3 minute read

Il “disabile” è come noi: stop a pena e falsa pietà

Puoi darci qualche dettaglio sul tuo percorso di studi e spiegarci come mai hai deciso di intraprendere proprio questo? Adesso tu lavori a Rovereto, in quale realtà?

Diciamo che mi sono ritrovato dentro un po’ per caso. Tutto è partito dalle medie quando mi consigliarono di fare il “Liceo delle scienze sociali” che all’epoca si chiamava così. Successivamente ho proseguito e mi sono trovato benissimo. Già alle superiori ero molto interessato a temi sociali quali la disuguaglianza e altri temi di questo genere. Sono laureato in educazione sociale e culturale e più precisamente mi occupo dell’aspetto della riabilitazione sociale e dell’inserimento. Lavoro per una cooperativa sociale che si chiama “Villa Maria” e nello specifico in un progetto intitolato “Vivere a colori”, destinato a persone che hanno una disabilità lieve, sia motoria che cognitiva; ci occupiamo di far aumentare l’autonomia, in casa e fuori, dei ragazzi che seguiamo. L’obiettivo è quello, in un futuro più o meno vicino, prossimo, di permettere loro di vivere autonomamente insieme ad altri ragazzi disabili. L’aspetto chiave non è tanto insegnar loro come pulire o utilizzare il gas, ma far capire loro che vivere insieme comporta delle regole ben precise e non si devono fare torti dettati dall’egoismo.

Advertisement

So che sei un ragazzo molto altruista e generoso sia sul campo da tennis ma anche fuori. Credi che in qualche modo questo ti abbia aiutato nei tuoi percorsi di studio e di lavoro o è stato semplicemente un altro caso?

Sicuramente questo mi ha aiutato ma non è una prerogativa necessaria, anche se essere espansivi e altruisti aiuta. Serve sia in un primo momento, sia quando bisogna improvvisare, perché alla fine è un lavoro di improvvisazione. Sì, direi che in sostanza mi aiutato.

Con la mia classe ho aderito ad un progetto di Fondazione Fontana Onlus intitolato “WSAPeople”; in particolare ci siamo occupati del tema della disabilità. Potresti spiegarci come lo intendi tu e che cosa hai imparato nei tuoi percorsi di studio e di lavoro?

Sicuramente è un concetto ambiguo per la maggior parte delle persone. Dal punto di vista tecnico si suddivide su tre livelli: menomazione, disabilità e handicap. Tutto parte da una menomazione che può essere cognitiva e fisica. Ad esempio chi non ha un piede ha una menomazione fisica. La disabilità è lo svantaggio che chi porta la menomazione ne trae. L’handicap invece è lo svantaggio sociale che la persona subisce a causa di questa menomazione o disabilità. Molti non sanno che la disabilità in soldoni è questo. Nel mio caso il fatto di aver potuto fare molti tirocini ed essere entrato a contatto con realtà differenti mi ha aiutato nella comprensione della disabilità, anche se secondo me è un brutto termine. Ho capito che tutta la sorta di pantomima sulla pena verso il disabile deve

essere cancellata e questa è una delle battaglie più difficili da combattere perché tutti provano tenerezza e pena per il disabile. E invece non deve essere così! Deve essere trattato come una persona “normodotata” con caratteristiche differenti.

A questo proposito, hai avuto modo di creare dei rapporti belli con i ragazzi con cui lavori?

Certo, assolutamente. È sempre difficile perché la disabilità comporta una sensibilità maggiore. Nella disabilità tutto è elevato all’ennesima potenza, dal senso di colpa all’orgoglio. Dunque è molto difficile porsi, perché quando ti poni devi essere sempre una persona di riferimento e in base alla disabilità puoi essere anche visto come un amico. Spesso si instaurano bei rapporti ma sempre con la consapevolezza che tu, educatore o insegnante, sei la figura che coordina. Al di fuori della struttura li vedo però pochissimo, quindi all’interno della cooperativa ho instaurato dei bei rapporti che però purtroppo finiscono lì.

Recentemente ho letto sulla testata giornalistica online “Unimondo.org” che ci sono voluti decenni per riconoscere i diritti dei disabili. Secondo te sul nostro territorio sono riconosciuti e rispettati?

Mi sento di dire che sono abbastanza riconosciuti, però è stato un lavoraccio. Dico abbastanza perché purtroppo perché non si ha ancora accesso ad un mondo completamente inclusivo, perché c’è ancora questa sorta di tenerezza e pena che fa sì che il disabile sia sempre preso da parte e fatto un mondo per lui. Invece nel mondo di tutti il disabile deve essere inglobato. C’è quindi ancora molta strada da fare! Manca quella che chiamerei una sorta di inclusività totale.

Data dell’intervista: 26/03/2020 Modalità dell’intervista: chiamata telefonica Intervistatore: Pietro Tranquillini Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate

This article is from: