di passaggio tra una fase più antica e un’altra che stà per avviarsi alla fioritura delle confraternite cinquecentesche, che in parte continuano le antiche, ma in parte si vengono costruendo su intuizioni e su fermenti ignoti nel passato»174. In un certo senso la prospettiva innovativa può essere individuata proprio sulla religiosità delle confraternite, ovvero su «chi tiene in vita la religione confraternale». Ebbene, secondo Fiorani siamo in presenza di una molteplicità di elementi, in parte provenienti dall’interno del mondo associativo, in parte dall’esterno, ovvero «dai maestri accreditati, dai teologi, dai predicatori, dalla pubblicistica elaborata nelle scuole devote»175 e, come egli ribadisce, si tratta di una storia tutta da fare, rappresentata anche da personaggi di grande rilievo e testimoni di questa nuova ‘religiosità’ che egli non manca di descrivere176. Di grande interesse sono poi le considerazioni sulla committenza artistica177 e i sondaggi sulla storia economica: l’uno, di carattere metodologico, volto a valutare il peso economico e la condizione sociale dei membri di alcune confraternite quali S. Giovanni Battista dei Fiorentini; l’altro, di carattere analitico, da cui risulta il sostegno offerto dalla città a confraternite quali quella della Trinità dei Pellegrini, l’ultimo infine concernente l’indagine sulla situazione economica delle confraternite sei-settecentesche178. L’ intento è quello di conoscere, attraverso la lettura dei dati contabili, ovvero le entrate e le uscite, la storia di queste associazioni, usando uno strumento diverso da quelli tradizionali, ma fortemente legato

172 Ibidem, p. 81, la nota 169, e questo saggio alla nota 1.

173 Ibidem, pp. 82 e ssgg. con le note.

174 Ibidem, p. 84.

175 Ibidem.

176 Ibidem, pp. 84 e 85.

177 Ibidem, p. 85 alla realtà sociale di riferimento. In questo contesto, una data fondamentale è il 1797, quando furono elaborati e divulgati i dati raccolti a seguito delle Visite Apostoliche e delle Relazioni concernenti la grande inchiesta fiscale voluta dal governo pontificio, poco prima della occupazione di Roma da parte dell’esercito francese179.

178 Ibidem, p. 86, note 183 e 184.

La ricerca si conclude con un tema di grande interesse ovvero «l’elenco dei problemi aperti, con i quali la ricerca non potrà fare a meno di confrontarsi». Riferendosi ai temi trattati nel corso del Colloquio svoltosi nel 1982180, Fiorani pone in evidenza alcuni aspetti problematici che ritiene utile sottolineare. In primo luogo la definizione delle confraternite, facendo riferimento alla identità giuridica di queste associazioni, su cui sono state date in precedenza alcuni informazioni181. In realtà, secondo Fiorani l’analisi sulla individualità delle confraternite deve essere ricercata non solo o non tanto nel diritto, ma nello scopo della loro esistenza, nelle attività svolte, «nel groviglio dei bisogni e dei dinamismi cittadini, all’interno dei mutamenti storici». In sostanza, deve essere ricercata nel contesto reale in cui si muovono, nella storia della città che le accoglie182. Tuttavia, Fiorani non manca di evocare le riflessioni di Gabriele De Rosa a proposito della evoluzione delle confraternite, dall’età medievale all’età moderna, che l’autore pone non nel clima prodotto dal Concilio di Trento, come sostenuto ad esempio dallo stesso Fiorani, come vedremo più avanti, ma nella configurazione istituzionale, nella assunzione di una più efficiente organizzazione interna degli organi di governo, secondo le nuove disposizioni statutarie, sottolineando in questo senso l’importanza della analisi giuridica proprio dal punto di vista identitario183.

179 Ibidem, pp. 87 e ssg. nota 186, ove si cita la ricerca di a serra, Ferrari e vetturini a Roma dal Rinascimento all’Ottocento, Roma, Istituto di Studi Romani, 1981, concernente la gestione dei beni da parte della corporazione e della confraternita di S. Eligio dei Ferrari. Ibidem, nota 187, dello stesso autore, Problemi dei beni ecclesiastici nella società preindustriale; le confraternite di Roma moderna, Roma, Istituto di Studi Romani, 1983.

180 Ibidem, p. 89 nota 191 a proposito della Tavola Rotonda pubblicata negli Atti del Colloquio citato, ove sono emersi i vari elementi problematici concernenti la necessità di approfondire aspetti diversi del fenomeno e della storia confraternale.

181 Cfr. il paragrafo 2 di questo saggio.

182 Ibidem, p. 90 nota 192.

183 Ibidem, nota 194, ove, ci cita g. de rosa, Problemi della storiografia confraternale, in Le confraternite romane, pp. 24-30. A p. 26: «(…) Forse una caratteristica comune a tutte le confraternite dell’età moderna, comprese naturalmente le romane, potrebbe essere costitu-

Nel ripercorrere la storia delle confraternite, in particolare della loro configurazione istituzionale, Fiorani parte dalla data fondamentale del 1267, «anno prezioso in cui affiora nella città il nucleo dei Raccomandati della Vergine», per passare al Trecento, quando cioè alcuni sodalizi, in particolare il SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum «assumono ruoli dalla rilevanza anche civile e municipale», poi al Quattrocento, sino alla svolta del Cinquecento, determinata dal Sacco di Roma del 1527. Infine, dall’evento che Fiorani considera fondamentale, ovvero il Concilio di Trento, che pone regole in ordine alla organizzazione confraternale, con il dovuto riferimento alla Bolla Quaecumque del 1604 che «impone alle confraternite l’obbligo dell’erezione canonica, e dunque introduce una tipologia più strettamente sottoposta al controllo dell’autorità ecclesiastica»184. Una configurazione che resta immodificata almeno sino al pontificato di Benedetto XIII, dall’anno 1724 al 1730.

I quesiti posti da Fiorani inducono a riflettere sulla necessità di superare orientamenti metodologici che tendono a ridurre la storia confraternale entro schemi superati e quindi insufficienti a fornire i dati necessari alla conoscenza più aggiornata su questo tema. Non a caso infatti «il discorso sulla periodizzazione e sulle scansioni cronologiche non mette solo in evidenza le lacune, talora estesissime, che gravano sulla nostra storia confraternale, ma induce ad una estrema flessibilità nella ricostruzione dei fatti, perché (secondo De La Roncière) la storia è costituita da confraternite che muoiono e vegetano, da altre che si adattano o vengono finalmente alla luce in un flusso continuo, anche se di qualità e consistenza diverse»185.

Un altro tema di grande importanza e che merita un particolare approfondimento è il rapporto tra confraternita e città, affrontato da diversi punti di vista. In primo luogo emerge l’integrazione tra le confraternite che comunque si pongono come organizzazioni autonome e la società in cui operano, dal momento che i membri che compongono i sodalizi provengono «dagli strati sociali che compongono la comunità cittadina»186. E a questo proposito Fiorani rileva che contrariamente a quanto affermato ita dal processo più spinto di quell’aspetto istituzionale interno, relativo al funzionamento degli organi previsti dallo statuto (…)».

184 Ibidem, p. 91 nota 196, a proposito della Bolla Quaecumque cfr. mombelli, Ricerche sulla natura giuridica delle confraternite, pp. 22-25 e la nota 16 di questo saggio.

185 Ibidem, pp. 93 e 94 nota 202. cfr. in Le confraternite romane. c. de la roncière, Les confréries en Toscane aux x IV et x V siècle d’après les travaux récents, pp. 50-64, la citazione a p. 64.

186 Ibidem, p. 94 dai detrattori delle confraternite, non è vero che prevalessero nei sodalizi i ceti indigenti, che cercavano così di porre rimedio alla propria condizione di povertà, quindi per ragioni di interesse. Ne facevano invece parte i ceti della nuova borghesia, mentre in epoca tre- quattrocentesca, in particolare a Roma, erano presenti mercanti, imprenditori agricoli, bovattieri187. Per il Cinquecento Vincenzo Paglia nel suo saggio sulla pietà dei carcerati esaminando la struttura sociale della confraternita rileva oltre alla presenza di non romani, anche professionisti e artigiani, come anche, sia pure in misura minore, di ecclesiastici e di nobili, e di impiegati di Curia, soprattutto nelle confraternite estere188.

Prevale sempre, nel rapporto con la città, l’attenzione delle confraternite nei confronti della condizione sociale, del pauperismo, «in una chiave religioso-devozionale» come sottolinea Fiorani, quindi dispensatrice di carità e solidarietà in misura maggiore rispetto agli interventi delle strutture pubbliche. «Ciò che appare ora urgente» afferma Fiorani «è orientare la ricerca sui diversi piani in cui si è sviluppata l’azione assistenziale, per precisarne la natura, l’ampiezza, i contenuti degli interventi in un rapporto costante con i problemi cittadini189

Negli ultimi decenni del Cinquecento, «dopo il Tridentino», il rapporto confraternite – città si fa più stretto, sempre più determinato dall’attenzione ai mali della società. Diventa primario il dialogo con la città seguendo anche percorsi che potremmo definire interistituzionali. In questo senso il rapporto confraternite-città si traduce, ad esempio, con l’associare i rappresentanti delle confraternite nelle magistrature e negli uffici giudiziari della città, come per la Pietà dei Carcerati, rappresentata da alcuni suoi membri nei diversi tribunali romani a difesa dei detenuti più esposti190.

Restano sempre gli ambiti di intervento ‘privilegiati’ rappresentati dagli ospedali, dalla distribuzione delle doti ed elemosine e dagli ospizi per i poveri e i convalescenti, ma questi settori di operatività, a parere di Fiorani, non risultano adeguatamente approfonditi, salvo qualche eccezione191. Per quanto riguarda la storia ospedaliera ad esempio, gli studiosi hanno posto in evidenza la storia della medicina e della sanità, ponendo in secondo piano il ruolo delle confraternite: ciò che manca è la dimensione sociale degli interventi, il tipo di assistenza erogata, il movimento dei malati. Anche in questo caso Fiorani sottolinea la necessità di approfondire le fonti archivistiche, che potrebbero fornire i dati necessari per completare il quadro storico in oggetto192.

187 Ibidem, p. 95 la nota 206 ove si cita p. pavan, Gli statuti della società dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Sanctorum, «Archivio della Società romana di storia patria», CI (1978), p. 37.

188 Ibidem, p. 96.

189 Ibidem, pp. 96 e 97.

190 Ibidem, p. 97.

191 Ibidem, nota 210 ove si citano i contributi di m. d’alatri e i. da villapadierna, in La carità cristiana a Roma a cura di v. monachino e con la collaborazione di m. d’alatri e i. da villapadierna, Bologna, Cappelli, 1968 (Roma cristiana, X), rispettivamente alle pp. 127185 (età medievale) e pp. 191-303 (età moderna).

Riflessioni analoghe riguardano le modalità di intervento della carità confraternale, quali l’erogazione delle elemosine e l’ospitalità. L’ elemosina si pone nella prospettiva del pauperismo e dell’emarginazione sociale, mentre l’ospitalità si connette al problema del pellegrino, dell’ospite «che la devozione a S Pietro e all’Urbs sancta rendeva in qualche modo sacro e degno della massima considerazione»: risulta evidente la stretta connessione degli interventi confraternali con il contesto economico, sociale, culturale, religioso193.

Si giunge così finalmente al tema religioso. A questo proposito Fiorani sottolinea che la religione confraternale è un problema aperto e riguarda il significato che si intende dare alla religione professata. A suo avviso il problema non si pone se per religione intendiamo le manifestazioni esteriori, ovvero riti, appuntamenti devoti, manifestazioni festose, ampiamente descritti dalla pubblicistica tradizionale. In realtà occorre considerare la religione confraternale come «un fatto vivo, dinamico, interiore ed esteriore insieme, sottratto (…) ai condizionamenti della storia, e insieme legato ad essa in una medesima, umbratile vicenda». Il che significa attenzione «da una parte al mondo della vita morale e spirituale della gente, dall’altra alle sue relazioni sociali, al di sotto o al di dentro del tessuto della città»194. Ci si chiede quali siano i suggerimenti in ordine alla «ricerca che dovrà venire, richiamando l’attenzione soprattutto su due ambiti essenziali della religione: i contenuti e le forme espressive». In sostanza la ricerca si rivolge ai comportamenti delle persone «in rapporto ai mutamenti delle confraternite e della comunità cittadina». In questa ottica emergono due ambiti importanti della religione: i contenuti e le forme espressive195.

Per quanto riguarda i contenuti, la religiosità delle confraternite si pone in relazione al contesto della città di Roma: «La presidenza teologica, canonica, disciplinare che Roma esercita nei confronti della chiesa universale è un fatto che contribuisce a dare forma più definita, più consistente, ma insieme più ferma alla religione vissuta nell’Urbe»196.

192 Ibidem, p. 98.

193 Ibidem, p. 99.

194 Ibidem, p. 100 nota 217 ove si cita a. monticone, Le confraternite romane: una storia aperta, in Le confraternite romane, pp. 19-30, la citazione a p. 21.

195 Ibidem.

A Roma non vi sono rivoluzioni religiose, passaggi bruschi, è una religiosità fondata più sulla stabilità che sulle rotture, come risulta dagli statuti e dai documenti d’archivio, che non a caso rappresentano le fonti privilegiate per la ricerca197. Inoltre «la pietà confraternale che altrove presenta larghissimi apporti della spiritualità degli ordini religiosi, in particolare dei francescani e dei domenicani, a Roma è forse determinata dal clero secolare, dai parroci, da prelati e impiegati di Curia che dedicano il tempo libero alle confraternite. È quindi una pietà dai contenuti meno speculativi, più pastorali, rivolti al vissuto quotidiano, all’intervento spicciolo sulla città»198.

Sulle forme espressive, Fiorani rileva che le confraternite considerano l’opera di carità una vera e propria opera di pietà. Quindi la religione confraternale si esprime con le varie forme del suo incontrarsi con i derelitti della società, la pietà che si manifesta «nel gesto dell’elemosina, ma anche nella diffusione dei catechismi, nella visita agli ammalati e ai carcerati, nel conforto al morente, nella ricerca dei cadaveri abbandonati della campagna romana»199. Per queste ragioni a parere di Fiorani può essere utile dal punto di vista storiografico verificare le varie forme di preghiera sia individuale sia collettiva che si manifestavano negli oratori delle confraternite 200 .

Una ulteriore riflessione a questo proposito suggerisce il confronto tra religione popolare e confraternale 201, spesso accomunate da manifestazioni ‘vistose’ proposte al pubblico, quali le processioni, le rappresentazioni di soggetto sacro, ma che «non sono poi esattamente la stessa cosa»: talvolta queste manifestazioni si svolgevano non nell’intento di dare una ‘spettacolarizzazione’ delle pratiche religiose, quanto piuttosto per coinvolgere i fedeli in riunioni volte a dare speranza in presenza di situazioni di difficoltà o di pericolo. A questo proposito infatti è ricordato il caso della confraternita di san Marcello, i cui sodali nel 1522, durante una pestilenza, uscirono in processioni con un enorme crocifisso per esprimere «il lamento di una città precipitata in una morsa angosciosa dalla quale sapeva di non poter uscire con le sue sole forze» ma solo con l’aiuto di Dio202.

196 Ibidem

197 Ibidem, pp. 100 e 101.

198 Ibidem, p. 102.

199 Ibidem.

200 Ibidem, p. 103.

201 Ibidem.

202 Ibidem, p. 104.

Non resta che concludere. Il quadro storiografico sul tema delle confraternite laicali prospettato da Fiorani è come si è visto ampio e articolato, ma presenta, a suo avviso, ancora lacune notevoli, dovute in parte alla necessità di arricchire le prospettive e i campi di ricerca, per approfondire aspetti sinora rimasti in ombra. L’ Autore sottolinea in particolare l’importanza delle fonti archivistiche, la necessità quindi di provvedere al loro riordino per rendere i documenti consultabili: «Quanto abbia negativamente gravato sul progresso degli studi la condizione piuttosto precaria – salvo splendide eccezioni – degli archivi delle confraternite romane non è difficile immaginare. Tanto più encomiabili appaiono perciò le fatiche dedicate al riordino di queste raccolte, alla loro inventariazione, alla loro valorizzazione ai fini della ricerca»203

Al quesito in quale direzione si muoverà la storiografia futura, possiamo rispondere ricorrendo alle stesse parole dello studioso: «Cercare la storia delle confraternite vuol dire cercare anche il volto degli anonimi che rinchiudendosi in una tunica confraternale si aspettavano per ciò stesso di uscire da una misera condizione per immettersi in un’altra, più degna e appagante. È cercare le ramificazioni di una pietà, tanto più varie e capillari di quelle ricorrenti negli schemi tradizionali della spiritualità laicale. Il che non vuol dire far coincidere gli orizzonti storiografici con i piccoli e labili orizzonti di una storia intimistica, ma prendere atto, più semplicemente, che la storia delle confraternite si incrocia con dimensioni molteplici, orizzontali e verticali, sociali e individuali, si sorregge su momenti festosi e su momenti di grande pensosità. Non se ne potrà afferrare compiutamente il significato se non si sapranno cogliere tutti i suoi profili, i suoi picchi più esposti e luminosi, le discese ripide e profonde»204.

203 Ibidem, nota 224 con la citazione di Fiorani.

204 Ibidem, p. 105.

SACRALIZZARE GLI SPAZI, SACRALIZZARE I CUORI. SOCIABILITÀ DEVOTA E MISSIONE NUOVA

La poliedrica religiosità che non si esprime soltanto entro le forme e i tempi della liturgia, che è spesso vissuta con forte coinvolgimento e disegna la fede dei poveri, è uno scenario importante del percorso scientifico di Luigi Fiorani. Alla sua pietà popolare dedico questo mio breve omaggio, e la intendo sulle linee, sopra evocate, del Concilio Vaticano II. Non è infatti possibile isolare lo studioso Fiorani dal suo impegno etico e di fede; e da una precisa età, quella del Concilio, che ha favorito l’emersione dal passato di genti, culture, sensibilità cristiane che andavano a coincidere con i campi di studio di una storiografia rinnovata ed aperta ad una più estesa geografia mondiale 1 .

Entro quella sensibilità – e nella scia, non esaustiva, di don Giuseppe De Luca – Fiorani storico si iscrive fin dai suoi primi studi nell’orizzonte di una storia religiosa che si va rinnovando a livello internazionale: nella metodologia, nelle centralità documentarie, nell’allargamento degli oggetti di studio, nelle potenzialità interpretative. La storia delle missioni – ad gentes e dell’«interno», nelle loro tante geografie – prendeva ad occupare uno spazio importante nella riflessione storiografica. Tale tematica, limitatamente ai percorsi dell’apostolato urbano e rurale nello Stato della Chiesa nella piena età moderna, mi ha consentito di incontrare intellettualmente Luigi Fiorani 2 .

Considero dunque in questo mio breve percorso le missioni romane da lui studiate soprattutto relativamente all’agire gesuitico cinque-secentesco,

1 Sincere note di vincenzo paglia (nel XII volume delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma », a proposito di Fiorani «uomo di fede», formato a Roma come cristiano, «convinto di una sorta di “primato” dell’intera diocesi romana (…) per la consapevolezza del ministero straordinario del suo vescovo» e della necessità di indagarne le ragioni storiche).

2 Ricordo l’apporto importante di Luigi nel fascicolo monografico di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (1994), da me curato e dedicato a Devozioni e pietà popolare fra Sei e Settecento. Il ruolo degli ordini e delle congregazioni religiose

(stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it recuperando i punti forti della sua lettura per spostare poi l’attenzione dalla Compagnia ad altri protagonisti della missione, dalla pretesa di codificare i linguaggi apostolici alla consapevolezza che solo l’«adattamento agli altri» (assunto nella prassi e non semplicemente teorizzato) può nel tempo lungo garantire il successo dell’apostolato e pacificare il corpo dei predicatori. Rinviando a miei precedenti studi anche per l’apparato critico, mi limito qui a delineare le linee essenziali di tale orizzonte di sensibilità e strategie che, a partire dall’ultimo Seicento, modifica lentamente le «maniere di missionare»3 e fa dell’apostolato itinerante italiano un originale campo di sperimentazione pastorale e di costruzione del sentimento religioso dei singoli e delle comunità4.

Le linee della missione nuova, intesa come strumento di riforma religiosa per una cattolicità matura organizzata attorno ad un clero adeguato e rigoroso, prendono forma dalla riflessione sui linguaggi apostolici e al contempo sulle linee dei tentativi di riforma del clero (specie regolare, in applicazione dei decreta tridentini) avviati tra l’età di Clemente VIII e di Innocenzo X. Ma la consapevolezza crescente della debolezza e inadeguatezza del corpo ecclesiastico non traspare soltanto dai tentativi di riforma normativa (biblioteche degli ordini, Stato dei Regolari, piccoli conventi, etc.), perché in modo più capillare e sommesso riguarda anche un ridisegno delle procedure e dei protagonisti delle missioni. Ad esso concorrono ordini religiosi di primo piano, come i gesuiti e le famiglie francescane, ordini di antica fondazione rifondati sulle virtù della povertà e dell’obbedienza, come i minori osservanti riformati e missionari provenienti dal clero secolare, aggregati in nuove congregazioni specificamente consacrate alle missioni itineranti; l’impegno apostolico ne caratterizza la vocazione, le genti di campagna ne delimitano l’originale spazio di azione; la vigilanza dei vescovi ne garantisce l’azione e l’allineamento alle linee tridentine.

