Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
Fa impressione che una rivista (di carta!) raggiunga il Duecentocinquantesimo numero. Temo che un mio contributo sull’importanza delle riviste di fotografia oggi sia piuttosto deludente ero un lettore consumatore regolare, e persino accanito, da ragazzo, quando cominciavo a fotografare in Sicilia. A quei tempi, parlavano soprattutto di macchine, obiettivi e di brodini per svilup i rulli. Allora mi serviva. Ho poi continuato, in maniera discontinua dalla fine degli anni Sessanta a Milano, ma parlavano soprattutto di test su macchine e pellicole. Argomenti che non mi ha mai veramente interessato. Di cultura fotografica assai poco. Poi ha cominciato ad essercene. Ma soprattutto sulla fotografia fotoamatoriale. Ce n’erano tante, ricordo. Vivevano soprattutt XXVI al- suo NUMERO 249/250 MARZOMiaAPRILE 2019 pubblicità delle case produttrici di materiali, che poi è andata scemando. E molte sono morte.ANNO Photo francese apice tirava duecentomila-esemplari! moglie Paola Bergna dirig l’edizione italiana. La vedevo. Ne vedevo anche altre e spesso FOTOgraphia, che aveva e ha continuato ad avere un approccio diverso, curioso, più interessante. Cara Grazia, sei abbona FOTOgraphia da moltissimi anni. Qual è, secondo te, il valore della rivista? «Personalmente, per mio uso e per il fatto che la conosco da vent’anni, direi che mi piace perché differisce dalle riviste di fotografia. Amo i suoi collaboratori e le loro rubriche, rubriche che attendo mese dopo mese. Poi, mi piace la sua impaginazione originale, un po’ retrò, che fa venire in mente qu belle eleganti ed esclusive riviste del passato. Mi piacciono i temi “inusuali” che vengono scelti, il fatto che non lasci spazio ai pettegolezzi. E, soprattutto, mi piace che non ci siano semp solo i fotografi celebri e osannati, ma autori semisconosciuti e interessanti. Insomma, una rivista che propone temi un po’ diversi, e porta alla luce i risultati di una ricerca di fotografi m personale e intelligente». Cosa pensi del fatto che FOTOgraphia sia soprattutto cartacea? Pensi che abbia ancora senso una rivista che ha rigorosi ritmi mensili, rispetto all’accumularsi di no che arrivano a ogni istante sulla Rete, arrivi così frequenti e, a volte, sconclusionati, che non ti lasciano il tempo di riflettere? In altre parole, nell’era digitale, pensi possa resistere una riv cartacea, una rivista che lasci spazio alla riflessione? Sfogliare e leggere una rivista, specialmente se tratta di Fotografia, è sempre una esperienza immersiva. Siamo così tempestati da imma e da slogan pubblicitari e politici che ci riempiono la testa impedendoci quasi di pensare autonomamente, che una rivista, ben stampata e ben composta, è un’oasi per gli occhi e per la me Possiamo finalmente concentrarci sugli argomenti trattati che sono di nostro interesse, trascurare altri che non ci sono affini, anche attraverso l’esperienza sensoriale con la carta e con le riflesse, potendo leggere, rileggere, saltare, confrontare, annotare, accantonare e riprendere secondo i nostri di ritmi... di tempi... di concentrazione. Alcuni temi ci possono affascinare e il compe immagini e testi esplicativi ci consente di entrare, di approfondire, di capire, di concordare o dissentire senza doverne forzatamente rendere conto, di corroborare le nostre opinioni e di far delle nuove. Insomma, di crescere individualmente. La presenza sul mercato di una rivista come FOTOgraphia, di Maurizio Rebuzzini, è confortante per tutti coloro che (io sono tra questi) riteng che un ragionamento e una analisi attenta siano necessari all’approfondimento della immagine fotografica. Che la parola possa e debba tracciare una linea netta di demarcazione tra l’att strabordante uso del linguaggio fotografico come mero mezzo di trasferimento di dati e l’utilizzo del mezzo fotografico con finalità artistiche e creative è ormai esigenza urgente. Se è vero il fatto che quasi ogni essere vivente abbia in tasca un apparecchio fotografico non può che riempire di gioia chi ama questo mezzo tecnico... è anche vero che due miliardi e mezzo di imma postate sui social ogni giorno meritino un ragionamento e forse la stesura di una bozza di “grammatica” della lingua nuova. E allora ben venga l’intelligenza limpida e spesso ironica della riv di Rebuzzini che combatte una preziosa (e un poco donchisciottesca) battaglia contro l’immenso esercito dei distratti e dei fruitori di immagini prive di contenuti. Dai, parliamo di noi. In ve lo facciamo costantemente alle conferenze stampa, al bar, alle inaugurazioni delle mostre, durante le chiacchiere che ci si scambia nelle più diverse occasioni. Lo facciamo -chi più, chi me , a seconda del proprio desiderio di esibirsi, della propria aggressività, del proprio garbo, del proprio rispetto delle altrui visioni del mondo. Ma è la prima volta che mi capita di parlare di per iscritto. Quindi: dai, scriviamo di noi! Sono amico di Maurizio Rebuzzini da mille anni. Sì da molto prima che nascessimo. Se crediamo alla reincarnazione, se crediamo alla vita dopo la m (e se crediamo anche a molte altre cose), mi sia concesso di credere che io possa essere stato amico di Maurizio mille e forse più di mille anni fa, prima di nascere, quando eravamo conf nell’Iperuranio (o mondo delle idee: concetto proprio di Platone, espresso nel Fedro). Condividiamo, infatti, le stesse idee sulla nostra specie (Homo sapiens), condivisione che ha trovato confe sulle riflessioni del nostro lavoro di docenti universitari, su orrori e meraviglie dei nostri studenti, ma anche sulle convinzioni di cosa sia la Fotografia. Condivisione che più recentement trovato altre conferme nella lettura di Sapiens. Da animali a dèi, di Yuval Noah Harari. E che si è ulteriormente rafforzata durante gli anni della mia collaborazione alla rivista, e nei coll sempre più frequenti con Maurizio, al telefono o al ristorantino non lontano da via Zuretti 2a, prima gestito da egiziani, oggi da bengalesi che ci ho messo un po’ a convincere a trovarm peperoncino abbastanza piccante per il solito piatto di fusilli al pomodoro. Evviva (si fa per dire), insigni studiosi di neuroscienze, nonché la rivista Scientific American, dopo approfonditi s e indagini, hanno stabilito che le persone capiscono e ricordano meglio un testo su carta rispetto a uno letto sullo schermo di un computer, di un e-book o di un cellulare. Leggendo onlin tenderebbe a diventare semplici assimilatori di informazioni e non a porsi interrogativi utili per sviluppare una qualche forma di pensiero. «Noi non siamo quello che leggiamo [...]. Noi si come leggiamo», afferma Maryanne Wolf, psicologa dell’età evolutiva e autrice del libro Proust e il Calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (e, per essere in sintonia con lo stile pre di FOTOgraphia, segnalo che il libro è stato edito da Vita e Pensiero, nel 2012, e che io ho ripreso la citazione dal sito http://acarrara.blogspot.com). Mentre mi accingevo a scrivere queste r dedicate all’impegno di Maurizio (e di Filippo) per la sua rivista (e di Filippo), mi sono imbattuto in un articolo di grande interesse per gli argomenti che avrei voluto affrontare. Paola De Car sul Corriere della Sera, ci rendeva edotti della nascita di movimento «... slow looking che il Gruppo Tate ha fatto proprio». È, come si intuisce, un movimento che vuole creare e diffondere cultura dello sguardo lento e riflessivo, senza l’angoscia di una corsa contro il tempo per cercare di vedere (vedere?) il più grande numero possibile di opere. In media, hanno constatato nei Musei Tate il visitatore, davanti a ogni singola opera, si ferma per circa otto (8!) secondi; avete letto bene: otto secondi. Ma come è possibile, davanti a un’opera d’arte, pensare di ricev emozioni profonde in otto secondi? Se voi guardate anche la pubblicità di qualche tour organizzato restate senza parola: per esempio, il giro dell’Europa in sei giorni (tempo addietro, un f Se è martedì deve essere il Belgio). La fretta, l’accaparramento di esperienze, la quantità delle cose viste per poterle subito condividere sui social sono aspetti che aiutano a costruire la dif ignoranza e insensibilità dei nostri tempi. Il suggerimento degli esperti dei Musei Tate è semplice: scegliete qualche opera, fermatevi con calma a osservarla, a sentire che emozioni trasm scegliete... E se c’è qualche rumore, meglio! Non puoi immaginare di vivere lo slow looking senza rumore... «il rumore fa parte dell’habitat dell’opera». Quale pensi debba essere il ruolo delle riv cartacee rispetto all’online? «Per quanto riguarda le riviste di fotografia, è ovvio che sono le immagini. Le immagini online, io le guardo, ovviamente, ma non si possono godere abbasta Adesso è molto diffuso, spero non troppo, l’eBook. L’eBook è una paginetta, e di questa paginetta si leggono due o tre paragrafi, non di più, il che è molto diverso rispetto al leggere un lib una rivista. È chiaro che non si può fermare non il progresso -perché questo non è progresso-, ma non si può fermare la tecnologia». Rivista o pubblicazione, trovi differenze? La differe potrebbe essere l’approfondimento dei contenuti? «Le riviste mensili sono riviste mensili. Anche FOTOgraphia, che ha una cadenza mensile, può essere vista come pubblicazione. Non ries capire la differenza». Quali sono le riviste o pubblicazioni fotografiche che ti hanno più influenzata? «Mi hanno influenzato le riviste straniere, che però non esistono più. Come ad esempio P Letter e Camera. Erano riviste molto complesse e guardavano molto avanti. Oggi, per quanto riguarda la fotografia ad esempio messicana, sappiamo abbastanza. La fotografia, fin dalla sua nas si è trascinata dentro due equivoci o pregiudizi che costantemente hanno influenzato il suo corso durante la storia. Questi pregiudizi sono quello oggettivista e quello che sostiene l’impossib di creare una vera arte a causa di una presunta contaminazione della tecnica e della meccanica che sono alla base del procedimento fotografico stesso. Questi sono due preconcetti che si s rivelati con il tempo falsi ma ancora oggi posseggono una serie di proseliti: a proposito della supposta impossibilità del fare arte a causa della contaminazione meccanica vi sono molti affermano che è impossibile che possa esservi un intervento del fotografo nell’operazione e che questo si debba ridurre ad una sola presenza passiva. Io risolverei la questione dicendo solo la tecnica è indispensabile per un discorso autonomo, ma che è anche indispensabile una visione originale e soprattutto personale che asservisca la tecnica al nostro volere. Dice ad esem Raffaello «Impara il tuo mestiere; non basta il mestiere per diventare artista, è vero, ma il mestiere [la tecnica] è necessario. Non basta mangiare per vivere da uomo, ma non si vive se no mangia. Arte in italiano significa prima di tutto mestiere». Per leggere di fotografia, a volte serve una certa inclinazione. Fu una faticaccia davvero tenere inclinato con l’angolatura giusta risp alla luce quel numero di FOTOgraphia dell’aprile 2011. Che quel Franti matricolato di Maurizio Rebuzzini volle stampare tutto cu carta opaca nera, e fin qui passi, ma con inchiostro serigra nero lucido, e qui le cose si facevano complicate e perfide. A pensarvi bene era una sottilissima sapientissima citazione fotologica: erano, le pagine di quel numero della rivista, tutte un po dagherrotipi anomali. C’era ovviamente un motivo spiegato (nell’unico testo in bianco - bianco e nero, ci risiamo con le allusioni) dall’Editoriale: nero essendo l’unico colore adeguato, scriv il direttore, a un «mondo italiano della fotografia diviso e scomposto in orticelli senza scambi, né punti di contatto che servano a tutti», in cui «si è persa la vivacità di incontro e di dibattit qualche stagione fa». Il rapporto tra la fotografia e la carta nasce quel giorno in cui William Henry Fox Talbot aveva sensibilizzato un foglio di carta passandolo in una soluzione di sale e, d essiccazione, in una soluzione di nitrato d’argento. Il miscuglio si trasforma in cloruro d’argento, sale che si annerisce alla luce del sole come un piatto o una forchetta e che, da allora, no smesso di impressionarsi. Era l’ottobre del 1833; Fox Talbot, trentatré anni, laureato e con un diploma di Master of Arts, appena sposato con Constance, aveva scelto Como per la luna di m Forse, per l’occasione, aveva acquistato una camera lucida, una specie di camera obscura portatile al rovescio. L’aveva inventata William Hyde Wollaston, come sempre per permettere agli a di far presto e meglio nella lotta con la prospettiva. La storia è stra-nota. Dopo l’ultima litigata con la camera lucida, che non voleva saperne di aiutarlo a fare “schizzi” del panorama off dal lago di Como, Fox Talbot pensa a una diversa soluzione usando la vera camera obscura, magari di piccole dimensioni. Tornato nella sua tenuta di Lacock Abbey, non lontano dalla rom Bath, sensibilizzato un foglio di carta, iniziò i suoi esperimenti. Quel furbacchione di Daguerre sarà stato il primo inventore ufficiale della fotografia, ma è Fox Talbot l’uomo che ha inven il negativo, anche se di carta! Ho scritto sempre e solo per il web. Gran parte dei materiali che consulto ogni giorno per il mio lavoro di giornalista è del tutto digitale e quando -a un ev stampa- mi pongono di fronte alla scelta tra una cartelletta ripiena di fogli e un’email con gli stessi materiali in formato digitale non ho dubbi, e opto sempre per la seconda soluzione. M sono alcuni ambiti in cui la carta rimane per me un’esperienza imprescindibile. Una sono certamente i libri: leggo già tante parole su display di tablet, smartphone e PC, durante la gior lavorativa, che nel tempo libero e per le letture che dedico alle mie passioni non ho voglia di posare il mio sguardo nuovamente su uno schermo, sia esso retroilluminato e e-ink, come qu degli e-book reader. Leggo di fotografia online per lavoro, ma leggo di fotografia per passione con delle pagine di carta che scorrono l’una dopo l’altra sotto i miei polpastrelli. C’è poi un a aspetto, che forse è addirittura più importante per me. Una rivista cartacea occupa uno spazio fisico all’interno della mia vita. Non può essere compressa in bit immateriali e stoccata su qua server. Una rivista cartacea vuole il suo spazio e quando non glielo si concede se lo prende da sola, magari occupando per giorni una mensola, un ripiano, oppure (e qui per anche per me anni) un cassetto. La prima volta che ho avuto la fortuna di visitare gli scantinati dove Maurizio Rebuzzini conserva, in un viale tortuoso di scaffalature stipatissime, la sua wunderkammer fotogra e l’ho ascoltato raccontare con il suo solito eloquio, affascinante e divertito, l’origine e la descrizione di oggetti o di macchine fotografiche, di libri o di illustrazioni, ho percepito come una pass può essere una fedele compagna di una vita. Esperto enciclopedico del settore? Scrittore, giornalista e critico dal linguaggio ricco e avvincente? Direttore deciso e caparbio, convinto assertore valore della rivista cartacea, concepita come una matrioska di pensieri colti e