78 minute read

LUIGI FIORANI E GLI STUDI SUL SETTECENTO RELIGIOSO ROMANO

Vorrei ricordare, insieme con voi, con sentimenti di grande amicizia, uno studioso, col quale ho avuto per molti anni più occasioni d’incontro nel nostro comune lavoro e più ragioni di convergenza, e spesso d’intreccio, nei nostri personali percorsi di ricerca sul Settecento religioso. Non dedicherò tuttavia, estesamente, questo mio intervento agli studi sul Settecento religioso in generale, vale a dire agli orientamenti e alle prospettive che si sono delineate nel settore in questi ultimi decenni, in quanto una recentissima rassegna di Marina Caffiero ci può guidare con mano sicura nel complesso panorama che una tematica religiosa attualmente offre – e ci auguriamo continuerà ad offrire – alla nostra conoscenza del secolo dei Lumi1. Mi limiterò qui a richiamare almeno alcuni elementi di un quadro storiografico come esso si è configurato dagli anni ’50-’60 del Novecento, per meglio cogliere la collocazione di Fiorani in un contesto di studi, che egli coltivò largamente, e per valutare più adeguatamente quel che è stato il suo contributo in un ambito di ricerche che non senza difficoltà, come diremo, si è sviluppato, e via via affermato, all’interno della storiografia modernistica italiana.

È noto – ma è opportuno ricordarlo – che la tradizione degli studi sul Settecento, legati nella cultura italiana a quelli sul Risorgimento, è stata a lungo una storiografia ‘laica’, volta all’individuazione dei motivi culturali e ideali che furono alla base del movimento unitario, degli ‘albori’, come si diceva, o per riprendere il titolo dell’opera di Ettore Rota, che pure toccò aspetti politico-religiosi del secolo, delle ‘origini’ del processo di unificazione nazionale. E su questa linea gli aspetti religiosi del Settecento in larga parte venivano identificati col giansenismo: sia stata la ricerca di Jemolo (1928), che ne sottolineava però, in polemica col Rota, le radici profonda-

Advertisement

1 Cfr. m. caffiero, Il Settecento religioso, in Il Settecento negli studi italiani. Problemi e prospettive, a cura di a. m. rao e a. postigliola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 185-194.

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it mente intrise di forti e lontani valori religiosi, sia stata l’interpretazione di Codignola, sulla soglia degli anni ’40, che ne esaltava invece i valori di ‘modernità’ nell’impulso dato all’autonomia della coscienza individuale 2 È con gli studi di Ettore Passerin d’Entrèves, docente a Pisa di storia del Risorgimento agli inizi degli anni ’50, storico cattolico dalla fine sensibilità religiosa, studi dedicati al giansenismo toscano in rapporto al riformismo illuminato leopoldino (1953-55) attraverso il nesso inscindibile tra politica e religione, che assistiamo ad una svolta decisiva nelle ricerche sul giansenismo italiano, saldamente inserite in quelli che furono i dibattiti, gli scontri e le spinte del movimento riformatore settecentesco3. Sono questi, peraltro, gli stessi anni in cui il Settecento incontrava sul piano storiografico complessivo una svolta, che dava vita ad una nuova, larga valutazione interpretativa. Non è un caso che nel 1953, al XXXII congresso di storia del Risorgimento di Firenze, e poi nella «Rassegna storica del Risorgimento» del 1954, Franco Venturi abbia presentato quell’articolo su La circolazione delle idee, che resterà alla base della sua riflessione storica, e che ispirerà, a partire dal 1969, tutta la sua successiva, poderosa attività di studioso del Settecento riformatore, dagli innumerevoli articoli dedicati al movimento dei Lumi ai diversi volumi degli Illuministi italiani pubblicati presso l’editore Ricciardi. Un’interpretazione forte ed organica, questa di Venturi, di intensa matrice laica, destinata presto, per l’ampiezza del panorama che era in grado di offrire, ad essere egemone nella storiografia settecentista italiana4.

Se Venturi continuerà negli anni successivi, con grande coerenza, il suo monumentale lavoro sul Settecento riformatore, Passerin d’Entrèves, con la fine degli anni ’50, interrompeva, anche se non del tutto, le sue ricerche sul giansenismo e sul Settecento politico e religioso. Nel corso degli anni ’60 e ’70, e persino più avanti, si susseguiranno certo da parte sua numerose recensioni, come quelle dedicate ai lavori di Pietro Stella, e rassegne, come quella approntata con Francesco Traniello nel 1967, Ricerche sul tardo giansenismo italiano, sino all’ultimo contributo, preparato in occasione del bicentenario del sinodo di Pistoia (1986), ma apparso postumo nel 1991, in cui Passerin d’Entrèves rilegge, per così dire, le Memorie di Scipione de’ Ricci e ripercorre le linee dei suoi lavori degli anni ’50. Non era un mutamento d’interessi, quanto piuttosto un affiancarsi in lui di altri temi, accanto a quelli riguardanti il giansenismo, legati ad altri filoni di ricerche, come quelli sul cattolicesimo liberale, che si erano andati accentuando allora sotto la spinta delle discussioni intorno al centenario dell’Unità d’Italia e al processo risorgimentale5. Parallelamente, mutato quel che va mutato, andava intanto avviando le sue ricerche sul Settecento religioso chi, come me, si muoveva sulla linea di una storiografia laica, nel contesto di quelle trasformazioni, che caratterizzarono la cultura storica italiana degli anni ’60-’70, come viene richiamato dalla citata rassegna di Marina Caffiero alla quale volentieri rinvio 6 .

2 Per questa fase di studi, cfr. f. margiotta broglio, Appunti storiografici sul giansenismo italiano, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, I, 2, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 791-849.

3 Cfr. f traniello – f bolgiani – g rutto, Introduzione. La storiografia militante di Ettore Passerin d’Entrèves, in Dai quaccheri a Gandhi. Studi di storia religiosa in onore di Ettore Passerin d’Entrèves, a cura di f traniello, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 7-20, in particolare pp. 14-15; ibidem, pp. 31-40, la bibliografia degli scritti.

4 Cfr. f. venturi, La circolazione delle idee, «Rassegna storica del Risorgimento», XLI (1954), pp. 203-222; sulla storiografia di Venturi cfr. tutto il numero 2-3 dedicatogli dalla «Rivista storica italiana», CVIII (1996).

Non v’è dubbio che, nonostante uno sviluppo non privo di difficoltà, nel corso dell’ultimo trentennio del secolo appena trascorso, il quadro del Settecento religioso si andasse comunque ampliando e articolando anche ad opera di altri studiosi, più maturi come Vittorio Emanuele Giuntella, e più giovani, tra i quali possiamo annoverare lo stesso Fiorani, e poi Marina Caffiero, e altri ancora. Ed è a questo punto che va richiamata, proprio perché più vicina al nucleo del nostro discorso, la figura di Giuntella, studioso cattolico schivo ed attento, la cui testimonianza religiosa e le cui qualità umane e scientifiche sono state di modello per molti suoi amici e discepoli, e segnatamente per chi gli è stato assai vicino, come Fiorani.

Nel quadro degli studi sul Settecento, quelli su Roma e lo Stato della Chiesa erano rimasti anch’essi a lungo, sino al crinale degli anni ’60-’70, affidati sostanzialmente ad una tradizione storiografica marginale, di costume ed aneddotica, ispirati in prevalenza da una curiosità meramente letteraria, sia perché, da un lato, la storiografia laica ‘risorgimentista’ li escludeva dalla propria sfera di interessi, per la persistenza del ruolo negativo attribuito al papato nel processo pre-unitario e unitario, sia perché, dall’altro, la storiografia modernistica riguardo ai problemi religiosi era proiettata, tra gli anni ’50-’60, sui temi della riforma cattolica e delle applicazioni dei decreti tridentini nelle diocesi italiane. È merito di Giuntella aver avviato intorno ad alcuni nodi della storia settecentesca di Roma, in particolare intorno al nodo rivoluzionario di fine secolo, un rinnovamento sostanziale, a partire dal 1950, con La giacobina repubblica romana, con le Assemblee della repubblica romana del 1954, con Cristianesimo e democrazia in Italia al tramonto del Settecento del 1955, e specificamente con le Ricerche per la storia religiosa di Roma nel Settecento, in «Studi romani» del 1960, con Studi sul Settecento romano, appari sulla stessa rivista nel 1961, sino all’importante volume complessivo Roma nel Settecento del 1971. Ricerche e lavori, questi, che saranno seguiti da altri saggi su Roma nell’età napoleonica, sulla controrivoluzione in Italia (1988) e sugli orientamenti religiosi e democratici del Triennio (1990): venendo a costituire, sul filo degli anni, un quadro coerente e a fornire i caratteri concreti di un ‘osservatorio’, dal quale sviluppare una storia religiosa di Roma nello snodo tra l’età moderna e l’età contemporanea7

5 Cfr. traniello – bolgiani – rutto, Introduzione; per il rinnovato interesse di Passerin d’Entrèves sul giansenismo, cfr. f traniello – e passerin d’entrèves, Ricerche sul tardo giansenismo italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», III (1967), pp. 279-313; e passerin d’entrèves, Scipione de’ Ricci dalla formazione giovanile all’esperienza sinodale. Rileggendo le sue Memorie, in Il sinodo di Pistoia del 1786. Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario Pistoia-Prato, 25-27 settembre 1986, a cura di c. lamioni, Roma, Herder, 1991, pp. 65-149.

6 Cfr. caffiero, Il Settecento religioso, in particolare pp. 189-192.

Maturano così le condizioni perché nascano, a partire dal 1977, con scadenza annuale, le «Ricerche per la storia religiosa di Roma» (dodici fascicoli, l’ultimo dei quali apparso nel 2009), aperte nel primo numero da una tavola rotonda su La storia religiosa di Roma: problemi e metodi, condotta da Gabriele De Rosa, Raoul Manselli, Mario Scaduto, Vittorio Emanuele Giuntella, Giacomo Martina: un periodico di cui sarà dall’inizio redattore Fiorani, la cui conoscenza della realtà religiosa romana si era intanto affinata e approfondita attraverso le rassegne annuali su «Studi romani» di cui diremo, e che aveva mostrato e confermerà sempre eccellenti doti di organizzatore culturale. Una preoccupazione centrale nell’avvio delle «Ricerche» sarà non solo l’individuazione dei temi da affrontare e delle linee da percorrere, ma l’attenzione rivolta in prospettiva alle fonti da utilizzare per la storia religiosa di Roma, esistenti in archivi ecclesiastici, come quello del Vicariato, oltre che nell’Archivio Segreto Vaticano, o in archivi pubblici e privati; e non a caso il sottotitolo della rivista porta «Studi documenti inventari», per sottolineare la necessità di acquisire ai fini della ricerca un patrimonio documentario, pressoché sconosciuto, che attendeva di essere indagato e valorizzato. Sarà Giuntella, nel suo intervento, ad indicare a grandi linee il percorso di un programma che verrà negli anni a venire ampiamente realizzato: tra l’altro, dagli studi delle confraternite a quelli dei processi di beatificazione

7 Cfr. i diversi contributi dedicati a Giuntella insieme con alcuni suoi scritti, raccolti sotto il titolo di La vocazione di uno storico. In memoria di Vittorio Emanuele Giuntella, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2000), pp. 49-185; ibidem, pp. 187-197, la bibliografia degli scritti.

LUIGI FIORANI E GLI STUDI SUL SETTECENTO RELIGIOSO ROMANO 209

e di canonizzazione di figure come quella del Labre, cui ha dedicato poi un lavoro suggestivo Marina Caffiero, o quella di san Paolo della Croce, al centro delle ricerche di Stefania Nanni, o ancora quella di san Leonardo da Porto Maurizio, richiamata più volte nelle sue ricerche da Pietro Stella8.

È in questo avvio delle ricerche verso nuovi approdi che possiamo chiederci quali siano stati la collocazione e il contributo di Fiorani negli studi sul Settecento religioso, in particolare in quelli riguardanti la storia religiosa di Roma. Devo dire che ignoravo la formazione scientifica e i primi interessi di Fiorani intorno a temi connessi alle antichità cristiane, su cui ha dato ampie informazioni Massimiliano Ghilardi, né saprei dire come sia maturato il passaggio di Fiorani ad interessi settecenteschi. È probabile che esso sia stato provocato, o magari facilitato, da un suo articolo apparso su «Studi romani» del 1967, dedicato ad Una figura dimenticata nel Settecento romano. L’ abate Onorato Caetani, che sarà seguito nel 1969 dal volume dedicato allo stesso personaggio, con appendice di documenti inediti: una pubblicazione, questa, come poi diversi profili di personaggi della famiglia Caetani apparsi nel Dizionario biografico degli Italiani, nel 1973, che possiamo riferire alle responsabilità di Fiorani quale archivista della Fondazione Caetani a partire dal 1963-64, prima di assumere anche la responsabilità dell’Archivio della Biblioteca Vaticana nel 19699.

Ma una collocazione in un contesto istituzionale può dire molto o poco a seconda che venga o non venga sostenuta da un interesse reale; e un interesse reale per il Settecento religioso vi fu in Fiorani, come appare di primo acchito da un saggio, Il secolo x VIII, inserito nel volume, Riti cerimonie feste e vita di popolo nella Roma dei papi (1970), dovuto a più autori, oltre lo stesso Fiorani, da Giuseppe Mantovano a Pio Pecchiai, da Antonio Martini a Giovanni Orioli10. Un saggio interessante, questo di Fiorani, che non dobbiamo valutare alla luce di linee di ricerca maturate in questi ultimi decenni, sotto l’impulso degli studi antropologici, e dedicate ai rituali e ai cerimoniali delle corti e alle festività urbane d’antico regime sotto il profilo simbolico e quali linguaggi del potere politico e/o religioso. Se ci si muove, col volume, in un altro contesto storico e culturale – siamo nel 1970 – ancora legato ad una linea tradizionale di studi, non possono non colpire però alcuni elementi che denotano in Fiorani una maturità di studioso e un dominio ormai sicuro della storiografia più antica e più recente sulla città di Roma, che intanto trovava posto nelle ‘cronache’ che lo stesso Fiorani andava elaborando per «Studi romani». Quel che a Fiorani in realtà interessava maggiormente non era tanto – a ben guardare – la valenza dei riti, delle cerimonie e delle feste romane, che pure vengono attentamente analizzate, ma erano i caratteri della vita religiosa romana settecentesca. È questo il filo rosso che contrassegna per Fiorani il profilo della città, dalla Curia al ceto ecclesiastico, alla nobiltà, ai ceti artigiani, ai poveri ed emarginati pullulanti nelle strade o chiusi nelle strutture assistenziali: un filo rosso, colto nelle cerimonie della settimana santa, nelle festività pasquali, nelle processioni e nei pellegrinaggi, ma anche nella socialità delle grandi feste e manifestazioni pubbliche, religiose, e altresì politiche per la presenza delle rappresentanze diplomatiche europee, o nell’esuberanza del carnevale, caratterizzate spesso, tali manifestazioni pubbliche come la consegna della chinea, dalla visibilità trionfale delle macchine e degli apparati celebrativi. Una vita religiosa esteriore o esteriorizzata, questa individuata da Fiorani, dove non mancano tuttavia, a suo giudizio, tensioni più riposte per una pietà e una religiosità interiormente vissuta. E non è un caso che Fiorani dedichi una specifica attenzione agli sforzi rivolti all’educazione catechistica popolare, all’assistenza ai poveri e agli emarginati, alle missioni, soprattutto alle confraternite e al loro ruolo religioso e sociale nella vita quotidiana, individuale e collettiva: temi, questi, che, qui abbozzati, costituiranno, come vedremo, momenti importanti nelle ricerche che Fiorani andrà compiendo negli anni successivi.

8 Cfr. g. de rosa – r. manselli – m. scaduto – v. e. giuntella – g. martina, La storia religiosa di Roma. Problemi e metodi, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 1 (1977), pp. 9-40.