Nel corso di alcuni decenni, fino agli anni Quaranta del Settecento, questo composito clero affina i suoi linguaggi apostolici e li adatta ai contesti della missione, si arricchisce di nuove famiglie apostoliche che concorrono a costruire il successo dell’apostolato nelle campagne e più tardi nei centri urbani. Si presenta alle comunità nel rispetto delle gerarchie diocesane, onorando i curati e rispettando tempi e spazi che i vescovi prescrivono alle missioni. Attento a mostrarsi ai fedeli come inattaccabile sul piano morale ed estraneo alle gerarchie dei poteri ecclesiastici e civili, questo corpo di religiosi centra il suo apostolato itinerante sulla parola, sul gesto, sulle pratiche sacramentali; ed eternizza le campagne di missione attraverso la fondazione o il rilancio delle confraternite. Si tratta di uno scenario ben noto alla storiografia: i linguaggi di cristianizzazione si indirizzano con sistematica continuità a ceti, generi, generazioni ignari dei princìpi fondamentali della fede, dei precetti del vivere cristiano, fino ad allora pressoché estranei alla pastorale ordinaria, esclusi dall’obbligo e dalla consolazione delle pratiche sacramentali. Nel corso di qualche decennio, dalla fine del Seicento agli anni Trenta del secolo successivo e non senza contraddizioni, la missione nuova si offre a quelle genti come mezzo di conversione individuale e collettiva, strumento di una religione del perdono.

3 Utilizzo l’espressione di Leonardo da Porto Maurizio (rinnovatore della missione italiana, santo) che ritengo particolarmente adatta a rappresentare l’«adattamento» ai contesti apostolici e a rifiutare la lettura storiografica di consolidati «modelli» apostolici.

4 Le linee di questa strategia missionaria sono delineate nei miei lavori e non vi torno qui, neppure per la bibliografia: Roma religiosa nel Settecento. Spazi e linguaggi dell’identità cristiana, Roma, Carocci, 2000; Spazi sacri a Roma: presenze e modelli della chiesa francese, in Les éxchanges religieux entre l’Italie et la France. Régards croisés, dir. de fr. meyer et s. mylbach, Chambery, Éditions de l’université de Savoie, 2010, pp. 9-26; «Comme la civilité règle l’extérieur...». Le temps de la «Regolata devozione», in Les langages du culte aux x VIIe et x VIIIe siècles, dir. de b dompnier, in corso di stampa.

È a questo popolo che Luigi Fiorani ha dedicato sempre la sua attenzione partecipe e pressoché tutti i suoi studi, a quell’umanità «turbata e guerreggiata da angosce e insicurezze, più consapevole delle molte ingiustizie, strutturali e psicologiche, da cui era investita e alle quali non sapeva dare... altre risposte se non sul piano di una religiosità crucciata e compensatrice»5. Anche gli studi di Luigi sulle missioni gesuitiche nelle campagne circostanti Roma (in un’età precedente rispetto all’orizzonte di rinnovamento apostolico sopra delineato e già consapevole del «dovere di havere molto a cuore l’esercittio della dottrina christiana») si rivolgono a questa frontiera. A partire dalla «scoperta piena e realistica dell’analfabetismo religioso dell’agro romano», l’istruire le genti nei principi fondamentali della fede e nella pratica cristiana diviene un impegno sistematico della Compagnia, come ricorda già Fiorani a proposito delle disposizioni emanate da Claudio Aquaviva e di altri documenti coevi, successivamente replicati in Istruzioni e Avvisi per i missionari gesuiti della Provincia romana 6 .

Ampi e noti studi delineano ormai le strategie messe in atto dai padri per «sradicare le arretratezze senza paragoni» dell’agro romano quando, a piccoli gruppi di due o tre, sul finire della primavera, attraversano le porte storiche di Roma e vanno «cercando l’anime per la campagna»7; vi trovano uno sconfortante quadro morale, economico e sociale, quella «sì dura fatica», quel «vivere ad agli et cepolle» di gente «rozza e bisognosa di dottrina christiana» che delinea Indie di Quaggiù anche attorno a Roma, fin dentro Roma8

5 l. fiorani, Astrologi, superstizioni, devoti, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 2 (1978), p. 99.

6 l. fiorani, Missioni della Compagnia di Gesù nell’agro romano nel x VII secolo, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (1994), pp. 216-234.

Tale quadro sociale e spirituale dà forma alle genti di tenute, casali e capanne, alle vite vere di fattori e fattoretti, falciatori, vignaioli, pastori, carbonai, garzoni e monelli soggetti ai caporali; mostra ai missionari la necessità di una organizzazione capace di assicurare continuità e regolarità dell’apostolato, di individuare i campi di intervento e stabilire i contatti con i vescovi e i signori che, nelle loro diverse prerogative, consentono la campagna missionaria. E, come evidenzia Fiorani, richiede mezzi finanziari inserendo il mandato apostolico affidato alla Compagnia di Gesù per arginare il pauperismo e l’«analogo e peggiore pauperismo religioso di larghissimi strati popolari» in una strategia di segno politico che, in «convergente apporto di forze», assegnava a quelle missioni copertura economica e «caratteristiche diverse da quelle che si esprimevano in altri contesti, dove spesso (...) difettavano di qualunque altra forma di supporto e protezione».

Avviando tra i primi una rinnovata indagine sulle missioni gesuitiche, Fiorani centrava la sua attenzione su alcuni nodi importanti della storia delle missioni popolari, evidenti anche nelle campagne romane: rispetto alle linee tridentine in tema di predicazione (intesa come dovere centrale del ministero di vescovi e clero, di non semplice applicazione) e all’azione della Curia e delle gerarchie ecclesiastiche e civili per contrastare la miseria sociale, civile e religiosa della campagna romana, cristianizzare i linguaggi, i comportamenti, le coscienze 9 .

7 fiorani, Missioni della Compagnia di Gesù, e id., « Cercando l’anime per la campagna». Missioni e predicazione dei gesuiti nell’agro romano nel secolo x VII, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, a cura di g martina e u dovere, Roma, Edizioni Dehoniane, 1996; id , Identità e crisi del prete romano tra Sei e Settecento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 7 (1988).

8 Nella vasta storiografia, a parte i fondamentali saggi di Adriano Prosperi, la lettura fine di b. dompnier, La Compagnie de Jésus et la mission de l’intérieur, in Les Jésuites à l’âge baroque, dir. de l giard e l vaucelles, Grenoble, Jérôme Millon, 1996 e di b majorana, «Schola affectus». Persona e personaggio nell’oratoria dei missionari popolari gesuiti , in Il volto e gli affetti: fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, a cura di a pontremoli, Firenze, Olschki, 2003, pp. 183-252; quadro generale ora in p. broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Europa e America (secoli x VI-x VII), Roma, Aracne, 2004, a cui aggiungo m. catto, Un panopticon catechistico: l’Arciconfraternita della Dottrina Cristiana a Roma in età moderna, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003.

Siamo di fronte ad una impronta politica dell’apostolato gesuitico nelle campagne romane che certo, necessaria al rafforzamento dello Stato, alla pacificazione e normalizzazione sociale10, andava ad affiancarsi ad «uno dei fenomeni religiosi più caratteristici dell’Italia e dell’Europa cattolica all’aprirsi dell’età moderna, vale a dire il tentativo di portare l’istruzione e la pratica cristiana a gruppi ed individui rimasti esclusi dalla sfera di influenza della Chiesa». È importante notare come tale impronta riveli un certo peso nello svolgersi successivo dell’apostolato romano11 e delle relazioni tra le famiglie religiose; e come essa sia destinata a riaffiorare nel dibattito inter-missionario, oltre i contesti degli studi di Fiorani che si arrestano ai decenni conclusivi del Seicento, nell’età di padre Antonio Baldinucci e dell’ultimo «nuovo impulso» gesuitico ad un’attività pastorale che «cominciava a mostrare qualche stanchezza», avviandosi a preferire le missioni urbane a quelle rurali.

Proprio nel tempo in cui lo studio di Fiorani sulle missioni gesuitiche si interrompe, la missione sta chiudendo ormai definitivamente la sua « fase di minorità, a mezza strada tra un’operazione peregrina e la singolarità di un metodo pastorale che pretendeva di applicare sui territori cristiani metodi di evangelizzazione propri del mondo pagano». D’altra parte, esteso enormemente «fino a divenire un elemento di grande incidenza nella vita delle

9 Anche per il lessico dei territori circostanti Roma, oltre al saggio di Jean Coste (avanti citato), rinvio a fiorani, Religione e povertà. Il dibattito sul pauperismo a Roma tra Cinque e Seicento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 3 (1979), pp. 43-131.

10 Soltanto un cenno dei temi della predicazione che ricorrono in un’ampia letteratura: i Padri della Missione nelle campagne della Sabina nel 1603 concentrano «la materia ordinaria delle prediche, che si faceano ogni mattina» sul richiamo al chiudere le “profonde inimicizie che solcavano la vita delle comunità rurali”, sul perdono cristiano dei torti e dei soprusi subìti, «nel togliere di mezzo i disordini... (peccati di varia natura, fattucchierie, ruberie, concubinaggi, scandali pubblici)». I gesuiti della Missione Tuscolana del 1603 esortavano contadini e braccianti ad accettare con pazienza il proprio «stato sociale, fosse anche il più miserabile», ad eliminare «ogni irrequietezza esteriore» per costruire un minimo di vita spirituale. «Li esortavamo ad imitazione di Nostro Signore pigliar volentieri per amor suo quello stato nel quale si trovavano». fiorani, Missioni della Compagnia di Gesù.

11 Le missioni gesuitiche successive si rivolgono soprattutto alle capanne di pastori e, sotto i pontificati di Clemente VIII e Paolo V, alle genti dei castelli e casali fuori porta San Lorenzo, San Pancrazio, San Giovanni, San Lorenzo, San Paolo; sul tema, sono ancora importanti: c. faralli, Le missioni dei Gesuiti in Italia (sec. xVI-xVII); problemi di una ricerca in corso, «Bollettino della società di studi valdesi», 138 (1975), pp. 97-116; g. orlandi, S. Alfonso comunità», quell’intenso e impegnativo lavoro di alfabetizzazione religiosa, per «funzionare a dovere», aveva bisogno di essere «regolato da una sorvegliata disciplina»12

Maria de Liguori e l’ambiente missionario napoletano nel Settecento: la Compagnia di Gesù, «Spicilegium historicum Congregationis SSmi Redemptoris», XXXVIII (1990), pp. 5-195.

Queste note del gesuita Baldinucci, non dissimili da altre consapevolezze provenienti dall’ordine, evocano un più ampio orizzonte del clero delle missioni e più netti indirizzi apostolici13. Citandole, Luigi Fiorani sa bene che l’apostolato dei gesuiti non esaurisce la storia delle missioni e che, anche a Roma, esso segna un particolare tempo, quello della prima Controriforma, e costituisce soltanto una parte della cristianizzazione dei ceti più deboli; per questo motivo, nello stesso fascicolo della sua rivista in cui tratta delle missioni gesuitiche, ospita il denso saggio di Jean Coste sull’apostolato dei lazzaristi14, una famiglia missionaria di preti secolari votata alla carità che, come vedremo, ha un ruolo di primissimo piano nel rinnovamento delle missioni. E rappresenta quel composito clero che, in obbedienza ai vescovi, cerca di affinare e umanizzare le proprie maniere, di vivificare un corpo di padri spesso troppo autoreferenziale e restìo a spendere il proprio carisma in ambiti poco rappresentativi e edificanti, esclusi dalla letteratura che nobilita il mestiere di missionario e descrive i suoi trionfi nel mondo.

Il ridisegno dell’apostolato non emerge dunque con evidenza all’interno degli ordini religiosi15 ma dalle nuove congregazioni di secolari che, forti di

12 fiorani, Missioni della Compagnia di Gesù, p. 226. «Quando arrivavano i missionari le popolazioni si mobilitavano, la vita dei paesi si bloccava per molti giorni. Non era più un appello spirituale alle coscienze svolto nella discrezione di un colloquio o attraverso semplici e familiari parole dette dentro qualche cappella rurale o nell’intimità delle capanne, ma un vero e proprio sommovimento di tutto un territorio di cui i missionari si fanno in qualche modo arbitri assoluti. Qualcuno se ne preoccupa, malumori di vario tipo si diffondono» (ibidem, pp. 227-228). Tale quadro, da collocare negli anni novanta del Cinquecento si chiarisce nel secolo successivo in due direzioni, scavando un solco tra missioni e pastorale diocesana e più frequentemente in una strategia comune sotto il controllo dei vescovi.

13 Importante quanto Fiorani nota a proposito del gesuita e dei suoi rilievi sui «“criminalisti”, cioè a settori di intellettuali che avendo osservato da vicino il fenomeno delle missioni ne avevano rilevato gli effetti negativi sull’ordine pubblico», di «soluzioni religiose di problemi civili e giudiziari – sembrano dire – costituiscono una fastidiosa interferenza su questioni che sono di stretta ed esclusiva competenza delle magistrature civili… Il Baldinucci risponde raccomandando, da un lato ai predicatori una presenza più sobria e discreta, dall’altro rassicurando le autorità che il fine del lavoro missionario era diverso, cioè riconciliare gli spiriti e le popolazioni con Dio e con il prossimo, non di predisporre intralci al corso della giustizia terrena». fiorani, «Cercando l’anime per la campagna», pp. 449-450.

14 j. coste, Missioni nell’Agro romano nella primavera del 1703, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 2 (1978), pp. 165-223.

15 L’ impegno apostolico nelle campagne italiane degli ordini ‘antichi’ si rivitalizza fra gli ultimi decenni del XVII secolo e l’inizio del secolo seguente attraverso la predicazione autonome e sperimentate strategie apostoliche (nonché del proprio «zelo», di virtù morali, individuali e collettive), si fanno carico di un numero straordinario di missioni nelle campagne, sperimentano le loro strategie apostoliche, le adattano via via alle condizioni concrete e alla domanda religiosa delle popolazioni, acquista no visibilità e potere16. Questo patrimonio di progetto e esperienza non emana da Roma e non matura per induzione, dalle alte gerarchie, ma è proprio delle nuove comunità, in linea con alcuni indirizzi riformatori. Nel tempo lungo compreso tra l’ultimo Seicento e la metà del secolo successivo, incontra più volte i disegni di pontefici, di esponenti di Curia e del mondo episcopale, e talvolta una cultura religiosa propriamente romana, ma è un processo che si sperimenta altrove, nelle campagne dello Stato della Chiesa, del Granducato di Toscana, nei Presìdi, nel Regno di Napoli, in frontiere e periferie che rendono più semplice e discreto mettere in discussione procedure apostoliche e posizioni acquisite.

Da questi campi di sperimentazione e per specifico carisma, il nuovo clero missionario indirizza sistematicamente la sua attenzione ai poveri, si candida a riempire gli spazi non raggiunti dalla pastorale e sostenere le politiche diocesane interessate al rinnovamento, a ridefinire il senso stesso dell’apostolato e dell’intera teologia morale e trasformarlo in una offerta di disciplina e salvezza per le comunità e per i singoli17. E propone a Roma questa ambiziosa strategia di «edificazione» del popolo devoto e del corpochiesa per trovare conferme e legittimazione universale.

Alle origini di questo processo, e con tutta la valenza simbolica di una chiamata al centro del cattolicesimo, si insediano a Roma – rispettivamente nel 1638 e nel 1687 e grazie a potenti protettori – due congregazioni missionarie fino ad allora sconosciute in città e destinate a coprire un ruolo importante nelle sensibilità e prassi apostoliche: i Preti della Missione, detti lazzaristi o vincenziani, fondati a Parigi da san Vincenzo de’ Paoli e i Pii itinerante dei cappuccini Angelo da Acri, Antonio da Olivadi, Carlo da Motrone, del francescano Tommaso da Cori, dei gesuiti Antonio Baldinucci, Francesco de Geronimo, Pietro Ansalone e dei più noti Segneri e Pinamonti. operai, fondati a Napoli da Carlo Carafa all’inizio del Seicento, su cui non mi soffermo qui18. Il carisma del fondatore Vincenzo de’ Paoli facilita la chiamata a Roma dei lazzaristi, garanti di un clero disciplinato, rigoroso e austero, espressione del cristianesimo pacificato di Francia. L’ insediamento romano, che, come si evince già dalle lettere patenti del luglio 1641, si vuole fin dalle origini obbediente al Vicario e Vicegerente e dunque in linea con i decreta tridentini, colloca i padri in un più generale ridisegno delle procedure pastorali e degli equilibri inter-ecclesiastici; il loro impegno si indirizza all’insegnamento della dottrina e disciplina cristiana nelle zone più degradate della città e delle campagne circostanti, a riattivare luoghi di culto dimenticati o abbandonati, immettere nelle confraternite più ampi e deboli strati sociali.

16 Tra le congregazioni di preti secolari a carisma missionario fondate in diverse aree italiane: i Sacerdoti Secolari Missionari di Palermo (1703), i Missionari Rurali di Genova (1713), gli Oblati Missionari di Rho (1721), i Missionari della SS. Vergine Imperatrice del Cielo e della Terra (1738), i Missionari Imperiali (1738), la Pia Opera delle Missioni (1752). Ad essi aggiungo i Pii Operai di Carlo Carafa, citati e fondamentali nel carisma apostolico dei Passionisti di Paolo della Croce e i Redentoristi di Alfonso Maria de Liguori.

17 Quadro europeo dei nuovi orientamenti missionari in l. châtellier, La Religion des pauvres. Les sources du christianisme moderne, x VI-x Ix siècles, Paris, Aubier, 1993, ed. it., La religione dei poveri, Milano, Garzanti, 1994.

Le frontiere della missione popolare si estendono e si consolidano nella continuità dell’agire missionario, rivolgendosi ora non solo al composito spazio rurale che si dilata fino ai grandi patrimoni terrieri di famiglie protagoniste della vita civile e politica dello Stato, ma a quella popolazione fluida di uomini e donne che, priva di identità riconosciuta, opera e abita entro le mura, negli interstizi del cuore urbano ancora esclusi dal processo di inglobamento urbanistico, sociale e simbolico che ascrive spazi nuovi ai territori della cattolicità compiuta19. È a una Roma senza visibilità che si rivolge il nuovo apostolato, indirizzato a chi trova occasionale spazio nella pastorale diocesana ed è escluso dalla ritualità che disegna e eternizza l’identità universale di Roma, e persino dalla sociabilità devota 20 di parrocchie e confraternite. Centrali in tutti gli studi di Luigi Fiorani specie tra anni Settanta e Ottanta, queste genti romane sfuggono al «luogo comune del quadro sociale rigido e compatto» e d’altra parte offrono di sé un’immagine-altra dalla Città del Papa, perché non trovano rappresentazione nella città comunità visibile e gerarchizzata nell’orizzonte tridentino, con le sue valenze paradigmatiche e uniche, «emblema vivo ed operante di quella riforma tridentina della Chiesa cattolica, che andava compiendosi sotto la ferma guida del suo pastore»21. La cristianizzazione dei loro comportamenti e sensibilità richiede un corpo di predicatori capace di contrastare diffidenze dalle radici antiche, di raggiungere i cuori; e di un modello di prete rigoroso e inattaccabile. Proprio i lazzaristi sono incaricati, nei pontificati di Alessandro VII e poi di Innocenzo XII, di contribuire alla formazione del clero romano attraverso gli esercizi spirituali e le «conferenze del martedì» di eco vincenziana, che diventano un appuntamento fisso e obbligato per gran parte dei preti romani, preliminare all’avvio delle missioni popolari da svolgersi nelle campagne a ridosso della città. Si tratta di un campo di azione fondamentale per la famiglia lazzarista di Montecitorio, perseguito con attenta disciplina nei decenni successivi 22 , attraverso la messa a punto di una immagine di «zelo e decoro», di un solido patrimonio teorico e organizzativo che impronta decisamente il quadro complessivo della chiesa e della religiosità sei-settecentesca e, alla soppressione della Compagnia di Gesù, consente alla congregazione di sostituirsi ai gesuiti, a Roma e nei diversi campi della missione nel mondo.

18 Sulle missioni dei Pii operai rinvio al mio: I «sentimenti di notte». I pii operai e le pratiche della missione in Italia fra Sei e Settecento, in Religione, cultura e politica nell’Europa dell’età moderna. Studi offerti a Mario Rosa dagli amici, a cura di c ossola, m verga, m a visceglia, Firenze, Olschki, 2003, pp. sui lazzaristi, a. arata, Tre secoli di vita romana della Casa della Missione, Roma, Edizioni Liturgiche Missionarie, 1943; l. mezzadri, Le missioni popolari della Congregazione della missione nei secoli x VII-x VIII: Studi , Roma, CLV, 1999.

19 Rinvio a Roma religiosa, cap. 2.

20 Propongo la dizione ‘sociabilità’ per comprendervi forme e sentimenti di appartenenza di gruppi e individui rispetto allo spazio sacro, in particolare romano nell’età della controriforma matura. Penso alla rappresentazione soggettiva (individuale e di micro comunità) che, partecipando con tante variabili a riti e cerimonie, a forme di devozione e pratiche liturgiche, catechistiche, o ausiliarie nella organizzazione confraternale o parrocchiale, costruisce una propria identità devota (e sociale) e la offre alla collettività.

Anche a Roma, il percorso di legittimazione è perseguito strategicamente dai lazzaristi nel modo discreto che è proprio del carisma vincenziano; carico di ascendente spirituale e di potere, si rivela particolarmente adatto al clima di diffidenze e accuse che dalla società sempre più chiaramente investono anche il mondo dei missionari. D’altro canto, specie a fronte della potente letteratura di edificazione messa in atto dai gesuiti, il tono sommesso dei lazzaristi 23 favorisce, specie a fronte della potente letteratura di edificazione messa in atto dai gesuiti, l’azione e la visibilità di un corpo ecclesiastico multiforme che, già presente in città e nell’apostolato delle campagne circostanti, richiede pari dignità per tutti gli attori e campi della

21 a serra, Culti e devozioni delle confraternite romane in età moderna, tesi di dottorato in Storia del cristianesimo e delle Chiese, Università Roma Tor Vergata, Université Clermont Ferrand II, 2009-2010, p. 89. La citazione precedente è di fiorani, Astrologi, superstizioni, devoti, p. 99 missione 24. Certo, l’eccellenza gesuitica 25 (e la ritrosìa lazzarista) ha offuscato la memoria delle circa millequattrocentocinquanta missioni che la congregazione vincenziana organizza a Roma e nelle campagne circostanti. La fama missionaria lazzarista è legata piuttosto anche a Roma ad un paradigma storiografico che ha codificato due modelli apostolici: quello «tutto fuoco» dei gesuiti e quello «tutta quiete» dei lazzaristi. Alla sua origine colloco la famosa lettera del 1746 del più noto dei predicatori italiani Leonardo da Porto-Maurizio che non è il caso qui di trattare se non per evocare l’eternizzazione di «modelli» apostolici sancita dalla storiografia successiva fino ai nostri giorni; e per evidenziare d’altra parte la giustapposizione di linguaggi apostolici che, nel rifiuto di modelli, sommessamente dall’ultimo decennio del Seicento emerge dalla realtà apostolica italiana e mette in discussione il primato nell’apostolato missionario della Compagnia di Gesù.

22 Nel 1699, Innocenzo XII obbliga tutti i confessori di Roma a seguire annualmente otto giorni di esercizi spirituali nella Casa di Monte Citorio ed i parroci a sostenervi gli esercizi ogni tre anni (ridotti a due nel 1701); i Ritiri di confessori e parroci si svolgevano due volte l’anno, dopo la domenica in Albis e dopo la festa dei Defunti, con meditazione, lettura, esame particolare, confessione e celebrazione liturgica, prove delle cerimonie, esame sul rituale.

23 E la loro origine d’oltralpe, marcata dalle complesse relazioni tra Curia romana e corona di Francia fra Sei e Settecento.

Siamo di fronte ad un tema sensibile, che incrina il primato gesuitico nella missione popolare a fronte di un quadro reale che in Italia può contare ormai su molteplici protagonisti e che fa i conti con l’ampia letteratura edificante che dall’Imago del 1640 (e dalla Storia di Scipione Paolucci stampata a Napoli nel 1651) ha costruito i “perfetti missionari”26, esaltando l’apostolato gesuitico nelle sue tante frontiere. A questa letteratura di trionfo si giustappone una più timida ma importante produzione letteraria (sia all’esterno che all’interno dell’ordine) che si concentra sull’apparato, e vuole essere estranea alle critiche che incombono ormai anche sulle missioni, accusate di essere troppo rigide e codificate, esteriori, adatte ad una religiosità superficiale, ignorante e superstiziosa. Ne costituisce lucido esempio la Fondazione delle

24 In riferimento ai Pii Operai, attivi compiutamente dagli anni Novanta del Seicento e ai barnabiti, presenti dal 1608 nella diocesi di Porto e nei decenni successivi, di Ostia e di Albano.

25 La produzione letteraria, dall’Imago alle Lettres édifiantes…, esaltando l’apostolato gesuitico nelle sue tante frontiere, contribuisce alla costruzione di un modello letterario capace di rispondere anche alle esigenze di pacificazione interna all’ordine e ad eternizzare il mito della Compagnia e il suo primato missionario; per l’Italia: 1673, Relazione delle missioni fatte sulle montagne di Modena dai M. R. PP. Segneri e Gio. Pietro Pinamonti della Compagnia di Gesù l’anno 1672 di padre Bartolini (Modena, 1673), seguita nel 1714 dalla Pratica delle missioni del Padre Paolo Segneri del padre Fulvio Fontana; le ventisei immagini di clero e fedeli delle missioni stampate nell’edizione del 1739 codificano ancora oggi con sorprendente continuità l’immagine (esclusivamente gesuitica) delle missioni italiane.

26 Ricordo il fortunato libro di a boschet, Le Parfait missionnaire ou la vie du R. P. Julien missioni di Modena del gesuita Vincenzo Imperiali, pubblicata a Venezia nel 1701, che stigmatizza l’esteriorità nemica della missione come strumento pastorale ordinario e teorizza la sottomissione delle pratiche di pietà all’autorità dei vescovi.

Maunoir de la Compagnie de Jésus, missionnaire en Bretagne, Paris 1697, con numerose edizioni successive e traduzioni. Cfr. b. dompnier, Les cantiques dans la pastorale missionnaire en France au x VIIe siècle, in La musica dei semplici. L’ altra controriforma, a mia cura, Roma, Viella, 2012.

Si tratta di importanti tematiche che attraversano fin dall’ultimo Cinquecento la cultura religiosa europea e il corpo-Chiesa nella sua sfaccettata identità, toni che lo stesso Luigi Fiorani richiama a proposito del gesuita Antonio Baldinucci – prima citato quale protagonista della riflessione missionaria interna alla Compagnia – chiudendo la sua riflessione sulle missioni popolari proprio quando queste, grazie a molteplici protagonisti, escludono un modello apostolico univoco e senza riserve.

Prende forma la realtà di campagne apostoliche celebrate a pieno titolo da tutti i missionari attivi con crescente visibilità e potere, ma all’ombra dei vescovi: un insieme complesso di parole e gesti, liturgie e pratiche sacramentali che si svolge nel rispetto dei tempi del lavoro agricolo e delle competenze diocesane, fa uso spettacolare della penitenza ma si concentra sulle confessioni, raccoglie le confidenze e le speranze più intime del le genti, costruisce la missione come una festa e la eternizza con la organizzazione confraternale e le devozioni.

Sia pure in forma non pienamente compiuta, si tratta del quadro che Jean Coste evidenzia a partire dalle «nuove missioni (…) per quei casali di campagna situati ne’ limiti delle parochie di Roma» della primavera 1703, raccontate in cinquanta fogli da Tommaso Cervini, cameriere d’onore di Clemente XI.

Questa importante campagna apostolica, successiva ai forti terremoti dell’inizio d’anno, avvia l’ufficializzazione della missione e il suo trasformarsi da strumento straordinario della pastorale a mezzo primario della conversione, secondo un percorso – non lineare e spesso improntato dai pontefici – che si compie definitivamente più tardi, nel primo decennio del pontificato Lambertini, nell’ambito di un disegno più generale di riforma delle pratiche devote; nel tempo in cui un’ampia erudizione cattolica delinea un cristianesimo utile alla società e fondatore delle virtù civili da contrapporre all’offensiva del secolo27.

L’ indirizzo generale della campagna del 1703 è improntato a «provocare il pentimento e il ritorno a Dio attraverso il sacramento della penitenza, seguito dalla pubblica affermazione di fede costituita dalla comunione

27 I temi della predicazione ordinaria, insegnamento del catechismo, controllo e la formazione del clero, del controllo delle devozioni e delle feste religiose sono oggetto del volume dedicato da Fiorani al Concilio romano del 1725 generale dell’ultimo giorno»28. Sembra dunque che non si esca dalla impostazione consueta, da quelle evoluzioni registrate da Fiorani « talmente lente da rendere quasi impercettibile che cosa cambia», tranne che per una novità decisiva prodotta da queste missioni, la fondazione di nuove parrocchie. E tranne che per una precisazione, che affiora dalle fonti come un indizio secondario ed è invece destinata a segnare la «missione nuova» nella sua forma compiuta e codificata nei decenni successivi, dai tre grandi santi, missionari, fondatori del Settecento italiano, Leonardo da Porto Maurizio, Paolo della Croce e Alfonso de Liguori.

Ai temi propri della pastorale della paura, i predicatori del 1703 «si dimostrano capaci di preferire... temi più consolanti come l’amore di Gesù per l’uomo». Il richiamo al Cristo mostra ora un segno inedito rispetto ai temi e alle figure cristologici delle missioni gesuitiche dei decenni precedenti, centrati (anche nella campagna romana) sul perdono elargito da Gesù ai suoi persecutori che richiamava i cristiani ad essere anch’essi pronti al perdono, alle paci, alle riconciliazioni 29. Il riferimento al Cristo sofferente e dolce è ora qualcosa di più: è la radice comune del carisma e della vocazione delle missioni nuove. È la loro stessa immagine e, sul modello degli apostoli, impronta l’agire per sacralizzare gli spazi e i cuori in nome delle devozioni cristologiche della Via Crucis di Leonardo da Porto Maurizio, della devozione della Passione di Paolo della Croce, dei Calvari dei Redentoristi, nell’eco dei Pii Operai di Carafa e di Pietro Gisolfo30. È l’evocazione primaria di un clero incline a concedere il perdono ad ogni peccatore e offrendogli identità sentita e riconoscibile nella comunità cristiana, sulla linea benignista che sant’Alfonso Maria de Liguori provvederà più tardi a fissare nella teologia morale: efficace protezione dalle roventi polemiche di riformatori e rigoristi, è messaggio perfetto per l’umanità povera e desolata delle campagne e per gli orizzonti di rigenerazione che caratterizzano per qualche decennio il Settecento religioso, la «religione del cuore»31.

28 j coste, Missioni nell’Agro romano, p. 179.

29 Tema importante, su cui letture di ampio respiro di: p. vismara, Oltre l’usura: la Chiesa moderna e il prestito a interesse, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; d. menozzi, Chiesa, poveri, società nell’età moderna e contemporanea, Brescia, Queriniana, 1980.

30 Per il ridisegno di Pietro Gisolfo sulla missione dei Pii Operai, oltre alla bibliografia già indicata, rinvio al saggio di d vizzari in Devozioni e pietà popolare, pp. 270-290.