profondi? Ma chi è l’inventore di FOTOgraphia, il giornale che dal maggio del 1994 invita i suoi fedeli abbonati Riflessioni, le Osservazioni e i Commenti sulla Fotografia? Solo le sue parole, specchio di una personalità complessa e poliedrica, ci possono illuminare: «A parte la quantità e qualità di prese “fotografica” nel mio spazio operativo (studio? redazione di FOTOgraphia? accumulazione di testimonianze eterogenee?), ciò che mi pare faccia la differenza, stabilendo un passo, identifica una personalità, è il loro collegamento ideale e individuato. Nulla è per se stesso -come, peraltro, pure è-, ma tutto ruota attorno un’idea sovrastante di apprezzabile vitalità. Del resto, libri e ogg nello specifico riferiti alla Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi, non sono aridi punti di arrivo, ma -come tanto altro- straordinari s-punti di partenza. La passione è int e se possibile cresce ancora col passare del tempo. Sono fotografo professionista da decenni e mi sento ancora il fotoamatore degli inizi quanto a curiosità, entusiasmo e dubbi. Già, i dubbi cercano risposte, e più le cercano meno le trovano. Tra le poche cose che credo di aver compreso della fotografia sono i suoi limiti più che le sue possibilità, e forse proprio i suoi limiti coincid con la sua natura. Primo fra tutti la sua intrinseca difficoltà, per non dire impossibilità, ad avvicinarsi alla sinestesia, quel magnifico e miracoloso attivarsi simultaneo di tutti i nostri sens fotografia, checché se ne dica, attiva direttamente, fisiologicamente, solo uno di essi: la vista. Gli altri, in rari casi, al massimo possono essere evocati, richiamati alla mente come fa la made nella Recherche di Proust. Resta il fatto che una fotografia di fragole, per quanto invitante, se mangiata saprà -a seconda del supporto- di carta, d’inchiostro, di fissaggio, o di plastica se lecchi il monitor che la visualizza. In ogni caso, mai avrà il sapore delle fragole: ben poca realtà in un’immagine dal reale. In un porto della costa occidentale europea un uomo vestito poverament ne sta sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchia. Un turista vestito con eleganza sta appunto mettendo una nuova pellicola a colori nella sua macchina fotografica per fotografare quella sc idillica: cielo azzurro, mare verde con pacifiche, candide creste di spuma, barca nera, berretto da pescatore rosso. Clic. Ancora una volta: clic e siccome non c’è due senza tre, ed è sempre me essere sicuri, una terza volta: clic. Quel rumore secco, quasi ostile, sveglia il pescatore mezzo addormentato, che si drizza pieno di sonno, cerca -pieno di sonno- il suo pacchetto di sigarette prima di averlo trovato lo zelante turista gliene mette già un altro sotto il naso, gli ha infilato una sigaretta non proprio in bocca ma tra le dita, e un quarto clic, quello dell’accendino, conch quella sollecita cortesia. Quell’eccedenza quasi impercettibile, assolutamente indimostrabile di scattante cortesia ha provocato un irritante imbarazzo che il turista -il quale conosce la lingua cale- cerca di superare entrando in conversazione. – Oggi lei farà una buona pesca. Il pescatore scuote la testa. Perché una rivista cartacea, invece di una rivista digitalacea? a) Perché la condivis è bella, ma noi esseri umani siamo animali strani e, oltre a condividere, ci piace possedere. Sarebbe disonesto non ammetterlo: un po’, piace l’idea di avere qualcosa che si possiede unicame e non solo che si veda. E la rivista di carta può essere posseduta, se la tieni per te, o regalata, o prestata, ma sempre con il sottile piacere di trasferire il possesso materiale. b) Perché l’immate è concettualmente eterno, ma noi esseri umani siamo legati alla sfera dell’impermanenza, e sotto sotto ci indispone questa tracotanza del file che si propaga senza modificarsi. La rivista di c è tenera come un essere vivente, e non presupponente come un file. Si stropiccia, si strappa, ingiallisce. Condivide con noi i segni del tempo, e questo la rende enormemente più degna di risp di stima e di gratitudine. Una fotografia che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata Fotografia. La passione della conoscenza spinge talora i fotografi nelle consorterie, se sapere mai che la verità non si trova nella Bibbia, ma nella strada: un’immagine realizzata fuori dal mercimonio contiene il volto di mille padri e restituisce la realtà che la percorre, la ab l’ossessiona... e si oppone all’ignoranza, al silenzio e alla beatitudine della ragione imposta. La fotografia è propedeutica; il sistema delle immagini si accontenta del tragitto spettacolare che l’ing «Tutto è così adulterato, oggigiorno, che neppure la dinamite si può comprare alla stato puro» (Oscar Wilde)... figurati la Fotografia. Ecco, allora, l’importanza della fotografia di carta o della c della fotografia, cioè un dispositivo -come la rivista FOTOgraphia, edita e diretta da Maurizio Rebuzzini- che interagisce con i linguaggi fotografici e, senza temere contrasti o censure, apre str fa riflettere, riporta sovente a un modo di vedere e di vivere attraverso l’immaginario fotografico. Perché dove la Fotografia regna, la bellezza si confonde col giusto, il resto è tru
PAROLE DI ALTRI IN RIFLESSIONE DOVUTA
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prima di cominciare PAROLE DI ALTRI. Come anticipato in copertina di questo numero di FOTOgraphia e come sottolineato in Editoriale, a pagina sette, l’attuale edizione particolare si basa ed è edificata su una sostanziosa quantità (e qualità) di interventi esterni, in valutazione e analisi della personalità propria e caratteristica della rivista cartacea, ancora oggi, soprattutto oggi, in epoca sociale assai diversa da quella del passato, fosse anche soltanto prossimo. Abbiamo coinvolto personaggi della Fotografia, per analizzare tutti assieme il senso e valore della parola in approfondimento, che contraddistingue il nostro passo redazionale e giornalistico, con osservazioni a tutto tondo: come alcuni hanno rilevato (in testi tutti da leggere con concentrazione), dalla sostanza di argomenti pressanti alla lievità di trasgressioni trasversali.
La creatività fotografica è il luogo della magia, del sogno e dell’indignazione della realizzazione estetica. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 48 Perché la fotografia per questo è stata messa al mondo, per oliare le relazioni umane, per condividere non solo le parole ma anche gli sguardi. Michele Smargiassi; su questo numero, a pagina 30 Credo che il lettore partecipi alla vita di un libro tanto quanto l’autore, ed è ancora più vero per una fotografia e un discorso sulla fotografia. Alberto Meomartini; su questo numero, a pagina 20 Ma la mia passione sono stati soprattutto i libri. È da quelli che ho ricavato la mia formazione-informazione. Ferdinando Scianna; su questo numero, a pagina 8
Copertina Interpretazione visiva dell’attuale edizione composta con Parole di altri... in riflessione dovuta
3 Altri tempi (fotografici) Annuncio pubblicitario Cappelli Lastre e Pellicole, del 1929 (anno VII). Testuale: «In Italia, si fabbricano i prodotti ottimi per gli ottimi Italiani»
7 Editoriale Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma forse le incontreremo Nella confezione di queste parole, elevate a soggetto ed edificate a pensiero, abbiamo formalmente agito in modo diverso dalla consuetudine di messa in pagina. Invece di accorgimenti sui testi, finalizzati a un ordine di impaginazione convenzionale e dovuto, abbiamo lasciato gli scritti ricevuti nelle proprie configurazioni originarie, senza apportare quei ritocchi superficiali necessari per concludere -magari- le colonne in allineamento. Da cui ne consegue una messa in pagina inconsueta, che innalza a merito assoluto ciascun intervento, da affrontare per se stesso, come anche da considerare parte di un insieme... di più contributi, tutti declinati sul medesimo passo e tutti rivolti nella stessa direzione: quella di considerare sempre e comunque le parole come parte di un tragitto di indagine e considerazione di quanto definisce e caratterizza questo stesso mondo della Fotografia: in creatività esecutiva, in valori sottotraccia, in allineamento tecnico, oppure con altri intendimenti personali. Secondo ogni intenzione individuale.
8 Sono figlio del secolo scorso Fa impressione che una rivista (di carta!)... di Ferdinando Scianna
10 Intervista a Grazia Neri Cara Grazia, sei abbonata a FOTOgraphia... di Lello Piazza
14 Considerazioni sulle riviste cartacee Sfogliare e leggere una rivista fotografica... di Beppe Bolchi
16 Parlare e ragionare di fotografia La presenza sul mercato di una rivista... di Giovanni Gastel
18 La Fotografia si intreccia con la Vita Dai, parliamo di noi. In verità, lo facciamo costantemente... di Lello Piazza
MARZO - APRILE 2019
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
20 Frantifotographia e una storia “Al Femminile”
Anno XXVI - numero 249/250 - 6,50 euro
Evviva (si fa per dire), insigni studiosi di neuroscienze... di Gigliola Foschi
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
22 Rebuzzini, la Tate Gallery e Matisse Mentre mi accingevo a scrivere queste righe... di Alberto Meomartini
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
24 Intervista a Giuliana Scimé Quale pensi debba essere il ruolo delle riviste cartacee... di Filippo Rebuzzini
26 Fotografia: documento o arte La fotografia, fin dalla sua nascita, si è trascinata dentro... di Settimio Benedusi (scritto a diciassette anni)
30 Ci vogliono certezze nella vita Per leggere di fotografia, a volte serve una certa... di Michele Smargiassi
32 Elogio della carta per i 25 di FOTOgraphia Il rapporto tra la fotografia e la carta nasce quel giorno... di Giulio Forti
34 Inciampare nella carta e nella cultura Ho scritto sempre e solo per il web... di Roberto Colombo
36 Parole su carta e scrittura di luce La prima volta che ho avuto la fortuna di visitare... di Mariateresa Cerretelli
38 Sinestesia, spalanca le tue braccia La passione intatta, e se possibile cresce ancora... di Leonello Bertolucci
41 Aneddoto con effetto deprimente... In un porto della costa occidentale europea un uomo... di Heinrich Böll
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Settimio Benedusi Pino Bertelli Leonello Bertolucci Beppe Bolchi Antonio Bordoni Mariateresa Cerretelli Roberto Colombo Giulio Forti Gigliola Foschi mFranti Angelo Galantini Giovanni Gastel Alberto Meomartini Grazia Neri Lello Piazza Ferdinando Scianna Giuliana Scimé Michele Smargiassi Roberto Tomesani
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44 ... Non leggere questo trafiletto Perché una rivista cartacea, invece di una rivista... di Roberto Tomesani
47 Sulla fotografia di carta... Una fotografia che non sia pericolosa non merita... di Pino Bertelli
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editoriale C
ertamente, avremmo anche potuto ignorare quanto è cambiato nel corso di venticinque anni di redazione di questa rivista. Tanto si è trasformata la materia tecnico-commerciale di riferimento: ed è questione fondante che non si esaurisce in se stessa, per quanto si manifesti anche in misura autonoma. Soprattutto, intorno a noi, l’evoluzione tecnologica complessiva -che si proietta sulla società tutta, invadendo comportamenti e consuetudini (alcuni dei quali in assuefazione passiva, altri in presenza attiva e confortevole)- ha modificato approcci quotidiani, che ormai non possono prescindere dalla Rete e da tutto quanto viene considerato e raccontato in tempo reale. Da cui, eccoci qui, una certa riflessione sulla personalità e utilità (forse?) di una pubblicazione cartacea, quale è la nostra. Non è certo un parlarci addosso -come non intende proprio essere-, ma un partire da noi stessi per approdare a considerazioni più ampie e condivisibili sull’occuparci di Fotografia: insieme, noi che compiliamo con coloro i quali ci frequentano mensilmente. Alla meta del Duecentocinquantesimo numero di edizione, conteggiato dal maggio 1994 di (lontana / antica) origine, si è imposta una certa riflessione, con pausa collegata. Così, anticipiamo qui che, a breve, un sostanzioso restyling formale guiderà una innovativa interpretazione della meditazione e ponderazione cartacea, in propria proiezione “attuale”: senza alterare la sostanza dei contenuti e degli approfondimenti che ci sono propri, terremo conto di quanto oggi possa integrarsi in un tutt’uno che potrebbe non avere alcuna soluzione di continuità. Ragionando in questo modo, l’attuale edizione è stata confezionata con una nutrita serie e qualità di contributi sintonizzati sul concetto e valore di reputazione in forma cartacea. Molti riferimenti richiamano la nostra storia redazionale; altri hanno evitato cenni specifici. Comunque, a partire dalla statura di coloro i quali hanno scritto per noi, dalla sommità delle rispettive competenze fotografiche, sono tutti ragionamenti dei quali fare prezioso tesoro... lungo quel cammino, anche individuale, con il quale ciascuno di noi edifica la propria personalità. Tante parole, soltanto parole, sia a beneficio di quel rinnovamento personale che intendiamo effettuare, sia a sostegno collettivo di un pensiero che si rivolga alla Fotografia -nostro territorio comune- come fantastico e privilegiato s-punto di riflessione, magari proiettato verso altri approdi: a ciascuno, i propri. Ancora, e poi basta. È inteso che, immagini a parte, piuttosto che a partire dalle immagini, è sempre la parola scritta, qui in forma cartacea, che si propone e impone come buona compagnia per le nostre (le vostre) escursioni nel mondo. Arricchiamoci delle parole che sentiamo, e riserviamo loro un posto nel nostro cuore. Così come le fotografie che incontriamo nel giardino lungo il quale siamo incamminati, anche le parole che sentiamo possono arricchirci più e meglio di quanto (non) possano farlo i denari. Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma forse le incontreremo. Maurizio Rebuzzini
Nell’ambito delle parole che in questo numero della rivista testimoniano una serie concatenata di valutazioni, soprattutto riferite alla realtà odierna della permanenza di riviste periodiche cartacee -quale è FOTOgraphiae attualità tecnologica online, da pagina 26 riportiamo la trascrizione di un tema scolastico compilato da Settimio Benedusi, fotografo di richiamo e riferimento, ai tempi del Liceo Classico, all’età di diciassette anni. Qui, in garanzia e prova sicura (se ve ne fosse bisogno), i fogli protocollo originari. Da cui, uno di quei collegamenti nei quali spesso incappiamo. Queste antiche considerazioni sulla Fotografia (ancora oggi palpitanti) confortano l’attuale personalità dell’autore Settimio Benedusi, a integrazione della sua professione quotidiana; sono riflessioni forse acerbe (ma averne di tanta e tale frutta acerba), ma già definite da un accostamento alla Fotografia di alta concentrazione. Per cui, da e con Alberto Meomartini, a pagina 22: ogni azione professionale, in fotografia, ma non soltanto, presuppone l’impegno di una vita, più qualche ora. Insomma, chi vale... arriva da lontano.
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Sono figlio del secolo scorso
Fa impressione che una rivista (di carta!) raggiunga il Duecentocinquantesimo numero. Temo che un mio contributo sull’importanza delle riviste di fotografia oggi sia piuttosto deludente. Ne ero un lettore consumatore regolare, e persino accanito, da ragazzo, quando cominciavo a fotografare in Sicilia. A quei tempi, parlavano soprattutto di macchine, obiettivi e di brodini per sviluppare i rulli. Allora mi serviva. Ho poi continuato, in maniera discontinua dalla fine degli anni Sessanta a Milano, ma parlavano soprattutto di test su macchine e pellicole. Argomenti che non mi hanno mai veramente interessato. Di cultura fotografica assai poco. Poi ha cominciato ad essercene. Ma soprattutto sulla fotografia fotoamatoriale. Ce n’erano tante, ricordo. Vivevano soprattutto di pubblicità delle case produttrici di materiali, che poi è andata scemando. E molte sono morte. Photo francese al suo apice tirava duecentomila esemplari! Mia moglie Paola Bergna dirigeva l’edizione italiana. La vedevo. Ne vedevo anche altre e spesso FOTOgraphia, che aveva e ha continuato ad avere un approccio diverso, curioso, più interessante. Ma la mia passione sono stati soprattutto i libri. È da quelli che ho ricavato la mia formazione-informazione. Ne ho messi insieme quasi seimila. Con grande pregiudizio per la sicurezza statica delle mie case. A un certo punto, per alleggerire, ho cercato di regalare le riviste a qualche istituzione. Non una che le abbia volute. Le ho regalate tutte al primo giovanotto che ha accettato di portarsele via. Temo che il mio atteggiamento non sia cambiato. Me ne mandano, continuo a sfogliarle, credo continuino a servirmi, ma sostanzialmente guardo un sito franco-americano di portfolio che raramente mi entusiasmano ma mi danno l’illusione di seguire vagamente quello che succede. Considero eroico e meritorio chi continua a farlo con fede e entusiasmo. Il fatto è che sono molto invecchiato e avendo, come Vittorio Gassman, un avvenire alle mie spalle, negli ultimi venti anni mi sono soprattutto occupato del mio archivio e della concezione e costruzione di miei libri e mostre. Insomma, sono figlio del secolo scorso, anzi, del millennio scorso. Ferdinando Scianna
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Intervista a Grazia Neri
Cara Grazia, sei abbonata a FOTOgraphia da moltissimi anni. Qual è, secondo te, il valore della rivista? «Personalmente, per mio uso e per il fatto che la conosco da vent’anni, direi che mi piace perché differisce dalle altre riviste di fotografia. Amo i suoi collaboratori e le loro rubriche, rubriche che attendo mese dopo mese. Poi, mi piace la sua impaginazione originale, un po’ retrò, che fa venire in mente quelle belle eleganti ed esclusive riviste del passato. Mi piacciono i temi “inusuali” che vengono scelti, il fatto che non lasci spazio ai pettegolezzi. E, soprattutto, mi piace che non ci siano sempre e solo i fotografi celebri e osannati, ma autori semisconosciuti e interessanti. Insomma, una rivista che propone temi un po’ diversi, e porta alla luce i risultati di una ricerca di fotografi molto personale e intelligente». Cosa pensi del fatto che FOTOgraphia sia soprattutto cartacea? Pensi che abbia ancora senso una rivista che ha rigorosi ritmi mensili, rispetto all’accumularsi di notizie che arrivano a ogni istante sulla Rete, arrivi così frequenti e, a volte, sconclusionati, che non ti lasciano il tempo di riflettere? In altre parole, nell’era digitale, pensi possa resistere una rivista cartacea, una rivista che lasci spazio alla riflessione? «Trovo una grande cosa che sia cartacea. Personalmente, preferisco le riviste cartacee e non guardo le riviste online, se non qualche volta per curiosità, per vedere dei titoli o quando ho bisogno di verificare una notizia. Ma io ho tutto cartaceo in casa, nel mio archivio. Amo il cartaceo. E, secondo me, ci sarà un certo ritorno al cartaceo. Il cartaceo consente di dibattere argomenti, nello specifico argomenti fotografici, e di approfondirli. «Mi piace la rivista cartacea perché è più ricca, ci sono le pagine da sfogliare che riservano una sorpresa a ogni nuova pagina. Nelle riviste cartacee, si possono avere mini rubriche, si possono avere testi lunghi, le proposte possono avere le dimensioni più varie. E le fotografie stampate hanno un altro impatto rispetto al video. E poi queste riviste si possono sfogliare, si può andare avanti, tornare rapidamente indietro, scegliendo il proprio percorso. E tutti questi percorsi, almeno secondo me, sono più veloci sulla carta che online». Pensi che potrebbe essere un’idea trasformare FOTOgraphia da “rivista” qual è, con ritmi mensili, in una “pubblicazione” simile a un paper universitario, che viene pubblicato solo quando si sente la necessità di un approfondimento di un tema? Una specie di pamphlet, una specie di libro. «Non credo che così funzionerebbe perché si perderebbe la regolarità dell’appuntamento con i lettori. E poi ci sarebbe un gran disagio nel dirigerla. Perché come fai a sapere quali sono gli eventi da approfondire? Adesso, per esempio, c’è la guerra in Libia. Allora ti scateni sulla guerra in Libia, ma se dopo tre giorni succede un altro Undici settembre cosa fai? E poi una rivista fa le sue proposte e poi è il lettore che sceglierà se approfondire. O no. Infine, nelle riviste è bella anche la periodicità, l’attesa del nuovo numero. Ecco, se c’è una cosa che rimpro-
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vero a FOTOgraphia è la mancanza di puntualità. Anche se mi rendo conto della difficoltà nel pubblicare una rivista così, con la pubblicità ridotta al minimo. «In conclusione, sono contraria a trasformare FOTOgraphia in una “pubblicazione”». Una aspetto a cui FOTOgraphia pone molta attenzione è l’etica, l’etica nelle fotografie, l’etica nel rispetto del lavoro degli altri, l’etica nel rispetto delle altrui scelte di vita. Questa attenzione si sposa con la scelta della qualità dei contenuti. L’etica e la qualità sono due leitmotiv della tua lunga carriera professionale. «I contenuti e l’etica sono due cose differenti. Per esempio, se in questo momento mi portano un servizio di guerra dalla Libia, con fotografie di attualità molto aggressive ma anche molto commoventi, è chiaro che quelle immagini parlerebbero da sole. Ma l’etica consiste nel rispettare il dolore degli altri. Quindi devi chiederti: quanto questa fotografia è raccapricciante? Chi potrebbe offendere? «E poi non c’è solo l’etica di quello che si sceglie di pubblicare. In un certo senso, nel mio lavoro d’Agenzia, prima veniva la mia etica, mia di chi vendeva i servizi, poi veniva l’etica del direttore che doveva scegliere se pubblicare o no una fotografia, un servizio. L’etica di quello che vende è stata per me quella di togliere dalla circolazione tutte le immagini che fossero troppo agghiaccianti, oppure troppo irrispettose nei confronti di un essere umano o di un bambino, Una scelta non facile, che dipende da molti fattori, non ultimo dal periodo “storico” in cui la fotografia viene pubblicata. «Per quanto riguarda i contenuti è ovvio che siano importanti perché l’etica da sola senza il contenuto non esiste. Ma anche la qualità è importante, se hai un buon contenuto raccontato fotograficamente male, è probabile che il tuo servizio non valga niente, non scaldi il cuore o non accenda l’attenzione del lettore. Insomma, occorre un tris di cose: l’etica, il buon contenuto, la qualità del racconto che con la fotografia significa belle, forti immagini. Poi, naturalmente, tutto deve essere condito dalla passione». Nel 2013, hai pubblicato La mia fotografia, un libro di ricordi maturati nei tuoi anni di Agenzia [ FOTOgraphia, giugno 2013]. Avrebbe avuto senso pubblicare questa testimonianza confinandola al digitale? «Lascia prima di tutto che faccia un po’ il sunto di quella storia. La mia fotografia occupa, dal punto di vista storico e sociologico, tre epoche, in cui sono cambiati i gusti, i modi di vivere, la tecnologia. Dobbiamo considerare che ho ottantaquattro anni, dieci più di te, Lellino. All’inizio, io non sapevo nulla di fotografia. Chi mi ha aiutato sono stati i fotografi stessi che mi hanno dato, col loro lavoro, le loro esperienze, i loro racconti, la possibilità di conoscere e imparare. Inizialmente, ho anche frequentato alcune associazioni di fotografia, che in sede avevano collezioni di riviste di fotografia molto preziose, come il British Journal of Photography o Visuell (entrambi oggi hanno una versione online), e di tante altre riviste che spiegavano le tecniche della commercia-
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lizzazione della fotografia e l’importanza del copyright (a proposito di etica, è il copyright che difende e rispetta il lavoro dei fotografi). Poi, naturalmente, c’erano i libri. Mi sono procurata un dizionario di fotografia dell’Einaudi, perché mi serviva per conoscere il passato. Ho seguito tante riviste... vuoi un elenco? Aperture, Foam, PDN, Polka, Outdoor Photographer, American Photo. E possiedo tanti libri di fotografia di autori come A. D. (Allan Douglass) Coleman, Susan Sontag, Roland Barthes, Fred Ritchin, David Levi Strauss, Régis Durand, Tom Blau, Gisèle Freund... «Adesso sono fuori dal mio vecchio lavoro di agenzia e non ho più la spinta professionale ad aggiornarmi costantemente. Ma sono curiosa e continuo a seguire la fotografia, il fotogiornalismo, per il mio piacere. Certo, vado sul web per cercare le novità, questo sì. Se però dovessi aggiornarmi sul commercio della fotografia allora andrei sempre a informarmi su quelle riviste di settore che sono ancora cartacee. Ci sono anche quelle digitali, ma io andrei su quelle cartacee». Ti è rimasta viva la passione per le riviste di fotografia? «È difficile che un giornale di fotografia non mi interessi. I contenuti sono quasi sempre stimolanti. Prima di tutto perché spesso propongono qualche nuovo fotografo. Naturalmente, sono interessanti anche fotografi non nuovi, che magari non ho mai conosciuto. Certo però che, se sfogliando le pagine di una rivista, mi trovassi improvvisamente di fronte a una nuova stella del fotogiornalismo, che so?, un giovane, e sconosciuto “mccullin”, mi farebbe immensamente piacere...». Ma, alla fine cosa pensi del dilemma digitale - cartaceo? «Quello che penso è questo: preferisco il cartaceo, anche perché lo trovo più comodo, almeno per me, perché leggo sdraiata a letto o sulla poltrona. Poi perché col cartaceo mi muovo come voglio tra le pagine, torno indietro a leggere un nome di un personaggio che mi sono dimenticata. Insomma, trovo maggiori possibilità di movimento in un libro o in una rivista che non sul web. Poi libri e riviste mi piacciono come oggetti. Leggere un libro o una rivista digitali mi fa fatica, non mi piace. «Però devo ammettere che bisognerebbe averli tutti e due. Se si pensa di creare qualcosa di importante oggi, qualcosa che abbia un valore, bisogna averli tutti e due». E che consigli daresti alla redazione e al direttore di FOTOgraphia? «Penso che la rivista FOTOgraphia dovrebbe andare avanti così com’è. Rappresenta un prodotto diverso, unico sul mercato. Alcuni numeri sono più belli di altri, chiaramente, come capita in tutte le cose. Il mio rapporto con lei si traduce nell’aver bisogno di sfogliarla, toccarla, guardarla. Mi piace la sua copertina di una carta pesante, spessa, quasi rigida. Se questa intervista che mi stai facendo fa parte di un’inchiesta per capire se passare da rivista cartacea a digitale... be’ penso che sarebbe una grande stupidaggine. E non credo che con la rivista digitale si potrebbe, dal punto di vista economico, sopravvivere più facilmente». Lello Piazza
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FOTOgraphia. Considerazioni sulle riviste cartacee
Sfogliare e leggere una rivista, specialmente se tratta di Fotografia, è sempre una esperienza immersiva. Siamo così tempestati da immagini e da slogan pubblicitari e politici che ci riempiono la testa impedendoci quasi di pensare autonomamente, che una rivista, ben stampata e ben composta, è un’oasi per gli occhi e per la mente. Possiamo finalmente concentrarci sugli argomenti trattati che sono di nostro interesse, trascurare altri che non ci sono affini, anche attraverso l’esperienza sensoriale con la carta e con le luci riflesse, potendo leggere, rileggere, saltare, confrontare, annotare, accantonare e riprendere secondo i nostri di ritmi... di tempi... di concentrazione. Alcuni temi ci possono affascinare e il compendio immagini e testi esplicativi ci consente di entrare, di approfondire, di capire, di concordare o dissentire senza doverne forzatamente rendere conto, di corroborare le nostre opinioni e di farcene delle nuove. Insomma, di crescere individualmente. In particolare, la rivista FOTOgraphia, sotto la direzione, la conoscenza e la competenza di Maurizio Rebuzzini, ci offre sempre spunti di riflessione a trecentosessanta gradi sul mondo della Fotografia e delle Immagini. Nessun aspetto ne rimane escluso: alternativamente, vengono trattati aspetti che comunque hanno a che fare con il mondo delle immagini, trasformandola quasi in un trattato relativo alla “vita” con l’attuale, seppur vituperata, “civiltà dell’immagine” che ci inonda e quasi ci sommerge, insegnandoci a navigare, a nuotare, a scegliere approdi e mete da raggiungere, a cercare porti sicuri. Chiaramente, vengono inclusi servizi sull’attualità, fotografica e di vita, molto spesso si affronta la storia, beninteso, non semplicemente della Fotografia, ma soprattutto dei nostri percorsi, degli eventi passati e delle commemorazioni in cui la Fotografia ha documentato e persino sollecitato interventi. Fare degli esempi potrebbe essere facile, basta scegliere fra i duecentoquarantotto numeri fin qui pubblicati, che, nel mio caso, sono ben allineati su un ripiano accessibile della libreria del mio studio. Peccato non avere un bel database degli argomenti pubblicati con i relativi riferimenti, diventerebbe una antologia sempre pronta e sempre interessante da sfogliare. Fantastici i servizi sulla Fotografia nei Francobolli, una meticolosa raccolta di francobolli il cui comune denominatore è proprio la Fotografia, declinata alla commemorazione di eventi storici di rilievo tanto da essere degna di pubblicazione su un mezzo di larga diffusione e in tutto il mondo. Probabile che siano passati inosservati ai più, in fondo un francobollo si applica su una busta per pagarne le spese di spedizione, però l’attenzione quasi maniacale di Maurizio Rebuzzini verso tutti i fenomeni in cui la Fotografia mette il suo zampino ha consentito di estrarne una selezione trasversale, ma significativa. Sono e, quasi certo siamo, in attesa che ne venga completato il libro ormai in gestazione da qualche anno. La storia, e la vita, raccontata e approfondita attraverso l’uso, se vogliamo marginale, delle immagini. Meriterebbe un premio speciale!
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Non posso non menzionare i numeri speciali, sicuramente unici nel panorama, in generale, delle riviste. Se non avete sfogliato il numero “nero” (numero 170 - aprile 2011), pubblicato in occasione di un PhotoShow a Milano, stampato nero su nero su cartoncino da 200 grammi, ripeto, se non lo avete sfogliato vi siete persi una esperienza. Punto. Avere poi fra le mani il numero o meglio la raccolta di ben cinque diverse edizioni del numero 69 (marzo 2001) è una gioia e una goduria senza pari. Chiunque si occupi di Fotografia e di Stampa dovrebbe averne una serie. Oltre alla edizione “normale”, stampata in quadricromia con la solita cura e qualità, ne sono state stampate ed editate le quattro versioni, definiamole “base”, rispettivamente con solo Ciano, Magenta, Giallo, Nero. Sarà stato un vezzo (costoso per l’Editore) oppure un capriccio, ma più semplicemente è stata una grande dedizione e intuizione il rendere tutti i lettori partecipi con grande chiarezza del processo fondamentale di stampa in CMYK, con tutte le evidenti sfumature delle diverse tonalità che vanno a formare l’immagine finale. Ne risulta uno strumento fondamentale ed unico per far capire e illustrare il processo di stampa in quadricromia sia al colto che all’inclita. Gli esperti dovrebbero poi completarlo con le considerazioni relative alla qualità della carta, all’assorbimento degli inchiostri e ai relativi limiti. Che dire, poi, dei più recenti e anche attuali numeri redatti con solo parole e poi con solo immagini? Scommessa? Provocazione? Direi entrambe, per farci ragionare, per uscire dai soliti schemi, per capire che una rivista “stampata” ha un valore sia per i contenuti che per il contenitore. Immagini. Ovvio che ci siano in una rivista di Fotografia, considerato che ormai le immagini ci hanno inondato. Meno ovvia che la selezione e la pubblicazione siano frutto di una ricerca e di una analisi ben definite, relative sia alla qualità intrinseca sia ai contenuti e agli argomenti trattati, senza alcuna limitazione, come dicevo all’inizio, proprio a trecentosessanta gradi. Parole. Tutte e solo quelle che servono, con arguzia, conoscenza, competenza, professionalità. A partire dagli Editoriali che di volta in volta definiscono il volto del numero su cui sono pubblicati. Anche in questo caso non sarebbe male farne una antologia! Autori. Tanti, diversi, diversificati, famosi, esordienti, storici, mostri sacri, con una selezione e una proposizione significativa a seconda dei temi trattati, mai banali, mai utilitaristici. Argomenti. Tutti, veramente tutti. Dai più scontati ai più scottanti. Tutti esplorati, ragionati e proposti secondo una ovvia propria visione dei vari Autori e Redattori, senza fare opposizione, lasciando assoluta libertà di pensiero e di espressione. Composizione. Un esempio per molti. Il rigore compositivo, la cura quasi maniacale e persino il rigore nelle varie impaginazioni, offre sempre una lettura piacevole e scorrevole, anche se pochi ne apprezzano veramente la qualità. Quanto altro ci sarebbe da dire. Oltre venticinque anni di piacevole compagnia e condivisione. Grazie. Beppe Bolchi
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Parlare e ragionare di fotografia
La presenza sul mercato di una rivista come FOTOgraphia, di Maurizio Rebuzzini, è confortante per tutti coloro che (io sono tra questi) ritengano che un ragionamento e una analisi attenta siano necessari all’approfondimento della immagine fotografica. Che la parola possa e debba tracciare una linea netta di demarcazione tra l’attuale strabordante uso del linguaggio fotografico come mero mezzo di trasferimento di dati e l’utilizzo del mezzo fotografico con finalità artistiche e creative è ormai esigenza urgente. Se è vero che il fatto che quasi ogni essere vivente abbia in tasca un apparecchio fotografico non può che riempire di gioia chi ama questo mezzo tecnico... è anche vero che due miliardi e mezzo di immagini postate sui social ogni giorno meritino un ragionamento e forse la stesura di una bozza di “grammatica” della lingua nuova. E allora ben venga l’intelligenza limpida e spesso ironica della rivista di Rebuzzini che combatte una preziosa (e un poco donchisciottesca) battaglia contro l’immenso esercito dei distratti e dei fruitori di immagini prive di contenuti. Nel lungo tragitto di vita della rivista, intelligentemente, è stata compilata una mappatura analitica del materiale storico e contemporaneo nel tentativo di farci comprendere che non c’è mai stato un passato che non contenesse già il futuro è non c’è possibilità di evolvere senza prima apprendere il cammino che ci ha portati all’oggi. Poche le figure come Maurizio Rebuzzini che hanno unito una straordinaria cultura a una volontà mai doma di trasformare lo studio in esperienza viva attraverso la parola, l’insegnamento e la professione. Innumerevoli i suoi scritti, tutti orientati alla lettura intelligente e profonda del significato della fotografia. Ho incontrato Maurizio nel 1987, e il nostro primo incontro è testimoniato da fotografie a cui sono particolarmente legato. Quel giorno è nata una amicizia profonda e la mia grande stima per lui. Ha spesso scritto di me e del mio lavoro con estrema lucidità mai influenzata dal nostro reciproco affetto e di questo non lo ringrazierò mai abbastanza. La sua rivista rispecchia in pieno questa sua capacità di restare indipendente intellettualmente che tanti “guai” gli ha portato nella sua lunga e straordinaria carriera. La parola scritta non può essere sostituita dall’immagine. Non lo sarà mai. Lunga vita dunque a quel gioiello di indipendenza e eleganza intellettuale che è FOTOgraphia. Il ragionamento che la parola può e deve fare sulla fotografia può essere fatta solamente dal supporto cartaceo che permette una concentrazione e una analisi psicologica profonda che non è insita nel mezzo telematico, utilissimo invece per la parte informativa veloce e continua. Il cartaceo è sempre più necessario in un mondo che brucia tutto a una velocità parossistica. I caratteri e le immagini stampate sulla carta lo sono anche nello spirito in maniera indelebile. Spero davvero che la splendida FOTOgraphia continui la sua magnifica corsa iniziata anni fa per parlare e ragionare sul mezzo nuovo e i suoi rapporti con l’arte e con il reale. Grazie Maurizio per quello che hai fatto per la fotografia, per quello che stai facendo e per quello che farai. Con profondo affetto. Giovanni Gastel
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La Fotografia si intreccia con la Vita
Dai, parliamo di noi. In verità, lo facciamo costantemente alle conferenze stampa, al bar, alle inaugurazioni delle mostre, durante le chiacchiere che ci si scambia nelle più diverse occasioni. Lo facciamo -chi più, chi meno-, a seconda del proprio desiderio di esibirsi, della propria aggressività, del proprio garbo, del proprio rispetto delle altrui visioni del mondo. Ma è la prima volta che mi capita di parlare di noi per iscritto. Quindi: dai, scriviamo di noi! Sono amico di Maurizio Rebuzzini da mille anni. Sì da molto prima che nascessimo. Se crediamo alla reincarnazione, se crediamo alla vita dopo la morte (e se crediamo anche a molte altre cose), mi sia concesso di credere che io possa essere stato amico di Maurizio mille e forse più di mille anni fa, prima di nascere, quando eravamo confinati nell’Iperuranio (o mondo delle idee: concetto proprio di Platone, espresso nel Fedro). Condividiamo, infatti, le stesse idee sulla nostra specie (Homo sapiens), condivisione che ha trovato conferme sulle riflessioni del nostro lavoro di docenti universitari, su orrori e meraviglie dei nostri studenti, ma anche sulle convinzioni di cosa sia la Fotografia. Condivisione che più recentemente ha trovato altre conferme nella lettura di Sapiens. Da animali a dèi, di Yuval Noah Harari. E che si è ulteriormente rafforzata durante gli anni della mia collaborazione alla rivista, e nei colloqui sempre più frequenti con Maurizio, al telefono o al ristorantino non lontano da via Zuretti 2a, prima gestito da egiziani, oggi da bengalesi che ci ho messo un po’ a convincere a trovarmi del peperoncino abbastanza piccante per il solito piatto di fusilli al pomodoro. Ma scrivere di noi implica soprattutto scrivere di FOTOgraphia. FOTOgraphia è un po’ come il settimanale The New Yorker, che, pur navigando nel mare omerico delle infide lusinghe delle sirene che lo vogliono digitale, resistendo alle pressioni di coloro che vorrebbero abbassare il suo livello culturale, continua a pubblicare con successo una rivista stampata su carta, che riporta articoli di non facile lettura, certo più complessi dei best seller di Fabio Volo, per intenderci. È evidente che noi -FOTOgraphia- non siamo neanche lontanamente il New Yorker. Ma la profondità e l’importanza culturale dei nostri testi non hanno nulla da invidiare, considerato il ristretto ambito di cui ci occupiamo, a quella del settimanale americano. Lo dico sempre a Maurizio che i testi della rivista, per un buon ottanta percento, hanno l’importanza di articoli universitari. Quindi, sono articoli di lettura impegnativa. Diamo per scontata la accurata e competente scelta delle immagini pubblicate insieme a questi testi, immagini che coprono tematiche affrontate anche da altri magazine di fotografia, ma che sulle nostre pagine hanno sempre un taglio particolare, perché non c’è nessuno, non dico in Italia, ma nel mondo, che parla in modo così profondo di Fotografia. E ultimo, ma non meno importante, la rivista offre spazio anche a temi che riguardano la vita, la società e la scienza. Solo negli ultimi tre anni abbiamo pubblicato un riquadro sul concetto matematico del caos (in collegamento con l’articolo Epopea
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Kennedy, nel giugno 2017, con immagini tratte dalla monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket ; a cura di Nina Wiener; con testi di J. Michael Lennon; Taschen Verlag, 2017), un necrologio in onore di Stephen Hawking (aprile 2018, illustrato con uno dei ritratti più famosi del grande scienziato, realizzato da Marco Grob, con un altro scatto di Hawking che prova l’assenza di gravità, Copyright di Jim Campbell / Aero-News Network, completato da una tavola della Nasa che cerca di spiegare cosa è un Buco Nero, uno degli argomenti studiati dallo scienziato inglese). Per non parlare del capolavoro di un prossimo Editoriale firmato da Maurizio (qui in anticipazione dovuta), dedicato al concetto di misura e misurabilità, talmente bello che l’ho fatto circolare per email ai colleghi della lista PD (Personale Docente) del Politecnico di Milano, dove lavoro. Tra ingegneri, fisici e matematici, che con la misura hanno un rapporto rigorosamente scientifico, l’Editoriale ha avuto successo, tanto che un collega ha risposto alla mia email con la poesia La misura del mondo, dell’autrice italiana Azzurra D’Agostino. La riporto qui (ancora in anticipo), perché è un gioiellino di delicatezza: In matematica non sono brava. / Perdo il conto delle foglie dei rami / e per le stelle ogni volta ricomincio da capo. / Non riesco a misurare il salto delle cavallette / e non so la formula per il perimetro delle nuvole. / Il calcolo di quanta neve sia caduta mi sfugge / e anche di quanta ne possa reggere un filo d’erba. / La somma dei passi per arrivare al mare non mi riesce / e mi chiedo se per il ritorno devo fare una sottrazione. / Ho diviso il numero dei semi per i frutti / il risultato è una nuova foresta e ne avanza qualcuno. / Se moltiplico le giornate di sole per quelle di pioggia / ottengo più di sette stagioni e non so quante settimane. / La matematica mi confonde. Come misura del mondo è strana. / Per quanti conti si facciano qualcosa non torna mai pari. / Due finestre fanno una vista? quattro muri sono una casa? / Noi siamo i nostri centimetri, chili, litri? quanto pesa un segreto? / quanto misura una risata? e l’area del cuore come si calcola? Ecco: questo è anche FOTOgraphia, un generatore di sentimenti poetici in alcuni di coloro che ne leggono gli Editoriali. Ma soprattutto e in maniera impagabile, le sue pagine stimolano una riflessione sul senso della vita, sul rapporto civile tra noi sapiens, su come la Fotografia si intreccia con la Vita e la Vita con la Fotografia. Lello Piazza
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Frantifotographia e una storia “Al Femminile”
Evviva (si fa per dire), insigni studiosi di neuroscienze, nonché la rivista Scientific American, dopo approfonditi studi e indagini, hanno stabilito che le persone capiscono e ricordano meglio un testo su carta rispetto a uno letto sullo schermo di un computer, di un e-book o di un cellulare. Leggendo online, si tenderebbe a diventare semplici assimilatori di informazioni e non a porsi interrogativi utili per sviluppare una qualche forma di pensiero. «Noi non siamo quello che leggiamo [...]. Noi siamo come leggiamo», afferma Maryanne Wolf, psicologa dell’età evolutiva e autrice del libro Proust e il Calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (e, per essere in sintonia con lo stile preciso di FOTOgraphia, segnalo che il libro è stato edito da Vita e Pensiero, nel 2012, e che io ho ripreso la citazione dal sito http:// acarrara.blogspot.com). Già ma come leggiamo? Va da sé che posso solo partire dalla mia esperienza e cercare di ragionarci su. Un approccio in apparenza un po’ naïf, ma che in fondo ha dato esiti “discreti” ne La camera chiara di Roland Barthes, libro -a dire dell’autore«modesto, fatto su richiesta dei Cahiers du cinéma e che “deluderà i fotografi”, nato a partire da una riflessione “interamente soggettiva” ponendosi davanti “ad alcune fotografie scelte arbitrariamente”» (Roland Barthes: La grana della voce. Interviste 19621980; Einaudi, 1986). Dunque, torniamo a noi, il piacere di leggere consiste nello sdraiarmi su letto o divano e avere tra le mani un bell’oggetto cartaceo. La relazione corpo/carta è sintonica: la carta ha un suo odore delicato, una consistenza “calda” e quasi umana, e in più è affidabile: non le si scaricano sul più bello le batterie, né innervosisce con intrusioni pubblicitarie o strani messaggi (ad esempio, mentre ora sto scrivendo, sullo schermo del computer mi appare la scritta minacciosa: “riavviare il computer per completare l’installazione di aggiornamenti importanti”). Insomma, davanti a un libro o a una rivista cartacei, ci si può abbandonare con fiducia, tranquillizzati, rilassati. Si può iniziare un viaggio immersivo soffermandosi, per di più, su quello che incuriosisce e cattura l’attenzione, mentre si può sorvolare rapidamente sulle parti considerate noiose (ma a una seconda lettura si può sempre cambiare l’impostazione del viaggio tra gli articoli e le fotografie). Finito il mio rapidissimo elogio della carta stampata (spero incoraggiante), passo alla vera e propria rivista FOTOgraphia. Che cosa mi ha spesso colpito in “lei”? In sintesi: che è capace di spiazzarmi, di mostrarmi il mondo della fotografia da un punto di vista che non mi sarebbe mai, ma proprio mai, venuto in mente. E per di più usando un linguaggio e dei ragionamenti puntuali, informativi, “concreti”: in tutti gli articoli ci sono chiare indicazione bibliografiche, più informazioni tipo “il tale autore usava la tal macchina fotografica, stampava su carta tal dei tali”. Per essere chiara, nel mio caso, in sintonia con uno tra i miei padri spirituali (ovvero, Roland Barthes), il mio sogno è quello di scrivere «né un testo di futilità, né un testo di lucidità, ma un testo con le virgolette incerte, con le parentesi ondeggianti» (Barthes di Roland Barthes; Einaudi, 1980).
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Mi trovo dunque agli antipodi rispetto a FOTOgraphia, ma essendo io una cultrice del pensiero della “differenza” non posso che apprezzare. Faccio un esempio di spiazzamento proficuo: numero di maggio del 2017 di FOTOgraphia, titolo del servizio firmato da Maurizio Rebuzzini Al Femminile. Invece di inoltrarsi nel ginepraio esaltante della fotografia “al femminile”, lui prende la cosa da un punto di vista inusuale: ovvero, propone un servizio gustosissimo e ricco di spunti di riflessione sulle pubblicità di pellicole e macchine fotografiche dove, tra un obiettivo e l’altro, campeggiavano fanciulle e signore in pose fascinose. Grazie a tale articolo, ho così scoperto (non me lo sarei mai immaginata) che, in varie pubblicità dei primi del Novecento, l’austero panno nero delle macchine fotografiche (reso un po’ più abbondante e morbido del necessario) veniva messo in una relazione voluttuosa con ragazze avvolte in pepli in stile grecoromano. Tra le pieghe del panno e quelle dell’abito veniva quindi creata una bella corrispondenza ricca di suggestioni erotiche. Il fotografo (maschio, ovvio) quando fotografava poteva non solo abbandonarsi ai piaceri voyeuristici del vedere, ma anche sentirsi immerso in un mondo lascivo, dove il panno nero gli accarezzava le spalle e lo avvicinava a segreti inenarrabili. Grazie al suo servizio mi è stato più chiaro perché “l’immagine più diffusa della fotografia sia maschile” (come scrive Maurizio Rebuzzini)! Ancora grazie. Ma spero che la riscossa femminile avanzi sempre di più! Gigliola Foschi
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Rebuzzini, la Tate Gallery e Matisse
Mentre mi accingevo a scrivere queste righe dedicate all’impegno di Maurizio (e di Filippo) per la sua rivista (e di Filippo), mi sono imbattuto in un articolo di grande interesse per gli argomenti che avrei voluto affrontare. Paola De Carolis, sul Corriere della Sera, ci rendeva edotti della nascita di movimento «... slow looking che il Gruppo Tate ha fatto proprio». È, come si intuisce, un movimento che vuole creare e diffondere una cultura dello sguardo lento e riflessivo, senza l’angoscia di una corsa contro il tempo per cercare di vedere (vedere?) il più grande numero possibile di opere. In media, hanno constatato nei che Musei Tate il visitatore, davanti a ogni singola opera, si ferma per circa otto (8!) secondi; avete letto bene: otto secondi. Ma come è possibile, davanti a un’opera d’arte, pensare di riceverne emozioni profonde in otto secondi? Se voi guardate anche la pubblicità di qualche tour organizzato restate senza parola: per esempio, il giro dell’Europa in sei giorni (tempo addietro, un film: Se è martedì deve essere il Belgio). La fretta, l’accaparramento di esperienze, la quantità delle cose viste per poterle subito condividere sui social sono aspetti che aiutano a costruire la diffusa ignoranza e insensibilità dei nostri tempi. Il suggerimento degli esperti dei Musei Tate è semplice: scegliete qualche opera, fermatevi con calma a osservarla, a sentire che emozioni trasmette, scegliete... E se c’è qualche rumore, meglio! Non puoi immaginare di vivere lo slow looking senza rumore... «il rumore fa parte dell’habitat dell’opera». Ma cosa c’entra la Tate con Rebuzzini e la sua rivista? In realtà la riflessione è sulla fotografia e il modo di viverla, e quindi riguarda, e come!, i nostri amici. È vero, ciascuno deve sentirsi libero di usare fretta o calma come meglio crede. Ma sapete quanta fatica per darci questa possibilità di scelta attraverso una rivista? Una rivista è il frutto di passione, cultura, conoscenza: per qualche euro, è un dono straordinario. Noi non possiamo permettere che si sfogli, come si usa dire, con fretta, respingendo un dono di profondità. Al diavolo la libertà di scelta! Non possiamo permetterci sguardi distratti, non possiamo non riflettere sulle riflessioni degli altri... Credo che il lettore partecipi alla vita di un libro tanto quanto l’autore, così ci hanno detto Borges e Bufalino, ed è ancora più vero per una fotografia e un discorso sulla fotografia. Prendo in mano la rivista, cerco di viverne il senso, il palinsesto del racconto, scelgo -questa volta sì- su cosa fermare la mia attenzione. Perché di attenzione ed emozione si parla qui, si parla del senso di un segno grafico su una pagina, di uno scritto, di una fotografia. Forse conoscete l’aneddoto di Matisse, che a un giornalista che commentava come il pittore avesse impiegato solo qualche ora per dipingere un quadro, rispose «Una vita, più qualche ora». FOTOgraphia è proprio così: “Una vita, più qualche giorno per curarne l’edizione”. E spero che in ognuno di noi viva un po’ un senso di colpa per averla sfogliata talvolta, senza scegliere cosa approfondire, rinunciando all’emozione e al pensiero... Alberto Meomartini
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Intervista a Giuliana Scimé
Quale pensi debba essere il ruolo delle riviste cartacee rispetto all’online? «Per quanto riguarda le riviste di fotografia, è ovvio che sono le immagini. Le immagini online, io le guardo, ovviamente, ma non si possono godere abbastanza. Adesso è molto diffuso, spero non troppo, l’eBook. L’eBook è una paginetta, e di questa paginetta si leggono due o tre paragrafi, non di più, il che è molto diverso rispetto al leggere un libro o una rivista. È chiaro che non si può fermare non il progresso -perché questo non è progresso-, ma non si può fermare la tecnologia». Rivista o pubblicazione, trovi differenze? La differenza potrebbe essere l’approfondimento dei contenuti? «Le riviste mensili sono riviste mensili. Anche FOTOgraphia, che ha una cadenza mensile, può essere vista come pubblicazione. Non riesco a capire la differenza». Quali sono le riviste o pubblicazioni fotografiche che ti hanno più influenzata? «Mi hanno influenzato le riviste straniere, che però non esistono più. Come ad esempio Print Letter e Camera. Erano riviste molto complesse e guardavano molto avanti. Oggi, per quanto riguarda la fotografia ad esempio messicana, sappiamo abbastanza. «All’epoca, Print Letter e Camera furono le prime riviste che fecero scoprire questi Paesi ricchissimi di storia e di fotografia, come può essere il Messico, e come può essere Cuba. Di Alberto Korda non si sapeva niente; si vedeva la fotografia del Che, ma non si sapeva nemmeno chi l’avesse ripresa». Secondo te quanto conta la qualità dei contenuti? «È fondamentale, senza qualità non si può fare nulla». Pensi sia giusto che le pubblicazioni cartacee di fotografia continuino a dibattere argomenti in approfondimento? «Certo. Anche se queste riviste non le leggo praticamente più da anni. L’unica che ho sempre guardato e letto è FOTOgraphia, e questa non è pubblicità per FOTOgraphia. È la verità. Per esempio, Progresso Fotografico, per cui ho scritto non so per quanti anni, è diventata una rivista assolutamente tecnica e non riesco a leggerla più. Eppure, io ci ho lavorato per tantissimi anni, ma finché è rimasta vicina alla fotografia d’autore. A un certo punto, la mia presenza non era più necessaria, proprio perché la rivista non era più culturale, era cambiata». Cosa trovi ci sia di particolare nel cartaceo? «Il fatto che lo si possa leggere tranquillamente e che le fotografie siano anche riprodotte in dimensioni generose. È chiaro che la qualità qui è fondamentale, perché le fotografie devono essere riprodotte con qualità. Altrimenti non servono». Quali qualità riconosci a una rivista come FOTOgraphia? «Intanto, la riproduzione delle immagini; poi, gli argomenti, che sono sempre estremamente validi. E poi le notizie che contano: sicuramente FOTOgraphia le dà. «Per quanto riguarda le notizie rapide, solo divulgative e in cronaca, cioè l’informazione sulle mostre, dove sono e quanto durano, le abbiamo già in internet, non c’è bisogno d’altro. È molto più agile e aggiornato».
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Nell’era digitale, come pensi possa resistere una pubblicazione cartacea? «Questa è una grande lotta. Secondo me, la lotta del cartaceo sarà persa, proprio per quello che ho detto prima. Non si tratta di progresso, si tratta di tecnologia. E poi la gente si sta abituando sempre più e male a leggere poco. «Io, un tempo, compravo sia il Corriere della Sera sia la Repubblica. Ho smesso di leggere La Repubblica perché, invece di articoli estesi, in cui si poteva leggere e si poteva sapere un sacco di cose, hanno ridotto i testi a pochissime righe: quindi, è una pura informazione. E chiaramente La Repubblica ha anticipato o forse ha visto subito che il lettore si incuriosiva soltanto per poche parole. A me non è mai interessato questo, perché per avere un’informazione rapida mi basta internet. E poi non è neanche vero, perché se poi si approfondisce l’argomento, internet dà una serie di infinite informazioni e anche molto lunghe». Filippo Rebuzzini
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Fotografia: documento o arte
La fotografia, fin dalla sua nascita, si è trascinata dentro due equivoci o pregiudizi che costantemente hanno influenzato il suo corso durante la storia. Questi pregiudizi sono quello oggettivista e quello che sostiene l’impossibilità di creare una vera arte a causa di una presunta contaminazione della tecnica e della meccanica che sono alla base del procedimento fotografico stesso. Questi sono due preconcetti che si sono rivelati con il tempo falsi ma ancora oggi posseggono una serie di proseliti: a proposito della supposta impossibilità del fare arte a causa della contaminazione meccanica vi sono molti che affermano che è impossibile che possa esservi un intervento del fotografo nell’operazione e che questo si debba ridurre ad una sola presenza passiva. Io risolverei la questione dicendo solo che la tecnica è indispensabile per un discorso autonomo, ma che è anche indispensabile una visione originale e soprattutto personale che asservisca la tecnica al nostro volere. Dice ad esempio Raffaello «Impara il tuo mestiere; non basta il mestiere per diventare artista, è vero, ma il mestiere [la tecnica] è necessario. Non basta mangiare per vivere da uomo, ma non si vive se non si mangia. Arte in italiano significa prima di tutto mestiere». Quindi necessaria la tecnica, la quale può però essere soggettivamente filtrata, come ci dice Rinholds: «A dispetto del mezzo meccanico di riproduzione che comporta molteplici cause oggettive, ci sono stati molti fotografi che hanno dimostrato un loro stile fotografico. Queste persone sanno già in partenza che cosa vogliono e la loro idea originale viene attuata attraverso l’intero ciclo lavorativo sino alla fase finale della stampa». Questo primo pregiudizio che ho brevemente analizzato effettivamente può essere riscontrato quando ci si trova di fronte a certo stupido fotoamatorismo, davanti ad una situazione cioè che vede il fotografo asservito a certe tentazioni di virtuosismo tecnico che lo allontanano dalle sue vere e personali aspirazioni. A proposito dell’oggettività della fotografia il problema si fa più complesso e coinvolge un po’ tutto l’andamento che la fotografia ha avuto nella sua esistenza. Infatti “oggettivo” può stare anche per “fedele” e questo sillogismo ha portato a molti fraintendimenti non solo nel campo fotogiornalistico ma anche in quello artistico. Infatti la maggior parte della gente ha sempre pensato, coscientemente o più spesso incoscientemente “La fotografia è oggettiva, quindi è fedele al reale e quindi tutto ciò che vedo in fotografia è esistito esattamente come è nella fotografia”. Questo pregiudizio nei riguardi della fotografia fu particolarmente sentito all’epoca della sua nascita e in tutto l’Ottocento, mentre nel nostro secolo ha avuto in più uno spostamento di piano decisivo entrando nei limiti della cosiddetta fotografia artistica. Mi spiego meglio: appena nata, la fotografia stupì immensamente per la sua capacità (supposta) di far vedere il reale così come appare. Infatti la fotografia trovò le sue prime applicazioni pratiche oltre che nella ritrattistica, che ha una sua particolare motivazione sociale, non tanto nel reportage quanto nel documento: il documento esotico di fatti, di posti sconosciuti o lontani.
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Vediamo quindi ad esempio Timothy O’Sullivan girovagare per l’America per mostrarne gli aspetti più particolari e curiosi, come anche William Henry Jackson o Roger Fenton fotografare la guerra di Crimea o vari fotografi partire dall’Europa per esplorare le lontane terre orientali o le meraviglie dell’Egitto. Le fotografie che questi fotografi portarono in patria stupirono l’opinione pubblica che ancora più si convinse delle miracolose potenzialità della fotografia: questa convinzione si sviluppò in una corrente di pensiero che è viva ancora ai giorni nostri e che vorrebbe la fotografia unicamente come documento della realtà. Della nostra vita. Tutti gli studi di critica ormai insistono solo su questo: esempio paradigmatico è la critica americana Susan Sontag, che fa di questo pensiero le sue basi. Anche la fotografia cosiddetta artistica e quella non fatta sotto precise committenze viene analizzata come sottoposta a questo canone e grandi fotografi sono analizzati unicamente come documentaristi. Questo concetto conduce la Sontag a delle considerazioni sociologiche che non ritengo possano essere valide per qualsiasi tipo di fotografia: ecco ad esempio cosa scrive nel suo saggio Sulla fotografia: «Ogni fotografia è memento mori. Fare una fotografia significa partecipare alla mortalità, alla vulnerabilità ed alla mutabilità di un’altra cosa o persona» e ancora «guardare una fotografia significa per prima cosa pensare: quanto più giovane ero (o era) allora. La fotografia è l’inventario della mortalità. Basta un movimento del dito per conferire ad un momento un’ironia postuma. Le fotografie mostrano persone che sono lì ad un’età specifica della loro vita». Oppure afferma che la fotografia è dare una prevalenza, un’importanza a qualche cosa rispetto ad un’altra. Tutto ciò è vero, assolutamente vero, ma, attenzione, solo per un tipo di fotografia (che è poi il più diffuso a tutti i livelli): quello di una fotografia fatta per stupirsi nella sua contemplazione e, soprattutto, per stupire gli altri; quello di una fotografia bella, piacevole a vedersi, ma tutto ciò in modo passivo e non attivo perché bella e piacevole non sarà la fotografia in sé per sé, ma l’oggetto fotografato (concetto questo ben accennato anche da Giuseppe Turroni nel suo saggio Guida alla critica fotografica). Il normale e tranquillo fotoamatore fotografa non tanto per esprimere sue le sue vere pulsioni interiori, ma quanto per avere una testimonianza decisiva e sicura della sua visione di un dato fatto o di una certa cosa. E così passa in dieci minuti dal fotografare tramonti rosso fuoco al fotografare vecchiette con “tante belle rughe”: tutte cose che non sono legate se non dalla volontà di stupirsi e di stupire del fotografo. Esiste però un’altra fotografia, molto diversa da quella analizzata dalla Sontag. Anzi completamente opposta. È la fotografia che possiamo veramente dire aver inventato il grandissimo Alfred Stieglitz, il fotografo americano vissuto nei primi del Novecento. Egli creò il concetto degli “equivalents” che non solo appunto portò ad una fotografia originale ma anche ad un nuo-
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vo modo totale di concepire e fare fotografia. Il concetto degli “equivalents” è semplice: quando Stieglitz, ad esempio, fotografava delle nuvole, quelle nuvole per lui non erano il punto di chiusura della sua indagine fotografica ma quello di partenza, dato che esse rappresentavano un qualche cosa di diverso, astratto, su un altro piano. La fotografia così diventò vera espressione, vera potenzialità, attiva e creativa, vero strumento di indagine, possiamo anche dire, filosofica. Stieglitz infatti, ad esempio, disse: «Sono nato ad Hoboken. Sono americano. La fotografia è la mia passione. La ricerca della verità la mia ossessione». Il Nostro in questo si avvicina molto anche alla pittura e infatti nella sua galleria, la 291 [a New York City], introduce le avanguardie pittoriche del suo tempo. La fotografia di Stieglitz è quella contro la quale si getta la Sontag la quale, sempre nel suo saggio Sulla fotografia, parlando di Walker Evans, scrive: «Evans voleva che le sue fotografie fossero colte, autorevoli e trascendenti. Ma poiché l’universo morale degli anni Trenta non è più il nostro, questi aggettivi oggi sono quasi incredibili. Nessuno riesce ad immaginare come potrebbe la fotografia essere autorevole. Nessuno chiede più che essa sia colta. Nessuno capisce più come una cosa qualunque, e tanto meno una fotografia, possa essere trascendente». Si vengono quindi proprio a creare due tipi distinti di fotografia: una, diciamo così, artistica e l’altra documentaristica. Questa divisione però spesso non si fa in base a precisi schemi, mentre quello che vorrei io fare è proprio dare degli schemi quasi scientifici, per differenziare in modo netto i due settori. Per rendere ciò più snello chiamiamo la prima fotografia artistica A, mentre la seconda, quella documentaristica, B. Come divisione sostanziale cominciamo a dire che la A è l’espressione pura dei sentimenti e delle passioni umane, mentre la B è documento di situazioni. Se qualcuno mi dicesse che anche nella B si possono intravedere i sentimenti dell’autore delle fotografie, io risponderei a queste obiezioni osservando che tali sentimenti sono sì scopribili e avvertibili ma solo di riflesso a causa della maniera, della tecnica in cui il fotografo ha fotografato e quindi interpretato una data situazione, ma non è genuina espressione, è critica! Procedendo, diremo che la B è uccisione dell’oggetto fotografato (come pure sostiene il semiologo francese Roland Barthes) perché esso una volta fotografato e analizzato da chi lo guarda si consuma totalmente, la sua funzione si esaurisce. Nella A invece l’oggetto è il punto di partenza e quindi essa è vivificazione. Come conseguenza di queste considerazioni, diciamo anche che la A coglie il momento in cui l’oggetto diventa soggetto mentre la B coglie il momento in cui il soggetto diventa l’oggetto. Inoltre possiamo anche affermare che la A procura delle emozioni, mentre la B delle nozioni; inoltre che la A rappresenta situazioni che sono totalmente irriconoscibili e soggettive poiché in questo tipo di fotografia si fotografa non per mostrare agli
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altri e a se stessi un qualche cosa di nuovo o vissuto, ma per esprimere dei sentimenti personali che devono soddisfare unicamente l’autore. Al contrario la B rappresenta situazioni che necessariamente devono essere riconoscibili ed oggettive. Un’altra considerazione importante è che la A non presenta e non deve presentare una situazione così com’è ma stuzzica, allude per innescare nel ricevente un PERSONALISSIMO atto di EMOZIONE. Invece la B non stuzzica assolutamente ma strappa delle decisioni, pone di fronte a dei fatti ben precisi che ci dispongono in altrettanto precise convinzioni. Su questo punto ad esempio Fulvio Roiter dice «La fotografia non deve alludere, non deve suggerire, deve mostrare con chiarezza». Se ci spostiamo ora su di un piano di analisi linguistica, anche in questo caso ci troviamo di fronte a differenze sostanziali tra i due tipi di fare fotografia. Innanzitutto diciamo che la B è legata a fattori extrafotografici (linguaggio, cultura, ecc) che ne influenzano profondamente la lettura, mentre la A contiene tutte le unità morfologiche. Si deduce così che la A è un unicum, con un suo codice particolare, che è la fotografia stessa, mentre nella B tutte le fotografie di uno stesso cielo sono legate ad un particolare codice. Da qui notiamo quindi una cosa molto importante: ovverossia che la A è completamente universale mentre la B è universale solo sul piano primario. Nella A l’unica cosa di cui bisogna essere a conoscenza visiva è ciò che è rappresentato nel piano primario (ad esempio un uomo che è sempre vissuto in una caverna non si potrà mai commuovere di fronte ad una nuvola, cosa che non ha mai visto: in questo caso subentra la fotografia documento). Deduciamo dunque che la A è mezzo di comunicazione, mentre la B è sistema di comunicazione e quindi linguaggio (vedi distinzioni del Mounin). E ancora nella A il piano primario e quello secondario coincidono, nella B coesistono. Abbiamo visto quindi come si diversificano i due tipi di fotografia. Distinguerli non è semplice, dato che non è detto che una fotografia appartenga esattamente ad un gruppo o all’altro e secondo me è sufficientemente inutile analizzarlo per porre una data fotografia in una particolare fascia, sia pure intermedia. Ad ogni modo è assolutamente indispensabile per dare un giudizio di questo genere riguardo ad un autore esaminare non una sola fotografia ma molte che se appartenenti a B saranno legate da un unico codice di lettura, mentre se di A saranno appunto accumunate da un’ assenza di codice. Dare ora un giudizio di valore sui due tipi di fare e intendere fotografia presi in considerazione forse non ha molto senso, ed è certamente sbagliato affermare categoricamente che un dato tipo di fotografia sia migliore o peggiore dell’altro. Non mi asterrò però dal citare un piccolo brano tratto dallo Zibaldone di Leopardi: «Il presente, qual che egli sia, non può essere poetico, e il poetico, in uno o nell’altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago». Tema scritto da Settimio Benedusi, a diciassette anni, al Liceo Classico
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Ci vogliono certezze nella vita
Per leggere di fotografia, a volte serve una certa inclinazione. Fu una faticaccia davvero tenere inclinato con l’angolatura giusta rispetto alla luce quel numero di FOTOgraphia dell’aprile 2011. Che quel Franti matricolato di Maurizio Rebuzzini volle stampare tutto cu carta opaca nera, e fin qui passi, ma con inchiostro serigrafico nero lucido, e qui le cose si facevano complicate e perfide. A pensarvi bene era una sottilissima sapientissima citazione fotologica: erano, le pagine di quel numero della rivista, tutte un po’ dei dagherrotipi anomali. C’era ovviamente un motivo spiegato (nell’unico testo in bianco - bianco e nero, ci risiamo con le allusioni) dall’Editoriale: nero essendo l’unico colore adeguato, scriveva il direttore, a un «mondo italiano della fotografia diviso e scomposto in orticelli senza scambi, né punti di contatto che servano a tutti», in cui «si è persa la vivacità di incontro e di dibattito di qualche stagione fa». No, Maurizio, non si è del tutto persa. Credo che il numero della rivista che i tuoi lettori hanno ora per le mani lo dimostri. C’è una comunità fotografica che, quando scorda le piccole rivalità, qualche dissenso, un paio di bisticci, insomma la fisiologia tollerabile di un ambiente che non sguazza nella prosperità, dove bisogna un po’ tutti far quel che si può, arrangiarsi, muoversi, be’ dicevo c’è una comunità che si parla, si incontra, e quando lo fa in lodo rilassato riesce ad arricchire tutti e ciascuno. FOTOgraphia è stata ospite del mio blog Fotocrazia e viceversa: si può fare. Perché nessuno sa tutto di tutto, e la rivista che fai, assieme a Filippo adesso, e assieme a un po’ di amici che ormai conosco anche quando non li conosco, da un quarto di secolo me lo dimostra ogni mese. C’è sempre qualcosa di insospettabile e inatteso, dentro il cellophane. Per me, in particolare, c’è il piacere di riconoscere un approccio che è il mio stesso alla fotografia come campo e sfondo di gran parte delle relazioni umane, culturali, sociali del secolo dell’immagine riprodotta. Come storia di un medium e non galleria di artisti. Come metafora del presente, e non sua riproduzione. Come divertimento e non come noia. Perché la fotografia per questo è stata messa al mondo, per oliare le relazioni umane, per condividere non solo le parole ma anche gli sguardi. Dunque, di FOTOgraphia mi piace la sua indulgenza dolcemente logorroica al parlare in lungo, la sua curiosità per il pop e il trash, la sua trasversalità di linguaggi, la sua meticolosità tecnica perfino irritante, la sua memoria da elefante. Mi piace anche la sua carta lucida, perché bisogna essere ludici in questi tempi difficili, e quel numero ruvido per fortuna restò solo una protesta, un piccolo sciopero intellettuale. Mi piace la testata ambiguamente oscillante fra la f e la ph, fra la Foto e la Graphia, mi piace che alluda al graffito e al graffio. Mi piace la sensazione di una rivista fatta in casa, dove ritrovi i padroni di casa, sempre allo stesso posto: ci vogliono certezze nella vita. Di tutto quello che non mi piace parliamo un’altra volta, ma è poca cosa. E aspetto quel benedetto libro sulla fotografia nei francobolli. Michele Smargiassi
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Elogio della carta per i Venticinque di FOTOgraphia
Il rapporto tra la fotografia e la carta nasce quel giorno in cui William Henry Fox Talbot aveva sensibilizzato un foglio di carta passandolo in una soluzione di sale e, dopo essiccazione, in una soluzione di nitrato d’argento. Il miscuglio si trasforma in cloruro d’argento, sale che si annerisce alla luce del sole come un piatto o una forchetta e che, da allora, non ha smesso di impressionarsi. Era l’ottobre del 1833; Fox Talbot, trentatré anni, laureato e con un diploma di Master of Arts, appena sposato con Constance, aveva scelto Como per la luna di miele. Forse, per l’occasione, aveva acquistato una camera lucida, una specie di camera obscura portatile al rovescio. L’aveva inventata William Hyde Wollaston, come sempre per permettere agli artisti di far presto e meglio nella lotta con la prospettiva. La storia è stra-nota. Dopo l’ultima litigata con la camera lucida, che non voleva saperne di aiutarlo a fare “schizzi” del panorama offerto dal lago di Como, Fox Talbot pensa a una diversa soluzione usando la vera camera obscura, magari di piccole dimensioni. Tornato nella sua tenuta di Lacock Abbey, non lontano dalla romana Bath, sensibilizzato un foglio di carta, iniziò i suoi esperimenti. Quel furbacchione di Daguerre sarà stato il primo inventore ufficiale della fotografia, ma è Fox Talbot l’uomo che ha inventato il negativo, anche se di carta! Vent’anni fa, alcuni futurologi del digitale -quelli che non sanno nemmeno bollire un uovo sodo- teorizzavano che oggi ci saremmo ritrovati in piena era paperless. Peccato che non ci sia casa senza un rotolo di Scottex, chi non abbia acquistato almeno una risma per la propria stampante, o che quando apri un conto in banca non ti riempiano di pagine e regolamenti in corpo 6 (perché del testo elettronico non si fidano). Tuttavia, di fronte a quelle profezie, molte anime candide piansero di gioia per la salvezza del pianeta, mentre, una volta al sole, si spalmano creme abbronzanti da flaconi di plastica. Non sapevano che le grandi cartiere coltivano milioni di ettari ad alberi da carta, come avviene con il grano e i carciofi che, però, non puoi riciclare. Del resto, non sapevano nemmeno che la plastica galleggia. Da venticinque anni, FOTOgraphia la racconta e pubblica immagini con quel gusto unico e imprevedibile che Maurizio [Rebuzzini] continua a produrre. C’è bisogno di questo supporto perché, oggi, “fotografia” è un termine diventato generico, confuso; una scienza alla portata di tutti per l’immediatezza degli smartphone. Peccato che l’uso primario che se ne fa non sia fotografia. La tecnologia digitale, non è colpevole, ma a ben guardare resta una differenza tra stampa fisica, chimica o digitale, e l’immagine elettronica vista sul PC o sul tablet è rilanciata al mondo. Della fotografia, quello che conta è la fisicità delle stampe stesse rispetto alle immagini impalpabili che, belle che siano, in realtà non possiedi se non le stampi. Lo dimostra il fiasco della digital art, per ora ancora al palo; mentre, sulla fisicità, è più fortunato il pittore che può scegliere tra colori a olio o acrilici a rapida essiccazione, ma che sempre su un supporto dovrà dipingere; preoccupato, invece, lo scultore da quando scoprì l’esistenza della stampante 3D.
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La carta, qualunque carta stampata, nasconde in sé un valore straordinario: è memorizzante. Su carta, le fotografie importanti -professionali o sentimentali- restano a mente per anni a conferma dell’esistenza della mitica memoria fotografica. La conservazione delle immagini su carta nella scatola da scarpe del bisnonno ha offerto per anni grandi scoperte, difficile dire se sarà così facile aprire i file di oggi tra cinquanta anni. L’immagine sugli smartphone è instabile, svanisce all’improvviso superata da un’altra, più prepotente, che la confina tra le centinaia mai selezionate. Quelle che, essendo troppe e troppo uguali, non hanno la forza dello scatto unico. Se l’uso senza regole dello smartphone è una moda più sfacciata che divertente, non è così per le fotocamere. L’uso della reflex digitale, infatti, presuppone un alto livello di utilizzo, la lettura di riviste come questa, perché bene o male, usarla è sempre un impegno analogico. Giulio Forti
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Il piacere di inciampare nella carta e nella cultura
Ho scritto sempre e solo per il web. Gran parte dei materiali che consulto ogni giorno per il mio lavoro di giornalista è del tutto digitale e quando -a un evento stampa- mi pongono di fronte alla scelta tra una cartelletta ripiena di fogli e un’email con gli stessi materiali in formato digitale non ho dubbi, e opto sempre per la seconda soluzione. Ma ci sono alcuni ambiti in cui la carta rimane per me un’esperienza imprescindibile. Una sono certamente i libri: leggo già tante parole su display di tablet, smartphone e PC, durante la giornata lavorativa, che nel tempo libero e per le letture che dedico alle mie passioni non ho voglia di posare il mio sguardo nuovamente su uno schermo, sia esso retroilluminato e e-ink, come quello degli e-book reader. Leggo di fotografia online per lavoro, ma leggo di fotografia per passione con delle pagine di carta che scorrono l’una dopo l’altra sotto i miei polpastrelli. C’è poi un altro aspetto, che forse è addirittura più importante per me. Una rivista cartacea occupa uno spazio fisico all’interno della mia vita. Non può essere compressa in bit immateriali e stoccata su qualche server. Una rivista cartacea vuole il suo spazio e quando non glielo si concede se lo prende da sola, magari occupando per giorni una mensola, un ripiano, oppure (e qui per anche per mesi o anni) un cassetto. Ogni famiglia ha i suoi luoghi per appoggiare i giornali, ma non temo di svelare un tabù quando affermo che, se ci sono delle riviste in casa, qualcuna sicuramente sarà a portata di mano di fianco al WC in bagno. Oppure nel portariviste in salotto. In ogni caso, in luoghi dove non è possibile non imbattercisi. Questo è l’altro grande vantaggio della carta. Spesso “non ti dà scelta”. Spesso, una rivista cartacea non mi lascia scelta anche in un altro senso: una volta che inizio a leggerla, non sono soddisfatto finché non l’ho letta tutta, didascalie e box compresi. Permettetemi una divagazione sul tema. Uno dei problemi del web è proprio l’eccessiva libertà di scelta. Mi capita di passare ore a cercare cosa leggere di interessante, tra link, fonti e correlati, salvo poi ritrovarmi ad avere esaurito nella fase di ricerca tutto il tempo a disposizione. Senza quindi poi leggere nulla di interessante. A volte, demandare a qualcun altro l’onere della scelta semplifica le cose. Inoltre, l’enorme disponibilità di informazioni ci ha riempito di quella tracotanza che ci porta a dire: “Posso sapere tutto senza chiedere a nessuno”. Spesso, invece, lasciarsi guidare nella scelta di cosa leggere e cosa approfondire può essere molto più utile. Ho scritto un articolo, qualche tempo fa, sull’ancora attuale importanza della radio. Oggi, i servizi musicali in streaming ci permettono l’accesso a un catalogo di milioni di brani, con strumenti di correlazione e suggerimenti guidati in modo sempre più azzeccato dall’intelligenza artificiale. Questi servizi aprono opportunità enormi agli appassionati di musica, ma restano fondamentali quei programmi che raccontano le storie dietro le canzoni e tessono quei fil rouge tra brani e artisti che a prima vista potrebbero sembrare lontani anni luce e non aver mai avuto influenze re-
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ciproche o comuni. A volte, è bene riconoscere che qualcuno più esperto e appassionato di noi può regalarci conoscenze che da soli non avremmo mai scovato. FOTOgraphia è oggi, ai tempi del web, quella radio sulla fotografia che può sembrare più limitata rispetto ai servizi di streaming musicale, ma che a volte regala quelle chicche in grado di far crescere la nostra cultura sul tema. Tornando agli “inciampi” sulla carta: quante volte vi è capitato di aprire un cassetto e ritrovare una vecchia rivista e riassaporare il piacere di rileggere un articolo che vi aveva colpito? Non so voi, ma io in un cassetto non ho mai trovato nessun link a una vecchia pagina web. E se anche mi è capitato per sbaglio di trovare qualche link in vecchi messaggi o email, il rischio di trovarsi davanti a una pagina vuota (Errore 404, pagina inesistente) è più che una remota possibilità. Roberto Colombo
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Parole su carta e scrittura di luce
La prima volta che ho avuto la fortuna di visitare gli scantinati dove Maurizio Rebuzzini conserva, in un viale tortuoso di scaffalature stipatissime, la sua wunderkammer fotografica e l’ho ascoltato raccontare con il suo solito eloquio, affascinante e divertito, l’origine e la descrizione di oggetti o di macchine fotografiche, di libri o di illustrazioni, ho percepito come una passione può essere una fedele compagna di una vita. Esperto enciclopedico del settore? Scrittore, giornalista e critico dal linguaggio ricco e avvincente? Direttore deciso e caparbio, convinto assertore del valore della rivista cartacea, concepita come una matrioska di pensieri colti e profondi? Ma chi è l’inventore di FOTOgraphia, il giornale che dal maggio del 1994 invita i suoi fedeli abbonati alle Riflessioni, le Osservazioni e i Commenti sulla Fotografia? Solo le sue parole, specchio di una personalità complessa e poliedrica, ci possono illuminare: «A parte la quantità e qualità di presenza “fotografica” nel mio spazio operativo (studio? redazione di FOTOgraphia ? accumulazione di testimonianze eterogenee?), ciò che mi pare faccia la differenza, stabilendo un passo, identificando una personalità, è il loro collegamento ideale e individuato. Nulla è per se stesso -come, peraltro, pure è-, ma tutto ruota attorno un’idea sovrastante di apprezzabile vitalità. Del resto, libri e oggetti, nello specifico riferiti alla Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi, non sono aridi punti di arrivo, ma -come tanto altro- straordinari s-punti di partenza. Cosa si è voluto sottolineare, nel cammino comune all’interno della materia convenuta (la Fotografia)? Semplice: che le cose, come i luoghi, hanno un proprio significato, come le parole, e ognuno di noi può leggerle come se fossero (in) un libro. Pensiamo anche a un apparecchio fotografico, a un obiettivo, a un accessorio, a un libro, a una cartede-visite: sono come frasi, che hanno un proprio significato». Ed è così che ritroviamo puntuale questa inarrestabile ricchezza di s-punti di partenza nei dieci numeri annuali di FOTOgraphia. Scandagliato con serietà e rigore, l’universo della fotografia si narra dai suoi esordi all’attualità, senza dimenticare curiosità e note di nicchia. Dal Sessantotto all’analisi della fotografia sui francobolli, dall’ispirazione noir nella moda di Gian Paolo Barbieri alle immagini che hanno cambiato il mondo, o al pianeta dei grandi autori, da Ansel Adams a Martin Parr. Imperativo di ogni numero della rivista sono “le parole come pietre” e la Fotografia con la F maiuscola. Una dichiarazione di resistenza ad oltranza in un’epoca contemporanea dove i social tendono a spazzare via discipline, regole, profondità e bellezza in nome della superficialità di un selfie. «Lontani da tutto questo, nell’impegno-giornalistico-redazionale in forma cartacea conserviamo il senso e valore delle consecuzioni sottotraccia: dunque, a diretta conseguenza, la qualità è anteposta alla quantità» ha scritto Maurizio Rebuzzini, in uno dei suoi acuti Editoriali. Una qualità di parole e di immagini come quelle di FOTOgraphia che inducono a riflettere, ad affinare i pensieri e a costruire tasselli di cultura e di vita. Mariateresa Cerretelli
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Sinestesia, spalanca le tue braccia
La passione è intatta, e se possibile cresce ancora col passare del tempo. Sono fotografo professionista da decenni e mi sento ancora il fotoamatore degli inizi quanto a curiosità, entusiasmo e dubbi. Già, i dubbi che cercano risposte, e più le cercano meno le trovano. Tra le poche cose che credo di aver compreso della fotografia sono i suoi limiti più che le sue possibilità, e forse proprio i suoi limiti coincidono con la sua natura. Primo fra tutti la sua intrinseca difficoltà, per non dire impossibilità, ad avvicinarsi alla sinestesia, quel magnifico e miracoloso attivarsi simultaneo di tutti i nostri sensi. La fotografia, checché se ne dica, attiva direttamente, fisiologicamente, solo uno di essi: la vista. Gli altri, in rari casi, al massimo possono essere evocati, richiamati alla mente come fa la madeleine nella Recherche di Proust. Resta il fatto che una fotografia di fragole, per quanto invitante, se mangiata saprà -a seconda del supporto- di carta, d’inchiostro, di fissaggio, o di plastica se lecchiamo il monitor che la visualizza. In ogni caso, mai avrà il sapore delle fragole: ben poca realtà in un’immagine dal reale. Ma vuoi mettere quante possibilità in più ha, rispetto al fotografo, un bravo chef nel suo ristorante? Appena entrato, ancora al guardaroba, un musica avvolgente sebbene a basso volume mi accoglie mettendo al lavoro l’udito, accedo in sala e l’olfatto inizia a percepire profumi che tenta di riconoscere; finalmente seduto, appoggio una mano sulla tovaglia e tattilmente sento la trama finissima di una tovaglia in seta pregiata. Ora con un pretesto potrei andarmene e avrei già avuto un bel momento a costo zero. Invece resto, ordino dal menu e poco dopo, finalmente, ecco il primo piatto: ma è bellissimo! Sappiamo quanto un grande chef curi anche l’impiattamento, insomma la presentazione, e i miei occhi non vedono cibo, vedono quasi un’opera d’arte. Solo poi, finalmente, a coronamento di un percorso, oserei dire di un preciso “editing”, il palato approva e tutti i mie cinque sensi non hanno banalmente cenato, bensì hanno avuto un’esperienza corale, sinestetica. Se torniamo alla nostra fotografia di fragole -ahinoi!- su questo piano siamo decisamente perdenti. E allora, restando da fotografo sul terreno della mia amata fotografia, sapete perché -età anagrafica e nostalgie a parte- penso proprio che la carta sia e sarà insostituibile? Perché considero un libro fotografico, e anche una buona rivista come FOTOgraphia, la cosa che più avvicina appunto la fotografia a quel ristorante. Sfogliarli, oltre e parallelamente a vedere le fotografie pubblicate, fa percepire se quella carta è ruvida o patinata, si può ascoltare -in una sorta di ritualità sacra- il fruscìo delle pagine, e alla narici saliranno odori tanto cari ai bibliofili, da quello dell’inchiostro a quello della colla, se presente nella rilegatura. Molti fotografi che conosco (io tra loro) preferirebbero realizzare un buon libro piuttosto che dieci mostre, per quanto prestigiose. O pubblicare un loro portfolio su una rivista ben stampata piuttosto che dieci su altrettanti siti online.
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Se è di carta, se si sfoglia, se si può conservare, se si può toccare e perfino annusare, significa che è un oggetto con tutta la sua fisicità e -quando curato con amore e perizia- con tutta la sua fascinazione. E quell’oggetto da sfogliare, lungi dall’essere anacronistico o addirittura defunto come alcuni vogliono sostenere, ha oggi il compito epocale -sì, ho scritto proprio epocale, bum!- di essere il grande ponte da attraversare per raggiungere la piena consapevolezza di cosa può essere e cosa può dare la fotografia oltre -non dico al posto, non sono un talebano- all’utilizzo oggi più diffuso, ma inconsapevole, in termini di conversazione, in termini “social” per capirci. I social e la rete sono un’enorme opportunità per la sopravvivenza della grande fotografia -contrariamente a quanto si potrebbe pensare- non perché la veicolano (cosa che fanno scarsamente) ma per un fatto statistico legato ai grandi numeri in gioco: se anche un solo utilizzatore della fotografia “da social” stile pizzacongliamicismartphonevvai, se anche uno solo su mille -dicevo- s’incuriosisce verso la fotografia come possibile linguaggio per esprimersi e raccontare in modo più organico e personale, allora avremo garantito un lungo e prospero futuro di grandi autori come non mai (certo, ci sarebbe da parlare di mercati, ma queste righe sono un inno, dunque glissiamo...). E quando anche solo uno su mille farà “il salto”, dopo il suo periodo più o meno lungo a governare con un mouse o con un dito flussi sincopati d’immagini e tsunami di visioni in una sorta d’allucinazione permanente, allora forse cercherà, allora forse capirà, allora forse troverà un oggetto del passato, del presente e del futuro fatto di carta, scoprendo per la prima volta e per sempre che quell’oggetto sa condurre chi lo sfoglia a compiere un’esperienza, così come un’esperienza è stata necessariamente quella del fotografo che ha realizzato le fotografie in esso presentate. Un libro e una rivista possono dunque essere davvero il miglior ristorante (voce del verbo ristorare) dove gustare il sapore della fotografia. Leonello Bertolucci
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(Centro Commerciale Le Vele) via Nausica, 88060 Montepaone Lido CZ • 0967 578608 www.cinesudmegasgtore.com • info@cinesudmegasgtore.com
un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?
* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].
** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].
Aneddoto con effetto deprimente sulla morale del lavoro
In un porto della costa occidentale europea un uomo vestito poveramente se ne sta sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchia. Un turista vestito con eleganza sta appunto mettendo una nuova pellicola a colori nella sua macchina fotografica per fotografare quella scena idillica: cielo azzurro, mare verde con pacifiche, candide creste di spuma, barca nera, berretto da pescatore rosso. Clic. Ancora una volta: clic e siccome non c’è due senza tre, ed è sempre meglio essere sicuri, una terza volta: clic. Quel rumore secco, quasi ostile, sveglia il pescatore mezzo addormentato, che si drizza pieno di sonno, cerca -pieno di sonno- il suo pacchetto di sigarette, ma prima di averlo trovato lo zelante turista gliene mette già un altro sotto il naso, gli ha infilato una sigaretta non proprio in bocca ma tra le dita, e un quarto clic, quello dell’accendino, conchiude quella sollecita cortesia. Quell’eccedenza quasi impercettibile, assolutamente indimostrabile di scattante cortesia ha provocato un irritante imbarazzo che il turista -il quale conosce la lingua locale- cerca di superare entrando in conversazione. – Oggi lei farà una buona pesca. Il pescatore scuote la testa. – Perché? Non uscirà al largo? Il pescatore scuote la testa; crescente nervosismo del turista. Deve stargli proprio a cuore il bene di quell’uomo poveramente vestito, e certo lo tormenta il pensiero di quell’occasione perduta. – Oh, lei non si sente bene? Finalmente il pescatore passa dal linguaggio dei segni alla parola articolata. – Mi sento benone, – dice. – Non mi sono mai sentito meglio –. Si alza, si stira come per far vedere l’atleticità del suo fisico. – Mi sento una cannonata. Il volto del turista assume un’espressione sempre più infelice, non può più reprimere la domanda che, per così dire, minaccia di fargli scoppiare il cuore: – Ma allora perché non esce al largo? La risposta arriva subito, asciutta. – Perché l’ho già fatto stamattina. – È stata una buona pesca? – Talmente buona che non ho bisogno di uscire un’altra volta, ho preso quattro aragoste, quasi due dozzine di maccarelli... Il pescatore, finalmente sveglio, ora si scioglie e dà qualche rassicurante pacca sulla spalla al turista. La sua faccia preoccupata gli sembra l’espressione di un’ansia magari fuori posto ma commovente. – Ne ho persino abbastanza per domani e dopodomani, – dice per sollevare l’animo dello straniero. – Fuma una delle mie sigarette? – Sì, grazie. I due mettono in bocca le sigarette, un quinto clic, lo straniero si siede scotendo la testa sul bordo della barca, mette da parte l’apparecchio fotografico perché adesso gli servono tutte e due le mani per dare forza al suo discorso. – Io non voglio immischiarmi nei suoi affari privati, – dice, – ma immagini di uscire al largo, oggi, una seconda, una terza, magari una quarta volta e di pescare tre, quattro, cinque, forse
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addirittura dieci dozzine di maccarelli... se lo immagini un po’. Il pescatore annuisce. – Faccia conto, – continua il turista, – che non solo oggi, ma domani, dopodomani, in ogni giorno favorevole lei esca al largo due, tre, magari quattro volte... lo sa che cosa succederebbe? Il pescatore scuote la testa. – In un anno al massimo lei potrebbe comprarsi un motore, entro due anni una seconda barca, fra tre o quattro anni lei potrebbe forse avere un piccolo cutter, e con le due barche o il cutter lei naturalmente pescherebbe molto di più. Un bel giorno lei avrebbe due cutter, e allora... – L’entusiasmo gli strozza la voce per qualche istante. – Allora lei si costruirebbe una piccola cella frigorifera, magari un affumicatoio, più tardi una fabbrica di pesce in salamoia, andrebbe in giro nel suo elicottero personale, scoprirebbe dall’alto le schiere di pesci e lo comunicherebbe via radio ai suoi cutter. Potrebbe acquistare il diritto alla pesca del salmone, aprire un ristorante specializzato in pesce, esportare direttamente a Parigi, senza intermediari, le aragoste; e poi... – Ancora una volta l’entusiasmo impedisce allo straniero di parlare. Scuotendo il capo, afflitto nel profondo del cuore, avendo già quasi perso il piacere delle vacanze, guarda le onde che avanzano dolcemente e dove è tutto un allegro guizzare di pesci non pescati. – E poi, – dice, ma ancora una volta l’eccitazione lo rende muto. Il pescatore gli batte sulla schiena come a un bambino a cui sia andato un boccone di traverso. – Che cosa? – gli chiede sottovoce. – E poi, – dice lo straniero con un entusiasmo estatico, – e poi lei potrebbe starsene in santa pace qui nel porto, sonnecchiare al sole... e contemplare questo mare stupendo. – Ma questo lo faccio già, – dice il pescatore, – me ne sto in santa pace qui nel porto e sonnecchio, è solo il suo clic che mi ha disturbato. Il turista così ammaestrato se ne andò via pensoso, perché un tempo anche lui aveva creduto di lavorare per non dover più lavorare un giorno, e in lui non restava traccia di compassione per quel pescatore poveramente vestito, solo un poco d’invidia. Heinrich Böll (in Il nano e la bambola. Racconti 1950-70 ; Einaudi, 1975)
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… Non leggere questo trafiletto
Perché una rivista cartacea, invece di una rivista digitalacea? a) Perché la condivisione è bella, ma noi esseri umani siamo animali strani e, oltre a condividere, ci piace possedere. Sarebbe disonesto non ammetterlo: un po’, piace l’idea di avere qualcosa che si possiede unicamente, e non solo che si veda. E la rivista di carta può essere posseduta, se la tieni per te, o regalata, o prestata, ma sempre con il sottile piacere di trasferire il possesso materiale. b) Perché l’immateriale è concettualmente eterno, ma noi esseri umani siamo legati alla sfera dell’impermanenza, e sotto sotto ci indispone questa tracotanza del file che si propaga senza modificarsi. La rivista di carta è tenera come un essere vivente, e non presupponente come un file. Si stropiccia, si strappa, ingiallisce. Condivide con noi i segni del tempo, e questo la rende enormemente più degna di rispetto, di stima e di gratitudine. c) Perché noi esseri umani siamo dotati di (almeno) cinque sensi, e la carta stampata batte il digitale cinque a uno, su questo terreno. La carta la puoi annusare, sentendo il profumo della stampa fresca o l’odore grato della rivista antica; la puoi toccare, liscia, ruvida, grezza o setosa; ne puoi udire il fruscio, girando le pagine; se sei un po’ buzzurro ma godereccio, puoi sentirne anche il sapore, quando lecchi il dito per umettarlo e girare le pagine. Altro che una semplice occhiata da peepshow, a cui il digitale ti limita... d) Perché la rivista, conservata con amore, arreda. Decora gli scaffali, adorna i tavolini, accompagna le sedute in bagno, si appoggia sulla faccia quando ci addormentiamo a letto leggendo, tiene occupato il posto quando ci alziamo per un attimo. Un file non sa nemmeno da che parte cominciare, per fare queste cose. e) Perché la rivista si consulta a “tecnologia zero”. Apro gli occhi, e la vedo. Senza bisogno di un media. Niente pile scariche, niente tempo di avvio del sistema operativo, niente schermi rotti, niente files non riconosciuti, niente costo aggiuntivo per un apparecchio che renda visibile quel nulla inconsistente che è il file. La rivista cartacea è lì, la guardo e si palesa, in tutta la sua tangibile realtà. f) Perché avere tutti i numeri di una rivista riempie il cuore, e ha anche un valore riconosciuto come merce di scambio. Tutti i numeri di una rivista sono una collezione. Tutti i file di un lavoro sono solo un back-up. g) Perché se sei arrivato fino in fondo -fino al punto g)- è perché apprezzi la lettura, e non occorre che si dica altro: già lo sai, perché la carta ha un’anima, mentre il digitale fa solo finta di averla. Il digitale è come l’intelligenza artificiale. Roberto Tomesani
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TAU Visual si presenta
Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.
Diventare Socio TAU Visual
Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.
Un regalo utile per i lettori di
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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica
Sulla fotografia di carta o sulla carta della fotografia!
«Tutti coloro che sono incapaci di imparare si sono messi ad insegnare» Oscar Wilde Una fotografia che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata Fotografia. La passione della conoscenza spinge talora i fotografi nelle consorterie, senza sapere mai che la verità non si trova nella Bibbia, ma nella strada: un’immagine realizzata fuori dal mercimonio contiene il volto di mille padri e restituisce la realtà che la percorre, la abita e l’ossessiona... e si oppone all’ignoranza, al silenzio e alla beatitudine della ragione imposta. La fotografia è propedeutica; il sistema delle immagini si accontenta del tragitto spettacolare che l’ingoia. «Tutto è così adulterato, oggigiorno, che neppure la dinamite si può comprare alla stato puro» (Oscar Wilde)... figurati la Fotografia. Ecco, allora, l’importanza della fotografia di carta o della carta della fotografia, cioè un dispositivo -come la rivista FOTOgraphia, edita e diretta da Maurizio Rebuzzini- che interagisce con i linguaggi fotografici e, senza temere contrasti o censure, apre strade, fa riflettere, riporta sovente a un modo di vedere e di vivere attraverso l’immaginario fotografico. Perché dove la Fotografia regna, la bellezza si confonde col giusto, il resto è trucco. La critica della società spettacolare che attraversa le inquietudini, ma anche i saperi di FOTOgraphia, non si limita a rilevare ciò che esiste... entra nel campo della Storia (non solo) della Fotografia e mostra di che stoffa sono fatti i dispositivi del dominio spettacolare: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979). La fotografia mercatale è appunto parte del gioco rovesciato degli affari. Uno dei suoi caratteri principali, il consenso spettacolare, respinge ogni verità che si presenti, organizza il vero come momento del falso e autentica ogni valore che sostituisce l’arte dovunque. L’immagine diventa la cosa, la copia l’originale, la rappresentazione la realtà (come diceva Ludwig Feuerbach); l’impostura generale dello spettacolo autorizza ogni diffrazione, devianza ed eversione estetica... basta che non si faccia sul serio. In FOTOgraphia, la critica del linguaggio si trascolora in linguaggio della critica del vissuto autentico; non si tratta di mettere la fotografia al servizio della verità, ma piuttosto mettere la verità al servizio della fotografia. La fotografia libera la testa o la comprime nell’essiccatoio del successo: non si tratta di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia, ma dalla parte di chi la subisce, Albert Camus diceva da qualche parte. L’innocenza della bellezza non teme confronti: nutrire una diversa sensibilità della fotografia (scritta o fatta) vuol dire fare una
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scelta radicale antiautoritaria, rifiutare la politica dei partiti a favore dell’etica creativa e affrancarsi alla concezione libertaria che si oppone all’insensatezza del mondo mercificato. E sono molti gli strali di disobbedienza civile che fuoriescono dall’interno di FOTOgraphia: si tratta di seminare... altri migliori di noi sapranno certo raccogliere. FOTOgraphia è una cartografia d’immagini e scritti consacrata a dire, ridire, affinare, precisare, correggere, aggiungere, affermare e riaffermare l’onestà intellettuale che la sottende. Quando è vissuta anzitutto nel sangue dei giorni, la fotografia acquista un’eccezionale carica di vitalità! Chi attraversa le pagine di questa rivista s’accorge ben presto che la Fotografia è anche altro da ciò che è stato storicizzato; spesso, ci sono articoli che invitano a sognare un immaginario a misura di tutti i possibili, e dove solo il rispetto, la condivisione e la fraternità con gli oppressi, gli offesi e gli sfruttati, hanno diritto di cittadinanza. Non è una rivista facile, FOTOgraphia: si deve leggere più che vedere... e si batte contro l’infelice ignoranza che prolunga i mattatoi dell’esistenza. Si può dire, credo, che FOTOgraphia esprima una filosofia dei desideri, delle passioni, dello specchio-memoria della scrittura fotografica; più di ogni cosa, è un’officina creativa che -in qualche modo- restituisce al lettore l’odore del mondo. L’estetica del pensiero che lega le diversità scritturali degli autori divelte luoghi comuni, banalità mondane e virtù a buon mercato. Nei prologhi misterici del direttore, come sotto la pelle degli scritti, fuoriesce una contro-morale priva di sacro. Qui, la fotografia è il corpo dell’Uomo e la misura di tutte le cose. Si entra nel ventre della fotografia, appunto, fuori dall’ascetismo mercatale, e, attraverso la trasvalutazione di i valori, Friedrich Nietzsche diceva, permette di trovare la strada che porta alla liberazione della vita quotidiana. Non è un’utopia da poco, tuttavia: pagina dopo pagina, parola dopo parola, immagine dopo immagine, FOTOgraphia esprime una seminagione della materia fotografica e si libera di tutti dogmi che asserviscono al pensiero dominante della fotografia, ma anche della politica, delle chiese e, soprattutto, dell’industria culturale. Per tutto ciò che riguarda l’atto del fotografare, sul quale -in FOTOgraphia- sono stati disseminati fulgidi esempi, disvelate congetture e liquidati simulacri ritenuti ormai intoccabili da storici, critici e fotografi, occorre credere a quanto dicevano le monache di Świdnica (Schweidnitz) sulla visione libertaria dell’esistenza: «Tutto ciò che l’occhio vede e desidera, la mano l’ottenga! Se un ostacolo si para davanti a lui -al begardo, che lo sopprima a buon diritto. Poiché, se un Uomo tiene in testa ciò che lo contraria, la sua libertà non è intaccata» (riporta Raoul Vaneigem, nel suo studio sul Movimento del libero spirito: Il movimento del libero spirito. Indicazioni generali e testimonianze sugli affioramenti della vita alla superficie del Medioevo, del Rinascimento e incidentalmente della Nostra Epoca; Nautilus, 1995). La creatività fotografica è il luogo della magia, del sogno e dell’indignazione della realizzazione estetica; nella rivista, a volte
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con toni anche accesi, si autorizza ogni forma di bellezza non necessariamente legata alla modernità, si dice anche che la fotografia non dovrebbe mai cercare di rendersi popolare, semmai è il lettore o il fotografo che dovrebbe cercare di rendersi creativo. In questo senso, chi scrive di fotografia e chi la fabbrica, dovrebbero collocarsi fuori dagli imperativi convenzionali... anche perché l’apparato dell’utilitaristico è sospetto di lesa umanità. Va detto. Per gli antichi greci, la bellezza è intimamente legata con la giustizia; sono due diverse facce della stessa qualità: la virtù e l’eccellenza. La bellezza è uno stile, la giustizia è il florilegio della sua poetica clandestina. Qualsiasi imbecille può fabbricare una “buona opera”, ma solo un poeta senza guinzagli può comprendere e cogliere l’immagine della bellezza e della giustizia come testimonianza eversiva del proprio tempo: di nessuna chiesa è l’arte liberata da tutte le strutture dello spettacolo mercantile. Ci viene da ridere e sobbalzare quando leggiamo o ascoltiamo (assaliti da conati di vomito) certi fotografi affermare “La mia arte fotografica” (!?). Davanti a un tribunale degli angeli, sarebbero condannati per insignificanza universale e allontanati dal Cielo, come dalla volgarità, senza remissione dei peccati! W. Eugene Smith, Henri Cartier-Bresson e Diane Arbus si sarebbero lavati la lingua col sapone, prima di dispensare tanta stupidità! In ogni millantatore coesistono l’idolatra e il portinaio in cerca della deificazione, foss’anche quella dell’entusiasta inchiodato sulla croce del riconoscimento mercatale. Sputeremo sulle vostre tombe! Una rivista come FOTOgraphia non teme di pubblicare affermazioni anche un po’ anomale sul fare-fotografia, come sopra espresse, e di entrare nelle pieghe più celate della grammatica fotografica che percorre la sua lunga vita; non troviamo, infatti, itinerari dell’odio, semmai sentieri in utopia che si dipanano nel coraggio e fuori dalla paura dell’incomprensione. Forse, come di raro capita di leggere in una rivista, ciò che emerge con eleganza ma anche con forza, è la cognizione del dolore gaddiano [Carlo Emilio Gadda: La cognizione del dolore; Einaudi, 1963], che investe il privato nel pubblico e inchioda le apparenze e le illusioni ai ceppi del bene comune. La Fotografia è finita, quando si smette di generare eresie. La menzogna della fotografia non c’entra, c’entra e molto l’amore per la Fotografia... nelle pagine di FOTOgraphia. Non ci si può dedicare alla fotografia, senza avere il senso del ridicolo piuttosto sviluppato: fotografia e senso del ridicolo sono incompatibili. I fotografi più interessanti che abbiamo mai incontrato non sapevano né leggere né scrivere, e nemmeno avevano la macchina fotografica: eppure, avevano del genio a ricordare (proprio come una fotografia) la fucilazione delle idee e gli amori che avevano perduto per la fame e sotto le bombe: i soli che ci hanno trasmesso il sentimento dell’irreparabile di Charles Baudelaire, la passione per gli “apache” di Louis-Ferdinand Céline e la saggezza degli asini di Luis Jiménez... tutti allievi del grande liberatore Epicuro, che hanno fatto della propria vita un’opera d’arte.
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Ecco qualcosa che possiamo leggere a margine di questa rivista. La Fotografia presuppone il contatto, implica ed esige il rapporto con il fotografato! O, ancora: votati a un’agonia senza genio, i fotografi del consenso a tutto s’intrattengono con indecenze mondane che attengono al mercato, mai all’arte di distruggere i vaniloqui della fotografia insegnata. La bellezza della fotografia è indipendente dal sapere, semmai è un atto creativo che esorta a gesti supplementari atti a dissolvere categorie e aureole a uso dei servi. Nella gerarchia della fotografia, ciascuno si colloca secondo il grado dell’immagine del mondo che si vuole contrastare e assolvere: si esibiscono in piena luce dell’industria culturale i rassegnati dell’ergastolo amatoriale e i professionisti della ghigliottina sapienziale. Ma la fotografia in amore dell’Uomo per l’Uomo non potrà essere bandita abbastanza, finché continua a screditare istituzioni, leggi e codici del pensiero dominante e rifiuta tutte le volgarità che inducono ad accettare qualsiasi cosa che incensa la fotografia della miseria (o la miseria della fotografia) come il trionfo del mercato! Solo nella cenere della fotografia avvertiamo l’incendio dell’impostura e la fine degli idolatri dell’infelicità. Ciò che più ci appassiona nella nostra collaborazione a FOTOgraphia, non è tanto entrare in assonanza con le tematiche trattate, quanto studiare le fondamenta degli incurabili della Fotografia... non temere di essere fucilati per le nostre idee e nemmeno condannati al silenzio... e la rivista di Maurizio Rebuzzini ha permesso che le nostre dissonanze poetiche e la defascinazione per le formule, i codici e i valori della fotografia potessero essere espressi. E colgo qui l’opportunità per ringraziarlo come amico e come maestro in molte cose... non ultima quella di non dare nessun credito agli elogi e alle crocifissioni. In fotografia, come in ogni forma d’arte, conta solo l’opera che si pianta come un coltello nel cuore della Storia. Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte marzo 2019)
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