9 Cfr. il profilo di Fiorani delineato da d rocciolo, Ricordo di Luigi Fiorani, «Archivio italiano per la storia della pietà», XXIII (2010), pp. 7-18.

10 Cfr. l. fiorani, Il secolo x VIII, in l. fiorani – g. mantovano – p. pecchiai – a. martini – g. orioli, Riti cerimonie feste e vita di popolo nella Roma dei Papi, Bologna, Cappelli, 1970, pp. 219-257.

È che di lì a poco Fiorani prendeva a collaborare con continuità a «Studi romani», come si è accennato, con ampie rassegne sul Settecento romano, che si susseguono dal 1971 al 1977. Riesce difficile, nella fisionomia di uno studioso, isolare un aspetto da un altro, e nel caso di Fiorani gli interessi sul Settecento religioso da quelli rivolti al quietismo seicentesco, al pauperismo sei-settecentesco, alle strutture monastiche o a quelle religiose laicali tra Rinascimento ed età barocca, alle missioni o alla religiosità popolare, temi da lui coltivati forse anche più largamente di quelli riferibili al Settecento religioso. È più che opportuno, tuttavia, a mio avviso, scorrere queste rassegne, che vanno ben al di là dell’occasione legata a un’accurata analisi delle opere recensite o richiamate, e che si allargano spesso a confronti, a interpretazioni storiografiche e a problemi di metodo. ‘Cronache’ le indica talora Fiorani: esse sono in realtà ampie discussioni, che riguardano non solo il Settecento religioso, ma l’intero secolo nelle aree diversificate in cui

FIORANI E GLI STUDI SUL SETTECENTO RELIGIOSO ROMANO 211

andavano allora sviluppandosi le ricerche. Soprattutto la prima rassegna del 1971 è un vero e proprio ‘manifesto’, nell’intento di contrastare, da un lato, una storiografia o piuttosto letteratura ‘romanistica’, come viene definita, fatta spesso di luoghi comuni e di facili clichés, per fortuna, come osservava lo stesso Fiorani, «ormai in via di totale esaurimento», e nell’invito, dall’altro lato, ad aprire o meglio a consolidare una nuova prospettiva, quale già appariva dalle ricerche di Venturi, Dal Pane, Giuntella, De Felice e altri: dove la storia politica, l’economia, la cultura, la realtà sociale, gli atteggiamenti religiosi di quella multiforme e cosmopolitica comunità che è la Roma del Settecento trovano una considerazione più attenta e misurata11

Fondamentali, in questa direzione, apparivano a Fiorani le ricerche d’archivio, che rappresentavano ad un tempo non solo una ragione di solidità della ricerca, ma la stessa chiave interpretativa della qualità profonda della storia della città: la via giusta da seguire – scriveva – sembra quella, precisamente, del reperimento e della lettura delle fonti, dell’indagine che rifiuta la facile sintesi o le conclusioni generali appoggiate su dati affrettati e provvisori. Tanto più necessario sembra quest’itinerario di scavo paziente dei documenti d’archivio, quanto più si ha l’impressione che la realtà vera di Roma tenda a esprimersi, se possiamo schematizzare, su un duplice piano: uno più immediatamente comprensibile e recensibile in cui si collocano le caratteristiche sociali più vistose della città. Ma questa prima dimensione non esaurisce il volto vero di Roma e lo storico che fermasse la sua indagine a questo livello darebbe certamente del Settecento romano un’immagine quanto mai parziale e sbiadita. Credo che bisogna tener conto di un altro piano, che trova forme più intime, più segrete, generalmente affidate ai carteggi e alle corrispondenze, nei quali filtrano le esigenze più profonde della città, si intrecciano dialoghi e si stabiliscono sodalizi intellettuali che danno la misura piena della sua vitalità spirituale12.

Da qui, sulla traccia delle opere recensite, l’attenzione dedicata alla storia delle biblioteche e degli archivi, agli studi allora avviati sulle riforme economiche delle Stato della Chiesa, al momento di rottura e poi di reazione rappresentato dalla Repubblica Romana. Da qui soprattutto l’attenzione indirizzata agli aspetti religiosi che direttamente o indirettamente si legavano alla realtà romana, cui è dedicata pressoché interamente la rassegna del 1972: dalle chiusure curiali nei rapporti con gli Stati italiani settecenteschi alla difficoltà o incapacità da parte della Curia di elaborare nuove e incisive forme di intervento pastorale, al giansenismo, incentrato sul lavoro innova-

11 Cfr. «Studi romani», XIX (1971), 3, pp. 323-332; la citazione è a p. 323.

12 Ibidem tivo di Marina Caffiero riguardante i rapporti tra il giansenismo romano e la chiesa di Utrecht, dopo le ricerche del Dammig risalenti al 1945, infine all’eremitismo romano settecentesco13

In questa direzione un rilievo particolare è destinato, comprensibilmente, a Roma nel Settecento (1971) di Giuntella, di cui Fiorani coglie assai bene l’interpretazione complessiva, in riferimento ai nodi sociali e religiosi che coinvolgono la città e il papato nel corso del secolo, sotto il segno di una ‘crisi’, stando a Giuntella, che va dall’emanazione della bolla Unigenitus, nel 1713, contro il giansenismo, all’occupazione francese di Roma e dello Stato della Chiesa negli anni rivoluzionari: una disgregazione e un crollo attribuiti appunto ad una ‘crisi’ di origine religiosa, all’incapacità da parte della Chiesa di riproporre lungo il Settecento, con un nuovo linguaggio, il suo messaggio spirituale. Non è un caso che Giuntella – quale sia stata la sua particolare sensibilità storica e religiosa che Fiorani richiama a conclusione della sua recensione – utilizzi la categoria storiografica di ‘crisi’, che era tenuta largamente presente in quegli anni nelle ricerche storiche, dietro suggestione della storiografia anglosassone, poiché essa sembrava definire allora una linea interpretativa mobile tra la categoria della longue durée o della ‘continuità’, derivata dalla storiografia francese delle «Annales», e quella della ‘rivoluzione’ o della ‘frattura rivoluzionaria’, di ispirazione marxista, come mostra l’interessante articolo di uno storico americano, Randolph Starn, apparso in «Past and Present» proprio nel 1971, e riproposto in traduzione italiana nel 197714.

Come che sia, quali che siano stati i punti di riferimento storiografici, l’interpretazione complessiva di Giuntella, che Fiorani condivide, e che, come vedremo, utilizzerà in molti suoi lavori, e specificamente in quello dedicato al concilio romano del 1725, potrebbe sembrare schematica e persino astorica, se non fosse sostenuta e verificata dalla ricchezza dell’analisi, che Giuntella sviluppa in riferimento ai limiti del riformismo papale e della cultura romana, al divario tra la città e la campagna, e al contrasto tra il carattere sacro della città e i costumi individuali e collettivi, ecclesiastici e laici: tutti elementi, questi, che saranno in seguito approfonditi, precisati ed anche corretti da altri studiosi, ma che restano sostanzialmente un’acquisizione assai significativa riguardo ai caratteri della realtà romana settecentesca.

13 Cfr. «Studi romani», XX (1972), 4, pp. 540-554.

14 Cfr. v e giuntella, Roma nel Settecento, Bologna, Cappelli, 1971; l’ampia recensione di fiorani è in «Studi romani», XXI (1973), 3, pp. 387-390. Sulla categoria di crisi e sulla sua utilizzazione storiografica cfr. r. starn, Historians and “crisis”, «Past and Present», 1971, 52, pp. 3-22 (trad. italiana Gli storici e il concetto di “crisi”, in Le origini dell’Europa moderna. Rivoluzione e continuità. Saggi da «Past and Present», a cura e con un’introduzione di m. rosa, Bari, De Donato, 1977, pp. 309-336).

Senza dilungarci ulteriormente nell’analisi delle rassegne di Fiorani, basterà richiamarne qui alcuni punti essenziali. Anzitutto il carattere che esse hanno quale tirocinio negli studi da parte di chi, come Fiorani, andava toccando temi lontani dal suo primo avvio nella ricerca: un’esperienza formativa, la sua, che peraltro veniva perseguita in generale allora – oggi assai meno – dagli studiosi giovani, nel confronto tra linee storiografiche diverse, nel corso di quei dibattiti che alimentavano, fra gli anni ’60 e ’70, un’intera stagione della nostra storiografia. In secondo luogo, la possibilità che esse offrono di seguire da vicino l’itinerario di uno studioso, le sue letture, le sue riflessioni, le sue proposte e i suoi suggerimenti di lavoro: un diario, insomma, nel quale vengono fissati i punti di un percorso destinato, come sappiamo, alla realizzazione di un programma più vasto. Infine – ed è quello che più conta – i modi che esse definiscono, ancor prima dei saggi pubblicati in gran parte nelle «Ricerche per la storia religiosa di Roma», o in altre sedi, e prima del volume sul concilio romano del 1725, della fruttuosa rielaborazione da parte di Fiorani della lezione di Gabriele De Rosa e di quella di don Giuseppe De Luca, e la concezione complessiva della Chiesa e della vita religiosa, sottesa alla sua ricerca storica. E si tratta di una Chiesa pastorale e pluralista, che viene attraversata da impulsi di riforma soprattutto sotto Benedetto XIV, ma che per intransigenza interna e resistenze e chiusure verso l’esterno viene via via esaltando la compattezza gerarchica e le ragioni curiali, mostrandosi, in analogia con la proposta interpretativa di Giuntella, sempre più sclerotizzata nel corso del secolo, sino alla catastrofe rivoluzionaria. Uno schema, questo, che potrebbe apparire rigido, se in Fiorani, che pure non dà, nella sua interpretazione, spazio al giansenismo o al confronto della Chiesa cattolica con i Lumi, non fosse sempre presente, come si è già accennato riguardo all’interpretazione di Giuntella, un quadro più mosso e non fosse sempre forte il richiamo a quelle tensioni e a quei fermenti che muovevano un panorama sostanzialmente chiuso e tetragono alle riforme: dal vissuto quotidiano dei fedeli alla fisionomia del clero, e in particolare del prete romano, alla rete delle confraternite e delle pratiche religiose popolari, all’attività dei missionari, alla presenza, come si è accennato, di figure carismatiche circondate allora e poi da un’aureola di santità15.

Non mi soffermo specificamente su alcuni articoli, che si collocano in questo contesto, né su quelli che si collegano all’arco di tempo che va dal pontificato di Pio VI al nodo rivoluzionario, dei quali discuterà Mario Tosti. Consentitemi invece, a conclusione di questo mio intervento, di soffermarmi sul volume dedicato al concilio romano del 1725, che rappresenta il punto di maggiore impegno e l’espressione più compiuta, in questa prospettiva, da parte di Fiorani.

La conoscenza in gran parte deformata del sinodo della provincia romana del 1725 è stata affidata largamente, dal Settecento ai giorni nostri, alle polemiche subito insorte tra giansenisti e gesuiti, trasferitesi poi nelle discussioni successive, riguardo all’inserimento, ritenuto surrettizio dai giansenisti, e in generale dal fronte antigesuitico, in un decreto sinodale, di una clausola che attribuiva il carattere di ‘regola di fede’ alla bolla Unigenitus: polemiche che impedirono sin dall’inizio un approfondimento storico dei problemi connessi a questo importante momento iniziale del pontificato di papa Benedetto XIII16. Fiorani non muove da un interesse specifico per la questione giansenistica, che viene tuttavia affrontata in un denso capitolo del volume, ma dal significato che al sinodo intese attribuire lo stesso Benedetto XIII: un sinodo pastorale, modello di una concezione religiosa, che si poneva sulla linea avviata da Innocenzo XI e da Innocenzo XII, ma anche dal più vicino predecessore di papa Orsini, Clemente XI, un sinodo pastorale che si collegava alla precedente esperienza pastorale e sinodale dello stesso Benedetto XIII quale vescovo di Manfredonia, di Cesena, di Frascati e, soprattutto, di Benevento. Nelle pagine che Fiorani dedica a questo singolare avvenimento, che non aveva precedenti immediati né nella prassi sinodale sei-settecentesca, né nella più vicina tradizione della Chiesa romana – un avvenimento ricostruito da Fiorani attraverso uno straordinario scavo di materiale documentario – possiamo cogliere con particolare incisività quella concezione della Chiesa romana propria di Fiorani, cui abbiamo in precedenza accennato. Lo sforzo pastorale di Benedetto XIII si poneva comunque in un clima di difficoltà e di immaturità generale, e il suo fallimento fu determinato non solo dall’approssimazione e dalla superficialità della preparazione dello stesso sinodo e dalle ostilità degli ambienti curiali, pervasi dai timori di un conciliarismo ‘alla francese’ e dalle preoccupazioni politiche riguardo alle reazioni dei diversi Stati italiani – che si rivelarono poi concretamente nel rifiuto da parte napoletana, attraverso

LUIGI FIORANI E GLI STUDI SUL SETTECENTO RELIGIOSO ROMANO 215

una Scrittura di Giannone, di accogliere i decreti sinodali –, ma dallo scarso coinvolgimento dei padri sinodali che non seppero cogliere nessun nodo reale da sciogliere né esprimere alcuna vera volontà riformatrice. Il concilio oscillò così tra la tendenza a presentarsi come un sinodo provinciale in quanto espressione della provincia ecclesiastica romana, dai caratteri peraltro mal definiti, e quella a configurarsi come un sinodo universale in quanto romano, trovando tale oscillazione una sua ragion d’essere nella stessa figura del papa che lo presiedeva quale vescovo, ma che assumeva in sé al tempo stesso l’autorità di pontefice. La restaurazione in senso pastorale della figura del vescovo poté certo ispirarsi alla prassi post-tridentina e alla trattatistica sei-settecentesca sul ‘buon vescovo’, e poté anche avanzare qualche elemento relativamente nuovo riguardo alla formazione del clero con il tentativo di potenziare e regolare gli studi nei seminari, che si cercò di attuare attraverso una congregazione curiale istituita nel 1725, ma non intaccò minimamente la concezione beneficiaria del clero in vista di una sua connotazione pastorale, né modificò minimamente abitudini e comportamenti secolari. In altre parole, come osserva Fiorani, il concilio del 1725 fu uno slancio mancato, che aprì solo eccezionalmente in altre diocesi una stagione sinodale, come ha mostrato, dopo il lavoro di Fiorani, il saggio di Daniele Menozzi nel volume dedicato al bicentenario del sinodo di Pistoia17: un concilio, dunque, che venne interpretato riduttivamente già dai contemporanei, se Muratori ne richiama solo gli aspetti di ‘disciplina ecclesiastica’, per scomparire presto dall’orizzonte ecclesiale, risucchiato da polemiche, da una parte, come si è detto, e da preoccupazioni genericamente apologetiche, dall’altra.

Riguardo alla vexata quæstio dell’inserimento surrettizio, negli atti del sinodo, del riferimento alla Unigenitus quale ‘regola di fede’, possiamo ben ritenere che Fiorani, sulla base di un’attenta disamina della documentazione – gli atti originali manoscritti del sinodo approntati per la stampa – abbia detto la parola definitiva sull’argomento, accolta con qualche ulteriore considerazione da Pietro Stella nel suo fondamentale lavoro Il giansenismo in Italia18. Non si trattò di un’adulterazione degli atti sinodali, ma di un colpo di mano, favorito o patrocinato dal promotore del sinodo, monsignor Fini poi cardinale, portavoce di una radicata convinzione dei circoli curiali intransigenti, che inserì la formula, sicuramente con l’approvazione del papa, come osservano concordemente Fiorani e Stella, all’ultimo momento nel testo ufficiale, letto nella sessione plenaria conclusiva del concilio «tra il brusio generale e l’attenzione di pochi», stando a Stella, cioè in una situazione confusa, che testimonianze convergenti di molti partecipanti al sinodo stesso non mancarono di sottolineare19.