31 châtellier, La religione dei poveri; d menozzi, Letture politiche della figura di Gesù nella cultura italiana del Settecento, in Cattolicesimo e lumi nel settecento italiano, a cura di m. rosa, Roma, Herder, 1981, pp. 127-176; m. rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia, Marsilio, 1999; Religions en transition dans la seconde moitié du dix-huitième siècle, ed. l châtellier, Oxford, Voltaire Foundation, 2000.

marina caffiero

LE CONVERSIONI: MODELLI, STRATEGIE, PRATICHE

1. “Dall’infamia dell’errore al grembo di Santa Chiesa”. Conversioni e strategie della conversione a Roma nell’età moderna si intitolava il decimo volume delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma», curato da Luigi Fiorani nel 1998. Come era consueto nello schema della rivista – uno schema assai articolato, indicativo anch’esso di come egli intendesse la ricerca storica –, il volume comprendeva una tavola rotonda introduttiva, una nutrita serie di saggi sul tema della conversione e due inventari corposi di eccezionale novità. Gli inventari, introdotti egregiamente dai due autori, Sergio Pagano e Domenico Rocciolo, accompagnati da un ricco apparato documentario, descrivevano rispettivamente l’ Archivio dell’Ospizio Apostolico dei convertendi, conservato nell’Archivio Segreto Vaticano, e l’Archivio della Pia Casa dei catecumeni e neofiti, custodito nell’Archivio storico del Vicariato di Roma. I due inventari costituivano una ghiotta novità perché davano modo agli studiosi di venire a diretta e completa conoscenza di due fonti importantissime per la storia religiosa e sociale di Roma, per la ricostruzione dell’attività missionaria nella città e in particolare per la storia delle conversioni.

Il primo inventario, quello dell’istituto dei convertendi, in parte noto per gli studi di Bruno Neveu e dello stesso monsignor Pagano, con l’ ordinamento e la breve descrizione delle ben 759 unità archivistiche forniva la panoramica completa e analitica dei singoli pezzi del fondo, seguendo un esatto metodo storico che rispettava nascita e evoluzione dell’istituto1.

1 Sull’ospizio dei convertendi, b neveu, Tricentenaire de la fondation à Rome de “L’ Ospizio de’ Convertendi” (1673): ses hôtes français au x VIIe siècle, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XXVII (1973), 2, pp. 361-403; s pagano, L’ Ospizio dei convertendi di Roma fra carisma missionario e regolamentazione ecclesiastica (1671-1700), «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 10 (1998), pp. 313-390 e 455-544 per l’inventario; cfr. ora r. matheus, Mobilität und Konversion. Überlegungen aus römischer Perspektive, «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», LXXXV (2005), pp. 170-213 e ead , Gli oratoria-

2013

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it

Quanto al secondo, a lungo bramato dagli storici – ben ricorderà l’amico Rocciolo le attese e le richieste degli studiosi in quel periodo – fu accolto con enorme interesse perché metteva finalmente a disposizione informazioni certe e verificabili sia sulla storia stessa, fino ad allora poco nota e un po’ confusa, dell’istituto della Casa dei catecumeni, sia su quanto effettivamente contenevano – al di là di favolosi vagheggiamenti – i faldoni conservati, riordinati accuratamente con un apparato inventariale elencante ben 369 unità archivistiche 2. Una panoramica ampia dunque, che completava e anzi andava ben al di là della pur meritoria opera di W. H. Rudt de Collenberg sui registri di battesimo di ebrei e musulmani nella Casa: un’opera, quest’ultima, pionieristica e anticipatrice su cui tutti abbiamo lavorato e che già alla fine degli anni Ottanta metteva a disposizione un’analisi accurata di quella fonte, ma che tuttavia aveva bisogno di essere completata con tutto il resto della documentazione conservata, di cui i registri costituivano solo una parte3

Certamente i due contributi dati al volume da Pagano e Rocciolo, con i loro preziosi inventari, contribuirono moltissimo al rilancio degli studi in materia di conversioni, intese come passaggi al cattolicesimo da una fede altra. Nel 1998, quando uscì il numero delle «Ricerche per la storia religiosa di Roma» di cui stiamo trattando, la tematica della conversione, nelle diverse accezioni del termine, che vedremo subito, non era così al centro dell’attenzione storiografica come è oggi, quando, in una situazione di tensioni e di conflitti religiosi forti, la questione viene ad inserirsi nella più vasta problematica delle identità nazionali, culturali e religiose e degli irrigidimenti attuali all’interno di appartenenze vissute come chiuse, compatte ni e i protestanti: concetti e pratiche di conversione a Roma (x VI-x VIII secolo), in Forzare le anime. Conversioni tra libertà e costrizione in età moderna, numero monografico a cura di m. caffiero, «Rivista di storia del cristianesimo», 2010, 1, pp. 109-125. e impermeabili. Ma in età moderna il contesto era assai diverso e proprio il discorso storico sulle conversioni e sui convertiti ci spinge piuttosto nella direzione opposta, quella delle interazioni, delle contaminazioni e delle identità multiple, delle relazioni tra gruppi diversi. Ma su questo tornerò alla fine del mio intervento.

2 d rocciolo, Documenti sui catecumeni e neofiti a Roma nel Seicento e Settecento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 10 (1998), pp. 391-452 e 545-582 per l’inventario; si veda anche m caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004 (2a ediz. ivi, 2009). Sul funzionamento della Casa dei catecumeni di Roma e sui privilegi e vantaggi concessi ai convertiti cfr. il mio Battesimi forzati, capp. VI e VII.

3 w h rudt de collenberg, Le baptême de juifs de Rome de 1614 à 1798 selon les registres de la Casa dei Catecumeni, «Archivum historiae pontificiae», XXIV (1986), pp. 91-231; XXV (1987), pp. 105-261; XXVI (1988), pp. 119-294; id , Le baptême des musulmans esclaves à Rome aux x VIIe et x VIIIe siècles, «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Italie et Méditerranée», CI (1989), 1, pp. 9-181; 2, pp. 519-670. Nel 1999 uscì anche il numero monografico delle «Annales. Histoire, Sciences Sociales», LIV (1999), 4, dedicato alle Conversions Religieuses.

Prima del volume del 1998 vi erano stati ovviamente molti saggi, studi e convegni relativi ai fenomeni di conversione nell’Europa moderna4; per l’area mediterranea erano disponibili anche i pionieristici lavori dei coniugi Bennassar o di Lucia Rostagno sui rinnegati, i cosiddetti ‘cristiani di Allah’5, gli studi di Attilio Milano e di Giuseppe Sermoneta sui battesimi di ebrei6, o di Fausto Parente sul confronto ideologico tra ebrei e cristiani7. Ma pochi lavori si erano posto il problema che poneva Luigi Fiorani nel fascicolo della sua rivista: vale a dire, come si declinava il tema della conversione all’interno non solo della proposta religiosa controriformistica, ma soprattutto all’interno di una città, Roma, che andava assumendo proprio a partire dal Cinquecento la fisionomia di ‘una nuova città’, di una città rinnovata nel profondo perché doveva rispondere ai modelli e alle preoccupazioni teologiche della Chiesa tridentina? Verso la nuova città. Conversione e conversionismo a Roma nel Cinque-Seicento si intitolava infatti il corposo intervento di Fiorani nel volume, lungo ben 95 pagine. E vedremo più avanti quale ulteriore accezione poteva e può assumere l’espressione ‘verso la nuova città’, al di là di quella centrata sull’autoriforma e sul processo di rinnovamento e di disciplina innescato e proseguito, tra Cinque e Settecento, dall’interiorizzazione della religione e dei canoni postridentini.

4 Mi limito a citarne solo alcuni titoli generali: La conversion au x VIIe siècle. Actes du x IIe Colloque de Marseille du Centre Meridional de Rencontres sur le x VIIe siècle (janvier 1982), Marseille, Roger Duchene, 1983; De la conversion, a cura di j. ch. attias, Paris, Cerf, 1997; Conversioni nel Mediterraneo, a cura di a. foa e l. scaraffia, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (1996).

5 b et l bennassar, Les chrétiens d’Allah. L’ histoire extraordinaire des renégats ( x VIe et x VIIe siècles), Paris, Perrin, 1989 e l rostagno, Mi faccio Turco. Esperienze e immagini dell’Islam nell’Italia moderna, Roma, Istituto per l’Oriente, 1983.

6 a. milano, Il ghetto di Roma. Illustrazioni storiche, Roma, Staderini, 1964 e id., Battesimi di ebrei a Roma dal Cinquecento all’Ottocento, in Scritti in memoria di Enzo Sereni, a cura di d carpi, a milano, u nahon, Milano – Gerusalemme 1970, pp. 133-167; Ratto della Signora Anna del Monte trattenuta a’ Catecumini tredici giorni dalli 6 fino alli 19 maggio anno 1749, a cura di g sermoneta, Roma, Carucci editore, 1989 (riedito con introduzione da m caffiero, Rubare le anime. Diario di Anna del Monte ebrea romana, Roma, Viella, 2008).

7 f. parente, Il confronto ideologico tra l’Ebraismo e la Chiesa in Italia, in Italia Judaica. Atti del I convegno internazionale, Bari, 18-22 maggio 1981, Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 1993, pp. 303-381.

2. Il primo dato da notare dell’articolato saggio di Fiorani, oltre alla ricchezza di informazioni e di suggestioni che, spesso, come era suo solito si concentrano nelle densissime note, è il gioco storiografico centrato sui due diversi significati del lemma ‘conversione’. La plurivalenza semantica del termine, infatti, può riferirsi a fenomeni assai diversi, interreligiosi o intrareligiosi, letterali o metaforici: dal passaggio da una fede all’altra, e dunque da una appartenenza religiosa e comunitaria all’altra – talvolta con ritorni indietro, cioè ri-conversioni e apostasie, alla profonda trasformazione dell’io, della soggettività, e della propria vita interiore e esteriore a seguito di crisi, senza mettere però in discussione l’appartenenza a una fede bensì il come dell’appartenenza. Esiste un ampio ventaglio di tipologie di conversioni indicato dalla medesima parola, che implica una pluralità di senso e di uso.

Fiorani era ben consapevole di tale pluralità. Innanzi tutto, infatti, egli si sofferma sulla conversione intesa come metánoia, come percorso di profonda trasformazione interiore, in cui la coscienza dell’individuo dell’epoca considerata evolveva, a suo parere, in parallelo con la trasformazione della città e della comunità. Se Roma tutta si convertiva, si purificava, si emendava nei costumi e nelle pratiche rispetto alla rappresentazione di disordine data polemicamente dalla Riforma, ma sentita profondamente anche all’interno della Chiesa, la politica conversionistica che passava attraverso le missioni doveva innescare un processo di trasformazione radicale che non riguardava solo la comunità, il collettivo urbano, ma il singolo cristiano chiamato a convertirsi a Dio8. Da questo punto di vista, la conversione è intesa come rinnovamento, rinascita, cambiamento radicale da uno stato all’altro, un mutamento che dona vita a una persona diversa e che presuppone un conflitto nella personalità e una discontinuità nelle convinzioni, nei comportamenti e nelle scelte di vita del cristiano. Questo tipo di conversione si può operare solo all’interno della ‘vera’ religione. Proprio per questo, appare particolarmente indovinata l’opzione di Fiorani di cominciare la sua trattazione del tema dalla figura di Ignazio di Loyola e dalla sua personale conversione per analizzarne l’opera concreta, attiva, di conquista delle anime e di trasformazione delle coscienze. Si trattava di un operato complessivo a cui proprio l’idea di conversione impresse unità, sia che si trattasse della predicazione, dell’assistenza ai poveri, delle missioni rurali e urbane o extraeuropee, oppure della fondazione di collegi per formare missionari (cioè, scrive Fiorani, «operatori di conversioni»9), delle conversioni di ebrei o di

8 l. fiorani, Verso la nuova città, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 10 (1998), p. 94.

9 Ibidem, p. 99 prostitute, dell’insistenza sulla pratica sacramentale della confessione come momento chiave della conversione, e infine dei riti penitenziali che attraversavano in cortei e processioni la città. È una dimensione tutta interiore e affettiva, un lavoro sulla coscienza che le ricerche più recenti hanno ripreso e sottolineato. Ad esempio, in un convegno i cui Atti sono usciti con il titolo di Forzare le anime. Conversioni tra libertà e costrizione in età moderna10 , il contributo di Pierre-Antoine Fabre, che parte dagli Esercizi spirituali di Ignazio, illumina bene le tappe del processo della conversione del cristiano a Dio e il momento in cui la forza divina entra nell’anima e agisce sulla volontà e gli affetti, con tutte le conseguenze di «questo passaggio diretto di Dio», senza intercessioni e mediazioni. Scrive Fabre che l’esercizio della scrittura – gli Esercizi – è un modo per conservare questa forza e replicare le emozioni sentite11.

Questa prima accezione della conversione come riforma interiore era seguita da Fiorani anche all’interno di altre dimensioni, come quella, a lui particolarmente cara, delle confraternite e delle organizzazioni laicali in genere, in cui «riforma interiore e militanza confraternale»12 si fondono insieme nell’opera assistenziale praticata. L’ autore sollecitava una più approfondita disamina del rapporto confraternite – conversione, che effettivamente ancora manca e che solo in parte è stato riempito dalla recente, ricca storiografia sui giubilei e anni santi, periodi in cui si dispiegava più forte l’opera confraternale, materiale e immateriale. Per questo aspetto si soffermava sulla figura di un altro santo non romano, ma in realtà molto romano, Filippo Neri, e sulla sua attività conversionistica verso ‘eretici’ e ebrei. E non era certo un caso che proprio dall’ambiente degli oratoriani, prima con Giovenale Ancina e poi con Mariano Sozzini, prendesse avvio l’istituto specializzato nella conversione dei riformati, l’ospizio dei convertendi, che nacque nel 1673 e la cui attività era rivolta al gran numero di pellegrini ‘eretici’ che giungevano a Roma da diversi paesi del nord Europa con l’intenzione di diventare cattolici: al conversionismo devoto di Filippo Neri era dedicato nel fascicolo l’articolo di Maria Teresa Bonadonna Russo. Anche questo tema è stato, oggi, approfondito da nuove ricerche; in particolare da quelle di Ricarda Matheus che, sempre nel volume sopra citato, Forzare le anime, ha ripreso l’analisi del metodo conversionistico filippino e oratoriano fondato, più che sulla controversia teologica e sulla cifra dottrinale, sulla convinzione intima delle anime, conquistate attraverso l’intervento caritativo e l’emotività suscitata da un metodo centrato sulla pratica devozionale, sulla musica, sulle visite alle chiese e dunque sugli aspetti affettivi13.

10 Numero monografico della «Rivista di storia del Cristianesimo», 2010, 1, a cura di m. caffiero.

11 p.-a. fabre, La circulation de la force dans les Exercices spirituels d’Ignace de Loyola, in Forzare le anime, pp. 85-95.

12 fiorani, Verso la nuova città, p. 110.

3. Il secondo significato del fenomeno della conversione esaminato nel volume era quello relativo ai passaggi confessionali verso il cattolicesimo romano effettuati da appartenenti ad altre fedi, cristiane o non. Qui, l’attenzione di Fiorani si concentrava prevalentemente sui cosiddetti eretici e sugli ebrei, mentre restava del tutto nell’ombra il fenomeno, assai più grandioso numericamente in Europa, delle conversioni di cristiani all’islamismo e, per quanto riguarda Roma, quello dei musulmani che passavano al cattolicesimo. Si tratta di un vuoto tanto più strano in quanto la Casa dei catecumeni dalla cui documentazione Fiorani traeva le sue informazioni era destinata fin dalla fondazione al proselitismo nei confronti tanto di ebrei quanto di musulmani, come ben dimostrano sia gli studi di Rudt De Collenberg sui registri della Casa dei catecumeni sia l’inventario stesso redatto da Rocciolo, nonché le osservazioni di quest’ultimo contenute nella introduzione allo stesso inventario. Un vuoto che recentemente, riflettendo le sensibilità diverse sul tema innescate dall’attualità, si è cominciato a colmare anche in Italia con una serie di ricerche che hanno cercato di ricostruire strategie, racconti, motivazioni dei frequenti transiti spirituali dall’Islam al cristianesimo (e viceversa) e la loro coincidenza con transiti materiali, spaziali, delle frontiere tra mondo musulmano e quello cristiano14. I passaggi tra confini si declinano così spesso in parallelo tra mobilità spirituale e mobilità culturale, da un lato, e sfera geografica, politica e materiale, dall’altro, e costituiscono un ottimo punto di vista per studiare porosità di frontiere, universi di scambi e forme di assimilazione sociale e culturale.

La conversione come cambiamento di appartenenza religiosa si modula in un’ampia gamma di forme e strategie: la conversione coatta, quella volontaria, sofferta e consapevole, quella esteriore, opportunista o simulata, quella esibita come prova di santità. Essa in ogni caso denuncia un paradosso: dal versante degli operatori della conversione, segnala un’ossessione conver- sionistica che percorre tutta l’età moderna e che si declina nella volontà di omogeneizzazione, di riduzione delle minacciose diversità e di riconquista religiosa totalizzante; dall’altro versante, quello dei convertiti, costituisce uno strumento di integrazione sociale e culturale in un’appartenenza diversa che dimostra una grande capacità inclusiva e di assimilazione del ‘diverso’, dell’altro, del nemico, rendendolo invisibile in quanto integrato. L’ étranger invisible era il tema centrale, del resto, di un recente convegno tenutosi a Roma, organizzato dall’EHESS di Parigi e dall’Istituto spagnolo di cultura, in cui la nozione di visibilità e invisibilità dello straniero e del diverso era esaminata anche attraverso le conseguenze della conversione15.

13 Si veda qui la nota 1.

14 Si vedano le ricerche pubblicate in Schiavitù e conversioni nel Mediterraneo, a cura di g. fiume, «Quaderni storici», XLII (2007), 126, n. 3, e ora g. fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2009. Per quanto riguarda Roma e le conversioni dall’Islam rinvio ai lavori citati nella nota successiva.

L’ ottica da cui Fiorani guardava alla conversione al cattolicesimo da altra fede era duplice: da un lato, gli interessava la cifra politico-religiosa e polemica, tesa alla confutazione dell’errore e all’affermazione della unica verità del cattolicesimo, nonché della supremazia papale; dall’altro lato, intendeva sottolineare gli effetti di integrazione provocati dalla conversione. La prima dimensione era evidente nella conversione dei protestanti, dimostrata dall’esempio clamoroso di Cristina di Svezia il cui passaggio al cattolicesimo nel 1654 venne utilizzato e esibito come una forte arma di propaganda e come spinta e modello per altre conversioni riconducibili alla sfera delle motivazioni ‘politiche’ e ideologiche. Nella strategia generale seicentesca di rilancio dell’autorità del papato e del ruolo di Roma, in funzione antiprotestante, ma anche di eliminazione di dissensi interni, la conversione di Cristina si riverberava nella glorificazione del papa e del suo potere16. Giustamente, Fiorani allargava lo spettro cronologico del suo esame della valenza politico-ideologico delle conversioni ricordando di passata – nelle note – quanto numerose fossero state anche dopo la Rivoluzione francese e nel corso della Restaurazione in Europa i passaggi di riformati – non sempre aristocratici, molti intellettuali – alla confessione cattolica. Segnalava così una pista di ricerca che proprio recentemente è stata seguita da uno studio articolato di Claudio Canonici che ha attirato l’attenzione sul fenomeno e ne ha analizzato i caratteri e il significato politico e religioso17. Esso viene interpretato, più che come moto dell’anima e espressione di un sentimento, quale risultato di una visione che insisteva sulla maggiore efficacia del cattolicesimo nel contrastare l’incredulo spirito dei tempi, le minacce della cultura moderna e i suoi esiti di secolarizzazione. Ma, paradossalmente, e in contrasto con il protestantesimo da cui il convertito proveniva, ciò che si cercava con l’adesione alla religione romana era in realtà la svalutazione della ragione autonoma, la ricerca e la sottomissione al principio di autorità, l’unità e l’immobilità della dottrina stabilita dai dogmi, di fronte ai quali la ragione doveva fermarsi18. I convertiti si rivelavano così gli strumenti più efficaci per contrastare le nuove idee e i nuovi assetti sociali e politici.

15 Per le conversioni di musulmani a Roma, cfr. m. caffiero, Battesimi, libertà e frontiere. Conversioni di musulmani e ebrei a Roma in età moderna, «Quaderni storici», XLII (2007), 126, n. 3, pp. 821-841; ead., Juifs et musulmans à Rome à l’époque moderne entre résistance, assimilation et mutation identitaire. Essai de comparaison, in Les musulmans dans l’histoire de l’Europe a cura di j dakhlia e b vincent, Paris, Albin Michel, 2011, pp. 593-609 e ead., Per una storia comparativa: l’Inquisizione romana nei confronti di ebrei e musulmani in età moderna, in A dieci anni dall’apertura dell’archivio della Congregazione per la dottrina della fede: storia e archivi dell’inquisizione, Roma, Accademia dei Lincei, 2011, pp. 497-518.

16 Sulla conversione di Cristina di Svezia la bibliografia è vastissima ed è riportata ampiamente da Fiorani nel lungo paragrafo dedicato alla sovrana, alle pp. 129 e ss. e 141-149.