17 Cfr. d. menozzi, Prospettive sinodali nel Settecento, in Il sinodo di Pistoia del 1786, pp. 11-31.

18 Cfr. p. stella, Il giansenismo in Italia, I, I preludi tra Seicento e primo Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 184 ss.

Non è un caso che uno storico dalla straordinaria padronanza archivistica, come è stato Fiorani, abbia sciolto un nodo di polemiche secolari, e la sua soluzione, attraverso il riscontro diretto con la documentazione originale, mai effettuato prima di lui, neppure, come è dato di credere, da un erudito del livello del Garampi 20, potrà persino apparire ovvia, se non fosse espressione in Fiorani di un modo di lavorare unicamente interessato a ristabilire, rankianamente, una storia «come effettivamente è stata», e con essa una interpretazione «corretta ed equilibrata», come lo stesso Fiorani è portato a scrivere, degli avvenimenti. Una lezione da parte di uno studioso, che può ben servire di esempio e di stimolo per quanti continuano ad operare oggi nelle ricerche storiche sulla Roma religiosa settecentesca.

19 Per tutta la controversa questione e per le ripercussioni successive, cfr. fiorani, Il concilio romano del 1725, pp. 193-220; per le considerazioni di Stella e per la citazione, cfr. stella, Il giansenismo in Italia, p. 187 e nota 49.

20 Per i dubbi espressi da Fiorani su di un controllo che sarebbe stato effettuato da Garampi, cfr. fiorani, Il concilio romano del 1725, pp. 216-217.

La Chiesa Di Pio Vi E La Rivoluzione

L’ attenzione di Luigi Fiorani per le vicende rivoluzionarie che coinvolsero Roma e lo Stato della Chiesa alla fine del Settecento sembra essere quasi occasionale, generata da quell’evento straordinario che è stato il bicentenario. Fu allora che, insieme ad altri colleghi, organizzammo all’Istituto Luigi Sturzo di Roma il convegno su La Rivoluzione nello Stato della Chiesa (febbraio 1990). Quel convengo consentì un allargamento di prospettive, che mise in crisi in modo definitivo l’immagine di una società pontificia chiusa in se stessa, ostile a qualsiasi novità proveniente dall’evoluzione politica e culturale in atto nell’Europa rivoluzionaria1.

Fiorani considera la rottura del periodo rivoluzionario quella di maggior portata nella storia della città dopo il sacco del 15272 e mette in evidenza come gli studi, fino ad allora, avevano privilegiato i caratteri più strettamente ideologici e politici delle azioni che avevano portato alla formazione della Repubblica e ne avevano segnato la tormentata sussistenza. Tuttavia, quella lunga stagione di studi aveva trascurato la conoscenza degli aspetti religiosi. Nei tradizionali schemi interpretativi, infatti, il travaglio religioso della città, nel momento in cui si impianta la Repubblica, era spesso sottaciuto ed erano stati soprattutto gli aspetti politici-istituzionali ed economici, nel più ampio conflitto tra la corte romana e le autorità rivoluzionarie, ad emergere.

La rilettura della storia religiosa della Repubblica non era certamente nuova: Dufourcq, all’inizio del XX secolo, tracciando un ampio panorama degli avvenimenti rivoluzionari a Roma e nello Stato della Chiesa, pur

1 Le relazioni presentate nel corso del Convegno sono poi confluite nel volume: La Rivoluzione nello Stato della Chiesa, 1789-1799, a cura di l. fiorani, Pisa-Roma, Istituti

Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997.

2 l. fiorani, Roma democratizzata. La Basilica di S.Pietro, il Vaticano e la Rivoluzione, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 11 (2006), pp. 85-103: 87.

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it privilegiando prevalentemente gli aspetti politici e gli eventi, si soffermava sull’atteggiamento del clero3.

Nel 1942 Delio Cantimori, nel suo saggio su Vincenzo Russo, si apriva ad un approccio al giacobinismo romano all’interno di un concreto contesto sociale e religioso e metteva in primo piano il travaglio della coscienza religiosa, costretta a confrontarsi con una visione della storia e della società che assumeva i contorni di una nuova religione, tuttavia impregnata di anticlericalismo, con punte paradossali che proponevano ai seguaci il rito dello ‘sbattezzamento’4

C’erano stati, poi, gli stimoli di De Felice che avevano richiamato il «turbamento della psicologia religiosa»5; ma è soprattutto da Vittorio Emanuele

Giuntella che Fiorani raccoglie impulsi e importanti indirizzi di ricerca. Giuntella, infatti, attraverso una nutrita serie di saggi, aveva insistito sul rapporto tra crisi politica e crisi religiosa e si era interrogato sul significato di quegli eventi, sulle radici storiche, sulla loro eventuale provvidenzialità per liberare la Chiesa dalle catene dell’antico regime e per rinnovare lo spirito religioso6. Solo che la risposta di Giuntella, come noto, fu quella di una città che si attestò su posizioni di rifiuto sostenute da un esercito di apologeti che spesero tutte le loro energie per pubblicare testi che combattevano le nuove ideologie. Egli individuò proprio in Roma, ossia negli intellettuali che operavano a ridosso delle istituzioni ecclesiastiche romane, la forze più attive della controrivoluzione.

A Fiorani, evidentemente, non bastava questo approdo e, sulla scorta delle analisi storico-teologiche offerte per la Francia rivoluzionaria da Plongeron7, e in particolare dal convegno del 1986 tenutosi a Chantilly8, che ha rappresentato indubbiamente uno dei maggiori contributi alla storia religiosa della rivoluzione e dei territori rivoluzionari, e nel contesto italiano dalle suggestioni avanzate agli inizi degli anni Novanta da Marina Caffiero9 e da Philippe Boutry10, attraverso il filo rosso della storia religiosa, ripercorre la storia della rivoluzione a Roma.

3 a. dufourcq, Le régime jacobin en Italie. Étude sur la république romaine, 1798-1799, Paris, Perrin, 1900.

4 d. cantimori, Il circolo costituzionale di Roma e la questione della tolleranza a Roma, «Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classi di lettere, storia e filosofia», IV (1942), pp. 179-200.

5 r de felice, Paura e religiosità popolare nello Stato della Chiesa alla fine del x VIII secolo, in id., Italia giacobina, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1965.

6 v. e. giuntella, La giacobina repubblica romana, «Archivio della Società romana di storia patria », LXX (1950), pp. 1-213; id., Le classi sociali della Roma giacobina, «Rassegna storica del Risorgimento», XXXVIII (1951), 3-4, pp. 428-433; id , Roma nel Settecento, Bologna, Cappelli 1971.

7 b plongeron, Conscience religieuse et Révolution. Regards sur l’historiographie religieuse de la Révolution française, Paris, Picard, 1969; id., Historiographie religieuse de l’époque révolutionnaire, «Recherches de sciences religieuses», LVIII (1970), pp 589-597; id., Le fait religieux dans l’histoire de la Révolution française. Objet, méthodes, voies nouvelles pour l’histoire de la Révolution française, Paris, Bibliothèque Nationale, 1978.

Egli, facendo proprie le nuove suggestioni metodologiche, si addentra nell’esame delle mutazioni culturali, sulla catechesi, sulla vita associativa, sulle devozioni; in una parola, come egli stesso scrive, sul «vissuto religioso nelle sue articolazioni organizzative, nei suoi presupposti teologici e culturali»11.

Coerente con queste premesse, Fiorani si dilungava quindi nel saggio Aspetti della crisi religiosa a Roma a verificare l’urto rivoluzionario e il gioco complesso e contraddittorio delle reazioni, ma anche dei consensi in tre ambiti della società religiosa: l’opinione pubblica, il clero, la religiosità collettiva. Dalla sua analisi emerge che il confronto tra religione e Repubblica non era un episodio della più ampia e classica questione del dissidio tra lo Stato e la Chiesa nell’età moderna e che alla letteratura tradizionale (Giuntella, De Felice, Cretoni, Dufourcq, Pignatelli) e alla pubblicistica coeva (Mangiatordi, Bolgeni, Marchetti, il Monitore di Roma) era necessario aggiungere l’aiuto di nuove fonti documentarie, per ripercorrere dall’interno, e in termini più ravvicinati, la crisi di coscienza e del sentimento religioso di un’intera città12.

Un’impostazione che trovò piena accoglienza nel corposo saggio Città religiosa e città rivoluzionaria13, nel quale Fiorani dà valore alla tesi che per comprendere «fino in fondo l’incidenza della Rivoluzione sulla città reli-

8 Pratiques religieuses, mentalités et spiritualités dans l’Europe révolutionnaire (17701820). Actes du Colloque, Chantilly, 27-29 novembre 1986, réunis par p. lerou et r. dartevelle sous la direction de b. plongeron, Turnhout, Brepols, 1998.

9 m caffiero, La nuova era. Miti e profezie dell’Italia in Rivoluzione, Genova, Marietti, 1991.

10 ph boutry, Pour une réflexion religieuse sur la Révolution, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 9 (1992), pp. 55-64; id., Pratiques religieuses dans l’Europe révolutionnaire. Le colloque de Chantilly, «Revue d’histoire de l’Église de France», LXXVI (1990), pp. 303-307.

11 l fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria (1789-1799), «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 9 (1992), p. 69.

12 l fiorani, Aspetti della crisi religiosa a Roma durante la Repubblica giacobina, in La Rivoluzione nello Stato della Chiesa, a cura di l. fiorani, pp. 253-297.

13 fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria, pp. 65-154 Si tratta di un volume monografico, dal titolo: «Deboli progressi della filosofia». Rivoluzione e religione a Roma, 17891799, a cura dello stesso l fiorani giosa era necessario uno spostamento di lettura dei fatti dal piano alto del confronto ideologico a quello più basso (…) del cammino dei programmi rivoluzionari negli ambiti e nelle strutture della religiosità quotidiana (…) nelle forme più espressive della sensibilità e della pratica religiosa»14.

Dalla Chiesa istituzionale alla coscienza religiosa e alla mentalità della gente: la rivoluzione era stata un trauma religioso ancor prima che politicoistituzionale e dunque la via della storia religiosa della città rivoluzionaria si dimostrava come la più adatta «a conoscere da vicino l’identità concreta della rivoluzione e la misura del suo impatto reale»15

La rivoluzione per impiantarsi aveva bisogno di espungere prima di tutto simboli e gerarchie religiose; il cambiamento sociale e il parallelo programma di mutamento della religione dovevano camminare insieme e il tentativo di imporre nuovi canoni etici e modelli di convivenza fu netto e brusco. Fiorani esamina i tanti canali che veicolarono gli umori antirivoluzionari e li disciolsero capillarmente nella città: cultura, miracoli mariani, predicazione e poi le missioni, ordinate da Pio VI, che facevano perno sulle maggiori piazze della città e furono affidate a figure di primo piano della cultura antirivoluzionaria, come Giovanni Marchetti, convinto che la rivoluzione «era nata in casa», provocata e favorita da «una cultura cattolica deviata»16. Le processioni e i cortei con le immagini taumaturgiche, ma soprattutto della Madonna, contribuiscono ad affermare l’equazione città religiosa uguale a città antirivoluzionaria; la rivoluzione, insomma, non poteva attecchire in un territorio dove le protezioni ultraterrene si affollavano.

Particolare attenzione viene riservata anche al clero. Gli ecclesiastici che affrontano la rivoluzione – scrive Fiorani – sono preti in gran parte maturati nella sfera d’influenza dei gesuiti (Seminario Romano) ma anche il resto del clero, certo meno colto, meno spirituale, più direttamente preparato alla vita pastorale, ma proprio per questo poco adatto a percorrere itinerari avventurosi, risulta su una linea di assoluta intransigenza. La rivoluzione tenta in tutte le maniere di disgregarne la consistenza e l’omogeneità, ma non si verificò un cedimento globale e alla fine gli imputati per collaborazione al regime giacobino furono solo 20 tra i sacerdoti e 18 tra i religiosi17.

Fiorani ha scritto che preti e frati pervennero al giacobinismo «o per troppa cultura, o per troppo poca». Le file dei fiancheggiatori insomma sarebbero costituite da un lato da ecclesiastici «oscuri, anonimi, forniti di una preparazione culturale molto modesta», che aderiscono in modo emotivo e quasi irrazionale e dall’altra invece da una fascia di sostenitori che innestano i nuovi progetti politici in un quadro intellettuale molto pronunciato, che prevede tuttavia un punto di arrivo radicalmente antiecclesiastico18.

14 fiorani, Aspetti della crisi religiosa a Roma, p. 255.

15 fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria, p. 70.

16 Ibidem, p. 84.

17 Ibidem, p. 133.

In realtà, a me pare che non si può sottovalutare che anche in quel clero culturalmente meno avveduto, come di fatto era la maggior parte del basso clero, abbiano giocato un ruolo decisivo alcune istanze rivoluzionarie che mettevano in primo piano la salvaguardia degli umili, la lotta alla prepotenza e all’usurpazione dei diritti della persona. Senza ricercare motivazioni politiche, frutto di ragionamenti e di meditate convinzioni, nell’opzione a favore della Repubblica può aver influito una forte volontà di organizzare meglio la città terrena, nella quale anche la Chiesa doveva continuare a rivestire un ruolo fondamentale e non eliminabile.

Neanche il giuramento riuscì ad allargare la base del consenso e chi giurò «non divenne per ciò stesso un alleato o un paladino della repubblica (…) ma soltanto un soggetto aggregato con metodo coercitivo che chiudeva dentro di sé un misto di avvilimento e di rancore»19.

Le indicazioni di Fiorani, che esamina il giuramento oltre che tramite il tradizionale dibattito a stampa anche attraverso alcune ricognizioni archivistiche, saranno riprese da David Armando e da Claudio Canonici che hanno interrogato fonti inedite, conservate nelle biblioteche e negli archivi, e soprattutto esaminato l’imponente raccolta delle ritrattazioni 20 .

Nuova anche l’attenzione di Fiorani sugli atteggiamenti assunti dal Vicariato di fronte alla Repubblica, un tema fino ad allora mai affrontato organicamente. Ciò portava alla necessità di uno spoglio sistematico dei fondi dell’Archivio Storico del Vicariato. L’ esilio del Papa, la chiusura dei dicasteri, l’arresto o la deportazione dei cardinali, rendono il ruolo del Vicariato difficilissimo. Fiorani, dall’esame delle carte, nonostante la spiccata mentalità controrivoluzionaria, individua nel complesso un atteggiamento moderato, di attesa, di «collaborazione misurata» o «dei bocconi amari», per garantire la sopravvivenza a quanto ancora rimaneva della città religiosa, in linea del resto con la pratica politico-pastorale dei vescovi delle diocesi italiane. Alla fine Fiorani si chiede «se c’è stato e in che misura un cedimento della Roma religiosa»21.

18 fiorani, Aspetti della crisi religiosa a Roma, pp. 279-280.

19 fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria, p. 134.

20 d. armando, «Non si faceva a Dio ma puramente agli uomini». Giuramenti e ritrattazioni a Roma (1798-1808), «Rivista di Storia del Cristianesimo», I (2004), 2, pp. 251-281, che utilizza le ritrattazioni del giuramento civico presentate fra il 6 marzo 1799 e il 13 agosto 1808 e conservate nell’Archivio Storico del Vicariato di Roma. Delle vicende del giuramento civico nella Repubblica romana si è ampiamente interessato anche c. canonici, Il dibattito sul giuramento civico (1798-1799), «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 9 (1992), pp. 213-244; id., Il dibattito sul giuramento civico, in La Rivoluzione nello Stato della Chiesa, a cura di l fiorani, pp. 299-328.

Mettendo a confronto le osservazioni del cardinal Giuseppe Antonio Sala e di altri testimoni con certi indicatori statistici desumibili dalle annuali inchieste dei parroci sullo «stato delle anime», le prime veicolano l’immagine di una città fortemente laicizzata, mentre i secondi sembrano presentare, almeno relativamente alla pratica religiosa, un’altra situazione. Fiorani tende ad avvalorare la tesi di una «sostanziale persistenza del vissuto religioso almeno di quello che si esprime attraverso il rito e le consuetudini ufficiali»22.

«Sono deboli i progressi della filosofia», scriveva un giacobino sul Monitore nell’aprile del 1798 e, in virtù di ciò, Fiorani sembra favorevole a negare uno «slittamento della città religiosa entro l’orizzonte della città rivoluzionaria e anche allorché la rivoluzione guadagna la città ha durata e vita estremamente effimera perché non trova il terreno su cui attecchire»23. Troppo forte e radicato si rivelò, in sostanza, il tessuto morale e sociale e la città rivoluzionaria finì «per impantanarsi nel groviglio delle tradizioni, dei valori, dei giudizi, nei percorsi imprevedibili delle devozioni e insomma nei molti fili che venivano da lontano e sorreggevano la città religiosa (…) che l’onda lunga del giacobinismo riesce appena a lambire, non a distaccare in modo apprezzabile dalle sue radici»24.

Il primo assalto del mondo moderno alla città sacra si risolve così in un sostanziale nulla di fatto, un po’ come accadrà meno di cento anni dopo quando Roma sarà organicamente agganciata al nuovo Stato italiano. Fiorani è convinto che l’offesa peggiore inflitta dalla Rivoluzione alla religione fu quella di aver «turbato e sconnesso» l’antico equilibrio di una società ufficialmente cristiana senza averlo sostituito con un nuovo ordine di accordi in grado di garantire una convivenza armoniosa e di reciproco sostegno.

Qui appare chiara la sua distanza dall’interpretazione di Marina Caffiero che nell’introduzione al suo saggio La Repubblica nella città del Papa25 , collegando la prima esperienza repubblicana a quella di 50 anni dopo, la Repubblica romana del 1849, parla di una «sacralità rivoluzionaria» che nel 1798 si strutturò anche a Roma «attraverso un articolato sistema di credenze, di segni e di pratiche esterne concretizzate in oggetti, in simboli, in liturgie e nell’organizzazione dello spazio urbano e delle cerimonialità che rivela chiaramente lo scambio dialettico tra vecchio e nuovo ». E tuttavia gli inevitabili prestiti dal passato, che pure si voleva cancellare e rovesciare, non si tradussero in subalternità e in «mancata ricerca di una alternativa politicoculturale»26. Alternativa che anzi prese corpo sul piano dei costumi e dei comportamenti quotidiani e soprattutto nella costruzione di una «religione della patria» che annunzia e avvia i più noti processi ottocenteschi di sacralizzazione della politica. La volontà di fondare una religiosità diversa, civica e patriottica, sostanzialmente alternativa e antagonista, non sarebbe andata del tutto perduta dopo la fine dell’esperienza giacobina 27

21 fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria, p. 149.

22 Ibidem, p. 152.

23 Ibidem.

24 Ibidem, p. 153.

25 m. caffiero, La Repubblica nella città del Papa. Roma 1798, Roma, Donzelli Editore, 2005.

Luigi Fiorani, invece, considera l’evento «effimero» e pieno di contraddizioni. Già dai suoi primi saggi il risultato che emergeva era quello di una città solo debolmente scristianizzata, ma la questione che incombeva era quella dell’atteggiamento e del travaglio della Santa Sede durante la Repubblica.

Una questione ampiamente affrontata nel volume edito dall’École nel 200428

Con quest’opera Fiorani passa dalle sollecitazioni contingenti e dal clamore delle mobilitazioni celebrative, allo studio approfondito dell’atteggiamento del mondo cattolico, o meglio romano, di fronte alla Rivoluzione. Mondo romano inteso nella sua complessità e dunque Sede apostolica, Sovrano pontefice, cardinali, Curia, che vengono impiegati in senso largamente omogeneo, ma pure cultura, mentalità che esprimono e che circola intorno a loro.

Riprende, dunque, un tema appena abbozzato negli studi precedenti e lo fa indagando le fonti documentarie conservate negli archivi romani. La dialettica, i profondi contrasti che si determinarono tra la Francia rivoluzionaria e la Curia romana nell’evolvere delle vicende storiche, a partire dall’espulsione di Pio VI da Roma, viene individuata come la «zona debole della ricerca» e su di essa Fiorani e Rocciolo rivolgono la loro attenzione partendo dalle fonti, ossia dalle carte conservate nell’Archivio Segreto Vaticano, in particolare dal Fondo Segreteria di Stato.

Intorno ad episodi particolarmente significativi e tormentati (costituzione civile del clero, emigrazione, giuramenti), con documenti in gran parte inediti, si vuole ricostruire la linea politica e nel contempo la cultura, la teologia e l’ecclesiologia che determinarono le reazioni della Curia, del Papa e dei teologi pontifici. Appaiono sentieri documentari ampiamente conosciuti a partire dall’inizio del Novecento, con le ricerche di Georges Bourgin, fino alle più recenti pubblicazioni degli Archivi di Stato29, eppure l’ulteriore ricognizione mette in evidenza che siamo ben lontani dall’esaurire le risorse informative di tali depositi.

26 Ibidem, p. 8.

27 Ibidem, pp. 8-9.

28 l. fiorani – d. rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese 1789-1799, Roma, École Française de Rome, 2004.

Ne risulta un quadro più approfondito di vicende già conosciute, ma anche l’apertura di nuove piste di ricerca, l’intuizione di nuovi profili, come il rapporto del Papa con i vescovi, oppure il caso della Pastoralis sollicitudo. Il nucleo documentario più ricco è quello che giunge dalla nunziatura di Parigi, al centro di una estesa rete informativa. È attraverso questa istituzione diplomatica che Roma riesce ad avere notizie sulla situazione. Ed è responsabilità di mons. Antonio Dugnani, definito «privo di temperamento e di intuito politico», poco energico e rapido nelle decisioni, che in un periodo convulso continua a mantenere uno stile burocratico, se Roma all’inizio appare incapace di una adeguata e realistica valutazione della situazione francese30. Egli, addirittura, nel 1791 abbandona Parigi, proprio nel momento in cui Roma avrebbe dovuto conoscere con esattezza le conseguenze sulla Chiesa francese e su Roma dei fatti che stavano sconvolgendo la Francia. Da allora i canali attraverso cui la S. Sede attingerà informazioni saranno assai eterogenei e occasionali; una fascia spontanea (l’internunzio Louis-SiffreinJoseph de Salamon e il cardinale Jean-Siffrein Maury) o figure di modesto livello, come parroci e religiosi, che inviano notizie spesso tendenziose, ma è attraverso quella lente che il più delle volte si forma il giudizio di Roma sulla Rivoluzione.

Appare chiaro che i percorsi dell’azione diplomatica attraverso cui la Santa Sede acquisì la conoscenza delle cose che stavano accadendo in Europa alla fine del Settecento, sono in gran parte quelli della controrivoluzione. Le tesi dei controrivoluzionari sono ampiamente note: essi rifiutano di accogliere una qualunque realtà sociale e politica che non riconosca un posto privilegiato all’istituzione ecclesiastica, al sistema etico e disciplinare della Chiesa cattolica. Una posizione che si svilupperà, senza soluzione di continuità, lungo l’Ottocento, fino a tempi recenti allorché, complice anche l’appuntamento con il bicentenario, la storiografia religiosa si è presentata in una situazione di profondo rinnovamento e completamente svincolata dai canoni restrittivi che nel passato tendevano ad assimilare storia della Chiesa e storia religiosa.

29 Ulteriori riferimenti alle fonti e alla bibliografia nelle Note supplementari presentate in Ibidem, pp. 437-521.

30 Ibidem, p. 21.

Uno spostamento dell’asse di lettura che dall’alto, dottrine, istituzioni, interventi disciplinari, conducono verso il basso per verificare «in che misura le tradizioni collettive delle popolazioni abbiano influenzato le decisioni politiche e impresso un valore relativo a momenti storici anche traumatici» che solo dopo «si sono caricati di enfasi religiosa e di significati magniloquenti»31. Ma, osserva Fiorani, questo fervore di studi e il rinnovamento dei moduli critici ed ermeneutici non sono stati in grado di riaprire la questione dei rapporti tra Roma e la Rivoluzione, cioè proprio del terreno dove lo scontro ideologico era stato violentissimo. Un’ampia rassegna dei lavori sul rapporto tra Roma e la Rivoluzione porta Luigi Fiorani a formulare limpidi giudizi sulle indagini di Filippone, di Pierre Blet e di Pasztor, che hanno il limite di verificare la risposta di Roma alla Rivoluzione a livello ideologico, per arrivare a quelle più recenti di Philippe Boutry che invece sposta, attraverso l’esame di alcuni episodi concreti (l’esecuzione di 191 vittime nel settembre 1792, oppure la condanna inflitta nel 1794 alle dottrine formulate a Pistoia) l’analisi a livello culturale, ambito in cui riescono ad intersecarsi stati d’animo, processi mentali, spiritualità, teologia politica, agiografia e apologetica32.

Quello di Fiorani non è un approccio di ordine giuridico, canonico o teologico, né un nuovo capitolo di storia delle istituzioni ecclesiastiche romane, egli, attraverso la vastità tematica e la ricchezza dei documenti, vuole invece ‘rileggere’ alcune grosse questioni, alcuni passaggi ed eventi storici, in gran parte noti e affrontati dalla storiografia. Una rilettura che ha come angolo visuale la prospettiva di Roma, cioè di quella parte che in modo tragico, più di altri, aveva visto nella Rivoluzione l’evento che mirava ad abbattere il cattolicesimo. Una ricognizione dalla quale emergono in modo netto le forme e le ragioni dell’opposizione, ma anche il laceramento delle coscienze e delle comunità e le difficoltà a coniugare in una nuova sintesi opzioni politiche e fede religiosa.

Luigi Fiorani offre anche nuove interpretazioni sulla questione del silenzio di Pio VI, da Plongeron accostato ai silenzi di uno dei suoi illustri successori 33. In quei mesi il silenzio non è assoluto e gli archivi romani dimostrano quanto numerosi siano stati i messaggi epistolari partiti da Roma alla volta dei vescovi francesi che comunque, per la loro estemporaneità, dimostrano la scarsa comprensione della gravità del momento. Fiorani parla di un Pio VI «frastornato», che stenta a mantenere il passo con gli eventi e in questa prospettiva sottolinea il ruolo del de Bernis, che insisteva per l’approvazione della Costituzione civile del clero. Mette in evidenza la preoccupazione di Roma sulla possibilità di uno scisma e conferma l’idea che in quelle circostanze anche Pio VI e uomini della Curia, come l’erudito cardinal Stefano Borgia, erano favorevoli a rispondere a «una innovazione sì grande e sì generale che farà epoca nella chiesa» con un Concilio34.

31 Ibidem, p.75.

32 Ibidem, p. 83.

33 Ibidem, p. 151. Il riferimento è al saggio di b. plongeron, Débats et combats autour de l’historiographie religieuse de la Révolution: x Ixe-xxe siècles, «Revue d’histoire de l’Église de France», LXXVI (1990), pp. 257-302: 239.

Un’idea che si fece strada soprattutto attraverso i canali dell’emigrazione, che Fiorani esamina consultando le carte romane, mostrando gli aggrovigliati itinerari del moto migratorio, ma anche gli umori e il contrasto latente tra il cattolicesimo gallicano e il devozionalismo romano e tridentino dei residenti. Fiorani sembra propendere per un Pio VI che, se pur favorevole all’idea della guerra santa, è frenato «dal peso delle premesse morali a cui doveva ispirare anche la sua azione di sovrano temporale»35. Emerge assai bene l’incongruità di una scelta in palese contrasto con la missione religiosa e con la vocazione alla pace della Chiesa; prevale insomma una visione teologica dei problemi sul tappeto che rese il Papa estremamente cauto.

In realtà, all’interno della Curia prese corpo l’idea di fronteggiare in modo del tutto nuovo una guerra, come scrisse Giovanni Marchetti, «d’indole affatto straordinaria, e su di cui non può calcolarsi per l’esito, come nelle altre guerre comuni, che abbiam veduto ne giorni nostri, o lette nelle storie passate»36. Basta solo ricordare l’opuscolo Lo Stato pontificio agli altri incliti co-Stati d’Italia37, un accorato appello agli Stati europei affinché non abbandonassero lo Stato del Papa al suo destino, specificando che questa non era una guerra tradizionale, che non bisognava impugnare la spada «per motivi antichi di guerra, per maggiore o minore ampiezza di dominio», ma solo per «l’onore del mio Dio, della mia nazione e di voi stessi miei Co-Stati». E proseguiva:

Questa è causa comune. Quando mai si vidde guerra più minacciosa ed importante di questa? Qui si tratta del sovvertimento generale di tutti gli ordini, si tratta d’in- taccare la Religione, le proprietà, le persone, i costumi, le prerogative, le opinioni, l’onore nazionale, il tutto. È guerra affatto nuova, guerra di spade, di massime, e di scissione. Altro espediente non v’ ha, che quello di armarsi di risolutezza e di coraggio38

34 fiorani – rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese, pp. 177-178.

35 Ibidem, p. 305.

36 fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria, pp. 82-85.

37 Lo Stato pontificio agli altri incliti co-Stati d’Italia, [Assisi, Sgariglia] 1796, riprodotto nel volume di v. e. giuntella, Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica in Italia, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1988, p. 409-434.

È un appello che sembra prendere coscienza che proprio la novità del legame guerra-rivoluzione, apparso sulla scena politica alla fine del Settecento, costringeva il Pontefice a rinunciare a fare politica con gli stessi strumenti degli altri Stati e a loro si rivolge per la difesa del potere temporale, consapevole che la sua capacità di agire sulle cose del mondo aveva acquistato una dimensione nuova che non era paragonabile con quella che apparteneva all’Antico regime. Ormai era chiaro che l’opera politica fatta di scelte concrete nel gioco delle potenze europee non era più perseguibile e che la figura del Papa non poteva più essere quella di un cancelliere di uno Stato europeo39.

Interessanti e stimolati anche le osservazioni di Fiorani sugli effetti della rivoluzione sull’ecclesiologia, che sarebbe lentamente passata dai caratteri austeri dell’autorità a quelli più commoventi del martirio; un’ecclesiologia «basata sul valore del sacrificio come estrema affermazione di fede cristiana» 40. Si tratta, indubbiamente, di una evoluzione ecclesiologica perché il tema del martirio introduce l’idea che il cammino della Chiesa, pur nella scrupolosa fedeltà al depositum fidei e all’annuncio cristiano, possa richiedere in certi momenti di crisi la rinuncia a una parte del patrimonio storico a cui nel passato era rimasta saldamente ancorata41. Un cristianesimo austero e una ecclesiologia drammatica, anche in conseguenza dell’esilio di Pio VI, cominciano a filtrare nella coscienza dei fedeli. Il consenso alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e poi alla Costituzione civile effettuato attraverso il giuramento da gente di chiesa «erano stati un timido inizio, una precoce allusione alla scenario in cui si troverà ad operare la cristianità in una società pluralista e secolarizzata» 42 .

38 Ibidem, p. 428.

39 Sulle origini politiche e culturali e sulle conseguenze di tale svolta mi permetto di rinviare al mio saggio, in corso di stampa, Forza delle armi, forza delle opinioni. La Controrivoluzione nello Stato della Chiesa (1790-1799), presentato in occasione del Convegno: Liaisons dangereuses: Guerra e Repubblica alla fine del x VIII secolo, Università degli Studi di Milano, 14-16 maggio 2009.

40 fiorani – rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese, p. 401.

41 Ibidem, p. 402.

42 Ibidem, p. 433.

Qui tocchiamo, a mio parere, il punto vero dell’interesse di Fiorani per le vicende rivoluzionarie nel loro rapporto con la religione. Per lui, in fondo, non avrebbe avuto senso dedicare energie e tempo a un evento storicoumano, sia pure importante, quale fu la Rivoluzione francese, se non ci fosse stato l’intento di arricchire con la memoria la profezia che incalza i cristiani a rendere visibili i segni del regno di Dio nella storia umana contemporanea. E malgrado i suoi limiti, i suoi errori e il tragico dramma, anche per Luigi Fiorani la Rivoluzione francese evidenziò l’insopprimibile anelito dell’uomo verso i valori che hanno il sigillo evangelico: la fraternità, la comune dignità dell’eguaglianza, la libertà.

CHIESA ROMANA E TEMPI NUOVI, DA LEONE XIII A PIO XI

1. Sul terreno della nutrita operosità scientifica di Luigi Fiorani è opportuno circoscrivere uno specifico perimetro di ricerche che egli seppe condurre con acribia, competenza, meticolosità e passione, come si può constatare anche per gli altri suoi lavori. Nell’ambito prescelto, i risultati conseguiti tracciano un’ellisse la cui estensione copre l’arco temporale che va approssimativamente dall’ultimo decennio del secolo XIX alla vigilia della seconda guerra mondiale. L’ autore ne percorse determinati segmenti, suscettibili, nella sua visuale, di rivestire una non trascurabile valenza storiografica. Porterò l’attenzione su tre ampi saggi concernenti rispettivamente il modernismo a Roma, la presenza del barnabita Giovanni Semeria in questa città, l’azione di Pio XI «pastore e parroco» di una diocesi universalmente riconosciuta quale centro del mondo cattolico1.

Nell’ellisse risaltano con evidenza due fuochi designabili con le dizioni ‘Chiesa romana’ e ‘tempi nuovi’. La prima ribadisce – se fosse necessaria una conferma in merito – la continua, tenace, commovente attenzione di Fiorani verso quella che ritenne la ‘sua’ comunità di appartenenza. Il possessivo segnala perciò non solo l’orbita in cui egli collocò un’ampia serie di indagini, ma anche l’attaccamento alla città, amata con sentimento di partecipe corrispondenza: una localizzazione concreta e insieme ideale. Luigi operò storiograficamente per rendere la fisionomia religiosa e insieme civile di tale complicato quadro. In particolare si spese per fondare e sostenere la rivista «Ricerche per la storia religiosa di Roma», dedicata all’intreccio di tematiche che i sondaggi sulla storia della città comportavano. Il suo atti-

1 l fiorani, Modernismo romano 1900-1922, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 8 (1990), pp. 75-170; id., Semeria «romano» (1880-1895), «Barnabiti studi», 12 (1995), pp. 7-86; id., Un vescovo e la sua diocesi. Pio x I, «primo pastore e parroco» di Roma, in Achille Ratti, pape Pie x I. Actes du colloque organisé par l’École française de Rome (Rome, 15-18 mars 1989), Roma, L’ École française de Rome, 1996, pp. 423-497.

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it vismo in questo campo mirava a richiamare il fatto che la diocesi romana era fondamentalmente una chiesa locale e non semplicemente un’appendice della curia della Santa Sede. Queste ultime espressioni sono tratte da un articolo di Vincenzo Paglia, che rievoca conversazioni con Luigi: «ne parlavamo spesso», afferma il prelato ‘romano’, aggiungendo come l’amico perseguisse tale scopo attraverso indagini guidate dalla «passione del credente e dalla capacità dello storico»2. Da simili opzioni scaturirono ragguardevoli risultati storiografici, proiettabili su vasti schermi. Perché, riprendendo l’aforisma di Miguel Torga, diremmo che a Roma, più che altrove, «l’universel c’est le local moins les murs».

La densità della scelta traspare meglio dal secondo fuoco, tradotto nell’espressione ‘tempi nuovi’. Sostantivo e aggettivo così congiunti possono suonare banali, appiattiti sulla larga superficie dei luoghi comuni. Eppure possiedono una significativa pregnanza. Tra gli innumerevoli rimandi si imporrebbe quello alla Lettera pastorale scritta da Geremia Bonomelli nel 1906, un anno importante nelle ricostruzioni di Fiorani 3. Al quale però dovette piacere un’altra frase, cui assegnò un nitido risalto nell’ampio studio da lui dedicato a quel Semeria ‘romano’ che nel 1893 aveva scritto: «Siamo al principio di tempi nuovi. Il giorno storico che ora albeggia, come procederà esso?» 4. L’ appuntito interrogativo riguardava il presente e spingeva verso l’incerto futuro: erano tempi attraversati dal «brivido della modernità», come scriveranno lo stesso Luigi e Adriano Prosperi nella prefazione al volume einaudiano su Roma 5 . .

2. Per dipanare ciò cui l’espressione allude, specie riguardo al relativo impatto con la Chiesa, Fiorani ne considerò innanzitutto un lato caratterizzante, identificandolo nel modernismo cattolico. Si servì di chiavi interpretative desunte da parecchie opere, in particolare da quelle di Émile Poulat, ma non disattendendo la lezione di don Giuseppe De Luca. Tassello per tassello ricostruì la vicenda della crisi quale si svolse negli ambienti ecclesiastici e laici romani tra Otto e Novecento. Grazie a copiose, e talvolta curiose testimonianze documentarie, da lui raccolte con sagacia e pazienza, ne presentò un quadro ricco, preciso, starei per dire esaustivo, se il termine fosse applicabile alle indagini storiografiche. L’ osservazione dei dati era condotta da prospettive diverse, della sociologia, della psicologia e naturalmente della teologia. Per quest’ultima, Luigi non privilegiava il profilo disegnato dal contrasto ortodossia-eterodossia, bensì seguiva il fenomeno nei meandri di implicazioni molteplici e dissimmetriche, talvolta ambigue, allentando così la stretta delle rigide classificazioni dottrinali. A parecchie sue analisi pare sotteso il motivo additato da Chenu fin dal 1931, come tipico di quella crisi, vale a dire la percepita problematicità del rapporto tra chiesa romana e storia6. Tentar di sorprenderne alcune declinazioni proprio nel centro geografico, ideale, istituzionale della cattolicità, rappresentava comunque un’allettante sfida storiografica.

2 v paglia, Ricordo dello storico Luigi Fiorani. Roma città chiusa alla violenza, «L’ Osservatore romano», 25 aprile 2010, p. 4.

3 g. bonomelli, La Chiesa e i tempi nuovi. Pastorale per la quaresima del 1906, Cremona, Unione Tipografica Diocesana, 1906. Per le vicende legate a questo intervento bonomelliano si può vedere a. zambarbieri, Carteggio Bonomelli-Sabatier, «Fonti e documenti», 3 (1974), pp. 920-929.

4 g semeria, La questione sociale e la Chiesa, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», I-II (1893), p. 577, citato in fiorani, Semeria, p. 85.

5 l. fiorani – a. prosperi, Una città «plurale», in Roma la città del Papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojty ł a, a cura di l. fiorani – a. prosperi, Storia d’Italia. Annali, 16, Torino, Einaudi, 2000, p. 31 (l’intero studio introduttivo al volume, pp. xxiii-xxxi).

Fiorani non vi si sottrasse. Incominciò dunque ad esaminare figure e movimenti nella fase tardo ottocentesca del pontificato di Leone XIII. Fissò l’obiettivo soprattutto sul personaggio Semeria, catalizzandovi il fluttuare di tendenze, aspirazioni, realizzazioni. Il ritorno al tomismo promosso da papa Pecci aiutò il giovane barnabita ad attingere nella concreta letteralità alcuni testi dell’Aquinate. La conseguente indagine sull’Actus Fidei iuxta sanctum Thomam rivelò nell’antico olimpico maestro insospettate aperture verso una concezione dei motivi e delle modalità del credere, meno debitrice agli schemi intellettualistici invalsi nella scolastica e dischiusa invece sugli orizzonti delle esperienze religiose, secondo la direttrice additata da Blondel e da Laberthonnière, tanto per fare due nomi esemplificativi7. Il conseguente richiamo sintonizzava con molte sollecitazioni affiorate durante la tavola rotonda sul modernismo, organizzata dallo stesso Fiorani e confluita nell’ottavo numero della sua rivista8. Si dispiegava così il ventaglio della pluriversità nei modi di credere, e della varietà nei livelli dell’assenso interiore. Donde la messa in luce delle indagini, effettuate da Semeria e da altri, concernenti la Scrittura e le tradizioni ecclesiastiche per un verso, e per l’altro l’insistenza degli integristi sull’imprescindibilità della salvaguardia di un’ortodossia monolitica, tradotta in proposizioni dotate di un rigore tale da renderle impermeabili ad ogni possibile mutamento.

6 m d chenu, Le sens et les leçons d’une crise religieuse, «La vie intellectuelle», 13 (1931), pp. 356-380.

7 In proposito a zambarbieri, L’ actus fidei nelle riflessioni semeriane, «Barnabiti studi», 25 (2008), pp. 17-41.

8 «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 8 (1990), 402 pp., con contributi di G. Miccoli, R. Guarnieri, M. Guasco, C. Riva, L. Fiorani, L. Bedeschi, V. Paglia, S. Pagano, G. M. Viscardi.

Fiorani rende bene sia la durezza di quest’ultima posizione, spesso solo reattiva, sia l’innegabile fragilità di talune idee e metodi riscontrabili in Semeria e in parecchi intellettuali cattolici appartenenti, a vario titolo, ai gruppi romani. Tuttavia, erano appunto simili carenze ad aprire percorsi nuovi: «Gente come Buonaiuti, Murri, Genocchi -quanto è folta la selva dei riformatori religiosi nella Roma del primo Novecento!- svelano il senso di quel disagio, ne indicano le origini, ne additano le possibili vie d’uscita (…). Il modernismo ha così significato per la città religiosa la via per uscire dal bozzolo in cui l’aveva rinserrata la polemica antimoderna, per metterla in qualche modo non solo all’unisono con la ricerca e la cultura che stavano emergendo ma con una ecclesiologia dai confini più esigenti e più larghi. Fu un tentativo generoso, ma solo in parte riuscito, non solo perché confuso e culturalmente limitato ma per l’inevitabile isolamento cui doveva portare l’asprezza antiecclesiastica e antidogmatica di molti suoi esponenti. La reazione antimodernista fece il resto»9.

Siffatta dorsale sorregge le incursioni in quello che sembrerebbe il piccolo mondo modernista della capitale. Compaiono così i vari cenacoli, dalle case Salvadori o Molajoni, al salotto della contessa Maddalena Patrizi; dal circolo di studi S. Sebastiano, alla residenza della Congregazione del Sacro Cuore. Qui padre Giovanni Genocchi attirava personalità di passaggio o residenti a Roma, tra cui Kraus, Harnack, Van Ortroy, Duchesne, Lagrange, Von Hügel, Vigouroux, O’Connell. Scrive Fiorani: «Genocchi vuole aiutare le coscienze a crescere, non distruggerle o gettarle nella confusione. Per questo il suo lavoro ha un respiro spirituale fortissimo, che si traduce in un enorme rispetto per il cammino interiore di chi entra in dialogo con lui, sempre preoccupato comunque, che il ripudio di mentalità e di atteggiamenti clericali non sospingesse a una critica esasperata della Chiesa, o alla rottura, ma semmai, a uno spirito di maggiore comprensione»10. Tale giudizio è ricavato da capillari indagini svolte non solo su pubblicazioni specialistiche, ma su originali documenti reperiti in archivi. Ciò permette all’autore di sfogliare un libro piuttosto voluminoso, nelle cui pagine compaiono i personaggi citati ed altri, come Murri, Brizio Casciola ed un ecclesiastico come monsignor

9 fiorani, Modernismo romano, p. 169.

10 Ibidem, p. 104.

Francesco Faberi, destinato a ricoprire importanti ruoli al vicariato di Roma. Salgono alla ribalta collegi e università e la liaison tra Roma e l’antica diocesi governata dal cardinal Pecci, quella Perugia che poté contare sul magistero di un fine biblista come Fracassini e su giovani intelligenti ed entusiasti quali Luigi Piastrelli e Canzio Pizzoni. Negli scorci dipinti da Fiorani, le oblique luci del pontificato leonino al tramonto rischiarano un panorama variegato, ricco di fascino. Vien spontaneo riandare ai quadri policromi che con altro pennello, ma con innegabili affinità, eseguì Giorgio Levi della Vida, frequentatore del palazzo Caetani ed «ebreo tra i modernisti», come amò definirsi11: il suo intarsio letterario trova solide basi, decisive dilatazioni, e un sostegno indispensabile negli studi che Luigi è andato componendo. Vi risaltano pure, a tratti marcati, i volti di Ernesto Buonaiuti, di Mario Rossi e di Giovanni Pioli, definiti «modernisti radicali». E popolano l’affresco le sagome delle istituzioni in cui molti di questi si formarono, e il ceppo, ben descritto da Poulat, dell’insegnamento di Umberto Benigni, utile iniziazione alla ricerca storica che lasciò il segno non solo nella rivista «Miscellanea di storia ecclesiastica» da lui promossa, dove comparvero i primi saggi, balbettanti e pure intelligenti, di Buonaiuti e dei condiscepoli, ma anche nelle dispense di Storia del Medioevo, redatte dallo stesso ‘pellegrino di Roma’, e ritrovate anche tra i sussidi che Angelo Giuseppe Roncalli verosimilmente usò per le sue lezioni al seminario di Bergamo12. Benigni sarà alfiere, quasi ipostatizzandolo, di uno spietato antimodernismo, impegnato a denunciare pretese devianze dottrinali e pratiche: Fiorani ne descrive le mosse anche nel dettaglio e pure i comportamenti più che discutibili, ma senza animosità. Traduce così -in actu exercitu, come direbbero gli scolastici- la dialettica modernismo-integrismo, proposta come canone ermeneutico da Poulat13. Ne verifica così e ne collauda in loco le virtualità, con esiti originali.

11 g levi della vida, Fantasmi ritrovati, Vicenza, Neri Pozza, 1966, pp. 73-176; per le frequentazioni a Palazzo Caetani è da vedere il bellissimo capitolo Le soffitte delle Botteghe Oscure, pp. 21-72.

12 La raccolta ebbe il titolo Lezioni di Storia ecclesiastica, parte II. Il Medioevo. Si veda in proposito f. mores, Lezioni di Storia. Angelo Roncalli, Ernesto Buonaiuti e un libro ritrovato, in L’ ora che il mondo sta attraversando. Giovanni xx III di fronte alla storia (Atti del convegno, Bergamo 20-21 Novembre 2008), a cura di g g merlo e f mores, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 355-365. Lo stesso Mores sta attendendo all’edizione critica di queste Lezioni.

13 Essenziale acuta presentazione dell’impostazione data da Poulat alle sue ricerche su tali temi effettuano m. guasco, Intransigeantisme, libéralisme et modernisme, in Un object de science, le catholicisme. Réflexions autor de l’oeuvre d’Émile Poulat, a cura di v zuber,

A quella modernista si affianca dunque la Roma vigilans, per usare il titolo della sintesi che al riguardo ha stilato Marvin O’Connell14. Ma nel composito prisma dell’ambiente Fiorani scorge tante sfaccettature. Vi intravede in controluce la Rome che Zola dipinse, quando ancora non si erano spenti gli echi del giubileo episcopale di Leone XIII. A riguardarne gli squarci si constata come l’artista francese attingesse ad una tavolozza dai colori insieme realistici e favolistici, riversati in impasti suggestivi, a raffigurare una Rome nouvelle quale vagheggiava l’abbé Pierre Froment. E par di riudire la voce che il Santo fogazzariano ascoltò nell’Aniene: «Roma, Roma, Roma», a far convergere l’attenzione verso un composito mondo politico e religioso. Fiorani ne ripresenta molti aspetti, spesso lasciati nel chiaroscuro della dimenticanza, scoprendovi molto altro. Con efficacia squaderna le immagini di estrema miseria che numerose si osservavano nella capitale e vi trova all’opera l’Unione per il bene, ispirata a Paul Dejardins e benevolmente giudicata, come sottolinea Luigi, da Leone XIII. Al sodalizio prendevano parte uomini e donne di sentire disuguale, anche religioso, spesso tacciati di modernismo; in particolare vi agì Semeria del quale si riportano impressionanti descrizioni di quartieri e tuguri poverissimi, presso cui il barnabita si recava, con angoscia e insieme con il desiderio di portare conforto e aiuto materiale a persone confinate in una desolante marginalità e in un’estrema penuria, ma capaci di gesti quotidiani rivelatori di straordinaria insopprimibile energia. Roma era anche questo, la ‘Patagonia’, nel quartiere Appio della periferia, dove don Orione impiantò una parrocchia15.