E qui va aggiunto di passata un altro elemento emerso dalle nuove ricerche, ma già vagamente adombrato nel volume curato da Fiorani19: vale a dire, l’analisi dei racconti di conversione che costituiscono un vero e proprio genere letterario e retorico ma che, dietro alle argomentazioni apologetiche e edificanti, rivelano percorsi di vita, autobiografie spirituali, narrazioni di sé in prima persona che consentono di cogliere l’emergere di una soggettività, di una consapevolezza dell’individuo che trascende il sistema delle appartenenze e degli incorporamenti tipici dell’età moderna. Si tratta di quelli che oggi chiamiamo ego-documents, che stanno al centro di molte ricerche europee tese a indagare la costruzione del concetto di ‘persona’ e che costituiscono una fonte importante della storia sociale e culturale per l’apporto che offrono all’analisi della costruzione dell’identità, della memoria e delle appartenenze di vari soggetti e di singoli individui. La storia delle conversioni attraverso i racconti – si pensi all’autobiografia di Al-Hasan Al-Wazzam, ribattezzato con la conversione Leone l’Africano, recentemente ripresa e analizzata da Natalie Zemon Davis20, ma anche ai tanti racconti di vita che escono dalla fonti documentarie – costituisce così un segmento importante della storia della nascita dell’individuo moderno.

4. L’ esito dell’assimilazione e dell’integrazione dei convertiti sta ancora al centro dell’esame che Fiorani intraprende della ‘santissima opera’ della

17 c canonici, “L’ aversion pour l’une le dégoûta de l’autre”. Lumi, filosofia, rivoluzione nelle conversioni al cattolicesimo fra Settecento e Ottocento, in Forzare le anime, pp. 127-138.

18 Ibidem, p. 135.

19 Intervento di j. le brun, Conversion et continuité intérieure au x VIIe siècle, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 10 (1998), pp. 50-61.

20 n. zemon davis, La doppia vita di Leone l’africano, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ediz. originale New York 2006).

MODELLI, STRATEGIE, PRATICHE 201

conversione degli ebrei 21. Argomento importantissimo per la storia religiosa, ma anche culturale e sociale di Roma, dal momento che la città era sede della più antica e consistente comunità locale. Ma, soprattutto, in quanto la presenza degli ebrei nella città che si voleva santa, pur sottoposta alla segregazione attraverso lo strumento del ghetto ‘inventato’ in età moderna (1555), rappresentava non soltanto un problema teologico e ideologico, ma introduceva anche la difficoltà di gestire un rapporto complesso, conflittuale, ma fatto pure di scambi e di relazioni. La questione ebraica rientrava in pieno nella riorganizzazione, missionaria, disciplinante e di riconquista in atto all’interno della Chiesa cattolica, in cui gli ebrei entravano come soggetti da convertire, ma era fondata sulla contraddizione paradossale della necessità di salvaguardare la presenza degli ebrei in quanto essi erano i testimoni della verità del cristianesimo. Esclusione, dunque, degli ebrei in quanto ebrei, ma anche inclusione, poiché essi facevano parte integrante dell’economia della salvezza; soprattutto, ossessione conversionistica e ansia di riduzione alla ‘normalità’ dell’identità diversa, con l’assimilazione totale dei neofiti nel tessuto sociale urbano.

Nel 1543 nasceva a Roma la Casa dei catecumeni nella quale la spinta al battesimo di ebrei e musulmani, all’interno di un calibrato sistema di premi e punizioni, rivelava e praticava molti livelli di forzatura, operati in concorrenza e in collaborazione con la pure neonata Congregazione dell’Inquisizione. Ma, quanto agli ebrei, la tolleranza a Roma della loro presenza – sia pure rinchiusa nel ghetto, che costituiva anch’esso, con le sue limitazioni e la pessima qualità della vita, altro strumento di spinta alla conversione – pone in stretto rapporto tale tolleranza con la conversione al cristianesimo, a cui essa era finalizzata e che costituiva l’obiettivo primario. Un discorso un po’ diverso, invece, è quello che riguarda la presenza musulmana, di cui non sembrava così impellente o fondamentale la conversione che, comunque, non liberava affatto dalla schiavitù, come invece ci si aspetterebbe (e molti ancora sostengono) In ogni modo, il clima della Controriforma costituisce il contesto ideologico-culturale e imprescindibile da cui si avvia in generale l’imponente opera di pressione conversionistica e di annullamento della diversità sulla base dell’unica verità a cui conformarsi. Non c’è dubbio però che la diversità più irritante e preoccupante era proprio quella ebraica in quanto poneva problemi teologici e identitari molto forti per i cristiani.

21 fiorani, Verso la nuova città, pp. 165-176. Nello stesso fascicolo compaiono anche i saggi sul tema di m. procaccia, “Bona voglia” e “modica coactio”. Conversioni di ebrei a Roma nel secolo x VI, pp. 207-234 e di c. canonici, Condizioni ambientali e battesimo degli ebrei romani nel Seicento e nel Settecento, pp. 235-271.

Se l’analisi di Fiorani indulge a qualche imprecisione, dovuta allo stato degli studi all’epoca in cui egli scriveva – ad esempio, la sopravvalutazione del ruolo della Compagnia di Gesù nella nascita e gestione della Casa dei Catecumeni –, essa indicava tuttavia una serie di aspetti e di piste che le ricerche successive avrebbero approfondito sulla base della nuova documentazione messa a disposizione: anche perché, significativamente, nello stesso anno in cui usciva il volume di «Ricerche per la storia religiosa di Roma» di cui stiamo trattando si aprivano le porte dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede in cui erano conservati e ora resi accessibili agli studiosi moltissimi materiali inquisitoriali su ebrei e neofiti.

Nella sua analisi, Fiorani non si soffermava sugli aspetti più duri dell’attività conversionistica verso gli ebrei, supportata da decreti papali, da istituzioni deputate alla conversione, da autorità ecclesiastiche varie, e dal tessuto sociale dei padrini e madrine, né trattava del vistoso e delicato fenomeno dei battesimi forzati. Tuttavia, di questo «furore conversionistico» – così lo definisce 22 – sottolinea con sincerità «l’ambiguità e i limiti», derivanti da una «cultura del sospetto e della discriminazione»23, rivelando una sensibilità che si riflette nelle pagine finali, tormentate e sofferte, in cui tratta senza infingimenti dell’«alto prezzo» pagato dagli ebrei romani al complessivo progetto religioso controriformistico24. Anche su un altro punto vorrei richiamare l’attenzione, vale a dire sulla dimensione interpretativa e per nulla apologetica che emerge dallo scritto che è quella, modernissima e attuale, fondata sul tema identitario. Verso una nuova identità si intitolava infatti il penultimo e conclusivo paragrafo del saggio di Fiorani, indicando con chiarezza il nodo interpretativo centrale. Se le frontiere della cristianità si rivelano malleabili e elastiche, le Case dei catecumeni, invenzione tipicamente italiana, papale e controriformistica, nata per istruire gli infedeli da avviare al battesimo, insieme agli Ospizi dei convertendi destinati ai protestanti, diventano forme istituzionalizzate di integrazione sociale. Il battesimo è fondatore di una nuova identità, di cui diventa segnale il nuovo cognome assunto, mezzo di riconoscimento pubblico e insieme, paradossalmente, anche fattore di invisibilità, di assorbimento nel tessuto cittadino e nella nuova comunità.

Allora anche il titolo generale del saggio Verso la nuova città assume, alla luce delle ricerche odierne, un senso diverso da quello sopra descritto, caratterizzato dalla sola cifra controriformista. È un titolo efficace e pregnante, assai più di quello Roma, la città del papa, attribuito al volume degli Annali

22 fiorani, Verso la nuova città, p. 185.

23 Ibidem, p. 184.

24 Ibidem, p. 186.

Einaudi che Luigi Fiorani curò insieme con Adriano Prosperi: un volume che mise in circolo un’espressione che da allora è entrata nel lessico storiografico corrente pur non corrispondendo in pieno alla storia e alla fisionomia della città che si voleva raccontare, dall’età moderna fino a oggi 25 . Verso la nuova città è invece un titolo efficace e pregnante non solo perché allude all’autoriforma ritenuta necessaria, e realizzata dispiegando tutte le strategie di ricostruzione cattolica – tra le quali era centrale, come si è visto, la spinta conversionistica –, ma perché indica una caratteristica già evidente nella Roma di età moderna che è divenuta la caratteristica peculiare della città di oggi: il pluralismo religioso e culturale. Infatti, se ci si pone dal punto di vista delle conversioni, sia la città di Roma sia soprattutto i due microcosmi che riflettono e amministrano tale fenomeno, cioè la Casa dei catecumeni e l’Ospizio dei convertendi, ci appaiono come vere e proprie terre di confine, frontiere e aree di crocevia delle minoranze religiose e culturali in cui i passaggi dall’una all’altra religione, e anche da un paese all’altro, erano frequenti e soprattutto visibili, ritualizzati, resi noti e pubblici, raccontati e letti. Sia nel caso che si tratti di passaggi al cattolicesimo, e dunque di trasferimenti nell’Urbe, sia nei casi inversi di apostasie, abbandoni e fughe dalla città, quasi sempre in direzione dei paesi del tollerante Islam, tutta l’Europa e in particolare il bacino del Mediterraneo si presentano fittamente percorsi da traiettorie intrecciate che convergono a Roma o si dipartono da Roma: città la cui stessa dimensione conversionistica e la cui pretesa di egemonia religiosa e universalistica la rendono meta o punto di partenza di una mobilità allo stesso tempo fisica, geografica e spirituale, italiana e per così dire ‘nazionale’ e anche internazionale.

Sono dimensioni che Fiorani aveva intuito, pur nella mancanza ancora di ricerche approfondite, arrivate successivamente. Queste hanno offerto dati che a mio parere devono mutare sensibilmente la percezione storica di Roma in età moderna, liberandoci dall’idea e dal mito di una città dall’identità sociale e culturale – e perfino etnica e antropologica – definita nel lungo periodo, chiusa, compatta, immobile e unitaria e fanno emergere invece una fisionomia assai più articolata, dalle molte ‘contaminazioni’ e impregnata di molteplicità identitarie 26. Una fisionomia capace di mettere in questione e

25 Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtył a, a cura di l fiorani e a prosperi, in Storia d’Italia, Annali, 16, Torino, Einaudi, 2000.

26 Sul mito e sullo stereotipo della derivazione incorrotta del popolo romano dagli antenati della romanità classica, che corrisponde a una autorappresentazione urbana secolare e diffusa ed esprime una retorica della romanità adottata e fatta propria da viaggiatori di farci interrogare sui contenuti della stessa categoria di identità che oggi domina il linguaggio storiografico e che, se intesa troppo rigidamente – per costruire una visione monolitica (e inesistente) delle società di età moderna –, non aiuta la comprensione delle difficili congiunture contemporanee. e da storici fino a tempi recenti, si veda m. cattaneo, La sponda sbagliata del Tevere. Mito e realtà di un’identità popolare tra Antico Regime e Rivoluzione, Napoli, Bibliopolis, 2004 e prima a. giardina – a. vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000.

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