3. Questo mondo, raccolto di riflesso in molteplici descrizioni, fu anche la città e la diocesi di Pio XI, «primo pastore e parroco di Roma», come Fiorani sottotitola il suo ampio saggio dedicato nel 1996 a papa Ratti. Ventisette anni prima, in una rassegna bibliografica sul pontefice lombardo, si sottolineava come nella relativa letteratura venisse «affatto trascurato l’aspetto religiosopastorale del pontificato»16. Il saggio di Fiorani, colmando questa lacuna, rimane ancora fondamentale, non solo per le abbondanti notizie fornite, ma anche per le piste di ricerca suggerite, indispensabili e tali da arricchire in modo originale il campionario delle key-words, impiegate per ricostruirne la figura17. Vi campeggia infatti il vincolo tra chiesa locale e il ministero di chi vien ritenuto successore di Pietro, nell’interpretazione e nella pratica della tipica pastoralità foggiata da Achille Ratti, secondo inflessioni che la storiografia ha spesso sottaciuto.

Paris, Bayard, 2001, pp. 240-245; é. fouilloux, Du catholicisme selon Émile Poulat, ibidem, pp. 246-251.

14 m. o’ connell, Critics on trial. An Introduction to the Catholic Modernist Crisis, Washington, The Catholic University of America, 1994, cap. 11: Roma vigilans, pp. 198-231.

15 È sempre utile consultare il pregevole lavoro di f iozzelli, Roma religiosa agli inizi del Novecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1993. Per il modernismo romano, la ricerca di Fiorani ha stimolato altre analisi e sintesi: cito quella di g. vian, Il modernismo a Roma tra Chiesa e cultura, in Roma la città del papa, pp. 1003-1127.

16 a. rimoldi, Bibliografia su Pio x I, in Pio x I nel trentesimo della morte (1939-1969), Milano, Opera diocesana per la preservazione e diffusione della Fede, 1969, p. 6.

In filigrana appare il carattere decisionista18 del papa, la cui milanesità e, forse più pertinentemente, l’indole brianzola lo disponevano, esorcizzando ogni crisi dell’immagine, a seguire senza tentennamenti i ritmi dell’immaginazione operativa. Mi piace introdurre qui un postilla ricavata da quanto Pio XI stesso dichiarò durante un’intervista rilasciata a un docente francese, e pubblicata nel 1939 sulla rivista «Bibliothèque de l’École des Chartes»: tenne a smentire il pregiudizio, comunemente diffuso, secondo cui l’uomo di studio e in specie il bibliotecario-archivista, abituato a vivere tra i libri e le vecchie carte, cioè il cosiddetto ‘topo di biblioteca’, era da considerare inadatto all’azione, ignaro dei bisogni del suo tempo e «des choses materielles»19. Si doveva affermare, secondo il pontefice, l’esatto contrario riconoscendo a quella tipologia di studioso inequivocabili doti di praticità. Evidentemente parlava di se stesso.

In maniera limpida appare nel saggio come i temi connotanti in proiezione universalistica quel pontificato vengano dal papa stesso proposti, o imposti, in prima battuta alla diocesi. La regalità di Cristo, il disegno di una società ispirata e modellata sull’archetipo della civiltà cristiana impregnano le devozioni inculcate da papa Ratti nei discorsi per la diocesi e nella quotidianità del conseguente stile pastorale. A latere si intravedono in Pio XI vecchie impronte lasciate dalla crisi modernista. Egli non dimenticava i rapporti milanesi con Tommaso Gallarati Scotti e la difesa del cardinal Ferrari, da lui esplicata contro le accuse integriste. Se un particolare minore aiuta a rievocare, può venir ricordata la sua consultazione di un volume del 1911, rimasto con la nota di possesso, nel quale Joseph Mausbach, non insensibile a istanze di una rilettura ‘moderna’ di testi tomisti, trattava del problema morale, valorizzando l’idea di finalità per intendere l’indole assiologica dell’action20 .

17 Pius x I: key words, Milan, International conference, 2009, eds. a. guasco, r. perin, Wien-Berlin 2010. Tra i molti studi recenti su questo pontefice, basti qui rinviare a Achille Ratti, pape Pie x I, Rome, École française, 1996; La sollecitudine ecclesiale di Pio x I, a cura di c semeraro, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010.

18 «Più che autoritario, decisionista», così j.-d durand, Lo stile di governo di Pio x I, in La sollecitudine ecclesiale, p. 59.

19 Così r. grand, «Bibliothèque de l’École des Chartes», juillet – décembre 1939, pp. 422-424, riprodotta in Documenti, note e discussioni. Un ricordo di Pio x I, «La scuola cattolica», LXVIII (1940), pp. 471-473. All’indole del ‘bibliotecario’ connotante papa Ratti, accenna d tardini, Pio x II, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1960, p. 148.

Eppure su tutto domina l’atteggiamento improntato alla ‘presa sul serio’, se l’espressione è passabile, dell’impegno episcopale nella diocesi romana. Questo venerabilis inceptor, come lo definì Jedin, cominciò a ritessere la tela della consuetudine dialogica con i preti diocesani e, più o meno direttamente, con i fedeli posti a vivere entro la rete delle relazioni cittadine e, per non pochi anni, anche nelle maglie, a volte protettive a volte disagevoli, del fascismo. Fiorani aggiunge parecchi altri ragguagli. I dissimmetrici metodi pastorali dei cardinali vicari Pompili e Marchetti-Selvaggiani sono da lui efficacemente, qua e là con gusto bozzettistico, cesellati. Ma soprattutto i parroci occupano il proscenio. Così don Pirro Scavizzi, che giovane chierico in un passaggio del suo diario del 15 dicembre del 1905 aveva ricordato la polemica di Billot nei confronti di Loisy21, è il ‘pretarello’ sempre vicino al suo gregge che ama, essendone intensamente riamato22. E l’accompagnano altre personalità meno note, ma non di secondario rilievo, nella simpatetica rievocazione di Fiorani. Il quale ribadisce come il papa chiami il palazzo del Laterano «la nostra casa parrocchiale», forse alludendo, con sommesso rimpianto, al curato asburgico, uscito dall’officina pavese e incamminato sulle inconfondibili orme del clero ambrosiano. Non sfuggono al pontefice le difficoltà economiche delle parrocchie e il tentacolare, disordinato sviluppo della metropoli, ma al pari di un sacerdote in cura d’anime agisce incessantemente per stringere i vincoli tra i fedeli, spesso dispersi nella frammentarietà del tessuto urbano, in particolare mediante la valenza socializzatrice delle celebrazioni di culto. Il riverbero liturgico dell’enciclica Ubi Arcano è presto constatabile nel Congresso eucaristico tenuto a Roma: il papa lo interpreta come momento in cui Cristo sotto i veli eucaristici riprende il suo ruolo di «re degli uomini delle città e dei popoli». Perché questa regalità si affermi, promuove l’Azione Cattolica, la cui storia ‘romana’ viene periodizzata da Luigi in tre tappe: quella della riforma; della ripresa fino al 1931; e infine delle disillusioni e delle reazioni sul piano organizzativo alle invadenze del regime fascista, fino al termine del pontificato. Il saggio dipana attentamente l’intreccio dei programmi, e dei personalismi, determinato nei vertici e nella base dell’organizzazione del laicato. Le minuziose notizie sciorinate convergono nel delineare il dispiegarsi del progetto di civiltà cristiana al cui centro sta l’immagine di Cristo Re, capo invisibile della chiesa, visivamente rappresentato dal suo vicario. In tale ottica si comprende l’attivazione, più intensa e maggiormente diffusa che in precedenza, di organismi funzionali all’apostolato sotto la rigida disciplina imposta dalla gerarchia. Si configura così, in tutte le sue dimensioni, una chiesa alternativa e ostativa rispetto ai processi di laicizzazione e di secolarizzazione. E tuttavia Luigi mostra anche l’altra faccia della medaglia: infatti si avviarono dinamiche rigorose e peculiari tattiche che, a lungo termine, potevano rifluire, modificandola, sulla strategia. Se il laico continuava a esser considerato alla stregua di un suddito, la sua collaborazione all’apostolato gerarchico («le braccia del papa») creava per lui spazi di manovra via via dilatati. Specie le strutture organizzative, sia per fasce d’età sia per ambiti professionali, introduceva specificazioni in grado di fissare fisionomie e aree di operatività che foggiavano precisi ruoli, forieri di relativa autonomia decisionale per il laicato, ormai emerso dall’indistinta categoria di popolo fedele. Non a caso Fiorani si sofferma sull’ingresso massiccio dell’elemento femminile nell’Azione cattolica, che modifica profondamente a Roma il carattere tradizionale di questa militanza, facendola passare da impegno riservato a ceti aristocratici e borghesi, a fenomeno di più ampie dimensioni.

20 j mausbach, Grundlage und Ausbildung des Charakters nach dem Hl. Thomas Von Aquin, in Moralprobleme, Freiburg i. Br., Herder, 1911, pp. 1-98. Il volume si trova nella biblioteca del Seminario Arcivescovile di Venegono, segnatura 2E III 52.

21 p. n. damiani [pirro scavizzi], L’eletto. Pagine di vita, Verona, Regnum Dei, 19622, p. 259.

22 u. terenzi, Ricordo di Don Pirro Scavizzi, «L’ Osservatore romano», 12 settembre 1964, p. 7.

Da ciò e da molti apporti si palesa la capacità interpretativa di Luigi: il costante ricorso ai documenti, scovati con l’acribia e l’astuzia di un addetto ai lavori emunctae naris, approda e si radica saldamente sulle sponde della storiografia, guidato anche da un personale coinvolgimento nella vita della Chiesa, cui Luigi sentiva di appartenere. Ancora una volta la contemporaneità dell’interesse euristico diventa l’indispensabile strumento della promozione etica e dell’obiettività della comprensione. E perciò non posso non sottolineare l’inconfondibile dedizione di Fiorani al suo lavoro di bibliotecario e di archivista, svolto frequentemente in favore degli altri. E a questo proposito mi piace ricorrere alle confidenze cui si lasciò andare Pio XI durante la citata intervista: «Nessuna formazione può essere migliore di quella del bibliotecario e dell’archivista», asserì con orgoglio il pontefice, che proseguiva elencando i lati positivi di un addestramento capace di abilitare in maniera efficace a conoscere il mondo. Né si ritraeva dal dichiarare senza reticenze: «egli [il bibliotecario e l’archivista] diventerà l’amico, il consiglie- re, forse il confidente, almeno nell’ordine intellettuale, di molte persone che gli serberanno riconoscenza per gli aiuti e per i consigli»23. Idealizzava in parte papa Ratti. Eppure le espressioni mi paiono calzanti per Luigi. Non è improprio dedicargliele, e pensare che le ascolti, ritornato in mezzo a noi da una distanza che solo i nostri palesi vuoti di fantasia ci fan sembrare notevole. E perciò, al termine di questa mia carrellata troppo rapida e troppo insicura, è doveroso e bello esprimergli una grande, affettuosa stima, e una commossa, sincera gratitudine.

CHIESA E SOCIETÀ CIVILE NELLA ROMA CONTEMPORANEA: TRA RETE TERRITORIALE E RESISTENZA

Ho conosciuto Luigi Fiorani in un pomeriggio dei primi anni Novanta, nella suggestiva casa di Romana Guarnieri, a Monteverde, dove ero stata invitata per una riunione volta a definire le linee di lavoro di una ricerca sulla «Pietà mariana a Roma» nel Novecento, tra guerra e anni Cinquanta1. Non lo conoscevo di persona, ma ha ‘festeggiato’ il mio ingresso con una tale cordialità da mettermi immediatamente a mio agio, fondando un rapporto che – sia pure con pause più o meno lunghe – non si è più interrotto. Aveva letto, nelle Edizioni di Storia e Letteratura, la rielaborazione della mia tesi di laurea sul quartiere di San Lorenzo, a Roma, negli anni tra le due guerre 2, e fin da quella prima occasione mi ha espresso (con i suoi affettuosi toni entusiastici) l’interessamento per uno studio che unisse l’analisi del mondo popolare alla sua collocazione all’interno della città. In particolare rispetto al ruolo svolto dalla presenza religiosa ed organizzativa della Chiesa (a cui nel mio lavoro avevo dedicato uno specifico capitolo). Scriveva infatti, in quegli stessi anni, in una riflessione metodologica volta a fare il punto sulla recente produzione storiografica, come apparisse ormai essenziale «ricollegare saldamente la storia religiosa al suo territorio», ricercando nella

1 La ricerca, promossa dalla Fondazione per la documentazione e la storia dell’esperienza religiosa, si proponeva di avviare nuovi studi sulla Pietà mariana a Roma tra la Seconda guerra mondiale e l’Anno mariano del 1954. Dopo un primo Seminario nell’ottobre 1993 presso la Facoltà di Lettere della “Sapienza” (relatori mons. Giovanni Antonazzi, Alberto Monticone, Francesco Pitocco), si svolsero alcuni altri incontri tra il 1994 e il 1995 in vista di un ulteriore convegno (tra i relatori previsti, oltre ai nomi già fatti, Luciano Osbat e lo stesso Fiorani) che non mi risulta, però, sia mai stato realizzato. In modo preliminare venne, inoltre, compilata una rassegna bibliografica da cui usciva confermata, sino a quel punto, la sostanziale assenza di riflessioni significative sull’argomento.

2 La tesi, discussa presso la Facoltà di Scienze Politiche della “Sapienza” di Roma, nel marzo 1981, relatore prof. Gabriele De Rosa, è poi diventata un volume dal titolo: San Lorenzo. Un quartiere romano durante il fascismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984.

ISBN (stampa) 978-88-6372-436-3 – www.storiaeletteratura.it

«piccola dimensione», in uno scambio continuo tra locale e generale, l’opportunità di muoversi, «senza soluzione di continuità, tra la sfera ecclesiale e la sfera sociale, politica, economica, culturale (…)»3

Da allora, dunque, è andato srotolandosi il filo di un dialogo che ha attraversato gli anni, con lui sempre pronto a cogliere e valorizzare i segni di un proseguo di lavoro su questo terreno. Come in occasione della pubblicazione del diario di padre Libero Raganella, sacerdote simbolo della parrocchia dell’Immacolata e San Giovanni Berchmans a San Lorenzo 4, e poi dell’uscita dei successivi volumi di un progetto editoriale, da me curato, sulla storia di singoli quartieri romani, che accoglieva ogni volta con attenzione, contento sia di leggerne i risultati, sia di entrare così in contatto con giovani studiosi che potessero concorrere alla sua prospettiva di indagine5

Ma soprattutto, da subito, ha cominciato a parlarmi del suo desiderio di dedicare un numero di «Ricerche per la storia religiosa di Roma» alla Roma occupata del 1943-44, sottolineando come ci stesse riflettendo già da tempo e tornandoci poi su, praticamente ad ogni incontro, come a un’intesa comune, sempre più risoluto e determinato. Fino a farne, come sappiamo, il risultato della sua ultima fatica.

E veramente il n. 12 della collana, monografico sui nove mesi della resistenza romana al nazifascismo, da lui non solo curato ma, come vedremo meglio, fortemente pensato, indirizzato e intessuto, credo, sulla base di questa mia esperienza, che possa dirsi il frutto di una riflessione che ha attraversato la sua vita, cogliendo nella drammatica eccezionalità di quel momento l’occasione per osservare, amplificata, quella relazione tra «Chiesa, mondo cattolico e società civile» che tanto lo appassionava6.

3 l. fiorani, Storia religiosa di Roma. Note intorno a recenti esperienze di ricerca, in Ricerca storica e Chiesa locale in Italia. Atti del Ix Convegno di Studio dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa (Grado, 9-13 settembre 1991), Roma, Dehoniane, 1995, pp. 225-258.

4 l raganella, Senza sapere da che parte stanno. Ricordi dell’infanzia e “diario” di Roma in guerra (1943-44), con introduzione e a cura di l. piccioni, Roma, Bulzoni, 2000. Per la presentazione del volume, avvenuta nel teatro del locale liceo «Gaio Lucilio», mi mandò un biglietto in cui esprimeva curiosamente la sua ‘soddisfazione’ per non essere riuscito ad entrare nella sala a causa della troppa affluenza, circostanza da lui colta a testimonianza della vitalità ancora presente in quella comunità di quartiere.

5 «Un laboratorio di storia urbana: le molte identità di Roma nel Novecento», progetto editoriale diretto da l. piccioni, Milano, FrancoAngeli, 2006 – che ha visto fino ad ora l’uscita di 8 monografie relative ad altrettanti quartieri della periferia romana.

6 «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12, monografico su Chiesa, mondo cattolico e società civile durante la Resistenza, uscito nel giugno 2009 per le Edizioni di Storia e

Sottolinea Fiorani nella Premessa: «Da un lato il sacrilego e arrogante “Gott mit uns”, dall’altro la risposta della civiltà, della fratellanza. Due culture, due progetti antitetici si sono dunque affrontati (…). Ritornare a quelle vicende, a quelle sofferenze significa in qualche modo riprendere il discorso su eventi che si sono radicati nella nostra cultura. L’ innesto, su questa trama, dei valori religiosi non deprime, piuttosto ne esalta la valenza e contribuisce al successo finale dei principi che guidano e regolano la nostra convivenza»7. E ancora, nel suo saggio introduttivo: «(…) la resistenza all’occupazione tedesca si è avvalsa anche dei valori religiosi, della predicazione contro le ideologie disumane, dell’invito a vedere nell’altro le sembianze e la dignità di un fratello. La storia della Resistenza è dunque anche una storia religiosa perché molti di quei partigiani, di quei giovani ardimentosi e ben decisi ad arrestare il passo alla violenza nazista, uscivano dalle associazioni cattoliche, dagli oratori, da una cultura e da una predicazione fondate sul rispetto della persona cui la fede e la militanza parrocchiale avevano dato sostanza e coerenza»8.

Un nesso, quello tra Resistenza, valori religiosi e capillare articolazione sul territorio alla base di tutto il volume che, da questo angolo d’osservazione, di quei tragici ‘nove mesi’ riattraversa i temi salienti.

In primo luogo, esperienza centrale nei ricordi e nelle testimonianze di tutti i contemporanei, il binomio ‘fame’ e ‘paura’.

La progressiva paralisi dei servizi e il venir meno dei principali beni di consumo è un aspetto che caratterizza tutte le ‘città in guerra’, e la stessa Roma, all’avanzare del conflitto9, fino a divenire però, nell’ultima fase, ininterrotta fatica quotidiana. Fino al dramma della vera e propria fame che a Roma, in modo crescente, attanaglia e paralizza la popolazione in un contesto urbano giunto, nel corso degli anni Trenta, al milione di abitanti e ora ulteriormente gonfiato dai profughi, di fatto privo di una campagna articolata nell’immediato a cui rivolgersi, e invece tradizionalmente legato a quei rifornimenti a lungo raggio che la congiuntura presente rende impossi-

Letteratura, volume a cui rimando per le relative indicazioni bibliografiche, limitandomi qui solo ad alcuni riferimenti non sistematici.

7 l. fiorani, Premessa, ibidem, p. 7.

8 id , Roma città aperta, 1943-1944, ibidem, p. 24.

9 Per una lettura attenta a questi aspetti: p cavallo, Italiani in guerra Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Bologna, Il Mulino, 1997, e g de luna, L’ identità coatta. Gli italiani in guerra (1940-1945), in Guerra e pace, a cura di w. barberis, Torino, Einaudi, 2002 (Storia d’Italia, Annali, 18), pp. 753-793. Per il caso romano: Roma in guerra, 19401943, numero monografico di «Roma moderna e contemporanea», 3 (2003), a cura di l. piccioni bili. E infatti quando, nel giugno del 1944, gli Alleati entreranno finalmente nella capitale a stupirli, accanto alla bellezza per molti versi immutata della ‘città eterna’, in un paradossale contrappunto, sarà proprio la ‘magrezza dei romani’, imparagonabile anche rispetto a quella di territori ben più provati dall’urto diretto della guerra10.

«Roma città aperta – sottolinea Fiorani – è una città affamata»11; accanto una ‘paura’, anch’essa sottile compagna quotidiana, che si fa ‘terrore’ dopo che il bombardamento del 19 luglio 1943 manda in frantumi l’illusoria speranza di ‘intangibilità’ coltivata dalla città stessa e all’attesa delle bombe si aggiungono, dall’8 settembre, le mille insidie dell’occupazione, fino a picchi di vero e proprio ‘orrore’. Come la razzia del Ghetto, del 16 ottobre 1943, e l’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo successivo.

Uno scenario segnato da profondi bisogni sia fisici che morali e dal dissolvimento dei principali referenti politico-amministrativi in cui la presenza della Chiesa – così indissolubilmente legata alla storia della città – si fa ora vera e propria ‘istituzione sostitutiva’12. Su molteplici livelli.

Innanzi tutto nella doppia funzione di assistenza ed accoglienza, che vede la fitta intelaiatura di presenze religiose profondamente radicate nel tessuto urbano mobilitarsi incessantemente. Un aspetto noto ed ampiamente riconosciuto dalla letteratura relativa a quei mesi13, su cui il volume torna con dettaglio di analisi documentaria e il contributo di nuove testimonianze.

10 È possibile ripercorrere immagini e volti di quei mesi in: Roma sotto le stelle del ’44. Storia, arte e cultura dalla guerra alla Liberazione. Catalogo della Mostra tenuta al Palazzo delle Esposizioni, (16 dic. 1994-28 feb. 1995) Follonica (Gr), Zefiro, 1994. Per un confronto tra la realtà romana e quella delle altre ‘città in guerra’ rimando (oltre ai miei saggi introduttivi nei già citati raganella, Senza sapere da che parte stanno, e Roma in guerra, 1940-1943) a l. piccioni, 1940-1944: dall’entrata in guerra alla liberazione, in Roma. Architettura e città negli anni della seconda guerra mondiale, Roma, Gangemi, 2004 (Quaderni di ricerca e progetto), pp. 22-27.

11 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 27.

12 Una funzione sostitutiva da più parti evidenziata, nella storiografia, per tutta l’Italia, e tanto più vera per Roma. Si veda, per un osservatorio sulle diverse realtà nazionali, la serie di volumi risultato di una ricerca ad opera dell’Istituto Luigi Sturzo, in particolare: Cattolici, Chiesa, Resistenza, a cura di g de rosa, Bologna, Il Mulino, 1997, che ne propone il bilancio e, per il Lazio, Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, a cura di b bocchini camaiani – m c giuntella, Bologna, Il Mulino, 1997.

13 Per due tra i titoli più noti: e. forcella, La resistenza in convento, Torino, Einaudi, 1999; a. riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano, Vita e Pensiero, 1979, in particolare pp. 221-262 (ora, dello stesso, anche L’ inverno più lungo. 1943-44: Pio x II, gli ebrei e i nazisti a Roma, Roma-Bari, Laterza, 2008).

Dallo scavo, dello stesso Fiorani, nell’Archivio della Società S. Vincenzo dè Paoli, da cui emerge un quadro dettagliato «sui molteplici soccorsi messi in atto dalle singole Conferenze» in quei mesi e sul «lavoro generoso, anche se largamente insufficiente, esercitato dai confratelli»14.

Alla documentazione relativa all’opera delle case religiose, conservata presso le Congregazioni stesse (a cui vengono dedicati due saggi, uno relativo alle Figlie di Maria Ausiliatrice, l’altro alle Francescane missionarie di Maria)15, dove, anche grazie alla mediazione e al sostegno materiale del Vicariato, la fatica del presente lascia spazio alla «creatività della carità»16 Un ampio ventaglio di attività quali le cucine economiche per i poveri, dispensatrici di migliaia di pasti al giorno, l’opera svolta presso gli ospedali militari e civili, l’assistenza offerta a profughi, sinistrati e sfollati (tra cui molti bambini provenienti da orfanotrofi bombardati nella regione romana), fino all’accoglienza che si fa asilo e protezione, anche a rischio della propria vita, per i tanti che decidono, o sono costretti a decidere, per la clandestinità.

Al ruolo svolto, in particolare, dal Pontificio Seminario romano maggiore, in evidenza per numero dei rifugiati e, soprattutto, molteplicità dei soggetti presenti, che vede accanto a militari, renitenti alla leva ed ebrei, l’accoglienza di personaggi politicamente rilevanti, tra cui i rappresentanti di quasi tutti i partiti del CLN (ad eccezione del Partito comunista e Partito d’Azione). Una vicenda più volte raccontata, proprio per la sua eccezionalità, su cui si torna nel dettaglio delle alterne vicende di quei mesi, grazie a documenti inediti dell’Archivio del Seminario stesso17.

Alla rete delle parrocchie, progressivamente estesa, dagli inizi del Novecento, di pari passo con la crescita urbana di Roma, ai nuovi territori delle periferie, che un ruolo così importante aveva già svolto, tanto più in queste aree più marginali, come riferimento oltreché religioso anche educa- tivo ed associativo e che ora Luigi Fiorani vede ergersi come «una barriera contro la disumanità del nazismo»18.

14 fiorani, Premessa, p. 10.

15 Rispettivamente, g. loparco, L’ ora della carità per le Figlie di Maria Ausiliatrice a Roma, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), pp. 151-197, e c bazin e m lainati, La carità a Roma negli anni della Seconda guerra mondiale, ibidem, pp. 199-265. Nei due saggi ci si avvale, inoltre, di documenti dell’Archivio Segreto Vaticano insieme a diari, memorie e testimonianze orali delle religiose.

16 Ibidem, p. 239.

17 c. badalà, La scelta di accogliere. I rifugiati al Laterano: l’attività del Pontificio Seminario romano maggiore e il ruolo della Santa Sede, ibidem, pp. 287-360.

La fisiologica discontinuità di presenze nella vita parrocchiale, rispetto a quella delle comunità religiose, ha prodotto una documentazione a sua volta meno continua e ‘spessa’, con frequenti lacune proprio sugli anni di guerra, da cui la necessità di un certosino lavoro di ricerca e raccolta di fonti e testimonianze disperse sul territorio, accanto all’individuazione di preziosi apporti provenienti dall’Archivio del Vicariato. A loro volta luogo di aiuti, protezione e rifugio per quanti si trovino in difficoltà (anche se il fenomeno dell’ospitalità vi è inevitabilmente più circoscritto, rispetto agli istituti religiosi, in quanto più esposte ai controlli e con spazi materialmente minori a disposizione), le parrocchie possono incidere direttamente sullo ‘spirito pubblico’, da un lato dando voce «dai pulpiti delle chiese», come notano preoccupati gli osservatori della Questura, «alle grandi angosce, alle interminabili difficoltà quotidiane della città»19, più o meno esplicitamente collegate a una condanna della barbarie presente; dall’altro dando spazio e alimento a pratiche devozionali popolari come, tra tutte, quella per la Madonna del Divino Amore trasportata dal santuario nella Campagna romana all’interno della città a sua protezione, e moltiplicata nelle immagini delle tante edicole di strada 20 .

A tornare con forza, da questo insieme di analisi, è la sottolineatura di una presenza religiosa aperta, almeno programmaticamente, alle necessità di ‘tutti’, da qualsiasi provenienza e in modo incondizionato, parte di un percorso caritativo che attraversa il tempo, solo rinforzato e amplificato dalla contingenza presente, e che si riproporrà poi, in forme diversamente adeguate, negli anni per altri versi altrettanto duri del dopoguerra 21 .

18 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 72. Alle parrocchie, oltre a diverse pagine del suo saggio, sono dedicati i saggi di r. alessandroni (Le parrocchie della periferia romana durante l’occupazione tedesca, pp. 361-418) e d. rocciolo (Le parrocchie di Roma e la guerra. Pagine del bollettino “Vita parrocchiale”. Settembre 1943-giugno 1944, pp. 467-507).

19 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 45.

20 Tra le prime intuizioni ed analisi in questa direzione, f malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma, Edizioni Studium, 1980, in particolare pp. 94-103. Sulla diffusione del culto mariano durante gli anni del conflitto, e nell’immediato dopoguerra, l. scaraffia, Devozioni di guerra. Identità femminile e simboli religiosi negli anni quaranta, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di a bravo, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 135-160. Di f malgeri, inoltre, Chiesa, clero e laicato cattolico tra guerra e Resistenza, in Storia dell’Italia religiosa, vol. III, Età contemporanea, a cura di g de rosa, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 301-334.

21 Per una messa a punto dei primi mesi successivi la Liberazione: a. giovagnoli, Chiesa, assistenza e società a Roma tra il 1943 e 1945, in L’ altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di n gallerano, Milano, FrancoAngeli, 1985, pp. 213-223.

Accanto a quella che si configura comunque, più o meno consapevolmente, come una vera e propria ‘resistenza civile’, abbiamo poi forme di esplicita presa di posizione, realtà «che non esitano a buttarsi nella mischia non solo per salvare i valori in cui credono, ma per mettere al sicuro le conquiste di una civiltà»22. Figure di sacerdoti passati alla storia come don Paolo Pecoraro che, nella piazza San Pietro gremita per la benedizione papale, il 12 marzo 1944, non esita a incitare la folla alla ribellione verso l’occupante; don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta nell’aprile successivo per essere stato trovato in possesso di armi del Fronte clandestino di Resistenza; don Pietro Pappagallo, arrestato nel febbraio, torturato a via Tasso e poi caduto alle Fosse Ardeatine 23 .

Ma anche tante figure minori del clero romano che operano «soprattutto sul filo della condivisione, della relazione personale, dell’amicizia»24 rispetto a comunità territoriali profondamente conosciute e amate, verso cui forte è il senso di responsabilità e protezione. Non a caso, sottolinea ancora Fiorani, particolarmente stretto è il rapporto tra Chiesa e Resistenza «in aree a più fitta presenza operaia e proletaria. Un rapporto che superava tranquillamente ogni remora di carattere ideologico»25

Potenziali luoghi di incontro e discussione già negli anni del regime, durante i ‘nove mesi’ le parrocchie, attraverso i percorsi personali e le ‘scelte’ dei singoli religiosi, si trovano dunque ad essere chiamate a un ruolo di «tramite, di collegamento tra le realtà più diverse»26. Tra queste i giovani della Sinistra Cristiana, movimento consolidatosi alla vigilia della guerra nella convergenza tra un gruppo di studenti antifascisti del liceo Visconti, guidati da Franco Rodano, e ambienti dell’associazionismo cattolico legati all’esperienza del Partito Popolare, attivi in modo politicamente propositivo già dal 1937, tra cui Adriano Ossicini «uno degli uomini più decisi a dar vita a una resistenza ispirata di valori evangelici»27

22 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 66.

23 Nomi già in evidenza fin dal classico studio di e piscitelli, Storia della Resistenza romana, Bari, Laterza, 1965, in particolare pp. 318-319.

24 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 72.

25 Ibidem, p. 70. Particolarmente rappresentativa in tal senso, la più volte citata figura di padre Libero Raganella, su cui si torna nel volume: l. piccioni, Un sacerdote e la guerra. Dal diario di padre Libero Raganella un osservatorio su Roma occupata, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), pp. 267-286.

26 alessandroni, Le parrocchie della periferia romana, p. 383. Per una riflessione sulle motivazioni delle scelte avvenute nel complesso del mondo cattolico in questo particolare momento, così come stanno emergendo dalla storiografia, con sempre maggiori spazi per la ‘soggettività’ delle opzioni, si veda a. parisella, Cattolici, guerra civile, guerra di liberazione, in id , Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant’anni dalla Liberazione, Roma, Gangemi, 1997, pp. 89-109. Efficace appare, inoltre, la sintesi di Claudio Pavone, che al tema della ‘scelta’ ha dedicato tanta parte del suo lavoro: «La Chiesa in realtà si trova di fronte, nelle sue molteplici articolazioni presenti sul territorio della RSI, agli stessi problemi dei rapporti fra legalità, politica e morale con i quali si dovettero misurare tutti gli italiani viventi in quelle regioni» (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 283).

Alla storia di questo movimento, dal percorso teso e difficile, che si concluderà nel dicembre 1945, e alla figura di don Giuseppe De Luca, che tanto ha significato nella formazione di alcuni dei suoi partecipanti, sono dedicati diversi saggi del volume28, sia di analisi che di diretta testimonianza, ad evidenziare l’esperienza della Resistenza romana come «una vicenda molto articolata e con tante sfaccettature»29, in cui i cattolici trovano ragione di inserimento a pieno titolo anche nella lotta politica e, a loro volta, su diverse posizioni.

Su tutto, domanda centrale ed ineludibile, il ruolo svolto in questo drammatico passaggio della città e della popolazione italiana tutta, dalla Chiesa come istituzione centrale e, in particolare, dalla figura stessa del pontefice. Una domanda a cui sono state date molte risposte, aprendo a una discussione spesso segnata da forti contrasti e a cui il volume non si sottrae, attraversandolo anzi tutto di saggio in saggio.

A cominciare dall’analisi della serrata azione diplomatica svolta dalla Santa Sede «fin dai primi affacciarsi dei venti di guerra, nel tentativo di scongiurarli prima e poi di attenuarne le conseguenze nefaste» su Roma, una «città aperta», per gli occupanti, solo a parole30.

Più complessivamente, rispetto alla posizione assunta da Pio XII, non si elude il nodo di una polemica, esplicitamente ripresa da Gabriele De Rosa

27 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 73.

28 «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), rispettivamente: a. ossicini, Il fascismo al di là del ponte, pp. 133-150; f. malgeri, Don Giuseppe De Luca e la guerra, pp. 419-429; t rapone, Una pagina della storia della Resistenza: la Sinistra Cristiana (8 settembre 1944), pp. 439-451; g mira, Per una ricostruzione storica della Sinistra Cristiana. Intervento al Convegno di Firenze del 1976, pp. 453-463.

29 ossicini, Il fascismo al di là del ponte, p. 139. Ossicini riprende qui sue precedenti testimonianze a stampa, in particolare: Un’isola sul Tevere: il fascismo al di là dal ponte, Roma, Editori Riuniti, 1999.

30 m t bonadonna russo, Roma città aperta, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), pp. 111-132. Un tema sempre sotto osservazione (per una prima selezione di documenti in proposito, p giovannetti, Roma città aperta, «Quaderni della Resistenza laziale», 2 (1977), pp. 7-85), su cui si è tornati anche di recente: u. gentiloni silveri – m. carli, Bombardare Roma, Gli Alleati e la “città aperta” (1940-1944), Bologna, Il Mulino, 2007, dove ci si avvale della documentazione alleata e, per una lettura dall’interno, p. blet, Pio x II e la Seconda Guerra Mondiale negli Archivi Vaticani, Torino, Edizioni San Paolo, 1999.

(allora giovane militante del partito dei Cristiano Sociali) che nota, nella tavola rotonda introduttiva: «Ci chiedevamo, è vero, perché non facesse qualcosa in più, perché lasciasse passare parecchie cose», per poi però concludere: «Pacelli ha tenuto un atteggiamento cauto, attento, però disponibile, non schierato (…) devo riconoscere che date le circostanze ha fatto quel che doveva fare (…) il carico era veramente troppo»31

E Adriano Ossicini, nel suo racconto, come si è detto, del percorso della Sinistra Cristiana: «Anche se talvolta le posizioni del papa non trovavano tra noi piena condivisione, erano attivi i nostri rapporti con la Santa Sede (…). Avemmo sostegni da più parti e aiuti concreti da parte vaticana, anche se, tutto sommato, le posizioni del Vaticano furono sempre caute e oltremodo prudenti»32.

Una constatazione di cautela, di prudenza che torna anche nella riflessione di Fiorani, insieme al riconoscimento di un fronte non uniformemente compatto, da parte del clero, nella condanna al nazifascismo33. Ma non ha dubbi che dietro l’ospitalità di conventi e parrocchie e, nel complesso, dietro «la mobilitazione della società religiosa » di fronte ai bisogni della popolazione, sia da «intravedere l’interessamento discreto della Santa Sede e del Vaticano»34, un incoraggiamento implicito a fare, sempre sullo sfondo, sostanziato appunto da aiuti e sostegni materiali. Come torna, con convinzione, sulla «grande statura del pontefice» e il ruolo di defensor civitatis assunto da Pio XII nella coscienza dei romani che accorreranno infatti a piazza San Pietro, all’indomani della Liberazione, per acclamarlo tale35. Nel complesso un insieme di tematiche articolate e complesse, accomunate dalla ricerca di sempre nuove fonti, nella volontà di aggiungere elementi al quadro complessivo per contribuire alla sua definizione. Non a caso il volu-

31 Tavola rotonda, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), pp. 14-15. Accanto all’intervento di Gabriele De Rosa, compongono la tavola rotonda un testo di don Mario Canciani, allora giovane sacerdote presso la parrocchia di S. Maria del Buon Consiglio al Quadraro, che ricostruisce i suoi ricordi di quei mesi, e un’intervista a Sisto Quaranta, tra i deportati del quartiere in seguito al rastrellamento eseguito dalle SS il 17 aprile 1944. Uno degli episodi più drammatici della Resistenza romana che vede coinvolte quasi 1.000 persone.

32 ossicini, Il fascismo al di là del ponte, p. 135.

33 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 71. Vivaci e mai definitivamente risolte, in particolare, le polemiche in rapporto al tema dell’olocausto, su cui si veda: r moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2002.

34 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 47. In questa direzione anche le altre testimonianze raccolte nel volume. Particolarmente esplicito e rilevante il caso del Laterano di cui di fatto la Santa Sede conosce e sostiene l’iniziativa di accoglienza, sia direttamente che tramite il Vicariato (badalà, La scelta di accogliere) me si conclude con una sezione di documenti inediti che entrano nel vivo, rispettivamente, della vita delle parrocchie romane nel corso dei ‘nove mesi’, grazie al bollettino della «Pontificia Opera per la Preservazione della Fede e la Provvidenza di Nuove Chiese in Roma», conservato presso l’Archivio del Vicariato, e dell’attività svolta, secondo il rendiconto del Consiglio superiore di Roma per il 1943, dalle Conferenze di S. Vincenzo dè Paoli, conservato presso l’Archivio della Società stessa36.

35 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 86.

Un’ulteriore conferma dell’importanza, per lo studio di Roma contemporanea, di continuare a lavorare per la valorizzazione e la messa in consultazione di un patrimonio documentario immenso, a tutt’oggi segnato, però, da molteplici difficoltà.

In quei lunghi mesi romani tra il 1943 e il 1944, Fiorani legge dunque uno snodo essenziale in cui la coscienza religiosa, parte attiva delle forze vitali della città, può farsi «fermento di liberazione»37. E ne ripercorre, come abbiamo visto, le vicende in modo mai scontato, perché anche toccando questioni più volte affrontate lo fa secondo un percorso suo proprio, che acquista coerenza e specificità dall’intreccio dei tanti livelli della sua personalità. In quella che appare come una vera e propria summa di conoscenze e competenza professionale, passione umana e curiosità intellettuale, relazioni amicali e memorie familiari.

Scorrendo le fitte note del suo saggio colpisce, soprattutto, accanto all’evidente padronanza del dibattito storiografico, il sistematico lavoro di raccolta da lui svolto, nel tempo, di pubblicistica minore, comunicazioni a convegni e articoli di giornale, che contribuisce ad arricchirlo di sfumature. Come, per quanto concerne la parte documentaria, accanto all’attenzione filologica dell’archivista sempre presente, si evidenzia l’ampio spettro di fonti di riferimento (sia pubbliche, che private, che specificatamente ecclesiastiche) e insieme la ricerca di un ampliamento nell’indagine condotto sia personalmente che stimolando in altri studiosi l’individuazione e l’analisi di nuovi fondi.

Una struttura di base in cui si inseriscono, senza interruzioni, le sue impressioni di allora e le riflessioni maturate negli anni e, insieme, brani di diario, memorie, testimonianze di protagonisti, a loro volta ‘messe da parte’ nel tempo o sollecitate appositamente per il volume. Sono così presenti, nelle diverse forme, tra gli altri, Gabriele De Rosa, monsignor Elio Venier, Adriano Ossicini, don Paolo Pecoraro, conoscenze di una vita, in alcuni casi, per l’età avanzata, raggiunti direttamente da Fiorani per intervistarli, nella tensione vigile affinché la loro memoria non si perda e concorra al quadro complessivo38.

36 Rispettivamente: rocciolo, Le parrocchie di Roma e la guerra, e b pietromarchi, Rendiconto 1943 del Consiglio superiore di Roma e delle conferenze dipendenti della Società di S. Vincenzo dè Paoli, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12 (2009), pp. 509-523 (di cui si deve a Fiorani la trascrizione e l’edizione del testo).

37 fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 104.

E, ancora, il suo amore per Roma, la sua abitudine ad una osservazione dei ‘segni’ lasciati dalla storia, anche recente, sul territorio, il legame di eventi collettivi e vicende personali con i luoghi: le tante lapidi sui muri della città che si fanno documento, i fori delle pallottole a lungo visibili su alcuni palazzi del centro, le ‘edicole’ disseminate sugli angoli e nei cortili delle case a testimonianza di una devozione popolare che affonda le radici in quei momenti dolorosi ma continua poi a riproporsi negli itinerari di ogni giorno39

A legare il tutto, come si è detto, la profonda conoscenza del mondo cattolico e l’interesse per la sua funzione in rapporto al tessuto vivo della società civile, che si evidenzia nel lavoro di Luigi Fiorani sostanziato sia di strumenti professionali che di convinta partecipazione emotiva. Da cui la particolare attenzione per il «vissuto religioso», da un lato della Chiesa locale, dall’altro della popolazione, nella loro reciproca interazione. Per le parrocchie come ganglio privilegiato di scambio tra i due poli. Per quei movimenti politici, espressi da intellettuali interni, per formazione, alle istituzioni della Chiesa, capaci di raccordarsi alle «persone comuni», attenti alle esigenze dei ceti sociali più deboli, senza timore di fraintendimenti. Per la risposta dei vertici e, in primo luogo, per il ruolo svolto dalla figura del pontefice a cui ha rivolto la sua analisi di studioso soprattutto «in quanto pastore direttamente responsabile della diocesi romana» e, dunque, per l’incidenza nella vita cittadina40. L’ apertura a una pluralità di voci – anche a rischio di dissonanze – per rispondere alla ‘pluralità’ urbana di Roma, città storicamente segnata dalla molteplicità e varietà delle sue diverse anime, dalle molte contraddizioni, come sottolineato anche nell’introduzione all’Annale Einaudi dedicato a «Roma, la città del Papa », di cui Fiorani è uno dei curatori41. E viene immediato, scorrendone l’indice, riconoscere la sua impronta, così come nella scelta, per sé, del tema delle confraternite, parte di uno sfaccettato mondo di associazionismo laicale in cui si intrecciano esigenze materiali e sentimento religioso di larghe fasce sociali, trasversalmente, fino alle più umili; il cui studio gli appare rilevante, dunque, nella dimensione di una città ‘sacra’ come Roma, anche grazie al «progressivo arricchimento del concetto di religione sollecitato dalla cultura antropologica e sociologica, cui si sono aggiunte certe rivalutazioni (si pensi alla religione popolare) avanzate dai teologi dell’ultimo Concilio» 42

38 Di monsignor Venier, di cui nel volume sono riportati alcuni brani del diario (e venier, 8 settembre 1943-20 luglio 1944. Diario della liberazione, pp. 105-109), si veda: Il clero romano nella Resistenza. Colloqui con i protagonisti di venticinque anni fa, Roma 1969. Fiorani intervista Gabriele De Rosa presso la sua abitazione romana, nell’ottobre 2007 (ricavandone il testo riportato nella tavola rotonda), e don Paolo Pecoraro, a Subiaco, nel 2008 (p pecoraro, Intervista, pp. 431-438). Il legame con quest’ultimo, nei cui confronti esprimerà poi sempre grande ammirazione, risale ai primi anni Sessanta, quando, subito dopo la laurea, si era recato ad insegnare nella scuola di don Paolo, già trasferito a Subiaco, traendone guida e consiglio. Sempre a Fiorani si deve l’intervista a Sisto Quaranta, al Quadraro, quartiere in cui amava particolarmente tornare per aver abitato nella zona, da ragazzo, con la sua famiglia e di cui sottolineava affettuosamente la ‘creatività’ di un’edilizia in gran parte autocostruita. Ad accompagnarlo, nei secondi due incontri, Luigi Cacciaglia, amico e collega presso la Biblioteca Vaticana, che qui desidero ringraziare, insieme a Domenico Rocciolo, per il loro racconto.

39 Ritroviamo, negli esempi fatti, i luoghi della sua quotidianità: «l’altarino» all’incrocio tra via Chiana e via Tagliamento, l’edicola del Divino Amore a piazza Istria, via Lago di Lesina «dove si era attestato un distaccamento del Comando della Divisione Piave, assaltato dai tedeschi» (fiorani, Roma città aperta, 1943-1944, p. 102).

L’ ultima volta che ci siamo incontrati, nella primavera del 2009, è stato presso la Fondazione Caetani, proprio al fine di restituirgli le bozze per il volume.

Abbiamo ammirato, come sempre, la vista su Roma dalla finestra del suo studio, di cui andava tanto fiero (la città sacra e la città profana – indicava divertito – le cupole e il bianco del ‘vittoriano’). Poi siamo venuti via insieme, diretti verso lo stesso capolinea, e lui ha insistito per fare un giro un po’ più lungo e potermi mostrare, lì intorno, tutti gli angoli che amava, con una felicità e un trasporto, intatti, che è difficile scordare.

Infine, sull’autobus, tornando a parlare del numero in preparazione e degli anni della guerra, mi ha raccontato i suoi ricordi di bambino, la mano della mamma che lo stringeva, per proteggerlo dalla paura, allontanandolo dalla presenza dei soldati e, ancora, le difficoltà familiari di quei ‘nove mesi’ condivise, come è riuscito così bene a ricostruire, da tanti romani…

40 fiorani, Storia religiosa di Roma, pp. 246-247: «Del resto il papa – vi sottolinea – è papa in quanto è vescovo di Roma». Si veda, in particolare, id., Un vescovo e la sua diocesi. Pio x I, «primo pastore e parroco» di Roma, in Achille Ratti Pape Pie x I, Roma, École Française de Rome, 1996, pp. 423-497.

41 l fiorani – a prosperi, Roma, la città del papa, Torino, Einaudi, 2000 (Storia d’Italia, Annali ,16). Nella stessa direzione è da sottolineare il suo interesse per il ‘modernismo’, a cui viene dedicato il n. 8, 1990, di «Ricerche per la storia religiosa di Roma».

42 l. fiorani, «Charità et pietate». Confraternite e gruppi devoti nella città rinascimentale e barocca, in Roma, la città del papa, p. 431. Sempre al tema delle confraternite romane sono dedicati il n. 5 (1984) e n. 6 (1985) di «Ricerche per la storia religiosa di Roma», entrambi a sua cura.

This article is from: